Il “senso” della valutazione. Fenomenologia sociale e opzioni
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Il “senso” della valutazione. Fenomenologia sociale e opzioni
10 Il “senso” della valutazione. Fenomenologia sociale e opzioni epistemologiche ELIO DAMIANO Abstract: his article is made up of two parts. he former proves the efusiveness of the Evaluation in many social domains, from “system-world” until the “life-world”, and attempt some plausible interpretative hypotheses. he latter part arguments the limits, which are ethical and epistemological, of the established Educational Evaluation and deduces a look turn about the school and the teachers. Riassunto: Questo articolo si compone di due parti. Nella prima descrive la difusione della Valutazione in vari ambiti della società, da quelli sistemico-funzionali a quelli vitali-espressivi e avanza alcune ipotesi di interpretazioni plausibili. Nella sezione che segue si argomentano i limiti, in particolare valoriali ed epistemologici, della Valutazione educativa corrente e se ne deduce la necessità di una svolta nel modo di guardare alla scuola ed agli insegnanti. Parole chiave: società disciplinare, manufactured risk, giudiziarizzazione, causazione, assiologia, de-professionalizzazione. Valutazione, oggi, è nozione pervasiva, domina la scena scolastica, orienta la ricerca scientiica, governa tutti i campi del sociale, dall’amministrazione alla politica all’economia. Ovunque si usi il termine, Valutazione è parola d’ordine, sinonimo di prova, rigore, trasparenza e democrazia. La Valutazione come sapere emergente: dimensioni Una prima prospettiva d’analisi può essere quella “spaziale”. Nel campo pedagogico-scolastico l’estensione della Valutazione nelle forme attuali non ha precedenti. Da quando, come Docimologia, era principalmente una metrica degli esami, centrata sugli “errori” dei correttori, la Valutazione si è sviluppata diventando una presenza massiccia che indaga non solo classi VALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 11 scolastiche ma scuole come unità organizzative e interi sistemi educativi nella loro complessità: dalle prestazioni degli alunni agli assetti amministrativi, alla governance, con le strategie di riforma, ivi comprese le politiche di internazionalizzazione, dalla circolazione degli studenti ino al marketing dei servizi educativi (ivi compreso il know-how valutativo), e ovviamente l’economia dell’istruzione nel quadro dei bilanci degli stati nazionali. E poiché la scuola trae forza e debolezze dall’ambiente per il quale opera, la Valutazione esonda i conini della scuola per entrare nel merito dei suoi rapporti con il contesto in cui si colloca, prendendo in considerazione il capitale sociale di riferimento nel territorio circostante. L’aspetto più spettacolare del successo della Valutazione scolastica è rappresentato dalle comparazioni internazionali, dove tutti i Paesi occidentali – e non pochi dei Paesi in via di sviluppo, emergenti e non – confrontano l’apprendimento dei loro studenti adottando le medesime prove e gli stessi indicatori. Accettando di essere classiicati in base ai risultati che suonano campane a festa e segnali di frustrazione, con il conseguente impegno a confermare posizioni di primato o a recuperare posizioni meno umilianti in graduatoria. È con la Valutazione scolastica che i media fanno da cassa di risonanza, da vetrina e da gogna, con tutto uno sciame a seguire di incontri, rilessioni e suggerimenti che mirano ad orientare decisioni conseguenti a livello nazionale. Ma per quanto la Valutazione sia connaturata all’azione della scuola, non è qui che la Valutazione ha iniziato i suoi fastigi. Ben prima dell’educazione il suo sviluppo dirompente ha investito la medicina, che ha fatto da anticipatrice e da esempio, in base ad analogie antiche tra il medico e l’insegnante. In nome di categorie come “evidenza” e “prova” – procurate attraverso la Valutazione – il movimento della Evidence Based Medicine ha posto la questione dell’adozione da parte dei medici in prima linea delle scoperte sanitarie. Il richiamo della scientiicizzazione delle pratiche sanitarie è stato un classico della battaglia retorica condotta dai sostenitori dell’EBE (Evidence Based Education), un movimento che – afermatosi in Gran Bretagna e negli USA – sostiene da anni lo sviluppo dell’attività valutativa nella ricerca educativa, prima, quindi presso le scuole e gli insegnanti (homas, Pring, 2010). Una linea d’attacco a tutto campo sulla quale ritorneremo tra breve e che mira ad assicurare all’informazione pedagogica – basata sulla Valutazione – una struttura a carattere “capitalistico” (Dodier, 2003). Sulla stessa linea, troviamo le linee di sviluppo attuale dell’amministrazione pubblica che hanno fatto propria la Valutazione come regolatrice EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 12 Elio Damiano del suo funzionamento: si veda, in Inghilterra, il New Public Management all’epoca del New-Labour di Tony Blair (Sanderson, 2003), che ha trovato progressivamente eco e séguito in tutti i Paesi dell’OCDE, Italia compresa. La difusività della Valutazione si può cogliere anche nella “prospettiva temporale”, lungo l’arco della biograia personale. Al di là di quel che abbiamo appena considerato a riguardo della fase propriamente scolastica dell’età evolutiva, spostiamoci nell’ambito della professionalizzazione e della carriera professionale. Il richiamo speciico va alla nozione di “competenza”, termine che richiama distintamente dispositivi di valutazione perché è una parola “normativa”, nel senso che è entrata in dispositivi di legge emanati in non pochi Paesi, compreso il nostro, sia per quanto concerne le direttive sul lavoro che quelle riguardanti l’amministrazione della scuola, anche di scuola di base e di orientamento generale (Chesi, 2002; Maccario, 2006). In quanto tale, non solo ha fatto il suo ingresso come categoria-chiave nelle valutazioni internazionali sul rendimento scolastico (sia quelle dell’IEA che dell’OCDE: cfr. Nardi, 2001), ma la competenza è categoria “standard” per la valutazione in senso stretto dei livelli di padronanza richiesti sul mercato del lavoro (Guasti, 2000, 2003). La competenza discende – a critica interna e superamento – dalla “Pedagogia per Obiettivi”, uno dei modelli didattici del genere “Process-Product”, caratteristicamente denotati dalla centratura sulla valutazione (Damiano, 2004; Zanniello, 2011; Bertagna, 2001; Malizia, Cicatelli, 2001). A prescindere dai dubbi sulla sua pertinenza scolastica argomentati (convincentemente) da uno dei maggiori studiosi dell’argomento (Rey, 2003), è la peculiare disposizione ad essere sottoposta alla Valutazione che fa della competenza una categoria didattica emergente che accomuna scuola e formazione professionale a cominciare dagli anni novanta. Sempre intorno alla Valutazione, un’altra categoria che è migrata, dalla formazione professionale verso la scuola, gettando ponti tra due segmenti formativi classicamente separati, è il “portfolio”. Qui siamo in altro contesto culturale, con la polemica contro i test ed il loro uso indiscriminato, e la preferenza cercata per forme valutative “morbide” ed informali (Earl, Cousins, 1995; Comoglio, 2002; Rossi, 2005) (anche se, da noi, l’amministrazione è riuscita sincreticamente a proporre un “portfolio delle competenze”…). Ebbene, il portfolio, pur strumento alternativo, si è afermato come documento testimoniale – composito ed eclettico – dell’identità del soggetto lungo tutto il corso della vita, scolastica e post-scolastica, capace di rendere conto delle sue capacità in forme probanti e di ofrire elementi per giudicaVALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 13 re e certiicare le acquisizioni non solo formali ed accademiche, ma anche quelle derivate dall’esperienza. Una sorta di “diario” o di “storia di vita” che si ofre a supportare più autenticamente una Valutazione su misura. Ma la Valutazione si è anche in vario modo “internalizzata”: da quando è stata codiicata come il grado ultimo di una delle tassonomie più difuse come quella nel dominio cognitivo di Bloom (Bloom et al., 1956), non è più soltanto un controllo eseguito da un giudice esterno bensì una capacità del soggetto sottoposto a valutazione, che lo mette in condizione – se conseguita – di formulare giudizi, su situazioni e azioni, compiute da altri o dal soggetto stesso. Un tipo di eccellenza a carattere rilessivo che consente non solo di intervenire appropriatamente sulla realtà, ma anche di ricavarne indicazioni utili a migliorarsi: ovvero l’attitudine ad “imparare ad imparare”, la risorsa principale da tesaurizzare per afrontare il problemsolving (Gagnè, 1963) quotidiano, a scuola come nella professione e nella vita tout-court. La società globalizzata, riconosciuta come una “Società della Conoscenza”, vede nella Valutazione, insieme, la condizione cognitiva interna per afermarsi e la condizione tecnica esterna per allocare i meritevoli. Valutazione come competenza e viatico del soggetto a tutte le età: dentro la scuola e fuori, per il recupero di una scolarizzazione non riuscita come per le vicissitudini – ingresso nel lavoro, perdita del lavoro, riqualiicazioni, riconversioni e vari ammortizzatori economici… – dell’occupazione, che ha il suo corrispettivo nella Valutazione esterna come dispositivo sociale in grado di riconoscerla presso il soggetto e di premiarla sul mercato del lavoro e delle professioni. Se la Valutazione ha potuto diventare, a cavallo del secondo millennio, una funzione dominante nei processi formativi e sociali in genere, questa portata si dispiega anche attraverso una terza prospettiva di analisi: la sua “istituzionalizzazione”. Intendo la sua incorporazione in strutture organizzative che con i loro programmi d’azione ne sostengono l’afermazione e la difusione o sono specialisticamente dedicate ad attività valutative. Tra gli organismi che promuovono la Valutazione indirettamente, attraverso movimenti d’opinione e servizi da essa derivati, vanno individuati quelli generati dall’EBE, il movimento già citato che – sulla scorta di quanto già ottenuto a proposito della medicina – propone un rapporto più stretto – tra ricerca educativa e pratiche scolastiche – sorvegliato attraverso la Valutazione sistematica delle ricerche empiriche, dei loro approcci metodologici e dell’attitudine a comunicare con gli operatori scolastici. L’Evidence Based Education ha attivato una serie di istituzioni – la Cochrane EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 14 Elio Damiano Collaboration, la Campbell Collaboration, l’EPPI-Centre (Evidence for Practice and Policy Information), la REEL (Research Education Evidence Library), per citarne solo le maggiori e le più note, operative a livello nazionale (Gran Bretagna, USA) e mondiale (Saussez, Lessard, 2009; Normand, 2006). Si tratta di agenzie a carattere capitalistico che ofrono a pagamento servizi di informazione e formazione per insegnanti, dirigenti e amministratori scolastici, ma si preoccupano anche di svolgere attività di lobbying in fatto di legislazione scolastica, ordinaria e straordinaria: un buon esempio, per la sua notorietà, è il progetto “No Child Left Behind”, Bush presidente, che ha fatto dell’EBE un riferimento esplicito negli USA. Con quel che ne discende in termini di legittimazione e di inanziamenti. L’EBE è ben introdotta anche negli organismi internazionali, responsabili di iniziative a vasto raggio tra i Paesi occidentalizzati, e come supporto all’associazionismo scientiico di riferimento, come, ad esempio, l’Association Mondiale pour la Recherche sur l’Education, l’Association Européenne pour la Recherche sur l’Education, l’International Academy of Education (Meyer, Ramirez, 2000). Ma sappiamo bene che ci sono istituzioni che operano direttamente la Valutazione, a cominciare dal livello internazionale, come l’IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement), sorta ad Amburgo nel 1952 e l’OCDE, una sigla che non ha bisogno di essere decrittata, e che continua i programmi dell’OECE, sorta nel 1959 sulla risonanza dei successi spaziali sovietici (il primo lancio dello Sputnik avvenne il 4 ottobre 1957) per riscattare il ritardo tecnico-scientiico dell’Occidente democratico, occupandosi del coordinamento dei Paesi capitalisti. Anche nel campo dell’innovazione scolastica, quindi anche di Valutazione, in qualche modo concorrente con l’IEA, con le indagini PISA (Bottani, 2006). Il livello internazionale è una caratteristica originaria dell’attività di valutazione. Infatti, come documenta puntualmente Lawn (Lawn, 2008), agli albori (1931) troviamo un’inchiesta lanciata dalla Columbia University su “Le concezioni, i metodi, la tecnica e la portata educativa e sociale degli esami e dei concorsi”. Una fondazione ilantropica statunitense, la Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching, assume il carico dei costi e costituisce una commissione – l’International Examination Inquiry (IEI) – per lanciarla in diversi Paesi (Inghilterra, Scozia, Francia, Svizzera, Germania, Svezia, Finlandia e Norvegia). Ovviamente sulla scorta dell’esperienza statunitense delle tecniche standardizzate di Valutazione. Faceva parte del progetto la costituzione di comitati nazionali – composti da studiosi europei illustri come Spearman e Bovet – una prima comunità internazionale di ricercaVALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 15 tori, che diede vita a ricerche pionieristiche e avviò l’istituzione di centri di ricerca che sarebbero durati nel tempo. Difatti, in dall’inizio non si trattò di cellule scientiiche, perché i comitati comprendevano politici rappresentativi dei rispettivi governi, col risultato di cambiamenti nel sistema nazionale degli esami (v. Scozia e Paesi scandinavi). Mediante la Valutazione era iniziata l’era della “internazionalizzazione”, con la produzione di metodi standardizzati di misura del rendimento scolastico, la comunicazione internazionale fra studiosi e la conoscenza delle diversità nazionali attraverso la comparazione. Lawn attesta, con una documentazione di prima mano, che l’UNESCO può essere considerato uno degli efetti dell’azione della Commissione Carnegie. E, all’interno dell’UNESCO, l’Istituto Internazionale dell’Educazione, con l’IEA, appunto, a coronamento. Dopo uno studio di fattibilità nel biennio 1959-61, fu questa Associazione a deinire il progetto che per le prime comparazioni internazionali scelse una disciplina ritenuta “culture-free” come la matematica. Uno dei leader dell’impresa era Benjamin Bloom, che si era formato a Chicago con Ralph Tyler, dove aveva messo a punto il “Mastery Learning”, quel modello di “valutazione formativa” che avrebbe fatto scuola ovunque. Anche da noi. Attraverso la Valutazione, la ricerca pedagogica stava facendo del “mondo un laboratorio educativo” (Tiana, 2001). Giungiamo così alla quarta linea d’analisi: la “formalizzazione”, ovvero lo sviluppo concettuale e metodologico della Valutazione, costituitasi, nell’arco di un secolo (per datare l’inizio: Starch, Elliott, 1912-1913), come un distinto oggetto di studio pluridisciplinare, dove incrociano principalmente la Psicometria, l’Economia dell’istruzione e la Statistica. Ma sappiamo che la Valutazione deborda dall’ambito prettamente scolastico, per proporsi sempre di più come la pregiudiziale scientiica per la conoscenza dei dati, la trasparenza delle istituzioni, quindi per il giudizio sulle pratiche professionali e le decisioni che ne devono conseguire per la loro regolazione. La Valutazione diventa “ricerca valutativa”, termine che designa un’intera area semantica estesa e diferenziata nei molteplici aspetti di cui si compone il processo valutativo: dall’indagine sui bisogni ino alla certiicazione inale dei risultati accertati, attraverso i passaggi della deinizione degli obiettivi assegnati e degli standard da accertare, l’assessment delle variabili mirate, l’audit degli esperti sulla consistenza e sull’interpretazione dei dati acquisiti, la comunicazione dei risultati ai soggetti interessati, con i suggerimenti che ne discendono per le decisioni che ne possono conseguire, ivi comprese le eventuali “buone pratiche” da promuovere, ino alle EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 16 Elio Damiano strategie di socializzazione presso il pubblico. Per ciascuno dei settori indicati, i ricercatori dispongono di un arsenale ricco ed articolato, connotato da pluralismo metodologico e tecniche rainate, oggetto di una itta rete di scambi all’interno di una vasta comunità scientiica capillarmente difusa a livello locale. L’approccio alla Valutazione, oggi, è diventato canonico, un format che si è progressivamente consolidato nel modello costruito (anche questo) negli USA col NAEP (National Assessment of Education Progress), poi NAGP (National Assessment Governing Board) dagli anni Sessanta, adottato ed esteso planetariamente dall’IEA e dall’OCDE. Ma c’è di più, perché non si tratta soltanto di ricerca scientiica, dal momento che può contare sul prestigio degli apparati ai quali – come il Consiglio d’Europa, l’UNESCO, l’OCDE e la Banca Mondiale – fanno riferimento per le loro politiche scolastiche i governi nazionali con i funzionari delle loro amministrazioni. Col supporto dei teorici del “NeoIstituzionalismo”, la Valutazione come procedura tecnica si accompagna e si trasigura come strumento di una politica globale inalizzata ad uniformare i sistemi scolastici dei Paesi associati. Gli obiettivi dell’“internazionalizzazione” dei sistemi formativi – non solo scolastici, ma anche della formazione professionale, ivi compresa quella di grado tecnico-superiore ed universitaria – ino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si limitavano ad indicare i modelli di pianiicazione dei sistemi educativi. Oggi la strategìa si è fatta più incisiva ed avveduta, prende le forme del “Metodo Aperto di Coordinazione” (COM l’acronimo inglese) e mira ad orientare i processi di riforma dei Paesi aderenti: un tipo di “guida dolce”, indiretta, che si attua attraverso una “diagnostica” del bilancio formativo dei singoli Paesi, ofre informazioni di ritorno e quindi suggerimenti per la loro agenda: facendo attenzione a “neutralizzare” le indicazioni che fornisce ed a proporsi come supporto ai processi “spontanei” di autoriforma. Non mancano, ovviamente, rimandi ad esperienze esemplari condotte in altri Paesi e relative documentazioni accurate intorno a “buone pratiche” (Charlier, 2003; Cef, 2003; Pochet, 2001). Le ragioni dell’affermarsi della Valutazione Un successo così scoperto ed invasivo – quello della Valutazione – non può limitarsi ad essere rappresentato nella sua ampiezza e diramazioni, ma impegna alla ricerca di una spiegazione. Una prima ipotesi è quella che richiama la VALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 17 lezione epistemologico-culturale di Michel Foucault sulla “disciplinazione” della società, e che vede nella scuola una delle sue più esplicite espressioni (Foucault, 1978, 1998, 2004, 2005). Si tratta di una spiegazione “continuista”, perché vede proseguire, ad oltranza, ino al suo akmè, quel tipo di evoluzione proprio della modernità teorizzato dallo strutturalista francese. La “società disciplinare” è quella in cui il controllo sociale viene costruito attraverso una rete di “dispositivi” – attivati da istituzioni tra le quali la scuola e l’università – che plasmano la cultura e modellano soggetti conformi: il potere disciplinare viene esercitato attraverso le norme che deiniscono i parametri mediante i quali pensare se stessi, i propri comportamenti e quelli altrui. Fra gli strumenti principali della normativa: la valutazione, i test, gli standard, scale, indicatori e monitoraggi. Negli spazi codiicati, mediante esami e valutazioni, le “discipline” formano mentre modiicano, escludono quando non adattano. Elaborano una conoscenza esaustiva degli individui sottoponendoli a svariate modalità di sorveglianza e accertandone l’evoluzione attraverso forme di scrittura dedicate come verbali, registri, rapporti, analisi e così via. Istituiscono così il potere di regolazione, una tecnologia “biopolitica”, come la chiama Foucault, che si serve di una metrica fatta di dati statistici, calcolo delle probabilità, teoria delle decisioni, un insieme che Foucault designa come “ordini di discorso” che inducono l’“assoggettamento”, ovvero i modi in cui i soggetti percepiscono se stessi, problematizzano la realtà, nutrono delle aspettative, giudicano i fatti, approvano e condannano, operano di conseguenza. In una parola: costruiscono la “verità”. Un sistema di pressioni che, attraverso una sistematica dell’accertamento, ediicano il “regime di verità” della società meritocratica o dello scarto. Bisogna tener presente – per non distorcere il senso delle teorie di Foucault – che la disciplinazione non esercita un potere che sottomette all’altro con il controllo e la dipendenza, bensì lo abilita, attraverso la conoscenza e la coscienza di sé, alla partecipazione, rendendolo aderente alla propria identità (Idem, 1994). Foucault ha lo sguardo temporale “lungo”, guarda alla genealogia del potere a partire dal Diciottesimo secolo, nel solco aperto da Hobbes e da Hume, con l’afermazione del liberismo in economia ed in politica. Ben altro si vede nel ciclo temporale breve, in particolare per quel che concerne le riforme scolastiche. La crisi delle politiche di pianiicazione dei sistemi educativi, con l’OCDE che negli anni Sessanta poneva a modello il centralismo della Francia, se non quello dell’URSS, e che doveva ammettere il wishful thinking che si era illuso di raggiungere, tra gli altri, gli obiettivi EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 18 Elio Damiano della piena scolarizzazione e del coordinamento tra scuola e lavoro. Gli inviti ad una pianiicazione educativa “dialettica” (Williams, 1978, 1980; Damiano, 1980), tra i numerosi e diversi stakeholders dei cambiamenti attesi, si accompagnavano ad una categoria politica emergente, anti-decisionista come l’“autonomia” degli istituti scolastici (Derourt, 2000; Duterq, 1997; Bottani, 2002). Mentre il lancio dell’Educazione Permanente, più che allo sviluppo della formazione lungo il corso della vita, si esprimeva, invece, con il rattrappement della scolarità perduta e portava all’evidenza l’impotenza dei governi nel controllo delle resistenze all’innovazione (Derouet, 2003). In questa cornice, è evidente che il montare della Valutazione assuma ben altro signiicato, addirittura opposto: il tentativo di reintegrare il controllo dello Stato nel governo di sistemi scolastici risultati riottosi rispetto alle attese di cambiamento. Di qui il ricorso alla forza degli organismi internazionali, alla “neutralizzazione” delle pratiche valutative ed alla competizione per le migliori prestazioni dei sistemi scolastici. La Valutazione diventa il sostituto delle politiche scolastiche in formato “pastorale” (Foucault, 2001), dove i governi concentrano presso di sé la cura dell’educazione attraverso lo strumento tradizionale dei “programmi d’insegnamento”, deinendo in termini più o meno vincolanti inalità, metodi e contenuti del lavoro di aula. Non è più necessario formare cittadini “buoni” e professionisti “utili”: “basta selezionarli”. Con la Valutazione nel formato dei confronti internazionali, l’amministrazione riesce a penetrare dove non era mai riuscita a metter piede: il “giardino segreto” degli insegnanti, dove questi riuscivano a mantenere il segreto sul “curricolo di fatto”, frutto delle loro decisioni esclusive. Oggi, con la Valutazione, il segreto è scoperto e violato con la luce abbacinante dei test standardizzati, il prestigio delle istituzioni internazionali da cui emanano e la considerazione che “così fan tutti”. Con le ovvie opposizioni – e i sabotaggi – degli insegnanti, da sempre, sotto tutti i cieli dei Paesi che alla Valutazione ricorrono per recuperare il potere smarrito della pianiicazione centrale (Mcneil, 2000; Derouet, 2002). Non più il culmine della modernità: il segno del suo disfacimento o la nostalgia dell’ordine che fu. Ovvero il “post-moderno”, il corso sociale che stiamo attraversando (Bauman, 2002; Serres, 1999; Seligman, 2001; Sennet, 2000; Sequeri, 2002; Beck, Giddens, Lash, 1999). C’è un’altra spiegazione, plausibile, della pervasività della Valutazione, anch’essa riportata al “post-moderno”. Secondo Ulrich Beck il “rischio” è la categoria che meglio esprime le caratteristiche salienti della società corrente: non quello “naturale” – tipo malattia, infortunio, morte… – ma quello “manuVALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 19 factured”, provocato dallo sviluppo stesso della conoscenza e della tecnica, dai suoi limiti e dai suoi errori. Mentre il rischio naturale può essere con qualche probabilità previsto – dando origine, nella modernità, all’istituto delle assicurazioni obbligatorie ed alle pratiche di indennizzo – il rischio indotto è diicilmente prevedibile, se non inimmaginabile, ma soprattutto immanente nell’ambiente creato dall’intervento umano, in quantità e intensità tali da ingenerare una percezione di precarietà e vulnerabilità generalizzate (Beck, 2000). Ebbene, è proprio a ragione delle insuicienze della ricerca e dei suoi stessi gridi d’allarme, che viene richiesto il supporto continuo della Valutazione. Paradossalmente, in un contesto segnato dalla diidenza nei riguardi degli scienziati, viene così ad emergere una iducia rinnovata nei suoi metodi più consacrati e sicuri, da esercitare sulla stessa qualità della ricerca scientiica: Valutazione come “meta-scienza”, un sapere che giudica – in forme scientiiche – e controlla il sapere scientiico caduto in disgrazia. La “Società del rischio” conosce altre linee di trasformazione – come quelle del rifugio nei “mondi vitali” delle comunità faccia-a-faccia dove rigenerarsi nel caldo piacere dell’inclusione totalizzante (Bauman, 2001) – ma noi ci concentriamo su un’altra che conduce, anche questa, alla Valutazione. Mi riferisco al fenomeno della “giuridicizzazione” e, quindi, della “giudiziarizzazione” della società tardo-moderna (Shapiro, Stone Sweet, 2002; Tate, Vallinder, 1995; Teubner, 1987). Col primo termine si intende una sorta di iper-produzione di norme che assumono una funzione diversa da quella tradizionale del diritto perché s’inserisce in contesti sociali – tra i molti anche la salute e l’educazione – dove le relazioni erano regolate, in precedenza, secondo valori propri e norme di comportamento costruite dalle volontà individuali. Una sorta di conversione del legame sociale ad uno statuto giuridico, che pone vincoli e sanziona inadempienze (Habermas, 1986). Quando le istituzioni sociali perdono autorevolezza e non fanno più presa sugli individui, avviene una sorta di “migrazione” verso il sistema giuridico, che da quel momento viene chiamato a garantire la regolarità delle relazioni sociali, dedicandosi così alla mediazione fra aspettative ed interessi in conlitto, inendo con l’ofrire dei modelli prescrittivi di comportamento. In deinitiva, il diritto indirizza i costumi ed il giudice se ne fa il custode e, in qualche modo, diventa un formatore. Con una conseguenza importante e dirompente: la soggezione alle leggi e l’accettazione dei doveri legali ritiene di soppiantare i legami di fedeltà, lealtà, rispetto e così via. Per fare un esempio, ricorriamo ancora una volta EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 20 Elio Damiano alla medicina: dove, con la giuridicizzazione, la iducia – una volta unilaterale – del paziente nei riguardi del medico si contrattualizza e diventa bilaterale, e la condotta del medico, tanto più si iper-responsabilizza in termini giuridici tanto più si de-responsabilizza sul versante etico e personale. A questo livello matura una svolta ulteriore: con la “siducia” del paziente – frustrato nelle sue aspettative di salute e benessere – che si rivolge al giudice per denunciare le inadempienze e gli errori del medico e chiedere soddisfazione, civile e/o penale. Siamo alla “giudiziarizzazione”: in questo caso della salute. Ma la transizione alla “cultura legale generalizzata” riguarda sempre più numerosi ambiti sociali, ino a quelli che una volta erano i sacrari, i conini dei quali erano salvaguardati dallo stesso diritto: v. la famiglia, i rapporti tra i coniugi e inanche l’educazione dei igli. Ora è il giudice che, ad ogni contrasto, è invocato a stabilire chi è “il buon genitore”… La colonizzazione giuridica dei “mondi vitali” non potrebbe essere più totale, con il giudice che, novello Atlante, prende in carico la società intera (Sergiovanni, 2000; Calidoni, 2001). Ritroviamo così la Valutazione. Poiché il giudice – per quanto eclettico – non riesce ad essere universale, è tenuto a servirsi di una coorte di professionisti esterni, specialisti dei diversi ambiti giudiziarizzati: le “perizie” degli esperti forniscono la diagnostica sulla base della quale pronunciare il giudizio di merito sulle colpe degli attori responsabili. La Valutazione diventa così lo strumento basilare dell’esercizio e del mantenimento della legalità pubblica. In tutti i campi in cui si è introdotta la giuridiicazione, ovvero ovunque. Anche la scuola, in all’interno della relazione educativa, come le cronache giudiziarie mostrano da non pochi anni per bocciature o solo per voti considerati non-conformi alle interrogazioni. Le spiegazioni della Valutazione in quanto fenomeno – sociale, culturale, scientiico, educativo – di vasta rilevanza non sono alternative ma, a seconda dell’approccio, gettano fasci di luce su una emergenza che può, di volta in volta, apparire promettente, inquietante, esautorante. Ma che certamente si colloca al centro delle trasformazioni in corso, segno eloquente dell’incertezza che le sovrasta. La Valutazione omologata E tuttavia, non si può non confessare un sentimento di “insoferenza” per la sostanziale omogeneità della letteratura pedagogica su una probleVALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 21 matica, come quella sulla Valutazione, tra le più controverse. In particolare a riguardo delle comparazioni internazionali sulle competenze scolastiche degli studenti. Le critiche sono state letteralmente messe a tacere, se è vero che non se ne trova traccia in nessuno dei siti uiciali degli organismi sovranazionali che hanno condotto le indagini, l’IEA e l’OCDE, come delle istituzioni partner a livello nazionale (Normand, 2003). E sì che le critiche non hanno toccato questioni marginali, bensì le opzioni fondamentali d’ordine metodologico ed epistemologico, quali: (a) le obiezioni intorno alla “giustezza”, ovvero sulla adeguatezza delle prove in termini di misura delle efettive capacità dei soggetti indagati (Goldstein, Lewis, 1996); (b) l’uso distorto degli “indicatori”, adottati per valutare la qualità dell’insegnamento, quando invece sono costitutivamente mirati a decidere le politiche del welfare, trasferimento indebito, che solleva seri problemi di natura metodologica (Oakes, 1986; Bottani, 2006); (c) le considerazioni relative alla “giustizia” delle prove utilizzate, dal momento che sono queste – con la lingua degli item, le situazioni proposte, la formulazione delle domande… – a provocare le diferenze dei risultati fra i diversi gruppi sociali (e etnici e sessuali); non solo, ma laddove le procedure di valutazione vengono intensiicate, le diferenze tra i gruppi persistono, se non addirittura aumentano (Apple, 1989, 1993; Madaus, 1994; Gipps, Murphy, 1994); (d) inine, ma non ultima, tra le critiche, la “generalizzabilità” delle prove, ovvero la loro possibilità di confrontare pratiche d’insegnamento diferenti per l’ispirazione dei programmi uiciali, concezioni delle discipline, metodi ed approcci al lavoro di aula e di scuola. Come mostrano ricerche indipendenti, le inchieste OCDE e IEA sono state realizzate “come se” stessero svolgendosi all’interno dello stesso Paese o in laboratorio, con gruppi costituiti secondo criteri di omogeneità, a prescindere dal contesto sociale e politico nel quale l’insegnamento si compie (Vaca Uribe, 2009; Normand, 2004). Come si può vedere, si tratta di critiche ad alzo zero, che centrano l’impianto delle valutazioni internazionali in aspetti essenziali. Ciò nonostante esse vengono ignorate, contraddicendo le stesse regole canoniche invocate dall’Evidence Based Education per assicurare la validità delle rassegne sullo stato dell’arte della ricerca, rendendo conto scrupolosamente delle diverse posizioni in campo, a cominciare da quelle avverse… (Slavin, 2002, 2004, 2008a, 2008b, 1998). Un rigore ossessivo che a sua volta ha suscitato accuse EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 22 Elio Damiano di formalismo, se non peggio (Bennett, Lubben, Hogarth, Campbell, 2005; Maclure, 2005). L’insoferenza che ho dichiarato discende dal fatto che la letteratura corrente sulla Valutazione – salvo eccezioni – è convinta di disporre di metodi e tecniche – fornite, nel caso delle comparazioni internazionali, dalla Psicometrìa – che consentono di far emergere la qualità educativa da una strumentazione universale in grado di produrre dati a carattere universale. Questa sorta di “assolutismo” è come un occhio divino che ha fatto piazza pulita di ogni contaminazione particolaristica, dimenticandosi opportunamente della soggettività del suo sguardo: insieme oggettivo e neutrale, come è proprio della ideologia tecnologica. In particolare quando questa si sposa con l’idealizzazione della Valutazione, invocata a tenersi al di sopra delle parti in causa. La Valutazione deviata A giustiicazione dell’insoferenza, si danno anche altri motivi di omologazione del campo della Valutazione così com’è coltivato oggi, che toccano speciicamente la scuola e l’insegnamento. Uno è il “Modello del Deicit” o “dell’imputazione negativa”, che la Valutazione condivide con larga parte della ricerca educativa come una sorta di sottinteso: le pratiche d’insegnamento sono sempre inadeguate rispetto alla razionalità didattica concepita dai ricercatori (e dagli amministratori che contano su di loro per giustiicare il budget, e inanche da parte degli stessi sindacati degli insegnanti) (Lantheaume, 2008). Secondo la Lantheaume, tutta la ricerca sugli insegnanti, a cominciare da Durkheim, manifesta lo stesso presupposto negativo: lo “sguardo pedagogico” denuncia e condanna, immancabilmente, l’inadeguatezza degli insegnanti, il loro tradizionalismo, le resistenze al cambiamento, senza dimenticare il sabotaggio endemico della Valutazione del proprio operato. Con l’aggravante di non tener conto della realtà efettuale degli insegnanti, delle condizioni d’esercizio in cui operano e dei limiti delle riforme, spesso inadeguate, che sono costretti a trasgredire pur di far funzionare in qualche modo la scuola. E quindi di poter orientare riforme basate sulle situazioni reali. Abbiamo, invece, una “pedagogia normativa” che attraverso la Valutazione punta a codiicare le “buone pratiche” mediante la deinizione di standard internazionali. E invece di prendere in carico l’esperienza professionale vissuta nel VALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 23 suo contesto, concreta e soggettiva, e comprenderne le prove quotidiane nei termini di una antropologia delle pratiche educative, si dedica a prescrivere come gli insegnanti “devono” pensare l’insegnamento sul presupposto, appunto, del “deicit” – ovvero che gli insegnanti, evangelicamente, non sappiano (pensare correttamente) quello che fanno. Accade così che siano principalmente due gli aspetti dell’insegnamento a risultare degni di interesse: l’innovazione, evento esemplare ma straordinario, e il disfunzionamento, dovuto all’inerzia o al riiuto del cambiamento. Con il lavoro di aula visto semplicemente come applicazione delle ingiunzioni istituzionali o delle raccomandazioni preconizzate dai formatori. A volte il Modello del Deicit si ammanta di commiserazione, ma l’occhio resta sempre intento sui fallimenti. Quel che si vede è sempre quello che non va, sembra che l’insegnamento si possa osservare soltanto per gli aspetti da denunciare. E pure quando la Valutazione si dedica a collazionare le “buone pratiche” che certamente non mancano, ne discende la necessità di illustrarle – non per comprendere i processi mediante i quali è stato possibile realizzarle alle condizioni date – bensì per farne oggetto di adozione e difusione: a scopo esemplaristico e ineludibilmente prescrittivo. L’altro motivo di insoferenza è meno evidente, ma proprio per questo più radicato e sicuramente paradigmatico: tutta la ricerca valutativa si concentra pressoché esclusivamente sull’apprendimento degli alunni. Oggetto di studio che può apparire ovvio, ma che tale non è se si bada al fatto che “accertare l’apprendimento serve a giudicare l’insegnamento”. Perché, più semplicemente, e direttamente, non esaminare e valutare l’insegnamento? Qui si manifesta la concezione “causalista”, l’opzione epistemologica per la quale “l’efetto rivela la causa”. L’apprendimento è l’efetto che consente di riconoscere l’insegnamento che lo causerebbe. Ma è la “causazione” il rapporto che lega l’insegnamento all’apprendimento? Un presupposto che non reggerebbe all’analisi humiana delle condizioni richieste per potersi parlare di “causa”: se è vero che può veriicarsi apprendimento senza che si sia dato alcun insegnamento e – viceversa – ci può essere insegnamento (ahinoi!) senza ottenere, per questo, che si dia alcun apprendimento (Hume, 1758; Corradini, Galvan, 1992; Brezinka, 2002). Piuttosto siamo dinanzi all’ingenuità del senso comune, peraltro implicitamente assunto… In realtà, si tratta del paradigma naturalista – trasferito alle scienze umane – o se si preferisce un riferimento meno remoto, del paradigma positivista. Il ruolo del soggetto in apprendimento è ben più decisivo del ruolo dell’insegnante, né è accettabile il ridimensionamento dell’insegnamento come EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 24 Elio Damiano “causa debole” o con limitata incidenza probabilistica: come mostra a chiare lettere la stessa evoluzione interna dei modelli didattici “Process-Product” (Damiano, 2006). Storicamente, la Valutazione è sorta come movimento “Teaching Efectiveness”, una collaborazione stretta tra amministratori e ricercatori mirata ad identiicare il “Buon Insegnante”, attraverso la prova delle prestazioni degli alunni. E tale è rimasta, senza troppi tentennamenti, ino alle comparazioni internazionali dell’IEA e dell’OCDE. Una riprova si può trovare nel comparto della Educational Evaluation, più scopertamente inalizzata alla valutazione degli insegnanti. Per quanto abbia riconosciuto un ruolo agli insegnanti come stakeholders di rilevanza centrale per l’eicacia della Valutazione, l’approccio centrato sull’apprendimento non è mutato, come mostra ad abundantiam, lungo tutta la sua biograia di valutatore e di studioso dell’amministrazione “scientiica”, uno dei massimi specialisti in materia come Egon Guba (Guba, Bidwell, 1959; Guba, 1969; Guba, Collins, 1989). Il privilegio accordato all’apprendimento come oggetto della valutazione è una sorta di “sindrome dello specchio” (Gage, 1964), a rinforzare la quale concorrono fattori diversi: la maggiore risonanza individuale e sociale dell’apprendimento, rispetto all’insegnamento (Fenstermacher, 1986), il pregiudizio rispetto alla possibilità di ricavare qualcosa di signiicativo dallo studio delle pratiche didattiche, non ultima l’accessibilità all’analisi dell’azione didattica (e dell’azione tout court) oggetto quanto mai sfuggente per pregnanza e singolarità (Damiano, 2006). Così, nonostante la svolta epistemologica in corso afermi, proprio a riguardo dell’apprendimento, la portata centrale del soggetto in formazione, e gli “Action Studies” (Baudouin, Friedrich, 2001; Cnam, 2000; Johnson, Lakof, 1987) – sulla scorta di quello che è stato chiamato “Rinascimento di Aristotele” (Pacchiani, 1980; Volpi, 1980) – aprano prospettive interessanti sulla possibilità di esaminare l’azione nelle sue proprietà cognitive, la Valutazione continua, tetragona ed indiferente, ad occuparsi di quello che considera il locus of control dell’insegnamento, e non dell’insegnamento stesso. Una rinuncia che la condanna non solo a gravi distorsioni ed ai fallimenti dei tentativi di rinnovare la scuola, perché si impedisce – come abbiamo visto – di averne una conoscenza efettuale, ma provoca una serie di conseguenze negative sull’immagine pubblica della scuola, come avremo modo di argomentare più avanti. VALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 25 La Valutazione riduzionista In realtà, il fascino di questo impianto scopertamente positivista discende – oltre che dal senso di potenza che irradia – dall’etica universalista ed egualitaria di cui è permeato: il confronto oggettivo permette di individuare le diferenze di prestazioni fra i diversi studenti, mettendo in evidenza le carenze e quindi la possibilità di intervenire per rimuoverne le cause. Opponendosi al relativismo storico e culturale, il quale è imputato di accettare e assecondare lo status quo delle diferenze, con la conseguenza di renderle fatali. In realtà, le valutazioni internazionali, come abbiamo anticipato a proposito del Neo-Istituzionalismo, mirano non ad oggettivare il confronto del rendimento dei sistemi educativi tra i Paesi partecipanti, quanto – invece – a ridurre le loro diferenze, se non – più ambiziosamente e a lungo termine – ad uniformarli. La Valutazione al servizio della globalizzazione (Damiano, in via di pubblicazione, a). Giungiamo così al punto critico fondamentale. Formuliamo il problema nella forma interrogativa: la Valutazione può fare a meno di un riferimento valoriale? La Valutazione può essere concepita come una neutra “tecnologia delle performances”? La Valutazione può prescindere dalla legittimazione, morale, civico-politica, dei risultati attesi? Domande giustiicate innanzitutto dall’etimologia del termine: Valutazione corrisponde ad “assegnare un valore”, issandone il prezzo comparativamente rispetto ad altri beni: deriva dall’Economia, e dai suoi sconinamenti nella Filosoia, in particolare nell’Etica, ed in Politica. I tratti denotativi del termine sono “valore” e “comparazione”. Tratti costitutivi intimamente connessi, se è vero che una caratteristica dei valori è la tendenza a confrontare e a gerarchizzare, una peculiarità che viene studiata da una disciplina apposita, l’Assiologia, e che qualcuno ha chiamato, non a torto, metaforicamente, “tirannia dei valori” (Schmitt, 1967). Anche senza ricorrere all’Assiologia, è esperienza quotidiana il fatto che i valori ci impegnano a stabilire priorità fra di loro per poter decidere il giudizio da formulare o la condotta da scegliere; così come è un dato esistenziale che i dissidi sui valori non siano legati tanto al loro riconoscimento in quanto tali, bensì alla posizione che noi assegniamo loro. Possiamo anche non dubitare della legittimità di un valore rispetto ad un altro valore, ma è altrettanto vero che nel caso di un nemico che invade il nostro Paese ci troveremmo dinanzi all’alternativa di scegliere tra “libertà” e “pace”, pur considerandoli entrambi valori di grande rilievo (e non è certo che un paciista convinto non si traEDUCATION SCIENCES & SOCIETY 26 Elio Damiano sformi, in queste circostanze, in un ardente libertario pronto a far uso delle armi, alla stregua di un bellicista…). La questione è che la Valutazione non è “innocente” sul piano etico, e che valori – quali Giustizia, Uguaglianza, Merito… – di volta in volta, e a seconda degli schieramenti e delle élite dominanti, si contendono il campo in modo tale che le concezioni e le pratiche valutative assumano frequentemente signiicati molto diversi fra loro, e perino antitetici (Bloom, 1972). Si spiega in questo modo anche il paradosso di una Valutazione la quale – pur afermata come tecnologia “oggettivamente neutra” – escluda da ogni considerazione di validità le critiche che ad essa si muovono, diventando una sorta di credenza assoluta. Con il corollario di farsi apprezzare per i valori che la ispirano, appunto l’Universalismo e l’Egualitarismo – in riferimento alla loro posizione “libera da inluenze culturali” – se non gli stessi Rigore ed Oggettività che qualiicano l’approccio scientiico-tecnologico alle pratiche valutative. Ma l’intreccio tra Valutazione e valori è così intrinseco che si manifesta già a livello tecnico: difatti, le procedure valutative richiedono che venga determinata, preventivamente, una “norma” – ovvero il comportamento atteso come valido – oppure un “campione” – inteso come l’esempio di riferimento più valido – o comunque una “scala” ordinata progressivamente per stabilire il “grado” di accettabilità della prestazione oggetto di valutazione. Norma, campione, scala sono concetti costitutivi della misurazione, perché questa stessa è essenzialmente un confronto tra un oggetto ed una unità di misura: alla quale è stato assegnato un valore, un apprezzamento relativo alla sua “qualità” e ragioni di preferenza rispetto ad altri, che sono stati scartati o considerati comunque inferiori. In sintesi, senza valori non c’è Valutazione. A monte delle tassonomie degli apprendimenti ci sono proili antropologici, come può essere attestato dal successo pressoché totalitario riconosciuto alla tassonomia degli obiettivi dell’ambito cognitivo rispetto all’altro, relativo agli obiettivi di ambito afettivo, dello stesso gruppo Bloom (Bloom et al., 1964; Lynch, Payet, 2011). Proilo non neutro né oggettivo, ma prescrittivo, plasmato sulle inalità assegnate all’istituzione scolastica nel contesto sociale contingente, regolarmente dedotte dai progetti dei ceti e delle classi sociali dominanti, variamente aggregati al governo nella congiuntura politica. In questo senso “la Valutazione è storica”, risuona dei tempi e dei problemi del tempo; non guarda dall’alto il luire dei processi culturali, ma fa parte del corteo, anzi è strumento principe del suo corso, dei suoi conlitti come delle sue paciicazioni. VALUTAZIONE E COMPETENZE 27 Il “senso” della valutazione Differenziazione etica della Valutazione Limitiamo la ricostruzione agli ultimi cinquant’anni, iniziando dalla metà del secolo scorso con l’avvio della razionalizzazione docimologica, che portò alla “critica del valutatore”, in particolare della soggettività del giudizio. Fu lo sviluppo della Psicometria, una disciplina che in dalle origini si era occupata di misurare le conoscenze scolastiche, e che portò i test di proitto nell’apprendimento ad elevati livelli di rigore metrico e di soisticazione statistica. Non entro nel merito delle critiche interne (per es. le risposte “giuste” sono l’esito di ragionamenti altrettanto “corretti”?) ed esterne (come il tipo di “insegnamento difensivo” che la pratica dei test tende ad incoraggiare: Mcneill, 2000), ma pongo il problema del riduzionismo tecnico: “la Valutazione – pur nella stretta versione docimologica – è solo una questione di precisione metrologica?”. Che cosa implica il fatto di mettere tutti gli alunni, scrupolosamente come può essere solo una disciplina oggettivista, dinanzi alle stesse prove, nelle stesse condizioni? Evidentemente, questo tipo di valutazione ha lo scopo, più o meno dichiarato, della “selezione”: ma qual è il presupposto della individuazione dei “migliori”? La risposta non è diicile: gli alunni hanno gli stessi diritti, a prescindere dalle loro appartenenze sociali. Bando ai particolarismi sociali, culturali e famigliari ed ai privilegi di ceto: la scuola è chiamata a costruire una società nazionale uniicata dall’uguaglianza dei cittadini. Dichiaratamente, i valori di riferimento sono l’“Universalismo” e l’“Uguaglianza”. A guardar bene la dinamica propria dei valori, si tratta di una Valutazione indiferente alle diferenze, che dividono strutturalmente la realtà sociale, e mette in subordine il valore della “Solidarietà”: in questo modo, obiettarono studiosi come Bordieu e Passeron (1970), l’uguaglianza mirata è solo formale, e di fatto l’ineguaglianza sociale diventa, con la Valutazione, una ineguaglianza scolastica. La prova di questa portata etica non si limita all’emergenza della sociologia critica, ma entra direttamente a determinare l’evoluzione scientiica e metodologica della Valutazione, che nella fase susseguente da docimologica diventa “ermeneutica”. Negli anni Sessanta e Settanta le procedure della Valutazione attingono non più (o non tanto) alla Psicometrìa, bensì alla “nuova” Sociologia dell’educazione, alla Etnograia ed alla Psicologia della personalità, adottando un approccio “qualitativo” e indagando l’intreccio del condizionamento ambientale – non solo esterno, ma anche interno alla stessa scuola (Bernstein, 1975, 1973a, 1973b, 1977) – sulle caratteristiche EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 28 Elio Damiano individuali degli alunni. I voti numerici non apparvero più in grado di rendere visibili queste dimensioni della valutazione, venne il tempo delle schede e di altri formati verbali come, altrove, dei portfolios. Anche qui evitiamo di riferire dell’afermarsi delle pedagogie non-direttive, e delle loro inibizioni per l’azione dell’insegnante, e dell’educazione compensativa. Quello che conta, ai ini del nostro discorso, è la postulazione etica della “Solidarietà” per lo svantaggio e di “Empatìa” per il soggetto da decondizionare. La causa dei deboli e dei diversi, divenuta la missione della scuola, dava forma ad una Valutazione alternativa, superando l’ingiustizia degli standard di Procuste. Capitava che non sempre e non tutti gli insegnanti individualizzavano il lavoro educativo, rinunciando ad una “norma” uguale per tutti o adattando la scuola ai bisogni di ciascun alunno. Ma soprattutto la scuola dovette prendere atto, nella nobiltà degli intenti, della sua impotenza nei riguardi della stratiicazione sociale, con gli esiti del fatalismo sociologico – il riiuto di prestarsi ingenuamente all’immobilità sociale, rinunciando all’insegnamento o trasferendo il proprio impegno altrove – oppure rassegnandosi nei limiti di un insegnamento “compassionevole” (Payet, Sanchez-Mazas, Giuliani, Fernandez, 2011). Certamente non sono mancate linee di impegno al positivo, con le scuole impegnate a “fare la diferenza” (Brookover et al., 1978; Reynolds, Jones, St. Leger, 1976). La nuova consapevolezza della collocazione sociale della scuola ha ispirato una terza via dei valori della Valutazione, che va sotto il nome di “Teoria del Curricolo” o, più semplicemente, di “Programmazione” (o “Pedagogia per Obiettivi”) (Besse, 1977; Damiano, 1994). In questa prospettiva, da noi pervenuta negli anni Settanta e rapidamente difusa per la sua “razionalità”, la Valutazione si aferma come motivo primario e conduttore dell’intera attività educativa, ai diversi livelli, concepita in chiave sistemica o cibernetica, ma a condizione di discendere esplicitamente e pubblicamente, per deduzione, da opzioni di valore: i Fini, formulati come progetto storico nel contesto di una data società, da declinare – per l’istituzione scolastica – come Finalità educative. A questo punto il processo di deduzione diventava internamente scolastico e procedeva verso la determinazione degli Obiettivi, deiniti via via come “generali” e “speciici”, in vista della loro operazionalizzazione mirata a decidere il lavoro didattico di aula. Gli Obiettivi erano da considerare a tutti gli efetti la “valutazione anticipata” al momento di pensare e decidere l’azione d’insegnare: dichiarati pubblicamente – agli alunni ed alle loro famiglie – per guidare le scelte di dettaglio esecutive e per essere ritrovate – auspicabilmente – attraverso VALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 29 le prove conclusive (ma nelle sue espressioni più rigorose, gli obiettivi, già all’atto della loro deinizione, consistono nella determinazione di prove di controllo). Anche qui rinunciamo alla critica della “Pedagogia per Obiettivi”, in relazione ad una didassi frammentaria e, prima ancora, alle questioni poste dalla procedura della deduzione, lungo la sequenza che dai Fini conduce agli Obiettivi educativi e didattici (Frey, 1977; Meyer, 1977; Filograsso, 1979). Sottolineiamo, piuttosto, che la Valutazione, oltre che essere concepita e praticata come “intelligenza dell’azione razionale”, rendendosi organica e pervasiva di tutto il processo decisionale dell’insegnamento, traeva la sua legittimazione, mediante il rigore della deduzione, dai valori di riferimento che la illuminavano dal vertice del progetto storico della società. La questione irrisolta restava quella della identiicazione di Fini in una società pluralista, che non siano procedurali: ovvero non di Valori contenutisticamente declarati, bensì relativi soltanto ai modi – di conlitto organizzato, maggioranza rappresentata, rispetto delle minoranze, pubblicità e trasparenza… – secondo i quali pervenire a indicarli in base ai costumi democratici all’occidentale. Valori sì, ma “formali”, dove la legittimazione equivale al rispetto delle regole convenute per arrivare a sceglierli, ed ai quali sottomettersi per rispetto delle regole, non per intima convinzione (da parte delle minoranze). La tensione uniicante della “Programmazione” ha ceduto, da subito, sotto la pressione delle soggettività numerose e dirompenti della società post-moderna. Il valore emergente ora è quello del “Riconoscimento”, in base al quale la diferenza non va accettata per essere reintegrata nell’unitarietà dell’educazione, bensì aiutata a scegliersi ed a deinirsi come rispetto e promozione della particolarità, tenuta a sua volta – quale essa sia – ad essere “pride”, orgogliosa di se stessa: ino a guardarsi da qualsiasi forma di proselitismo, come accadeva per le minoranze di una volta. Il Riconoscimento corrisponde ad una nuova semantica pedagogica, quella dell’“inclusione” e quindi assegna alla Valutazione il compito di realizzare una “uguaglianza educativa a giustiicazione multipla”, ciascuna commisurata alle singole speciicità dei gruppi proliferanti. Non sono più i soggetti deboli ad esigere interventi peculiari, ma ciascuno – in base alla sua condizione – ad aver diritto a traiettorie su misura. Il “Riconoscimento” è più di una presa d’atto delle diferenze, è una teorizzazione della loro incommensurabilità (Ricoeur, 1990; Taylor, 1994). I valori dell’Uguaglianza universalista, come l’Equità e la Legittimazione, postulavano un parametro comune: quale può EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 30 Elio Damiano essere in una “Società degli Individui” (Yonnet, 2006), dove ogni cultura, ogni comunità, al limite ogni soggetto va riconosciuto in quanto diverso? A guardar bene, viene il dubbio che il riconoscimento non sia, tutte sommate le diferenze, che una sorta di vestito variopinto che a malapena nasconde alla vista la resa alla stratiicazione sociale. Gli istituti scolastici – noti come quelli “alla carta” o gli altri, più usuali, che si diferenziano per “utenze” particolari – mettono in piena luce il paradosso: per ottenere il massimo di uguaglianza fra i diversi si specializzano per l’oferta formativa e, insieme, per la discriminazione più rigorosa fra le diversità degli alunni in base alle loro appartenenze. Perseguire l’inclusione attraverso l’esclusione: riconoscere le diferenze per assegnare a ciascuno il suo ghetto… Avremo comunque una Valutazione al plurale, ciascuna corrispondente al progetto identitario del gruppo interessato, dove non mancheranno probabilmente, per i igli dei ceti più mondializzati, il ricorso alle comparazioni con le altre scuole associate ad una rete internazionale. Bisogna tener conto che la realtà è molto più complessa dello schema nel quale ho cercato di imprigionarla, perché le concezioni identiicate non si sono, “evolutivamente”, soppiantate fra di loro, ma convivono contaminandosi reciprocamente nelle posture e nelle pratiche degli istituti scolastici e dei singoli insegnanti, in modi a volte congruenti, spesso contraddittori. A livello di terreno, il peso del non-pensato e dell’implicito nell’azione degli insegnanti quasi mai conferisce alle opzioni etiche della Valutazione una portata politica e pertanto lascia gli attori in balia di sentimenti ambivalenti di libertà individuale e insieme di impotenza di fronte alle disuguaglianze sociali che si riverberano fra i banchi. Su questo bricolage delle valutazioni scolastiche sopraggiungono le valutazioni internazionali prodotte in sede OCDE e IEA e riprodotte, integralmente o con qualche adattamento, a livello nazionale: anch’esse segno, come abbiamo visto, di un’altra impotenza, quella dei governi che stentano a realizzare politiche scolastiche eicaci e si aidano al lustro delle istituzioni internazionali: e quel che è veramente grave, nascondendo alla vista – sotto la bandiera della tecnologia docimologica – il progetto di omologazione che li anima e inanche i valori che li ispirano. Con la complicità di una parte dei ricercatori, afascinati dall’idea di disporre di un’accumulazione di dati sull’apprendimento che sta realizzando l’impresa, appunto, del “mondo come laboratorio educativo”. Un sogno, oppure un’allucinazione, se hanno ragione le critiche dei comparativisti (Schriewer, 2004, 1993; Schriewer, Heinze et al., 1999). VALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 31 Un’agenda per la Valutazione Proviamo ad abbozzare, sulla base dell’analisi condotta in qui, una proposta di lavoro, rivolta principalmente ai pedagogisti, non solo a quanti si occupano di valutazione, ma anche a chi si interessa di scuola e di insegnanti. Che cosa si può fare, dinanzi alle dimensioni ipertroiche della Valutazione ed alle sue derive tecnologiche e neo-istituzionalistiche? Una prima linea d’impegno riguarda una svolta epistemologica che si può considerare matura: spostare l’oggetto di studio della Valutazione – e della ricerca pedagogica in generale – “dall’apprendimento all’insegnamento”. Non si tratta di dimettersi dallo studio dell’apprendimento – che mantiene intatta la sua rilevanza scientiica – ma di uscire dal paradigma causalista che ritiene di poter conoscere l’insegnamento solo attraverso gli efetti che si possono ritrovare presso l’apprendimento. Una svolta che discende dalla ricerca sull’apprendimento e che ha portato al “Ritorno del Soggetto”, rivalutato come produttore in proprio delle trasformazioni che lo connotano, lungo l’età evolutiva ed oltre (Giaconi, 2008). Riorientamento innanzitutto epistemologico, quindi metodologico e relazionale, per quel che si richiede ad un’indagine che tocca, attraverso le azioni, i “pensieri” degli insegnanti che le operazioni didattiche incarnano e il tipo di collaborazione intensiva che questo genere di ricerca esige, anche sul piano etico (Damiano, 2006). Il cambiamento prospettico consentirà di recuperare quegli aspetti che non rientrano nel novero di quelli che si possono cercare fra le prestazioni di apprendimento, tantomeno negli aspetti misurabili, e che però fanno parte intrinseca della validità dell’insegnamento: la responsabilità, l’aidabilità, la lealtà, il coraggio, tutte virtù che si possono ritrovare nella conduzione del gruppo-classe come negli scambi informali, nella gestione della disciplina, nelle scelte relative ai contenuti del curricolo e in generale nel clima del lavoro d’aula: anche quando si tratta delle procedure riguardanti la stessa valutazione. Ci sono “lezioni” che non mirano all’acquisizione delle competenze, perché riguardano quelle credenze, più o meno appropriate, afermate mediante istruzioni esplicite, ammonimenti occasionali e vari altri interventi mirati a plasmare i comportamenti degli alunni. Ci sono anche azioni educative che sono importanti, come la cortesia, il rispetto per chi non riesce, ma che non trovano alcun corrispettivo di risultato, ma che sono valide anche se ini a se stesse (Campbell, 2003). La valutazione dell’insegnamento è sollecitata a cambiare lo “sguardo”, tale che rinunci all’ottica “normativa” – secondo la quale l’azione didattiEDUCATION SCIENCES & SOCIETY 32 Elio Damiano ca viene vista per come dovrebbe essere, in chiave di idealizzazione – per adottare un orientamento descrittivo e interpretativo, in modo da cogliere l’insegnamento dal punto di vista dell’operatore, nelle efettuali condizioni d’esercizio. Per ragioni diverse e pur convergenti, di tipo epistemologico e sindacalista, l’insegnamento è stato oscurato e inanche protetto, certamente condannato, ma non studiato nella sua “realtà”, per gli “adattamenti” che produce nei contesti nei quali si compie, nei suoi limiti come nella sua creatività. Fuori dal “Modello del Deicit”, i vantaggi di “Nuovi Sguardi” sul lavoro di aula e di scuola, per la ricerca e lo sviluppo della didassi, sono facilmente intuibili; altrettanto si dica per le riforme scolastiche, che potrebbero trovare agganci incisivi su una realtà divenuta inalmente visibile, non solo a scopi imputativi, ma anche di supporto organizzativo e di “cura” delle risorse umane (Damiano, 2009). Le conseguenze di questa ricontestualizzazione hanno un signiicato che va ben oltre le vicende pur importanti della ricerca pedagogica e docimologica. Tocca profondamente la “rappresentazione sociale della scuola come istituzione”. Difatti, la centratura della Valutazione sull’alunno designa la scuola, contemporaneamente, come un’“agenzia di promozione e di retrocessione sociale”; con tutte le distorsioni e le strumentalizzazioni che questo può comportare, a cominciare dal formalismo delle certiicazioni – la “promozione” come pezzo di carta – ino all’alienazione della relazione insegnante-alunni in termini di opportunismo e di diidenza. Un esito perverso della valutazione centrata sull’apprendimento, che ostacola il riconoscimento della scuola come risorsa – “talento” – per lo sviluppo delle persone e dell’insegnamento come professione di servizio, ordinata alla solidarietà culturale a favore delle nuove generazioni. Una Valutazione dedicata all’insegnamento può incidere positivamente sulla dimensione espressiva della scuola e dei suoi operatori, denotando la funzione della scuola come promozione culturale delle persone inalizzata alla giustizia sociale. C’è un secondo viraggio da annotare sull’agenda pedagogica, amministrativa e politica, della Valutazione scolastica. Connesso evidentemente al precedente, ma di rilevanza tale che richiede una indicazione speciica. Per il formato che ha assunto negli ultimi svolgimenti, la Valutazione scolastica è divenuta tecnocratica, non solo in senso metodologico – aidata a ricercatori specialisti – ma anche in quanto pratica centralizzata, riservata ed esclusiva. Con la conseguenza che vengono esautorati dalla Valutazione gli insegnanti, ovvero i diretti interessati, se non imputati. È vero che vengono introdotte, da tempo, una serie di condizioni che mirano a lenire la VALUTAZIONE E COMPETENZE Il “senso” della valutazione 33 marginalizzazione: al netto, però, l’insegnante partecipa al processo di valutazione da assistente e somministratore. Né possono considerarsi men che compromessi irrisori l’aiancamento – alla valutazione degli esperti esterni, sovranazionali e nazionali – di altre “valutazioni”, a livello locale, perché la moltiplicazione delle azioni valutative non riesce a nascondere “la” valutazione che conta veramente, per il prestigio dell’istituzione da cui promana e l’afermata superiorità tecnica dell’arsenale di cui consiste. Se ne deve concludere che l’accentramento – internazionale e nazionale – della Valutazione costituisce un atto di “de-professionalizzazione degli insegnanti”. E mentre da un lato se ne aferma la responsabilità per i risultati di apprendimento, dall’altro si banalizza il loro ruolo in termini di esecutore, sorprendendosi se non sono né docili né sottomessi, ma si dedicano come possono al sabotaggio delle prove… Le cronache di oggi, in Italia, confermano le vicende di una opposizione documentata da sempre dall’evoluzione della Educational Evaluation (Guba, 1969; Guba, Collins, 1989). Ma ben al di là dei problemi di fattibilità, quel che conta rilevare è la gravità della sottrazione della funzione valutativa dall’intero della funzione docente: basti prendere coscienza che la valutazione è l’intelligenza dell’azione o – detto ciberneticamente – il controllo del processo didattico. Perché “la Valutazione ha la capacità di far diventare quel che misura”: incide come nessun’altra contingenza sui modi dell’insegnamento come sui modi dell’apprendimento. Di fatto, quel che in realtà può accadere dell’insegnamento, deprivato uicialmente della Valutazione che gli è connaturata, è che l’insegnante continuerà – a modo suo – ad esercitare le sue forme di valutazione in base alle sue credenze, mentre il valutatore centrale formulerà i suoi giudizi ben consapevole dell’inaidabilità della somministrazione delle sue prove… La questione va afrontata dimettendo il centralismo tecnocratico e restituendo la Valutazione agli insegnanti: ovviamente in un quadro istituzionale di professionalizzazione che comprenda la competenza valutativa e la capacità di rispondere pubblicamente della loro attività. Al centro va riconosciuto il compito valutativo di accertare (e qualiicare) gli standard amministrativi del servizio scolastico, ma senza entrare nel merito della valutazione speciicamente pedagogica, da aidare senza remore agli operatori di prima linea. I quali, con la collaborazione dei ricercatori e il supporto dell’amministrazione, sapranno disporsi in rete e confrontarsi a livello nazionale ed internazionale. Mantenendo il pieno controllo di una componente costitutiva della loro professionalità e del suo sviluppo (Damiano, 2004 e, in via di pubblicazione, b). EDUCATION SCIENCES & SOCIETY 34 Elio Damiano Sono ben consapevole che il detournement proposto per la Valutazione richieda uno “straniamento” che punti a modiicare il modo di vedere la situazione scolastica comunemente percepita, ritagliandola dal suo contesto d’abitudine e ricollocandola in una dimensione diversa. L’attesa è un superamento della rappresentazione uiciale della realtà dell’insegnamento, tale da squilibrare la sua immagine bloccata in un canone issato remotamente e mutare le coordinate della sua “natura” come inora l’abbiamo concepita. In sintesi, è un invito a cambiare il codice di una tradizione: la “visione” epistemologica dell’insegnamento e della funzione della scuola nella società. Per due cambiamenti che sono uno solo e richiedono una decisa ristrutturazione del campo percettivo, a cominciare dai pedagogisti. Presentazione dell’Autore: Elio Damiano è professore ordinario di Didattica generale presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Parma. Si occupa di innovazione scolastica, formazione degli insegnanti, modelli didattici, educazione interculturale, teoria e pratica, epistemologia. La sua più recente monograia si intitola Jean Piaget. Epistemologia e didattica, Milano, 2010. Bibliografia Aa.Vv. (2003), «L’inluence des organisations internationales sur les politiques d’éducation», Dossier, in Education et Sociétés, n. 12, 5-110. Apple, M. (1989), «How equality has been redeined in the conservative restoration», in W. Secada (ed.) 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