Essadia - Africadegna

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Essadia - Africadegna
Essadia
Caro Angelo,
Non posso più tacere, il mio cuore, le mie membra non ce la fanno più, ho bisogno di raccontarti questa storia
per alleggerirmi, per tornare a vivere, anche se ho promesso che non l’avrei rivelata a nessuno.
Ma ho bisogno di iniziare di nuovo a dormire, ho bisogno di lavarmi delicatamente senza strofinarmi fino a
ferirmi, ho bisogno di mangiare di nuovo da un piatto senza azzannarmi con i cani del padrone che vogliono
rubarmi il cibo, e ho bisogno di dissetarmi senza dover ingoiare i vermi che nuotano beati nell’acqua putrida,
acqua pura, trasparente, di questo ho bisogno. Ho bisogno di cogliere un fiore, un fiore di lino, vorrei
coglierlo stando in piedi non in ginocchio…., in silenzio e se un rumore dovrà esserci che sia solo quello del
vento , non gli darò dell’impertinente questa volta.
Leggendo ciò che segue ti spiegherai perché ho gli occhi liquidi, …….avrei potuto raccontarti la storia di
questo viaggio durante i nostri numerosi incontri, certo ti starai chiedendo il perché; perché, perché non sono
brava a raccontare e forse neppure a scrivere - che significa prendersi il tempo, per me che scrivo e per te che,
se vorrai, leggerai – solo, ti prego, non farlo quando sei troppo occupato o stanco, potrai farlo più tardi
quando tutto intorno sarà Pace. Voglio scrivere questa storia perché se non scriverò rimarrò schiava.
Caro Angelo custodisci tu per me questa storia, così che quando la tristezza arriverà potrò chiamarti per
cercare di mettere ancora una volta ordine in quegli eventi che hanno permesso queste vicende. So che appena
inizierò a raccontare le catene cominceranno ad allentarsi ed Essadia, a piedi scalzi, con passo leggero e senza
fretta, finalmente libera comincerà ad allontanarsi, ogni tanto si volterà fino a scomparire, ma ci sarà un
giorno in cui un vento impertinente porterà fin qui il profumo dei fiori di lino.
Buon viaggio Angelo Mio
Dieci giugno 2009, ultime notizie:
“ Il colonnello ha chiesto e ottenuto di piantare la Tenda a Villa Pamphili”.
“ Medico della padania in vacanza nelle coste sarde soccorre una donna di colore senza permesso
di soggiorno. La donna ferita si trovava in riva al mare”.
Già, mai guardare negli occhi il nemico.
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La giovane donna è Essadia. Era bella Essadia, gli occhi scuri con guizzi di fiamma e profondità di lacrime
lasciavano appena trasparire uno sguardo fiero, le gambe lunghe, morbide e armoniose si muovevano sempre
come se danzassero, la spina dorsale dritta, le mani con dita lunghissime e le unghie scolpite e ben disegnate,
sembrava che una manciata di perle nere si fossero posate distrattamente sulle sue unghie per riposare.
Aveva il vezzo di accarezzarsi i capelli corvini, lucidi e folti con tanti bei ricci definiti, lei amava coccolarsi
così, accarezzandosi i capelli. Abitava a Tokondà un villaggio dell’Eritrea dove la gente si trascina sudata,
come se avesse le catene ai piedi, su strade polverose. Sono le donne, e i bambini, quando sopravvivono, a
mantenere il villaggio perché il Governo arruola gli uomini nell’esercito, gli abitanti sono vestiti di cenci,
vivono in baracche di giunchi e fango e condividono le latrine e anche il loro odore, e l’unico pasto della
giornata è una tazza di miglio impastato con l’acqua di un pozzo, che appena presa è fresca, dissetante, ma
per la distanza fra il pozzo ed il villaggio l’acqua si riscalda nel tragitto di ritorno. Il pasto è consumato in
cerchio insieme ad altre donne che come lei lavorano nei campi, e raccontano le loro vite e quelle delle loro
antenate, vite di schiave, e ogni volta che raccontano si sente il tintinnare delle catene. Per potersi permettere
quella tazza di miglio Essadia lavorava sotto stretta sorveglianza di un capo nei poderi, sempre con la schiena
curva o in ginocchio, raccoglieva fiori di lino perché i padroni di quei campi potessero venderli ai
commercianti, ai paesi ricchi. Essadia ogni tanto litigava con il vento, gli dava dell’impertinente perché a
volte soffiava troppo forte, come avrebbe voluto spiegargli, insegnargli ad essere delicato con quei fiori.
Poi ci fu la guerra e i campi vennero seminati con le mine, i lavoranti saltavano in aria, una gamba qua un
braccio di là, si svuotarono i campi, le tazze di miglio e le pance. Esplosero i pozzi e si gonfiò la rabbia, ed
Essadia non volle più saperne di rimanere a Tokondà.
Dopo qualche notte insonne, trascorsa a meditare su come avrebbe dato la notizia ai suoi e a tutto il villaggio,
si alzò decisa, ma nel villaggio si erano già organizzati perché avevano letto nel suo fare le sue intenzioni, la
madre aveva già convocato il saggio del villaggio, un santone, quello che sa invocare gli spiriti. Nessuno
sapeva quanti anni avesse l’anziano perché tutti in quel villaggio l’avevano conosciuto già vecchio e nessuno
credeva più alle sue magie, ma bisognava tentare ogni strada per impedire ad Essadia di andarsene. Allora gli
abitanti del villaggio catturarono Essadia come una preda, come fosse una belva, prendendola per mani e
piedi, ma stando attenti a non farle del male. La condussero così davanti al guru, mentre altri abitanti li
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accerchiarono danzando con passi ritmati e veloci, sempre più veloci, ed era come se finalmente tutti fossero
riusciti a liberarsi dalle catene, cantando parole incomprensibili, sconosciute, aiutando il santone a chiamare
gli spiriti fino a coprire le urla di Essadia che voleva liberarsi. Il ritmo è ossessivo quando il santone si china
sul volto di Essadia per inciderle le sopraciglia per fare uscire assieme al sangue anche il demonio che tutti
pensavano lei avesse in corpo; ma lei quel demonio se lo voleva tenere ben stretto perché diceva che le avrebbe
salvato la vita. E allora, come un drago che lancia lingue di fuoco, sputa sul viso del santone che si sente
colpito dal vomito di satana e, mentre al santone vengono le convulsioni per lo spavento, Essadia approfitta
per scappare e corre corre, corre come una gazzella, come i suoi avi prima che gli mettessero le catene, senza
voltarsi indietro perché pensava che niente di più terribile potesse accaderle. Quando Essadia arrivò in Libia
la imprigionarono insieme a tanti altri che come lei erano fuggiti dal loro Paese. Di giorno i poliziotti la
usavano come schiava nelle loro case trascurando ogni suo bisogno, tenendola lontana come un’appestata e la
sera andavano a prenderla dal capannone svegliandola di soprassalto. Essadia ricordava molto bene la prima
volta, meglio di tutte, infatti andarono a prenderla tre poliziotti, e la imbavagliarono perché per difendersi
Essadia sputava; l’ afferrarono per i polsi e le caviglie come si afferra una belva feroce, incuranti del dolore
che le provocavano. La sbatterono a terra come avrebbero fatto con sacco pesante, e due di loro la tennero
ferma mentre il terzo si abbassò i pantaloni, diventati ormai troppo stretti, mostrando qualcosa che Essadia
non aveva mai visto. Il suo cuore galoppava, lei si dimenava ed emetteva degli urli soffocati, l’uomo le disse
che avrebbe fatto meglio a tacere e a farci l’abitudine, dopo si chinò su di lei e un urlo salì dalle viscere della
Terra. Poi ci fu silenzio, gli occhi d Essadia persero ogni espressione; assieme al corpo di quello sconosciuto la
invase un dolore nuovo. Mentre abusavano di lei a turno le sembrava di essere sbattuta da onde violente, di
andare giù, sempre più giù in fondo al mare e di affogare. La ripescarono da quel mare in tempesta le note di
una canzone, era Abasi un musicista che Essadia aveva conosciuto fra quelle persone arrivate come lei in
Libia con l’unica colpa di un’infinita speranza. Abasi sapeva suonare la Kora, gli strumenti ad archi africani,
il violino e il balafon ma per il suo viaggio aveva potuto portare con se solo un flauto, Abasi avrebbe potuto
vivere senza mangiare ma non senza musica. Anche Abasi quando arrivò in Libia venne privato di quel poco
che aveva, gli portarono via anche il flauto che venne usato per percuoterlo fino a spezzarlo. Ma Abasi non si
arrese, e costruì uno zufolo con un pezzo di canna di bambù trovata lungo la strada verso la Libia. Suonava
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così il suo dolore, la sua disperazione per ciò che subiva e per ciò che non avrebbe mai voluto vedere; non
sapendo che col suono di quel bambù avrebbe salvato la vita di una donna.
Mentre Essadia era ancora lì sul pavimento, uno degli uomini, ridendo, le sventolò davanti il passaporto,
anche quello erano riusciti a rubarle; lei cercò di alzarsi per riprenderselo ma cadde, l’uomo allora lo ridusse
in tanti pezzetti e li lanciò in aria come avrebbe fatto un bambino con i coriandoli. A quel punto Essadia vide
cadere in frantumi anche la sua anima; l’avevano depredata di tutto, non esisteva più, le stava accadendo
qualcosa che forse non avrebbe potuto raccontare perché nessuno le avrebbe creduto. La madre sarebbe morta
di dispiacere; forse avrebbe potuto raccontarlo a Dio se già non lo sapesse. Mentre gli uomini si rivestivano
uno le disse di avere un po’ di decenza, che si coprisse perché così scoperta faceva schifo e che si lavasse
perché puzzava come una capra. I giorni scorrevano e lei si trascinava per la stanchezza e per la fame, a volte
ai morsi della fame preferiva i morsi dei cani dei padroni ai quali cercava di rubare il cibo pur di avere
l’illusione di portare qualcosa alla bocca e avere un sapore diverso da quello del fiele. Beveva dalle ciotole
sporche dei cani e ogni tanto sognava una tazza di miglio impastato con acqua di pozzo. Una sera i poliziotti
la presero come tante altre volte, ma la portarono in una stanza e la fecero sedere su uno sgabello, ebbe subito
un po’ di conforto perché era la prima volta da quando era arrivata che non era costretta a sedersi per terra.
La imbavagliarono e la legarono con le mani dietro alla schiena; nella stanza ad aspettarla c’era un uomo,
indossava pantaloni e camicia da uniforme, la camicia era bianchissima, odorava di indumento lindo appena
lavato e mani esperte dovevano averla stirata. La portava con le maniche un po’ avvolte verso i gomiti, anche
i pantaloni blu che indossava dovevano essere stati trattati con cura, i capelli corti, lisci, biondi pettinati da
un lato, anche il capello più corto era in ordine, la pelle del viso, liscia, non avrebbe mai avuto bisogno di
essere rasata, le mani avevano dita lunghe e affusolate, al medio destro un grosso anello. L’uomo stava
seduto a cavallo di una sedia, le braccia ripiegate sulla spalliera, dal soffitto una cascata di luce soffusa lo
illuminava, l’unico bagliore della stanza, e fumava, con il fumo modellava delle aureole proprio sopra di se e
guardava Essadia. Quando l’uomo si mise in piedi Essadia trasalì, ma si avvicinò e la slegò, le tolse il
bavaglio e dandole le spalle si diresse verso una gabbia per volatili, prendeva delle briciole per darle alla
bestiola, la chiamava per nome: “Strauss, Strauss,” dal soffitto cadeva dentro un tegame di alluminio
dell’acqua, goccia a goccia, tic, tic, tic.
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L’uomo mise sulla punta di un dito una di quelle gocce affinché l’animale potesse bere, Essadia non vedeva
bene, per il buio e perché aveva gli occhi ormai ridotti a fessure per le botte che puntualmente le davano, ma
le sembrava proprio che quella gabbia fosse inanimata. Poi l’uomo si voltò verso di lei e cominciò a colpirla
con il dorso della mano destra, con vigore, il pappagallo cominciò a sbattersi dentro alla gabbia troppo piccola
per le sue ali e a starnazzare e a dire: ”basta, basta” l’uomo sferrò un calcio alla gabbia che cadde e finalmente
il pappagallo di nuovo zittì. Spense la sigaretta sulle braccia, sulle gambe di Essadia, e lei urlava, urlava
perché non capiva, urlava di dolore e finché ebbe forza urlò per la rabbia, e allora la afferrò per i capelli e la
trascinò per la stanza; era inutile che vomitasse, che svenisse, perché doveva punirla per essere nera, per
essere povera, per essere bella, per essere donna. Per la rabbia di non poterla possedere, di non poterne godere,
la prese a calci, e quando rinvenne perché le pisciava addosso, lei pregò, pregò di morire, e mentre pregava la
raggiunsero le note del flauto di Abasi che aveva intonato la canzone di Elton, quella che si suona per le
principesse….
“Addio anche se non ti ho nemmeno conosciuta, avevi il dono di rimanere te stessa mentre quelli intorno a te
strisciavano, strisciavano fuori allo scoperto per sussurrarti nel cervello ti hanno sbattuta su un tappeto e ti
hanno fatto cambiare nome e a me sembra che tu abbia vissuto la tua vita come una candela al vento che non
sapeva mai a chi aggrapparsi quando cominciava a piovere”.
E allora anche se aveva il viso gonfio, bruciato, livido per le botte e per il pianto ebbe la forza di ribellarsi,
voleva vivere, proprio non voleva saperne di morire in Libia. Prima che Essadia potesse riprendersi l’uomo si
sistemò i capelli e la camicia, con le mani spolverò i pantaloni, indossò la giacca, si asciugò il sudore, si tolse
l’anello e lo mise in tasca.
Quando Essadia non era imprigionata si aggirava come un fantasma, qualcuno forse la lasciò scappare
perché non sarebbe sopravvissuta e le sue ossa avrebbero galleggiato nel Mediterraneo. Riuscì ad imbarcarsi
insieme a tanti altri come lei, e rinacque la speranza che non durò a lungo perché la fame e la sete fecero
presto ad arrivare, e lei era in mare, bruciata dal sole, le ossa le dolevano, e di nuovo pregava di morire, e
voleva gettarsi in acqua e farla finita soprattutto quando la notte si mischiava al mare. Ma qualcuno intonò
una canzone, una ninna nanna al dolore, affinché si addormentasse e non la tormentasse. Riconobbe le note
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della canzone che cantava la nonna, la canzone che cantavano le schiave per non morire di fatica, forse aveva
le allucinazioni, o forse sognava, o forse moriva.
La svegliò il rumore delle fucilate che gli uomini dell’esercito libico sparavano, nella confusione quel guscio
che gli scafisti avevano la pretesa di spacciare per imbarcazione si rovesciò, tutti caddero in mare, lei si
aggrappò ad “una gabbia per tonni in mezzo al Mediterraneo”, le si gonfiarono le gambe per le ore trascorse
in acqua e per la corda stretta che aveva avuto la forza di legarsi attorno alla vita prima che la stanchezza
diventasse insopportabile e perdesse i sensi. Quando la sabbia soffice e lucente, un letto sfavillante per
quell’ammasso di ossa e di sofferenza l’accolse, Essadia pensò che forse valeva la pena di morire in terra
straniera, aveva la febbre alta, i polsi erano piagati, il vestito stracciato, il volto sfigurato e i pugni chiusi
come se volessero tenere stretto qualcosa, le perle si erano dileguate dalle unghie spezzate. Secondo alcuni
delirava perché raccontava di corpi sporchi che la invadevano, di dita lunghe, di camicie linde, di cani che la
mordevano, o forse o sognava e in una lingua sconosciuta chiedeva al vento di essere delicato con i fiori di
lino, o forse raccontava di campi minati ormai impossibili da coltivare e forse ripeteva “mai più in ginocchio,
mai più in ginocchio”.
Mentre lei si azzuffava con la morte, un medico contravveniva ai principi del suo credo politico e alle regole
del nostro paese.
A Villa Pamphili si piantava una tenda.
Nel nostro parlamento si costituivano nuove alleanze e si inventavano nuovi nemici.
Ed ora, caro Angelo,
abbracciami forte, coprimi ancora una volta con un manto di infinita speranza, baciami sulla fronte e canta,
culla la mia tristezza affinché si addormenti e non mi tormenti.
Fammi sognare di camminare su dei sassi che affiorano appena da un fiume di acqua, trasparente e fresca,
che scorre lento, non preoccuparti se ogni tanto cadrò in quell’’acqua perché questa volta sarà solo per
rinfrescarmi e dissetarmi.
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