SU POLITICA FISCALE Salvatore Biasco

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SU POLITICA FISCALE Salvatore Biasco
SU POLITICA FISCALE
Salvatore Biasco
(senza titolo, perché non è un articolo)
1. Premessa
Se è vero che ciascuna formazione politica dovrà operare in patria e trovare lì la via della sua proposta di
governo, è anche vero che il banco di prova importante sarà nella chiamata in causa dei suoi partiti
“fratelli” per creare insieme un contesto favorevole che liberi l’economia europea dalla morsa di una
costruzione incompleta e di politiche neo liberiste non equilibrate.
Pur prescindendo dalle ipotesi più pessimistiche, le prospettive per l’area europea di continuare a perdere
terreno rispetto ad altre parti del mondo non promettono molto per il futuro, non solo sul piano
economico, ma su quello politico. Gli indirizzi correnti, poi, approfondendo il suo declino, fanno perdere
autostima e riducono considerevolmente l’influenza esemplare e l’attrattiva nella comunità internazionale
di un modello che era il più avanzato del mondo e sta perdendo fisionomia.
Le vicende mondiali insegnano che solo con un pensiero globale è possibile confrontarsi con la fase
globale del capitalismo. Lo impone non solo la dimensione dei problemi, ma anche la credibilità degli
obiettivi, che hanno bisogno di ambiti decisionali che si rivelano efficaci solo a livello sovranazionale. Lo
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stato nazionale mantiene ancora importanti prerogative , ma la sua efficacia di azione è indebolita
dall’apertura dell’economia e dalla potenza delle forze con cui si confronta. Solo grandi stati possono
tenere leve di scelte discrezionali (relativamente) libere e affrontare con possibilità di successo problemi
che il più delle volte sono globali. Allo stato nazionale attiene, comunque, la responsabilità ultima della
tutela della collettività e dei suoi componenti e, quindi, il potere di determinare l’ambito della sfera
pubblica, le capacità innovative e l’equilibrio sociale. Quindi, i governi nazionali devono avere una
visione adeguata che abbracci l’ambito specifico (senza far diventare un alibi lo stallo che può
determinarsi a livello europeo), ma il loro progetto avrebbe un vulnus e sarebbe carente se non si lasciasse
guidare (e non fosse in congiunzione) con una visione a scala europea da cui trarre alimento.
2 La riproposizione di tematiche fondamentali
I capi saldi di un programma politico relativo all’assetto dell’economia europea sono oggi in una serie di
temi che riaffiorano con la crisi e che sembravano aver perso presa nel dibattito politico ed economico: lo
Stato, le Regole e l’Eguaglianza. Sono temi attinenti alla responsabilità pubblica sull’economia, ai limiti
di libertà di azione del capitalismo (finanziario e no) e alla democratizzazione dell’economia, alla
responsabilità collettiva nel tenere coesa la società.
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Dalla ricostruzione delle funzioni amministrative, alla rappresentanza, ai criteri di tassazione, alla regolazione dei beni
pubblici, al tipo di compromesso sociale, oltre che ai temi della sicurezza e immigrazione, ecc.
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Non basta che i tre capisaldi riaffiorino. Possono essere assi di un indirizzo e di una battaglia politica solo
se poi discernibili in punti programmatici che abbiano la capacità di guadagnare il consenso di grandi
masse e che reggano su tutti i fronti di un accettabile assetto socio-economico. E questo ha i suoi cardini
in una dinamica produttiva soddisfacente, nella stabilità finanziaria, nell’accresciuta sicurezza e coesione
sociale, nella primazia degli interessi collettivi sugli interessi di parte, nella sostenibilità ambientale e in
quella morale (vale a dire, la responsabilità verso il resto del mondo). Ma consiste anche in un ritorno
della politica alle ambizioni che sono state il fondamento degli orientamenti più significativi: una vita
migliore e dignitosa per il cittadino comune e l’accrescimento delle opportunità per i meno abbienti, in un
disegno che doti tutti di strumenti politici.
Ciò che si deve pretendere da ogni forza politica è un “programma massimo” per il disegno europeo. Quel
programma, cioè, che dà un’idea di dove essa intende andare, di quale visione della società prende a
riferimento, degli orizzonti della sua azione e delle idee forza che sottendono i traguardi da raggiungere.
Un programma da cui estrarre per il presente ciò che il realismo, le circostanze e i rapporti di forza
consentono di percorrere.
Con una premessa discriminante: quel programma esclude le scorciatoie del ritorno alla disponibilità del
tasso cambio, immaginata come un passaggio catartico, affinché il singolo Stato riacquisti isolatamente
una presa sulle leve che consentono di riproporre una prospettiva di crescita. Quello Stato sarebbe ancora
più vincolato di quante è oggi nelle direzioni di politica di cui vorrebbe riappropriarsi a causa degli esiti
che conseguirebbero a politiche di emergenza. Il “piano B”, se dovesse verificarsi, è un dolorosissimo
evento che costa enormemente sul piano produttivo e sociale e da cui, forse, può trarre vantaggio una
generazione successiva a quella che lo attua (o lo subisce).
Certo il “programma massimo” può sembrare un progetto aleatorio e utopico, quando l’Europa non riesce
neppure a concordare politiche coordinate e simmetriche di riequilibrio al suo interno tra paesi membri in
surplus e deficit dei pagamenti esteri e la Germania si avvia anch’essa – su imposizione della sua legge
fondamentale – a puntare a una riduzione del suo stock di indebitamento pubblico, in presenza di un
conto corrente con l’estero attivo per il 6-7% del suo PILe di una crescita europea decisamente zoppicante
(a cui danno alimento i piani simultanei di austerità finanziaria dei paesi europei, intrapresi senza che un
governo economico dell’Europa generi le necessarie compensazioni dal lato della domanda per l’area
integrata). Ma le idee che oltrepassano l’esistente devono aleggiare nell’aria, diventare idee forza e
forgiare l’opinione di larghe masse, perché domani siano pronte per l’applicazione quando (speriamo che
non sia di fronte a un’emergenza imposta dall’implosione) la necessità di dotare l’Unione di capacità
decisionali e di direzioni di marcia lungimiranti si imponga da sola come l’unica via d’uscita dal disastro
potenziale immediato o dalla prospettiva di un declino irreversibile e sempre più pronunciato.
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3 Gli indirizzi di una nuova statalità su scala europea
È opportuno distinguere i traguardi di una conduzione economica dell’Europa che vanno fatti oggetto di
un approccio operativo e progettuale, da quegli indirizzi che mirano a un aggiustamento istituzionale. La
distinzione è logica e funzionale, più che oggettiva. Nessun programma o progetto ambizioso sarebbe
credibile oggi, se l’Europa non fosse capace di trovare il bandolo della matassa per mettere
preliminarmente in sicurezza e una volta per tutte, la crisi dell’euro, rendendo coerente il sistema e
farcendolo funzionare, con l’urgenza che richiede la situazione.
A) Il completamento istituzionale
Si tratta, in sostanza, della correzione (affatto rivoluzionaria, se vivessimo in tempi di razionalità e di
buone teorie) dei difetti di fondo nella costruzione di origine dell’Unione monetaria, che la miopia
politica e culturale (o i calcoli dei paesi più stabili) rendono impossibile realizzare. Gli indirizzi necessari
sono ormai indicati da una platea estesa, tanto di governanti, quanto di opinione professionale, segno,
appunto, che così rivoluzionari non sono. Senza i difetti di origine, la crisi dell’euro non sarebbe stata
possibile. Ma c’è stata e va impedito che gli errori di conduzione e le divisioni delle classi dirigenti
europee, già costate tantissimo, pregiudichino il futuro dell’Europa.
Alcuni di quei difetti di costruzione sono in via di superamento, quali l’uso dei poteri di prestatore di
ultima istanza da parte della Banca Centrale Europea, anche se solo su un piano di fatto e non di diritto,
che ne limita l’estensione e l’autonomia; quali, ancora, l’unione bancaria, che sposta vigilanza bancaria e
le soluzione delle crisi dalle giurisdizione dei singoli Stati a quella comunitaria affidata alla BCE (che
viene in tal modo ad assommare troppo potere). Ma siamo ancora lontani dal prevedere:
che siano compresi in forma meno ambigua l’intervento diretto nel capitale azionario delle banche
e poteri di nazionalizzazione comunitaria, nel caso necessario, attenuando l’impatto diretto sui privati;
né ancora vi è qualche prospettiva di estendere l’assicurazione dei depositi a livello comunitario;
sembra poi insormontabile arrivare a qualche forma di mutualizzazione del debito sovrano (che
pure non esclude che ciascun paese possa rimanere responsabile per la sua porzione del servizio del
debito o che i singoli bilanci pubblici vadano indirizzati su sentieri di sostenibilità, anche attraverso
una intelligente sorveglianza multilaterale). La corresponsabilità può prendere varie forme, dalle più
risolutive, che includono la trasformazione del debito in strumenti a tempo lunghissimo, alle più
blande, ma per nessun motivo è resa superflua dall’unione bancaria o dagli interventi della BCE. Solo
se fossero emessi titoli comunitari in sostituzione di quelli nazionali sarebbe consentito alle banche di
spezzare il legame tra il proprio rating e quello dei rispettivi governi, verso i quali sono usualmente
esposte, evitando quei circoli viziosi che fanno interagire perversamente nella crisi debolezze private e
pubbliche:
vi è poi la necessità di dotare l’Unione di una istituzione che gestisca la politica di bilancio e
presieda alla regolazione macroeconomica dal lato della spesa. Questa può prendere forma attraverso
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un’Agenzia di spesa che finanzi con bond europei progetti europei; oppure, attraverso la creazione di
una sorta di Ministero dell’Economia, che, con voti pesati, gestisca un adeguato bilancio europeo e
possa contare non solo su entrate proprie (da Tobin tax, o Carbon tax o dalla gestione di una corporate
tax consolidata, di cui dirò), ma anche sulla possibilità di finanziarsi in deficit;
va fatta funzionare la clausola di correzione degli eccessi di squilibrio nei conti esterni nei
confronti dei paesi eccedentari.
Tutto ciò disegna una svolta a U rispetto ai disastrosi indirizzi ereditati e difesi dai governi
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conservatori europei . Può richiedere tempo, ma la direzione di marcia deve essere inequivocabile.
B) Le direttrici di fondo di una politica comune europea
Accanto al disegno istituzionale dell’Unione vanno posti i traguardi di fondo che attengono agli indirizzi
delle politiche economiche messe in campo da una responsabilità sovranazionale, distinti, anche se
necessariamente intrecciati, con quel disegno:
a) in primo luogo, occorrerebbe puntare sulla costruzione di un orizzonte nel quale si possa ricominciare a
prospettare un obiettivo di piena occupazione, in un rovesciamento culturale che difenda e asserisca una
prospettiva in cui la domanda aggregata – governabile solo a livello comunitario – è il perno cruciale di una
politica occupazionale e di attivazione dell’economia. È ovvio che questo non può essere un asfittico Piano
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Junker, ma una sorta di “Piano Marshall” di infrastrutturazione dell’Europa, la cui responsabilità sia
comunitaria. Ad esso dovrebbe accoppiarsi un riequilibrio dei conti esteri dei paesi strutturalmente
eccedentari. Anche un forte allargamento del bilancio comunitario è una via perseguibile. Ciò che conta è
la prospettiva assunta. Si tratta di mettere in moto e tenere dinamica l’economia nell’unico modo efficace e
di cambiare anche le aspettative. La percezione degli operatori che questa sia la stella polare dell’Unione
per il ritorno a una fase di crescita soddisfacente e generalizzata è la chiave di volta per il formarsi di una
visione ottimistica sull’espansione continuativa del mercato interno, per far ritornare un clima di fiducia
che faciliti l’investimento in capacità produttiva, per rendere possibile che vengano concepite scommesse
produttive e organizzative audaci e, non ultimo, per far nascere un credito istituzionale: quindi, è cruciale,
affinché si generi non solo produzione e reddito, ma anche affidamento (nei riguardi dello Stato europeo).
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In presenza di una politica di bilancio europeo (comunque intesa ) che abbia il compito di regolare la
domanda globale dell’area ad un adeguato livello di pressione, l’obbligo per il singolo
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«Ci sono volute idee sbagliate e mosse sbagliate da più parti – scrive Krugman – per ridurci nello stato in cui siamo:
raramente nel corso degli eventi umani tante persone si sono impegnate così tanto per fare così tanti danni». Cfr P. Krugman,
BCE, OCSE, economisti e (certi) giornali: è tutto da rifare, in “Il Sole 24 Ore”, 1 ottobre 2011.
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Uso questo termine in quanto adoperato dalla DGB (sindacato tedesco), che prevede un fondo di spesa (a rotazione) da
utilizzare in direzioni sensibili per la crescita, finanziato da tasse patrimoniali nei singoli e paesi. Non ha pesato molto nel
dibattito. È ovvio che le ingegnerie che si possono pensare sono molte. L’importante è la direzione di marcia.
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Il campo di azione non sta solo nel finanziamento di grandi progetti di infrastrutturazione, ché funzionerebbero su un periodo
lungo, ma anche (e soprattutto) in programmi di facile fruizione che, pur rimanendo infrastrutturali (legati a obiettivi di
diffusione tecnologica, di trasformazione verso un’economia verde, di valorizzazione del patrimonio culturale e scolastico e di
promozione sociale), genererebbero in tempi brevi spesa e reddito per larghi settori della popolazione.
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Stato nazionale di non derogare dallo stretto equilibrio dei conti pubblici acquista una giustificazione e
diventa suggestivo che esso sia spinto, piuttosto, a concentrarsi sulla sua missione strategica di agente
di innovazione e di guida attiva e rigorosamente efficiente nelle questioni strutturali connesse
all’obiettivo di ripristinare il potenziale di crescita e ripensare la protezione sociale.
b) In sede europea, occorre uscire dall’idea che una politica dell’offerta incentrata sui mercati possa
essere il criterio unico di politica economica, come lo è stato (e lo è) per un’Unione di stampo incauto
liberismo, che ha puntato tutte le carte su concorrenza, flessibilità e imbrigliamento della presenza
pubblica nell’economia (con esiti che non possono che essere definiti palesemente deludenti e
insufficienti e che, ciononostante, non hanno portato a una seria revisione dei criteri, né impedito che
le stesse politiche venissero reiterate acriticamente). Riconoscere che la crescita non si sostiene da sola
attraverso queste politiche non implica che un indirizzo di offerta diretto ai mercati non possa
selettivamente essere utile (caso per caso e mai in linea di principio), ma che può essere efficace (dove
lo è) solo se è di complemento in un’economia tenuta per altre vie a buon livello dell’attività
economica.
c) Ferma restando la necessità di un impegno meno nominale in merito alle politiche per l’istruzione e
a favore dell’Information and Communication Technology, il rafforzamento produttivo non potrà non
avere a sostegno una vera e propria politica industriale su scala europea, alla stregua di ciò che avviene
in altre parti del mondo: per proteggere le attività strategiche, sviluppare (anche con un impegno
diretto) le reti europee, avviare e finanziare le iniziative nelle quali l’industria europea rischia di non
decollare, gestire dirigisticamente la situazione dove è in esubero di capacità, determinare gli standard
e indirizzare la domanda pubblica dove è più suscettibile di far sviluppare nel settore privato attività
tecnologiche, reti, ricerca tecnologica specifica. Senza una politica industriale (e fiscale)
strategicamente e vigorosamente diretta allo scopo, è difficile pensare di fare della politica energetica
comune e orientata a una riconversione produttiva idonea al mutamento climatico, un vero e proprio
volano della crescita economica.
d) Vi è poi il capitolo della riconquista di una sovranità fiscale, che necessita di un argine alla
disordinata concorrenza al ribasso, che ha percorso il Continente e che ha trovato legittimazione in una
visione distorta di come dovesse funzionare l’Unione; quella visione ha anteposto una competizione
tra Stati al governo comunitario della materia, sebbene ciò costituisse un danno per tutti. Politiche di
armonizzazione e uniformità devono porre fine alla continua erosione delle basi imponibili mobili,
compensando gli Stati più deboli e inducendoli a desistere dal tentativo di attrarre capitali attraverso
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l’abbassamento competitivo dell’imposizione e degli standard giuridici . Quindi: livello minimo di
tassazione per le imprese (differenziata per fasce di paesi, ma su basi uniformate di compilazione dei
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È indicativo di una concezione sbagliata che sia stato consentito all’Ungheria, nell’ambito del suo programma di risanamento
varato nel 2011, di stabilire al 10% la tassazione sui profitti e al 16% (flat) quella sui redditi personali, oppure consentito
all’Irlanda (con il 33% di deficit pubblico e dipendenza dai prestiti europei), di mantenere la sua tassazione sui profitti al
12,5%. Altri paesi europei dell’Est adottano simili politiche.
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bilanci aziendali), introduzione di un bilancio consolidato con formule di ripartizione dei profitti che
abbiano anche correttivi a favore dei paesi più deboli che perdono i vantaggi della concorrenza fiscale,
fine dei regimi speciali interni di tassazione finanziaria, armonizzazione del trattamento delle holding,
lotta spietata ai paradisi fiscali e al segreto bancario (dove resistono), Tobin tax estesa a tutte le
contrattazioni, iniziativa europea per far divenire la tassazione consolidata delle imprese uno standard
universale, ecc. Il tutto, in stretta connessione all’obiettivo di guidare in modo armonizzato la
riduzione del peso della tassazione personale e sul lavoro, a favore di una tassazione patrimoniale, dei
consumi e delle rendite finanziarie, che goda di un’ampia base informativa automatica (che arrivi al
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tax player identification number) su scala europea e la pretenda su base mondiale .
e) Infine, una nuova statalità democratica in Europa dovrebbe guidare le politiche sociali europee
(per quella parte di uniformità di fondo che esse richiedono), con l’intento di evitare che l’impatto con
la globalizzazione snaturi il modello sociale del Continente. Occorrerebbe marciare verso una
uniformità di standard sociali (a partire da quelli disattesi nei paesi dell’Est) riflessa: nell’adozione di
un salario minimo (differenziato per gruppi di paesi), nell’impegno a garantire il minimo sociale a tutti
con obiettivi – se possibile – quantificati (per paesi), in programmi europei di istruzione e
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addestramento per i disoccupati . Occorre mirare a che i giovani rimangano a scuola fino al
conseguimento del diploma di terzo grado e al sostegno finanziario (europeo) alle sedi scolastiche che
svolgono la propria missione in luoghi di disagio sociale. Inoltre, è necessario spendersi per tenere il
più possibile unificato il mercato del lavoro (senza inutili estremismi) e ridurre drasticamente l’area del
precariato. È dirimente arrivare a un diritto del lavoro europeo.
Ovviamente l’elenco non è esaustivo e potrebbe dar luogo a varie altre aggiunte e considerazioni.
Ritorno, però, sul governo attivo della domanda in Europa, ponendolo in un orizzonte internazionale
dominato dalla necessità di pilotare un’uscita definitiva dalla crisi globale (non solo europea) e ritrovare
la crescita soddisfacente e diffusa, senza, però, riprodurre gli squilibri nei pagamenti che l’avevano
sostenuta prima del 2007. Affinché ciò si realizzi, è necessario il concorso attivo dell’Europa.
L’aggiustamento internazionale degli squilibri dei pagamenti esterni oggi è molto incerto. Per quanto per
ora sia considerevolmente meno drammatico e preminente di come si presentava prima della crisi, è
pronto a riaprirsi. È probabile che gli Stati Uniti, in un mondo che non trova un motore sostitutivo di
generazione della domanda mondiale diverso da quello assicurato dalla loro domanda interna, debbano
continuare a convivere con un deficit esterno elevato, a causa del ruolo stesso che esercitano nel sistema
internazionale. Il che non è foriero dei migliori scenari per l’economia mondiale. L’Europa non può
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Ovviamente, la politica fiscale non riguarda solo la concorrenza fiscale, ma investe anche gli aspetti macroeconomici che
portano a un ampliamento consistente del bilancio europeo che, attraverso istituzioni del tipo citato, gestiscano entrate proprie
e abbiano la facoltà di emettere project bond o altri bond con la garanzia comunitaria.
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Lo Youth Guarantee, il programma diretto specificamente ai giovani, è limitato nei fondi e nel tempo e prende i
finanziamenti dalla decurtazioni di altri programmi del Fondo sociale europeo.
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essere un soggetto neutro rispetto a ciò che accade nel globo su questo problema. Occorre chiedersi se
non siano altro che remore ideologiche quelle che hanno indotto finora le leadership del continente a
scartare l’obiettivo di portare l’Europa a essere – grazie al ruolo dell’euro e per questo tratto di storia, sia
pur limitato, dell’economia mondiale – un luogo di assorbimento in deficit di merci e servizi, capace
quindi di contribuire con le sue importazioni nette (conseguenti al sostegno di un’attività economica, tenuta in Europa a buon livello di pressione) a un bilanciamento degli squilibri e delle fonti di traino
dell’economia mondiale. Un’area, cioè, che in quel tratto della sua storia generi più domanda mondiale di
quella che cattura (il contrario di ciò che avviene oggi con i programmi di austerità). Dopo tutto, l’Europa
è poco più di un’economia chiusa, visto che il commercio estero che l’area integrata intrattiene con il
resto del mondo supera marginalmente il 10% del PIL integrato. Se necessario, meglio tirare il freno sulla
politica monetaria che su quella di bilancio (europeo), piuttosto che seguire il mix inverso (come avviene
finora), perché quel mix alternativo può indurre, contemporaneamente, sia importazioni nette, sia
movimenti di capitale in entrata per finanziarle. Ma innalzerebbe anche la crescita interna e mondiale,
rendendo il quadro sostenibile.
4. Le Regole di un nuovo modello di capitalismo
A) Premessa
Oltre che di un completamento del quadro istituzionale e di una sana gestione della macroeconomia e
dell’assetto produttivo e sociale, l’Europa ha bisogno di mantenere un baricentro in regole economiche
certe e in standard legali (meglio se internazionali), che implichino una completa svolta rispetto all’idea
che siano gli ordinamenti giuridici a doversi conformare alle esigenze dell’“efficienza di mercato”,
piuttosto che il contrario.
La crisi ha mostrato che il sistema non si autoequilibria, non si autolimita, non si autoregola e questo
genera conseguenze dirompenti che ricadono anche su chi non ha responsabilità. Gli indirizzi correttivi
devono riguardare, in primo luogo, la finanza, data la natura del nuovo capitalismo. La perdita di autorità
del pubblico potere si era riflessa in un sistema di obbligazioni leggere e duttili rimesse all’arbitrio di chi
avrebbe dovuto rispettarle. Occorre ora tornare a un diritto monopolizzato dallo Stato, certo e prevedibile
e archiviare l’era del diritto “privatizzato”.
Non si tratta soltanto di ristabilire nel contesto attuale quelle salvaguardie che ci hanno dato mezzo secolo
di relativa stabilità finanziaria (che non è poco), ma di ripensare attraverso le regole, il tipo di capitalismo
desiderabile.
Fermo restando che il sistema economico non potrà che essere un sistema di iniziativa privata e di
protezione della proprietà, vi sono tipi e tipi di capitalismo. È insita in una visione desiderabile l’esigenza
di una sua riforma rispetto ai caratteri che la finanziarizzazione e la logica pervasiva del profitto privato e
“della creazione di valore” per gli azionisti sono andate assumendo negli ultimi venti anni; riforma che
deve tendere a determinare un più accettabile equilibrio di potere sociale, a ridurre il ruolo della finanza
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quando sono in gioco i bisogni primari (istruzione, vecchiaia, salute, abitazione, che devono essere
responsabilità primaria dello Stato), a garantire una riduzione drastica delle possibilità di speculazione e
di assunzione di rischi privati che ricadono poi sulla collettività. Una nuova regolazione ispirata a principi
democratici dovrà essere identificabile in direzioni che devono costituire un nuovo asse progettuale:
a)
un approccio antioligarchico e anti oligopolistico, che preveda un sistema con una pluralità di
soggetti nel mercato in grado di temperare – in primis con la presenza riequilibratrice dello Stato nelle
sue varie prerogative e articolazioni – il potere che in esso è esercitato dai singoli;
b) una chiara identificazione di un modello che convogli in via diretta e prioritaria il risparmio e
l’attività finanziaria verso la crescita reale e la rivoluzione verde, attraverso una finanza (sottoposta a
disciplina e responsabilità e riportata alla sua funzione di alimento dell’innovazione e della crescita), a
cui siano sottratte occasioni di costruire mercati e assumere rischi che richiamano più un casinò che
strutture di un vitale Stato capitalistico;
c)
la protezione dalla forza della speculazione e del capitale finanziario di cui devono usufruire le
azioni di sviluppo intraprese dalle politiche economiche (anche a salvaguardia della sovranità
popolare); protezione volta a ridurre la variabilità finanziaria e a fornire strumenti per imbrigliare il
flusso irresponsabile ed eccessivo di hot money, ma che abbia come contraltare la riduzione della
necessità di debito degli Stati rispetto alla grande orgia della finanza;
d) l’estensione più ampia possibile (entro i limiti dei contraccolpi che può avere in un sistema di
accumulazione privata), sia della responsabilità sociale di chi opera nel mercato, sia del ruolo
controbilanciante delle istituzioni e di organismi collettivi della società civile, rispetto al potere
dispositivo dei soggetti privati più forti, nonché l’estensione della partecipazione attiva degli attori alla
vita economica;
e) la rivendicazione di una sostanziale presenza di capitale pubblico, dove è necessaria, per lo stimolo
agli investimenti e alla tecnologia, oltre che nei settori che erogano servizi pubblici; un’opzione che
può essere legittimata solo dalla sfida, nella quale le leadership dei singoli paesi impegnino se stesse, a
portare al massimo dell’efficienza il settore pubblico e a mettere in campo tutti i dispositivi necessari a
vincere tale sfida.
I contenuti in cui le regole finanziarie possono sostanziarsi non sono sconosciuti al dibattito corrente, ma
il fatto che non abbiano finora trovato una significativa applicazione è la dimostrazione di quanta forza
sociale e politica sia ancora posseduta dai centri di potere economico (in primo luogo finanziario), di
quanto parzialmente le autorità intendano regolare il capitalismo (con l’eccezione, forse, delle banche) o
di quanto contino i convincimenti consolidati. Basti vedere il fuoco di sbarramento che ha incontrato
Obama, l’unico capo di un’amministrazione occidentale ad aver tentato vie più audaci in materia per
capire quale partita enorme si stia giocando. Ma Obama è stato lasciato solo e ha dovuto in parte arretrare.
Eppure i punti che dovrebbero essere oggetto di un programma di ri-regolazione del capitalismo
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finanziario non mancano; tuttavia, essi vengono dibattuti in sede di organismi tecnici nel vuoto del
dibattito politico e senza divenire veri e propri temi di mobilitazione. Non aver saputo politicizzare il
disegno di de-finanziarizzazione è stato un limite delle forze democratiche.
B) Gli indirizzi della regolazione finanziaria
Non si può dire che nulla si stia facendo e certo oggi il mondo finanziario è meglio regolato in Europa di
quanto lo fosse nel 2008. Esistono autorità e comitati in Europa (e internazionali) che emettono direttive o
le indicano alle autorità preposte. È migliorata anche la trasparenza e la supervisione. Tuttavia, quel che
riesce a giungere in porto dai tavoli di trattativa, come la stessa unione bancaria e i dettati di Basilea 3, o
dell’EBA non è ancora ciò che sarebbe necessario.
Non emerge il succo politico, né un quadro organico di trasformazione del capitalismo finanziario che ha
dominato negli ultimi 20 anni. In generale, l’interesse delle autorità è centrato sulle banche, che sono,
ovviamente, le istituzioni finanziarie con maggiore impatto sistemico, ma non rappresentano l’unica area
della finanza dalla quale può venire una minaccia. L’approccio seguito è di lasciare loro libertà di azione
con il presidio, da un lato, di accantonamenti crescenti per i rischi che corrono (e per le dimensioni) e,
dall’altro, di coefficienti per la liquidità da mantenere e per la composizione delle scadenze di attivi e
passivi. Sarebbe opportuno che i nodi più scabrosi della dimensione, del trading, della cartolarizzazione
dei crediti, siano affrontati normativamente, piuttosto che con il disincentivo degli accantonamenti.
In più, il modo in cui viene affrontata la regolazione dal lato degli accantonamenti prudenziali rischia,
inoltre, di compromettere la disposizione delle banche a concedere credito; disposizione per la quale
nessun accorgimento prescrittivo viene proposto, a parte una transitoria riduzione del coefficiente di
rischio per i crediti concessi alle PMI.
L’Unione Europea dovrebbe affrontare e avviare a soluzione una serie di problemi, puntando a una
convergenza internazionale dei modi di trattarli:
• Innanzi tutto, affrontare il problema delle dimensioni delle corporation (too big to fail), in modo da
evitare che costituiscano una minaccia sistemica, in particolare prevedendo il ritorno per le banche alla
separazione giuridica e non solo funzionale tra credito commerciale e altre funzioni finanziarie; in
quest’ottica, alle banche che godono di garanzie statali (sui depositi) non dovrebbe essere consentito di
operare nel trading, se non con società separate o di investire in titoli derivati ad alto rischio. In
aggiunta, la cartolarizzazione dei crediti dovrebbe avere delle serie limitazioni quantitative e
qualitative.
• Per quanto sia oggi finalmente prevista una limitazione delle passività rispetto al capitale proprio
(incluse quelle fuori bilancio), è ancora insoddisfacente che le banche possano mantenere una leva
finanziaria che moltiplica di 33 volte il loro capitale. Questa va drasticamente ridotta, aumentando il
coefficiente specifico, che deve tornare ad essere un coefficiente pivotale per la politica monetaria.
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•
I requisiti di capitale andrebbero estesi a tutti i segmenti del mercato finanziario, riregolamentando
ciascuno dei vari segmenti secondo le proprie funzioni e sottoponendo i soggetti a un’autorità,
possibilmente unica, di controllo europeo dei mercati, con poteri di intervento. Per le banche, sarebbe
opportuno, tuttavia, mettere in discussione le modalità definite dagli accordi di Basilea 3, quando
creano requisiti di capitale opachi, autogestiti (e, anche potenzialmente perversi, ai fini del
finanziamento dell’economia), oltre che pro ciclici. In generale, le forze democratiche non potrebbero
che essere favorevoli all’apertura dell’azionariato e alle fusioni, onde riacquistare alle banche una
solidità che le metta in condizioni di assumersi rischi che sono loro propri (verso il finanziamento della
produzione e dell’investimento).
•
Bisogna essere coscienti, tuttavia, che nel processo di definanziarizzazione vi è il rischio che le
banche, per evitare accantonamenti che giudicano eccessivi, siano rese circospette proprio verso quella
parte del settore produttivo che è più debole e bisognoso del loro supporto, per cui è opportuno che si
eviti zelo nella richiesta di accantonamenti e che, tra i tanti (e forse eccessivi) vincoli di portafoglio
posti da Basilea 3, vi siano quelli relativi alla percentuale di anticipazioni minime al settore corporate
da un lato e alle PMI dall’altro, nell’attivo delle banche. Ciò che può sembrare inefficiente dal punto di
vista della singola banca non lo è dal punto di vista dell’intera economia.
•
Tutto ciò che oggi viene scambiato in maniera non trasparente e fuori mercato andrebbe riportato
in mercati regolamentati con clearing houses, coprendo i buchi che ancora permangono; le agenzie di
rating andrebbero regolamentate e il loro mercato aperto alla concorrenza (se è il caso, con iniziativa
pubblica europea); anche l’emissione dei certificati assicurativi (Cds) andrebbe regolamentata e
lasciata appannaggio solamente di assicurazioni che abbiano un adeguato requisito di capitalizzazione;
non si capisce perché tenere aperti i canali di speculazione allo scoperto.
• Deve essere esplicito, ove non ricompreso negli indirizzi indicati, che va drasticamente ridotta la
disintermediazione bancaria. Vale a dire, le autorità devono prendere il controllo regolatorio di tutte le
attività che intermediano, in genere con titoli derivati, i flussi di credito fuori dal settore bancario –
attività che vanno sotto il nome di shadow banking o attività bancaria ombra – oggi ritornate, con la
stessa opacità di ieri, intorno ai livelli precedenti la crisi dei subprime (30% del mercato). Va imposto
alle banche, ove partecipino al mercato, di consolidare sempre in bilancio le attività di shadow banking
e va posto un limite alla esposizione che esse contraggono verso il mercato; per i soggetti interessati
alle attività parabancarie vanno ristrette le tipologie di cartolarizzazione ammesse ed estese agli stessi
soggetti le regole macroprudenziali di Basilea 3. Va imposta una riduzione drastica delle maturità dei
loro investimenti (puntando a una convergenza internazionale di regole e poteri di supervisione nel
settore).
•
Della Tobin Tax ho già detto*.
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C) Lo statuto per le imprese e i corpi intermedi
Per quanto la crisi cui ha portato l’esplosione della finanza ponga prioritariamente l’obiettivo di
definanziarizzare l’economia, la regolamentazione in quel campo non è l’unica via alla conquista di
maggiore democrazia e alla limitazione dei poteri concentrati e dei comportamenti arbitrari. L’Unione
europea dovrebbe favorire la definizione di uno statuto per l’impresa privata (e perché no? pubblica)
affidandolo a un forte quadro giuridico e normativo.
Ciò va perseguito in direzioni che espandano - senza negare il potenziale dinamico dell’operare del
mercato - socialità e salvaguardia degli interessi generali, soprattutto attraverso sia regole di governance
dell’impresa sia la promozione di comportamenti responsabili, ad esempio:
•
ripensando, ma valorizzando, i consigli di sorveglianza e favorendo la presenza dei lavoratori in
organi di controllo e nel comitato compensi;
•
imponendo obbligatoriamente l’adozione di statuti di responsabilità sociale delle imprese (tra cui
quella di produrre ottimi prodotti, buona occupazione e benefici alla comunità), ma rendendola
sostanziale attraverso un qualche potere di giudizio e sanzione che gli stakeholders possano esercitare
in caso di violazioni (o non aderenza o comportamenti non conformi) a ciò che fissano gli statuti;
•
incoraggiando tutte le forme di partnership sociale nella produzione, le regolazioni bilaterali di
conflitti tra parti sociali, le forme di controllo dal basso di tutto ciò che interessa territori e
consumatori; estendendo e valorizzando il sistema mutualistico e cooperativo; rendendo stringenti le
politiche di contrasto a pratiche collusive, valorizzando e incentivando sia ogni forma aggregazione dal
basso tra soggetti economici per realizzazioni meritorie, sia l’assunzione di responsabilità collegiali
degli attori sociali (che prevedano patti con l’autorità pubblica), favorendo il pluralismo nel mercato;
(l’affidamento all’iniziativa dal basso, che è pietra miliare, presuppone comunque un ruolo attivo dello
Stato nella sua promozione, controllo, legittimazione, coordinamento e, non ultimo, definizione di un
quadro di riferimento che consenta a ogni singola esperienza di rapportarsi alla società nel suo
complesso);
•
favorendo le forme di controllo di qualsiasi tipo sull’efficienza del settore pubblico, quali
incentivi, soddisfazione e scrutinio degli utenti, target da rispettare, potere esteso di sostituzione degli
amministratori, trasparenza e un’intelligente disciplina del lavoro pubblico e dell’apparato
amministrativo, incentivi e disincentivi e quant’altro necessario per rendere la produzione pubblica di
beni e servizi (a consumo individuale e comune) efficiente e pervasa da culture di servizio al cittadino;
deve essere scopo delle forze democratiche conferirle la legittimità e il prestigio che consentano di
preservarla alla proprietà collettiva e farne la forza d’urto per la protezione dei più deboli e per la
crescita.
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5. Riemerge la questione dell’eguaglianza
La ri-regolamentazione del capitalismo e il ritorno a uno Stato socialmente e produttivamente rilevante ha
un senso solo dentro orientamenti che rimettano al centro la questione politica dell’eguaglianza.
È ormai largamente condivisa l’idea che la crisi affondi le sue radici lontane anche nell’ampiezza
inusitata dei divari sociali creati nei paesi occidentali da un meccanismo di crescita distorto; divari che
sono stati ignorati in quanto ritenuti dai governi, prima della crisi, secondari rispetto alla posta in gioco di
tenersi agganciati al boom dell’economia globale, ma che poi hanno contribuito sia alla genesi che allo
sviluppo della crisi stessa. Alla genesi, in quanto la continua compressione dei salari e la divaricazione
nella distribuzione del reddito hanno depresso la domanda globale e trovato nei paesi più finanziarizzati
(gli USA in primis) una compensazione e tollerabilità nell’indebitamento delle famiglie e nei guadagni in
conto capitale. Allo sviluppo, in quanto gli stessi fattori di diseguaglianza hanno fatto mancare quel
plafond di domanda globale che avrebbe evitato la trasmissione dal settore finanziario o da quello reale.
Va aggiunto che la crisi in sé tende a far divaricare ulteriormente redditi e ricchezza. A maggior ragione,
con l’espansione monetaria che è seguita ovunque per contrastarla.
Nella terza ondata della crisi (vale a dire quella valutaria, con epicentro l’Europa, che succede a quella
finanziaria e poi reale) il quadro è aggravato dal fatto che i deficit pubblici generati per salvare il sistema
finanziario e tamponare le conseguenze sull’economia reale dovranno oggettivamente essere smaltiti (o
semplicemente portati sotto controllo e resi sostenibili nel lungo periodo). Si può obiettare che farlo oggi sia
stato e sia prematuro (oltre che incauto) e che sia un delitto farlo in più paesi congiuntamente, che non esista
in ogni caso un modo obbligato per farlo, che l’Europa potrebbe lenire il processo e che il modo indolore di
farlo sia attraverso la domanda aggregata e la crescita produttiva, mentre non si intravedono una strategia e un
coordinamento adatti allo scopo; si può obiettare questo e altro, ma dal vincolo di un qualche riequilibrio delle
finanze è difficile sfuggire in un orizzonte ragionevole di tempo. Una sostanziale cancellazione di debiti non
sembra proprio all’orizzonte e neppure una loro parziale neutralizzazione attraverso qualche forma di
ingegneria finanziaria. Può avvenire che i paesi più esposti in Europa incorrano in default che sarebbero di
scarso sollievo perché precipiterebbero non solo il paese stesso, ma l’economia globale in una quarta crisi.
Quanto può reggersi l’attuale situazione di grande espansione monetaria, bassi tassi di interesse e bassa
inflazione? Un domani il rientro potrebbe esser accompagnato da inflazione, che gioverebbe ai governi, ma
esporrebbe socialmente chi non può proteggersi, o, in alternativa, da strette del credito e da un innalzamento
dei tassi di interesse che si ripercuoterebbero sulla parte vulnerabile dei debitori e mutuatari, oltre che
8
sull’occupazione . Se il rientro trovasse solo una soluzione lenta e stentata che trascina nel tempo la situazione
esistente, senza farla esplodere, ma nemmeno correggendola significativamente, il quadro sarebbe
stagnazionistico. Perfino
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Se il rientro fosse accompagnato da ripudio dei debiti non prenderebbe una via più indolore, ma di gran lunga più penosa per
tutti e foriera di dinamiche incontrollabili, già accennate in precedenza. È una possibilità che non fa parte delle opzioni
razionali, anche se in qualche frangia di sinistra radicale (e della destra nazionalista) è presentata come via di uscita
espropriativa alla crisi, di cui, invece, non si calcolano le conseguenze pervasive su tutta la popolazione.
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nell’ipotesi migliore di una crescita di lungo periodo positiva, occorre presumibilmente scontare che
questa sia percettibilmente più lenta che nel passato. In tutti gli scenari, la permanenza degli attuali livelli
di squilibrio sociale (o un loro ulteriore deterioramento) metterebbe a rischio, sotto vari profili, lo stesso
quadro democratico.
Se il relativo successo delle politiche neoliberiste prima della crisi aveva travolto, inibito e intimidito la
missione dei governi di tenere la società coesa dentro un quadro di progresso economico (ma offerto un
giustificativo all’acquiescenza al divaricarsi dei redditi), ora siamo in un altro scenario e la questione del
“chi paga” per il rientro e per la ripresa della crescita emerge come quella politicamente più importante
nell’immediato (non ultimo, perché il modo di affrontarla impatta sulla costruzione delle alleanze sociali).
Emerge qui una questione di equità, che, tuttavia, chiama in causa l’orizzonte più ampio dell’eguaglianza.
Il tema dell’egalitarismo, espunto dal dibattito pubblico come residuo di un’ideologia obsoleta e radicale,
si impone di nuovo nel post crisi. Si impone nelle tematiche economiche, di coesione ma, soprattutto,
perché l’ingiustizia insita in diseguaglianze spintesi così lontano comincia a rivelarsi per quella che è in
una lenta presa di coscienza che la crisi diffonde in parti consistenti dell’opinione pubblica.
Il ritorno del tema dell’eguaglianza nell’agenda politica e culturale pone al suo centro non tanto e non
solo le politiche specifiche per fronteggiarla, quanto la questione delle coalizioni sociali che ne
sostengono la rivendicazione da un lato e delle culture l’hanno offuscata nelle coscienze dall’altro. Pone
un problema politico, oltre che di misure dedicate. Per quanto tali misure siano necessarie, sono
comunque insufficienti, se non sostenute dall’azione di larghe masse che reclamino più eguaglianza.
Sono, in un certo senso, indirizzi di perequazione, quelli cui ho fatto cenno in precedenza (al punto e) che
dovrebbero essere congegnati in modo da aggredire ciò che produce divari inaccettabili. Altri stanno
emergendo come temi di un possibile impatto diretto: quale il tema dell’imposta patrimoniale, che
comunque va valutato attentamente; quello, che va riprendendo un qualche vigore, della fermezza
(europea) sui diritti sociali per ridare forza contrattuale al lavoro e attenuare il disequilibrio di forze che si
è creato nei confronti dell’impresa; e poi non è secondario quello relativo all’assenza di tetti per i redditi
milionari dei top manager. Le questioni relative alle conseguenze sperequative della concorrenza fiscale
in Europa sono anch’esse rilevanti in materia di equità (oltre a sposarsi con la regolazione del capitalismo
globale).
Proprio perché la questione cruciale è nelle coalizioni capaci di mobilitare il sostegno per riforme volte a
contrastare la sperequazione sociale, sorge la domanda: è sufficiente la consapevolezza diffusa del
ventaglio che si è aperto tra benessere e disagio (o delle responsabilità che attengono nello sviluppo della
crisi a figure emblematiche per agiatezza e arricchimento) a provocare un rigetto di massa dei
meccanismi economici che sono prevalsi, ma, soprattutto, a ricomporre quelle coalizioni che si schierino
per l’innovazione sociale e l’eguaglianza? [la risposta che ne do non è rilevante in questo contesto, ma la
domanda l’ho voluta lasciare].
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6 Qualche considerazione finale
La crisi impone di combattere sul piano delle idee e delle proposte su come uscire dall’impasse, in una
prospettiva di riforma sociale che muti la natura del capitalismo esistente verso lineamenti che, pure in
altre epoche, ha conosciuto.
Se la qualità dell’alternativa democratica deperisce, ne risente proprio la natura della società capitalista, la
quale, giusto nel momento del suo trionfo (che ha fatto parlare, anche se prematuramente, di “fine della
storia” e “occidentalizzazione” del globo) si rivelava, in questa parte del mondo, sempre meno forte nel
generare fiducia e partecipazione e, invece, sempre più incline a produrre senso di impotenza e
smobilitazione, alienazione e de-identificazione con il lavoro, infelicità e cinismo; nonché sempre più
incapace di svilupparsi e trasformarsi senza lasciare indietro nessuno. Far ritornare fiducia, affidamento e
sicurezza è la stella polare di un programma alternativo. Ma è appunto un “programma”, non una
tendenza spontanea e richiede immaginazione e il coraggio di pensare controcorrente.
Nulla è immutabile, ma soggetto a una dinamica prodotta dalla forza delle idee e dagli sviluppi della
società, i cui orientamenti dipendono anche da chi è in grado di segnare l’agenda politica e culturale.
Va tratto insegnamento dalla resistenza culturale che la destra ha opposto alla sinistra all’epoca in cui
concezione della società di quest’ultima era egemone. Quando studiavo a Cambridge, a cavallo degli anni
’70, le posizioni di Milton Friedman venivano presentate come un curiosum, da citare, solo per
completezza di inquadramento dei punti di vista su un argomento, con l’attenzione che si dà a posizioni
esoteriche. “Esoteriche” e stravaganti erano altrettanto considerate nella letteratura internazionale. Dieci
anni dopo, Friedman era il guru di un pensiero economico che si avviava a essere universale, punto di
riferimento indiscutibile di una nuova stagione politica. Sempre nello stesso periodo, le posizioni di un
attore cowboy, che lottava per la nomination alla presidenza degli Stati Uniti, venivano definite in modo
derisorio dalla stampa di opinione voodoo economics (economia dell’esorcismo). Quelle posizioni
avrebbero funto da catalizzatore a una nuova storia dell’Occidente, cambiandone il corso.
Teniamolo come lezione.
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