NewsMagazine n. 28 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro

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NewsMagazine n. 28 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro
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Gruppo Interstizi&Intersezioni Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano N
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Chiedo la forza del tirarsi indietro
la forza d’ogni rinunciante, la forza
d’ogni digiunante e vegliante
la forza somma del non fare
del non dire del non avere del non sapere.
La forza del non, è quella che chiedo.
Non non non: che parola splendida
questo non
(Mariangela Gualtieri)
Editoriale - Piccoli paesi e grandi paesi
Scrivo questa nota al ritorno da un viaggio in Georgia nel Caucaso, piccolo paese di 5 milioni di abitanti
che resiste da millenni con la sua identità inconfondibile al contatto e all’urto con grandi imperi e grandi
paesi che lo hanno circondato e al cui cuore ancora si trova. La Georgia, che si affaccia sul Mar Nero tra
Turchia e Russia (ex-Urss, di cui fino al 1991 fece parte subendo un giogo molto duro), confina poi con
l’Armenia – che presenta con la propria cultura aspetti analoghi per certi versi a quella georgiana – e con
l’Azerbaigian, paese-chiave per gli oleodotti che alimentano l’Europa. Paese accogliente da sempre, la
Georgia vive da anni un rapporto molto teso con la Russia, con cui sono tuttora interrotte le relazioni
diplomatiche e che fino allo scorso anno aveva attuato l’embargo nei suoi confronti. Nel 2008 i carri
armati russi sono arrivati a poche decine di chilometri dalla capitale Tbilisi, a Gori, la città che ospita un
museo per il suo più illustre e sinistro concittadino, Stalin, e dove credo sarebbe augurabile che sorgesse
invece un memoriale per le innumerevoli vittime del medesimo. Cinque anni fa la gente di Tblisi
paventava di fare la fine di Grozny in Cecenia, appena al di là del Grande Caucaso, a motivo del conflitto
per la provincia autonoma dell’Ossetia del Sud. Non è certo possibile in poche righe parlare
adeguatamente di geopolitica. Mi limito ad accennare al problema del rapporto tra ciò che appare grande
e piccolo, meglio tra ciò che è costruito socialmente e storicamente come - rispettivamente - grande e
piccolo. Di fronte alla spregiudicatezza delle manovre di potere legate agli interessi politici nonché
economici – mi riferisco in particolare alla presenza nella regione dell’Urss e ora della Russia –, che cosa
può contare un piccolo paese prevalentemente montuoso e senza risorse che non siano quelle agricole (e
forse quelle turistiche, in un prossimo futuro), un paese in preda alla crisi economica che cerca appoggi
ma senza volersi vincolare politicamente? Eppure, la Georgia ha mantenuto un senso di identità
stupefacente: basti pensare che oltre alla lingua, che non è indoeuropea e ha vaghe rassomiglianze
soltanto con il basco (!), essa usa un alfabeto suo proprio, diverso da ogni altro esistente; e che la chiesa
ortodossa georgiana – alla quale aderisce la stragrande maggioranza dei cittadini - è autocefala, pur
avendo subito nei secoli influenze moscovite. In conclusione: di fronte ai facili determinismi storici, che
tendono a spiegare tutto sulla misura della forza dei grandi imperi di ieri e di oggi, credo sia opportuno
lasciare spazio e speranza a ciò che anche i piccoli paesi possono costruire, imprevedibilmente, con le loro
risorse latenti di creatività e di buona volontà, specialmente se esse poggiano su valori antichi e profondi.
Giovanni Gasparini
SOMMARIO
Forum su “Silenzio e Rumore”, a cura di Nicoletta Polla Mattiot
1. Incontri
-
Fabio Gino Seregni, Se questo è un uomo. Narrare la resistenza al disumano
2. Libri & Scritti
-
-
Alida Airaghi, Il villaggio di cartone, di Ermanno Olmi
Cristina Pasqualini, Rapporto sulla città di Milano 2013. Trentenni in cerca
d’autore
Francesca Rigotti, Nuova filosofia delle piccole cose
3. Arte & Comunicazione
-
Piermarco Aroldi, La nuova Tv dei Ragazzi: quando l’abbondanza non vuol sempre
dire qualità
Lucia Gasparini, L’Unesco e il patrimonio culturale immateriale
Stefano Albarello, Napoli milionaria
4. Vita quotidiana
-
-
Matteo Colleoni, Il tempo della mobilità quotidiana
Giovanni Gasparini, Un incontro a Parigi: da Hélène Berr a Mariette Job
Ivana Pais, Luoghi interstiziali: i contamination lab
Pubblicazioni recenti
2
Forum su “Silenzio e Rumore”,
a
cura di Nicoletta Polla Mattiot
Il rumore è una forma di inquinamento
ambientale particolarmente invasiva. Due
terzi della popolazione ne avvertono il
fastidio
e
i
disturbi
(perdita
di
concentrazione, difficoltà di comunicazione,
alterazioni del sonno). L'eccesso di rumore
influisce negativamente sul benessere
psicofisico e sulle attività quotidiane. Per
sensibilizzare la città di Milano su questo
problema, Accademia del silenzio, in
collaborazione con l'Assessorato al Benessere
e alla Qualità della vita del Comune, ha
organizzato la prima Giornata contro il
Rumore. In diversi punti della città si sono
svolte passeggiate, dibattiti, reading, concerti
di musica non amplificata, per dimostrare
che è possibile avere accesso al silenzio anche
in una grande città: per leggere, per scrivere,
per ascoltare, per condividere esperienze a
basso volume, sottovoce, lentamente, poiché
riscoprire il silenzio significa anche
sperimentare un ritmo diverso del vivere,
prendersi una pausa dall'assedio sonoro,
rallentare e allentare la morsa della frenesia
quotidiana.
L'iniziativa ha visto protagonisti poeti,
filosofi, sociologi, musicisti, scrittori, con
alcuni interessanti contributi sul significato e
l'utilità del silenzio nelle diverse discipline e
proseguirà nelle attività di Accademia del
Silenzio (i seminari estivi presso la Libera
Università
di
Anghiari,
www.lua.it/accademiasilenzio)
e
nella
pubblicazione, in collaborazione con la casa
editrice Mimesis, della collana dei Taccuini
del Silenzio, piccoli libri da tasca che
approfondiscono il tema da molteplici angoli
visuali e disciplinari.
Il silenzio può essere infatti affrontato da
diversi punti di vista.
C'è per esempio quello dello scrittore, Tim
Parks che, in una sua recente lezione al South
Bank centre di Londra, si chiede:
“Parlare di silenzio significa semplicemente
parlare di assenza di suono? Forse il massimo
che potremmo aspettarci è una drastica
diminuzione del rumore, non la sua assenza
assoluta. Anni fa, scrissi un romanzo, Cleaver,
dove immaginavo un uomo alla ricerca del
silenzio. Quest'uomo va in alta montagna,
sulle Alpi: a certe altitudini non ci sono più
alberi né vegetazione e si pensa di riuscire a
vivere al di sopra del rumore. Un posto così
alto, con l'aria così rarefatta, crede il
protagonista, sarà completamente silenzioso.
Né disturbi esterni né connessione per il suo
cellulare. Ma anche a 2500 metri, scopre che il
vento mormora fra le rocce e il sangue pulsa
nelle orecchie. Non solo, quanto più si isola e
diminuiscono le interferenze dalla famiglia,
dai colleghi, dai giornali, dalla tv, tanto più i
suoi pensieri fanno rumore, gli martellano in
testa. Non foss'altro che per rimpiangere di
non aver trovato il silenzio perfetto. Non
foss'altro che per capire che, se anche l'avesse
trovato, avrebbe comunque dovuto fare i
conti con il rincorrersi dei suoi pensieri. In un
certo senso, quanto più diminuiscono gli
stimoli esterni, quanto meno rumore c'è fuori,
tanto più rumore c'è dentro. Quindi, quando
pensiamo al silenzio, e specialmente quando
ne parliamo, - o perché aneliamo a trovarlo o
perché ne abbiamo paura oppure in entrambi
i casi (spesso desideriamo proprio quello che
temiamo, non c'è niente di più comune) –
quando noi pensiamo a un'idea di silenzio,
siamo inevitabilmente costretti a riconoscere
che, in realtà, si tratta di uno stato mentale.
Una questione di consapevolezza.
La più intensa esperienza di silenzio che io ho
imparato a raggiungere è tramite la
meditazione, chiamata Vipassana (ne ho
parlato in un altro mio libro, Teach Us to Sit
Still). E' una forma di disciplina che va al
cuore di questo conflitto fra desiderare e
temere il silenzio.
Quando si entra in un centro di meditazione
Vipassana si accetta di non parlare per tutta
la durata del ritiro. Si vive in silenzio, si
mangia in silenzio e soprattutto si sta seduti,
per molte ore al giorno, almeno dieci, in
silenzio. La meditazione Vipassana non
blocca la mente con un mantra. Invita,
lentamente e pazientemente, a sostituire la
nostra normale coscienza basata sul
linguaggio e sul confronto verbale con una
consapevolezza
del
respiro
e
delle
sensazioni... Il silenzio non è negazione e
3
perdita
di
sé,
dell'esistenza”.
ma
una
pienezza
Per l'esperto di fenomeni religiosi
contemporanei, Giampiero Comolli, il
silenzio è una “pratica di rigenerazione
sociale. Tutte le fedi viventi valorizzano la
dimensione del silenzio, insegnano come fare
silenzio, ciascuna secondo il proprio percorso
spirituale. Ma se tutte le vie di fede, per
quanto diverse l’una dall’altra, sono
accomunate da un’identica valorizzazione del
silenzio, allora il silenzio si rivela il
linguaggio comune, la pratica condivisibile
da parte di tutte le confessioni di fede. E c’è
di più: tacere insieme non vuol dire
semplicemente stare zitti insieme, ma dar vita
a una comunicazione preverbale, un
linguaggio fatto di sottili sensazioni
reciproche e condivise: percepire cioè
fisicamente la presenza, il calore dell’altro
accanto a me; comunicargli tacitamente il suo
essermi vicino, accogliere il suo muto
messaggio di vicinanza a me. Entriamo qui in
una dimensione addirittura pre-natale di
comunicazione, tale per cui, come nel ventre
materno, ci si scambiano informazioni, si
riceve nutrimento e vita, senza appunto
parlare. Ma per poter ovviamente parlare in
seguito, una volta nati, e quindi aperti a ogni
discorso possibile. Se si torna a una
condizione pre-linguistica di vicinanza
condivisa, si ritorna agli inizi dell’esistenza,
quando tutto è ancora possibile perché nulla
è ancora successo. Ecco dunque la
dimensione
rigenerativa
del
silenzio
primordiale”.
Per il filosofo, il silenzio è anche
“un'occasione civile e culturale per ripensare
le nostre città”. Spiega Duccio Demetrio,
fondatore con Nicoletta Polla-Mattiot, di
Accademia del silenzio: “Siamo costretti a
convivere con aggressioni persistenti e
subliminali all'udito spesso oltre i limiti della
sopportabilità. Siamo noi del resto la causa
prima di ciò che ci impedisce di vivere
momenti
di
concentrazione
mentale,
tranquillità, sintonia con gli altri, con
l'ambiente e innanzitutto con noi stessi.
Ormai sembriamo accettare senza troppi
problemi i rumori, improvvisi e di
sottofondo, siamo noi che andiamo a cercarli,
nei loro effetti narcotizzanti. Occorre invece
che si diffonda una cultura del silenzio volta
a diventare una proposta collettiva, inerente
la difesa di un bene comune tra i più preziosi.
Le oasi, gli itinerari, gli spazi di silenzio
vanno trovati e inventati qui, nelle nostre
città. Chi impara ad amare il silenzio in città,
lo apprezza e cerca anche altrove. Non vi è
qualità della vita soddisfacente quando, non
il rumore in sé, ma la sua preponderanza ci
impedisca di essere, agire, pensare. E'
necessario che si riscopra il valore e il senso
del silenzio perché le persone hanno un
bisogno vitale di questa esperienza
esistenziale. Più spesso e con più continuità.
Dal momento che la loro, la nostra, vita
quotidiana non può farne a meno: nelle
relazioni interpersonali, nello svolgimento
dei propri compiti civili, nell'assunzione di
responsabilità che, già impostate secondo la
cultura del silenzio, contribuirebbero alla sua
diffusione”.
Non diversa la posizione del sociologo,
Gianni Gasparini, espressa nel recente C'è
silenzio e silenzio (Mimesis editore): “Per chi
vive nei contesti urbani si pone un problema
concreto: dove cercare e sperimentare tempispazi, o almeno momenti prolungati di
silenzio? Qui, ad un comportamento reattivo
che consiste nel combattere e segnalare, per
una loro repressione, le manifestazioni
rumorose più invadenti e inquinanti, è
opportuno unire modalità di comportamento
“attivo”, volte alla ricerca e alla promozione
esplicita di ambiti silenziosi nelle aree
urbane. Il cercatore di silenzio dovrà dunque
destreggiarsi opportunamente tra elementi
naturali e culturali: utilizzare gli spazi verdi
(parchi, giardini), ma anche fare ricorso a
quegli spazi chiusi che sono ancora portatori
di silenzi, o attraverso l'isolamento acustico e
le norme che chiedono l'astensione dalla
comunicazione verbale (biblioteche, musei,
luoghi di culto, chiese e cappelle fuori dalle
ore di celebrazione). In certe ore del giorno,
soprattutto della sera e della notte, chi cerca
silenzio potrà trovare soddisfazione nel
percorrere a piedi certe aree del tessuto
cittadino come le isole pedonali e gli spazi del
centro esclusi al traffico veicolare, grande
4
imputato del rumore e dell'inquinamento
sonoro di cui si soffre oggi”.
Nicoletta Polla Mattiot, giornalista e
saggista, [email protected]
1. Incontri
Æ Convegno Se questo è un uomo.
Narrare la resistenza al disumano
Il 15 e il 16 maggio 2013, presso l’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si è
tenuto il Convegno conclusivo del Ciclo
seminariale
“Giustizia
e
Letteratura”,
organizzato dal centro Studi “Federico Stella”
sulla Giustizia penale e la Politica criminale,
ormai giunto alla sua quarta edizione. Idea
ispiratrice dell’incontro: la narrazione come
forma di resistenza al disumano, partendo
dalle testimonianze delle vittime della Shoah.
Il Convegno è stato preceduto da una serata
introduttiva nella quale è stata presentata la
figura di Primo Levi. Sono intervenuti il
giornalista
Giovanni
Santambrogio,
Alessandro
Antonietti,
Ordinario
di
psicologia generale, il semiotico dei media
Ruggero Eugeni e le giuriste Claudia
Mazzucato e Arianna Visconti. Nella serata
agli interventi dei relatori si sono alternate la
lettura di poesie di Primo Levi e la proiezione
di brani cinematografici e documentaristici.
Tra gli altri: interviste allo stesso Autore, il
documentario del processo al gerarca nazista,
Adolf Eichmann, Uno specialista. Ritratto di
un criminale moderno e, infine, un
interessante montaggio di film sulla Shoah,
realizzato da Adriano D’Aloia, avente come
filo conduttore il treno e dal titolo evocativo:
“Solo andata. E ritorno”. I lavori della
giornata del 16 maggio sono stati aperti dai
saluti introduttivi di Fabio Levi, direttore del
Centro internazionale di studi Primo Levi di
Torino, il quale ha espresso il suo plauso per
l’iniziativa, ricordando, tra l’altro, come la
relazione tra “Giustizia e Letteratura” sia la
chiave
per
creare
nuovi
approcci
interpretativi. A seguire l’intervento di
Gabrio Forti, direttore del Centro Studi
“Federico Stella” sulla Giustizia Penale e la
Politica Criminale, il quale ha ribadito
l’importanza della parola per sviluppare una
riflessione critica sul nazismo e prestare la
“dovuta attenzione” alla sofferenza dei
perseguitati. Alberto Cavaglion ha analizzato
lo stile linguistico di Levi, sottolineando la
ricerca da parte dell’autore di una prosa
attenta alle diversità e alle sfumature del
reale. Prospettiva confermata nell’analisi di
“Se questo è un uomo”, fornita da Mario
Barenghi, secondo cui l’opera di Levi assume
la forma della testimonianza, affidando al
lettore il compito di giudicare e ricordare.
Altro intervento è stato quello di Cesare
Segre, che ha approfondito l’opera poetica
dello scrittore torinese e le sue caratteristiche.
La mattinata si è conclusa con le relazioni di
due giuristi: quella di Pasquale De Sena, che
ha sviluppato, con particolare riferimento alla
giurisprudenza tedesca, il controverso
problema dell’inadeguatezza degli strumenti
del diritto penale di fronte ai crimini contro
l’umanità, e quella di Remo Danovi che ha
ricordato l’adesione dei giuristi italiani al
regime fascista e alla sua ideologia. La
sessione pomeridiana, presieduta da Luciano
Eusebi, ha avuto a oggetto le narrazioni al
femminile. Roberto Cazzola ha analizzato i
“Diari” di Etty Hillesum e la figura della
scrittrice
olandese,
mentre
Giovanni
Gasparini si è soffermato su Hélène Berr,
giovane ebrea francese uccisa dai nazisti.
Arturo Cattaneo e Antonio Oleari, hanno
posto l’attenzione sullo stereotipo del “bravo
soldato italiano”, ricostruendo la vicenda
processuale di Renzo Renzi e Guido
Aristarco, rispettivamente autore ed editore
del soggetto sulla c.d. “armata sagapò”, i cui
abusi sono rimasti sottaciuti per molti anni.
Infine, la giurista Paola Gaeta si è soffermata
sulla genesi e l’evoluzione degli strumenti
normativi internazionali a tutela dei diritti
umani, intesi come principale forma attuale
di risposta giuridica al disumano.
Fabio
Gino
Seregni,
dottore
in
Giurisprudenza,
[email protected]
2. Libri & Scritti
Æ Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone,
Archinto Ed., Milano 2012.
“O noi cambiamo il corso impresso alla
Storia o sarà la Storia a cambiare noi”: è
5
l'epigrafe conclusiva e assertoria con cui il
regista
Ermanno
Olmi
chiude
la
sceneggiatura del suo film presentato fuori
concorso alla Mostra di Venezia 2012. Film
cristiano come pochi di un regista che ha
sempre fatto della sua fede nel messaggio
evangelico e della sua attenzione verso gli
ultimi, i perdenti, gli sconfitti dal potere, il
credo cui affidare la sua arte e la sua missione
di uomo. Una chiesa periferica e vuota (di
fedeli, di spirito e di amore) viene minacciata
dalle ruspe della civiltà capitalistica
interessata solo al profitto e all'interesse
economico: ed ancora più pericolosamente è
messa in pericolo dall'indifferenza, dal
relativismo, dal dogmatismo di una comunità
cattolica che non sa rinnovarsi nella direzione
della speranza e della carità. Il vecchio
parroco che ne è alla guida si scopre solo e
dubbioso, messo in crisi dalle parole del suo
medico ateo, dall'ambiguità codarda del suo
sagrestano, e soprattutto da un'invasione
notturna, pacifica e disperata, di un gruppo
di clandestini affamati in cerca di riparo e
conforto. I vari personaggi rivestono i panni
dei protagonisti del Vangelo: c'è il neonato
innocente e salvatore, ci sono Giuda e Pilato
(con le guardie-sgherri di un potere ottuso e
violento), ci sono i puri di cuore che
perseguono il bene, e i corrotti pronti a
vendersi e a tradire. Nella sua sapiente
prefazione
Vito
Mancuso,
partendo
dall'amara constatazione della crisi in cui
versa il cattolicesimo europeo, invoca una
trasformazione della Chiesa e della religione,
che
per
sopravvivere
dovrebbero
riconvertirsi, passare “da un fondamento
statico a un fondamento dinamico”,
dall'ortodossia
all'ortoprassi:
scegliendo
“l'esserci-per-altri”, la giustizia, la persona, la
spiritualità, Dio “non più come risposta, ma
piuttosto come domanda”.
Alida Airaghi, scrittrice,
[email protected]
ÆRapporto sulla città di Milano 2013.
Trentenni in cerca d’autore
Tra gli strumenti utili e importanti che sono
stati messi a punto recentemente per leggere
la complessità della condizione giovanile
italiana, e nello specifico milanese, vorrei
richiamare l’attenzione sul Rapporto sulla città
di Milano 2013, curato da Rosangela
Lodigiani, per la Fondazione Ambrosianeum.
Un rapporto di ricerca incentrato quest’anno
sulla generazione dei trentenni, che, come è
noto, è stata più volte citata in questi anni
non tanto per le sue qualità, bensì per le sue
criticità, per i suoi punti di “debolezza”. I
trentenni
italiani
fanno
parte
della
Generazione X, sono i Bamboccioni, o se
preferiamo la Generazione perduta. Etichette
che descrivono questa generazione come una
generazione in difetto piuttosto che come una
generazione in debito. Per quanto mi
riguarda, ritengo, aldilà degli slogan più o
meno ad effetto, che i trentenni italiani siano
la prima generazione in Italia, almeno dal
Secondo dopoguerra, ad aver dovuto fare i
conti sulla propria pelle non soltanto con
importanti ed epocali trasformazioni culturali
e sociali (pensiamo alle nuove tecnologie
della comunicazione), ma anche con la crisi
finanziaria ed economica, che ha ridotto
sensibilmente la loro capacità di diventare
pienamente adulti, ovvero di aspirare
all’autonomia. I trentenni sono la prima
generazione ad aver provveduto più che
abbondantemente alla propria formazione
(lauree, stage, master, dottorati, ecc.) per
trovarsi intrappolati in lavori sottopagati,
precari, spesso non pienamente attinenti ai
titoli di studio conseguiti e alle proprie
aspettative. Sono giovani, se così possiamo
ancora definire coloro che hanno un’età
compresa tra i 30-39 anni, che hanno
imparato a farsi piacere un lavoro, che
lottano quotidianamente per la propria
autonomia (economica e abitativa), che
progettano nel breve periodo. Questi giovani
sono un pilastro portante per il nostro Paese,
poiché offrono un importante contributo sia
da un punto di vista economico che
demografico, non rinunciando appunto a fare
famiglia. Se devo pensare a un difetto di
questa generazione, forse direi che sono stati
troppo diligenti, hanno atteso di trovare il
loro spazio nella società con troppa fiducia e
per troppo tempo, senza rendersi conto che
stavano
diventando
una
generazione
bloccata. Questa generazione, che è stata
descritta spesso lontana e poco attaccata alle
istituzioni (soprattutto politiche), contiene
invece all’interno tutte le potenzialità per
6
diventare protagonista a pieno titolo del
nostro tempo, la nuova classe dirigente. A
Milano, i trentenni sono una generazione
composita ed eterogenea. La metropoli
evidenzia alcune difficoltà (avere figli e
soprattutto gestirli se non si hanno reti
abbastanza solide; aspirare ad avere una casa
di proprietà è un vero è proprio lusso; trovare
dei luoghi “sani” per coltivare la socialità) ma
offre tuttavia ancora interessanti occasioni
lavorative e di crescita culturale. C’è da dire
però che anche Milano non è più la città di un
tempo. Lo capiamo ad esempio se guardiamo
i dati di quanti trentenni decidono di
andarsene una volta terminati gli studi. Un
tempo si andava a Milano per restarci, adesso
a Milano si transita, Milano la si attraversa,
Milano è un trampolino verso il mondo, un
mondo che è sempre più dietro l’angolo.
Cristina Pasqualini, Università Cattolica,
Milano, [email protected]
Æ Francesca Rigotti, Nuova filosofia
delle piccole cose, Torino, Interlinea, 2013.
«Toc toc...» Quando l'editore Roberto Cicala
bussò alla mia cassetta di posta elettronica
per propormi una nuova edizione di quel La
filosofia delle piccole cose che era uscito presso
la sua casa editrice Interlinea di Novara nel
2004, risposi con entusiasmo di sì. Sapevo
infatti di avere parecchio materiale inedito
sulle cose, piccole, in filosofia, col quale si
sarebbero potuti costruire nuovi capitoli, già
che la proposta era di farne un'edizione
arricchita e aggiornata. I capitoli sono passati
dunque da tre a cinque, preceduti da un
prologo; tre sono di natura «teorica» e due di
natura «empirica», nel senso che tre capitoli
si occupano del senso delle cose in genere per
la filosofia, mentre due esaminano alcune
cose specifiche: tra le nuove cose, dal capitolo
Le piccole cose crescono: la mela; lo scolapasta;
tasti e tastiere; immondizia, cosmetici e
scorie; il letto e l'armadio; la vestaglia, la
scintilla,
lo
smartphone.
Una
bella
accozzaglia, mi dico io per prima, e lo faccio
in quanto il direttore della Newsletter
Iterstizi e intersezioni, Gi[ov]anni Gasparini,
mi ha chiesto di scrivere io stessa, per la
rivistina, un'«autopresentazione».
L'heautontimoroùmenos. Ora, quando uno si
scrive un'autorecensione tende a fare, se
proprio non ha un io-mongolfiera che non
tollera critiche, il «punitore di sé stesso»,
l'heautontimoroùmenos, dal titolo della famosa
commedia di Terenzio (ispirata a un'opera
perduta di Menandro). In questo frangente
l'autore si flagella esponendo pecche e
omissioni che nemmeno il più severo
recensore gli attribuirebbe. Beh, non sarà il
mio caso, dal momento che ho deciso che più
che
fare
ammenda,
avanzerò
delle
precisazioni. Per esempio sul senso
dell'operazione nostalgica che potrebbe
apparire il parlare di cose; io, preciso, non ho
voluto parlare di «cose perdute»: quello l'ha
fatto Francesco Guccini con le sue cose anni
'50 cui guarda con «affettuosa rimembranza»
nel suo Dizionario delle cose perdute, libro
intelligente e di gradevole lettura (ma
Guccini è Guccini).
I media che stanno in mezzo. Con la
rivoluzione informatica e dai nuovi media
che si mettono in mezzo tra noi e le cose,
l'universo è diventato uno schermo e un
network che si è frapposto tra noi e la realtà
(=insieme delle res): come conseguenza le
cose non sono più primarie e stanno
perdendo importanza nella nostra vita. Ciò
che ci interessa e ci sta a cuore oggi è
l'immagine dello scolapasta: forse è il caso di
prenderne in mano uno vero, di metallo, da
toccare
e
vezzeggiare.
Guardiamo
egualmente alle cose che ci circondano, è il
mio invito, prendiamo in mano la mela o il
ferro da stiro, ma anche lo smartphone, e
però tocchiamoli, guardiamoli con attenzione
e intensità, annusiamoli, mettiamoli in bocca
(con precauzione). Facciamone, per quanto
possibile, un po' di filosofia.
Francesca Rigotti, Università della Svizzera
Italiana – Lugano, [email protected]
3. Arte & Comunicazione
Æ La nuova Tv dei Ragazzi: quando
l’abbondanza non vuol sempre dire
qualità
Lo scorso 8 maggio è stata presentata presso
l’Università Cattolica una ricerca condotta da
OssCom, Centro di ricerca sui Media e la
Comunicazione, per conto della Fondazione
7
per la Sussidiarietà e del suo osservatorio
denominato Focus in Media sul tema
dell’offerta di televisione per bambini e
preadolescenti. Si tratta di un segmento del
mercato televisivo che, in Italia, è stato
caratterizzata da una recente proliferazione
di canali e di operatori. Dopo un lungo
periodo in cui le grandi emittenti generaliste
pubbliche e private hanno annullato o ridotto
la loro programmazione per i più piccoli a
favore dei canali tematici dedicati, l’offerta di
questo genere televisivo è oggi abbondante
(dal punto di vista del numero di canali),
accessibile (dal punto di vista delle
piattaforme e dei costi), differenziata (dal
punto di vista dei player), segmentata (dal
punto di vista dei target). Nel quadro
europeo, l’Italia si contraddistingue per un
grande numero di canali dedicati disponibili
(22, senza contare i canali+1) con una forte
presenza della Rai (due canali, Rai YoYo e
Rai Gulp) pari in questo in Europa solo alla
BBC. Sul Digitale Terrestre operano i
principali player nazionali (RAI, Mediaset,
Switchover Media - ora acquisito dal gruppo
Discovery - e, in parte, DeAgostini) che
garantiscono un ampio accesso a carattere
gratuito. Sul satellite operano invece i
principali player transnazionali (oltre a
DeAgostini e Switchover, presenti su
entrambe le piattaforme), che garantiscono
l’accesso alla programmazione dei grandi
produttori statunitensi (Disney, Nickelodeon,
Turner). Da notare, infine, la presenza di due
canali satellitari in lingua araba. La
segmentazione del target vede la prima fascia
di età dagli 0 ai 3 anni presidiata solo
dall’offerta satellitare pay di un unico
operatore; la fascia pre-school (fino ai 5 o 6
anni) è coperta attualmente da 7 canali,
distribuiti (a vantaggio del satellite) su
entrambe le principali piattaforme. Infine, la
fascia school, articolata su circa 14 canali, si
rivolge ai bambini in età scolare e ai
preadolescenti (fino ai 14 anni). A fronte di
un forte investimento progettuale sui target
più bassi di età, che beneficiano di canali
dedicati, l’offerta school appare meno
specifica. Ne deriva un’organizzazione
dell’offerta
che,
dovendo
intercettare
necessariamente più sotto-target, ricalca
alcune caratteristiche dei canali generalisti,
puntando esplicitamente su titoli e
personaggi dai tratti di blockbuster
transnazionali. Nonostante l’alto numero di
canali non si riscontra, infatti, una altrettanto
elevata disponibilità di investimenti o di
contenuti editoriali. In questo contesto si
assiste spesso a una forte ripetitività dei
palinsesti, alla circolazione dei medesimi
prodotti e properties trasversalmente ai
diversi canali, al recupero di prodotti vintage
quando non esplicitamente molto datati, alla
ridotta capacità dei broadcaster di progettare
linee editoriali differenziate ed originali per
un numero così elevato di canali. Permane,
infine, una sorta di divide tra chi accede alla
programmazione per bambini attraverso il
DTT e chi vi accede attraverso la piattaforma
satellitare. Ne deriva una sorta di Tv per
bambini “a due velocità” dove il differenziale
non è più solo tecnologico, tra chi ha o non ha
accesso alla tecnologia, ma più ampiamente
economico-culturale. Il rapporto completo
della
ricerca
è
disponibile
qui:
http://centridiricerca.unicatt.it/osscom_1_ra
pporto_televisione_e_infanzia_OssCom_Focu
sInMedia.pdf
Piermarco Aroldi, Direttore OssCom,
Università
Cattolica
–
Milano,
[email protected]
ÆL’Unesco e il patrimonio culturale
immateriale
È solo da un decennio che si è cominciato a
parlare ufficialmente e diffusamente di
patrimonio
culturale
immateriale,
in
particolare dall’ottobre del 2003, quando
viene adottata la Convenzione per la
salvaguardia del patrimonio culturale immateriale
in sede UNESCO. Il più importante
documento in tema di tutela del patrimonio
culturale precedentemente stilato è stato la
Convenzione per la protezione del patrimonio
culturale e naturale del 1972, tuttora valido e
dedito a proteggere elementi del patrimonio
culturale che sono considerati possedere un
valore eccezionale. In realtà, proprio
l’opinabilità del parametro di eccezionalità è
un elemento di debolezza intrinseco alla
Convenzione stessa così come lo è
ugualmente la visione eurocentrica che ne
sostiene
l’architettura,
estranea
alle
concezioni e ai valori culturali di ampie zone
8
del pianeta, quali l’Africa, l’Asia, l’America
Latina e la regione del Pacifico. L’apporto di
nuove prospettive concettuali e pratiche sul
patrimonio, in particolare provenienti dal
Giappone e dai paesi del lontano oriente oltre
che dalla cultura africana, ha condotto ad
ampliare e ridefinire i parametri secolari
attorno cui si è costruita l’idea di patrimonio
culturale in occidente. Il cambiamento di
fondo più evidente è lo slittamento da una
concezione di patrimonio culturale di stampo
umanistico ad una di matrice antropologica.
Se la prima, focalizzata principalmente sui
valori di eccellenza, monumentalità, unicità e
autenticità è la categoria con cui si è
cominciato a ragionare in particolar modo nel
XIX e XX secolo in termini di conservazione e
valorizzazione di un patrimonio culturale
comune, la revisione della definizione di bene
culturale è centrata non già esclusivamente
sull’oggetto bensì si allarga fino a
contemplare
il
processo
culturale
antropologico che si sviluppa attorno e a
partire da esso. In questa prospettiva
ovviamente gli elementi intangibili del
patrimonio culturale assumono un ruolo
fondamentale.
L’apporto
maggiore
dell’antropologia
alla
definizione
del
patrimonio culturale è l’invito a scardinare
numerose convinzioni di radice europea:
tralasciare il filtro selettivo della eccezionalità
in campo estetico per riconoscere il
patrimonio innanzi tutto come espressione
dell’identità di gruppi e comunità, ritrattare
l’idea di autenticità spostando il focus
dall’oggetto al processo che si genera e vive
intorno all’oggetto, accettare l’idea di un
patrimonio non tradizionalmente ancorato al
passato ma legato al vivente, ripensare il
processo conservativo in termini di
salvaguardia e non di protezione. In
particolare il termine salvaguardia offre un
approccio ben più ampio rispetto a quello
offerto dalla protezione, suggerendo che il
patrimonio culturale immateriale non è solo
protetto dalle minacce dirette ma vi è
l’intenzione di attuare azioni positive che
contribuiscono a fare in modo che esso possa
continuare a sopravvivere. Differentemente
da un sito, da un monumento o da un
artefatto che ha una sua propria esistenza
materiale al di là dell’individuo o della
società che lo ha creato, il patrimonio
culturale immateriale vive soltanto se messo
in atto da chi lo pratica, e può avere
un’esistenza futura solo se attivamente
trasmesso. Uno degli aspetti più interessanti
della Convenzione del 2003 è infatti il ruolo
centrale che essa conferisce alle comunità
culturali associate al patrimonio immateriale
nell’ambito della tutela, sostenendo e
incoraggiando un approccio di tipo
partecipativo: si attua così uno slittamento
dalla valorizzazione esclusiva degli artefatti
alla considerazione della gente e del vissuto.
Anche il museo, tradizionale custode dei beni
artistici e culturali “materiali” in ambito
occidentale, è chiamato ad adeguarsi a questo
trend attuale, modificando alcune delle sue
funzioni tradizionali per potersi proporre
come luogo attivo di produzione e
trasmissione culturale anziché quale deposito
di oggetti muti.
Lucia Gasparini, dottore di ricerca,
Università
Cattolica
–
Milano,
[email protected]
Æ Napoli Milionaria
(testo di Eduardo De Filippo, musica di Nino
Rota. Spoleto 1977 - Lucca 2013)
E’ andata in scena nel febbraio 2013
quest’opera scritta da due grandi menti del
teatro e della musica italiana. Al suo debutto
nel 1977 al Festival di Spoleto (voluta
fortemente da Giancarlo Menotti e Romolo
Valli) fu uno dei rari eventi del teatro lirico
trasmessi in mondovisione a quel tempo. Ma
la critica tradizionalista levò gli scudi
avversando il lavoro con paradossale
accanimento. Eclatante, a mio avviso, l’aver
voluto osteggiare il fatto che, il testo
originale, ritenuto un capolavoro del teatro
italiano, potesse essere modificato per
favorire l’azione musicale (cosa per altro era
già accaduta per la versione cinematografica
del 1950). Allora sorge legittima una
domanda: ma com’è possibile che l’autore
dell’opera non possa decidere di apportare
modifiche al suo testo? Dimenticavano che fu
De Filippo in persona a volere e ad attuare
queste
modifiche
per
rendere
la
drammaturgia più fruibile per la musica e il
teatro d’opera. Insomma il critico crede di
rendere, con le sue parole, immortale l’opera
9
di un drammaturgo e può diventare paladino
della medesima, avversando lo stesso
creatore. Ma queste critiche evidentemente
erano l’ultima spiaggia possibile per mettere
in cattiva luce il lavoro eccezionale e
sinergico di Rota e De Filippo che lavorarono
con grande accanimento per realizzare
l’opera. Essi pensarono ad un teatro totale
fatto di parola e suono che si incontrano e si
scontrano dando un senso nuovo anche al
teatro musicale. La musica diventa quasi
scenografica, la parola recitata interrompe la
melodia per poi rientrare nella musica;
diversi stili musicali si fondo e spesso le
autocitazioni dell’autore compaiono quasi a
creare
una
relazione
familiare
con
l’ascoltatore. Eppure se si guarda la
registrazione della trasmissione televisiva
realizzata in occasione della prima a Spoleto
(visibile su YouTube), i detrattori e i
sostenitori si alternano tra un atto e l’altro
senza dare corso al compimento dell’ultimo
atto per un giudizio obiettivo. Segno evidente
che le contestazioni di quegli anni non erano
solo appannaggio degli studenti e degli
operai ma anche della colta gerarchia
culturale. Da quel ‘77 l’opera è caduta quasi
nel dimenticatoio; la nuova edizione voluta
dalla tenacia di Aldo Tarabella, compositore,
regista e direttore artistico del Teatro del
Giglio di Lucca, grande estimatore di Rota, ha
ripreso vita nei teatri della Toscana e si spera
nel 2014 possa girare in altre regioni. Ma
strano a dirsi la stessa aria di diffidenza ha
aleggiato su questa ripresa; i melomani
Pucciniani e Mascagniani hanno reagito con
diffidenza iniziale a questo lavoro teatrale
quasi che Rota non fosse degno di risuonare
nei teatri. Per fortuna alla fine quel
neorealismo ancora è suonato attuale; magari
chi si aspettava di sentire la famosa frase: “ha
da passà a nuttata” è rimasto deluso perché
nell’opera musicale non c’è, non serve. Il
dramma di una madre che perde un figlio è
più importante e Don Gennaro che dice:
“Amalia la guerra non è finita non è finito
niente”, ci riporta a quegli anni bui della
nostra democrazia (mi riferisco al ‘77). La
nuova revisione al copione teatrale attuata da
De Filippo evidenzia il suo stato di totale
pessimismo che porta i personaggi a subire
fatalisticamente il degrado dei valori e il
declino della dignità umana in un evidente
squilibrio sociale. A rendere più reale e
moderno il testo è la scelta di rendere reale il
tradimento
di
Amalia
con
Enrico
Settebellizze, dedicando a questo intrigo,
causato dalla scomparsa di Don Gennaro, il
secondo e terzo atto dell’opera; scompare la
tragedia della bimba ammalata e del
medicinale necessario alla guarigione. Mentre
il tema del contrabbando e dell’illegalità
aleggia in tutti e tre gli atti. E’ la
drammaticità dei sentimenti che prevale,
sebbene ci sia spazio per il sorriso, come
sapeva fare De Filippo e qui grazie anche ai
temi scherzosi della musica di Rota. Ma c’è la
vena triste e poetica che tiene incollate agli
occhi le lacrime degli ascoltatori durante gli
applausi finali.
Stefano Albarello
4. Vita quotidiana
Æ Il tempo della mobilità quotidiana
Il tempo della mobilità territoriale genera
esperienze e sentimenti contrastanti. Quello
delle migrazioni e della mobilità residenziale
rinvia all’irreversibilità e alla straordinarietà
dei cambiamenti che scandiscono gli
avvenimenti importanti del corso della vita. Il
tempo della mobilità quotidiana e del
viaggio, viceversa, rimanda alla temporaneità
e all’ordinarietà degli spostamenti che,
giornalmente e in modo sempre più
frequente, sono fatti sul territorio. Tuttavia, se
il tempo del viaggio turistico è normalmente
associato
all’esperienza
piacevole
di
muoversi sul territorio per vedere ambienti
diversi da quelli usuali, quello della mobilità
quotidiana
rinvia
alla
monotonia e
all’uniformità dei comportamenti ripetuti ed
abitudinari. Le teorie economiche sulla
disutilità del tempo della mobilità quotidiana
rappresentano, in tal senso, la variante
scientifica della più nota e diffusa
consuetudine di considerare perso il tempo
speso negli spostamenti giornalieri. Sono
diverse le pratiche che, secondo alcuni autori,
vengono adottate per impiegare e per ridare
senso al tempo perso nella mobilità
quotidiana. Nelle indagini realizzate da
Flamm (2005) si indicano attività attese, come
10
lavorare e intrattenere relazioni sociali, ma
anche pratiche più personali favorite dal
movimento
nello
spazio-tempo
degli
interstizi delle attività, quali riposare e
rilassarsi. Il fatto che lo spazio privato
dell’automobile sia più adatto al loro
svolgimento offre un’ulteriore spiegazione a
quelle,
già
numerose,
sul
ricorso
preferenziale a questo mezzo nelle scelte di
mobilità. In “Rolling private in public space”
(Sheller e Urry 2000), lo spazio domestico
dell’automobile, oltre che un mezzo di
trasporto, rappresenta il luogo in cui meglio
esaudire il desiderio di riservatezza in società
in cui si trascorre sempre più tempo
viaggiando. Tuttavia il tempo crescente
trascorso in automobile, in particolare da chi
vive nelle aree sub e peri-urbane, ha
richiamato l’attenzione sulle sue conseguenze
negative in termini di isolamento e di
impoverimento della quantità e qualità delle
relazioni sociali. La possibilità di impiegare il
tempo di viaggio osservando, ascoltando i
discorsi e intrattenendo relazioni con i vicini
ha cominciato ad essere considerato un
beneficio dell’utilizzo dei mezzi di trasporto
pubblico (Stradling et al., 2007). Una recente
ricerca condotta da chi scrive ha messo in
evidenza che la propensione a condividere lo
spazio con i vicini è una proprietà
favorevolmente associata alla scelta di usare i
mezzi di trasporto pubblico. Da conseguenza
negativa della scelta di usare i mezzi
pubblici, la prossimità ai compagni di viaggio
è così diventata un’opportunità per restituire
qualità al tempo della mobilità 1 .
Matteo Colleoni - Università di Milano
Bicocca, [email protected]
Æ Un incontro a Parigi: da Hélène Berr a
Mariette Job
Il mio primo incontro con il Journal di Hélène
Berr (tenuto dal 1942 al 1944 a Parigi, durante
Flamm M. (2005), A qualitative perspective on travel
time experience, Paper per la “5th Swiss Transport
Research Conference”, Monte Verità, Ascona. Sheller
M., Urry J. (2000), The City and the Car, International
Journal of Urban and Regional Research, 24 (4), pp.
737–757. Stradling S.G., Carreno M., Rye T., Noble A.
(2007), Passenger perceptions and the ideal urban bus
journey experience, Transport Policy, 14, pp.283-292.
1
l’occupazione nazista), è avvenuto nel 2010 a
Parigi, in occasione di una visita al Museo e
Memoriale della Shoah, nel quartiere del
Marais dove vivevano negli anni Quaranta
molte migliaia di francesi di origine ebrea che
sono stati sterminati nei campi di
concentramento. Un alto e lungo muro con
tutti i loro nomi in ordine alfabetico li
ricorda; tra essi figura quello di Hélène e dei
suoi genitori, morti rispettivamente a BergenBelsen e ad Auschwitz. Sono stato subito
colpito dal contenuto e dalle vicende di
questo Diario, che ha visto la luce in Francia
nel 2008 ed è stato tradotto subito dopo in
quasi trenta paesi (in Italia nel 2009 da
Frassinelli), diventando un caso mondiale per
il quale si è parlato di una “Anna Frank”
francese, anche se il paragone più
appropriato è quello con Etti Hillesum, di
sette anni più anziana di Hélène, la quale nel
1942, quando entrarono in vigore le leggi
razziali, aveva ventun anni ed era una
brillante studentessa universitaria della
Sorbona. In un altro articolo di questo
Newsmagazine si dà conto di un Convegno
(Università Cattolica, Milano, 16 maggio
2013) nel quale ho presentato una relazione
su “Narrare e resistere a Parigi: Il Diario di
Hélène Berr”. Qui vorrei dire di un incontro
emozionante avuto a Parigi nel maggio
scorso con Mariette Job, la nipote di Hélène
che ha sentito una decina di anni fa la
vocazione di recuperare questo documento
per offrirlo alla memoria collettiva e vi è
riuscita dopo molti sforzi, come testimonia la
sua Postfazione al Diario. Mariette è stata la
passeuse di un Diario di cui le avevano parlato
in famiglia da quando era bambina ma il cui
originale era stato consegnato nel 1945 al
destinatario, Jean Morawiecki, il fidanzato di
Hélène al quale era stato dedicato e che per
tutta la vita ne aveva mantenuto il segreto e
la memoria personale, con un dolore
inconsolabile. Jean infatti, come mi ha
raccontato Mariette, era una persona
coraggiosa e romantica, una sorta di cavaliere
dei tempi moderni: egli si sentiva in colpa per
aver lasciato Hélène, sei mesi dopo l’inizio
del loro meraviglioso rapporto d’amore (che
richiama quello archetipico delle grandi
coppie della storia e della letteratura) per
raggiungere attraverso la Spagna le forze
11
francesi del generale De Gaulle in Algeria.
Fatto prigioniero in un primo tempo a
Pamplona, Jean non riuscì più a rivedere a
Hélène, nel frattempo (1944) deportata ad
Auschwitz con i genitori e poi a Bergen
Belsen, dove – in modi che richiamano quelli
della Hillesum – essa confortava e sosteneva
con il suo coraggio e la sua serenità le
compagne di sventura e dove morì pochi
giorni prima della liberazione.
Ragioni di spazio non mi consentono di
dilungarmi sul Diario, che rappresenta un
documento unico per la sua qualità e per il
fatto di riuscire a tenere insieme
contemporaneamente
il
piano
della
testimonianza
storica
dal
basso,
dell’attenzione socio-antropologica alla vita
quotidiana a Parigi e della sensibilità poeticoletteraria, che era la grande vocazione di
Hélène. Essa prediligeva i poeti inglesi
Shelley e Keats e il teatro di Shakespeare:
Patrick Modiano, uno dei più noti romanzieri
francesi che ha introdotto il Journal, non esita
ad affermare che Hélène sarebbe molto
probabilmente diventata una scrittrice di
valore. Qui preme osservare che la
pubblicazione di questo Diario, non
diversamente da quelli di Anna Frank e Etti
Hillesum e dagli scritti di Primo Levi,
rappresenta un arricchimento umano per il
mondo, per la memoria collettiva che
beneficia ora di una vicenda “privata” degna
di essere conosciuta da tutti. Grazie
all’incontro felice e non casuale tra due
persone, Jean Morawiecki (mancato nel 2008,
appena dopo l’uscita del Journal) e Mariette
Job, che ho avuto la fortuna di conoscere
personalmente, ha potuto realizzarsi una
sorta di miracolo: far venire alla luce un
documento di valore eccezionale che era
rimasto sepolto, quasi come un reperto
archeologico, da oltre sessant’anni.
Giovanni Gasparini, Università Cattolica –
Milano, [email protected]
Æ Luoghi interstiziali: i contamination
lab
Flessibile, agile, imprenditivo: le narrazioni
del lavoro che cambia finora hanno ruotato
intorno ad aggettivi riferiti al lavoratore, a cui
venivano richieste conoscenze, capacità e
competenze nuove per adattarsi a un mondo
del lavoro sempre più competitivo. Qualcosa
negli
ultimi
tempi
sta
cambiando:
l’attenzione si sta spostando dal possesso
all’accesso
alle
competenze,
dalle
caratteristiche personali a quelle relazionali.
Il capitale umano acquista valore grazie al
capitale sociale, alla rete di relazioni che
consente la circolazione delle informazioni e
delle conoscenze. Il fuoco dell’attenzione non
è più il singolo lavoratore o il gruppo di
lavoro, ma la rete in cui è inserito. L’azione
individuale e quella collettiva lasciano il
posto all’azione connettiva. Il binomio
lavoratore dipendente/autonomo è superato
dalla necessità, per tutti, di essere lavoratori
“interdipendenti”. A supportare questa
trasformazione ci sono le nuove tecnologie di
relazione: blog, comunità digitali, siti di
social network che facilitano la costruzione e
il mantenimento di legami professionali
“scelti”. Un nuovo modo di lavorare che,
oltre agli spazi digitali, inizia a permeare
anche quelli fisici. Si spiega in questo modo
l’emergere di spazi di coworking, di fablab,
maker space, ma anche la diffusione di
incubatori e acceleratori di impresa. La parola
chiave è “contaminazione”. L’idea guida è la
rottura delle logiche di omofilia che hanno
guidato finora l’organizzazione del lavoro.
L’innovazione sociale, concetto attorno a cui
ruota la nuova strategia UE per la crescita,
non nasce in gruppi di lavoro (reparti,
divisioni ecc.) omogenei al loro interno, ma
dall’incontro tra persone, competenze ed
esperienze diverse. In Italia, il Decreto
Sviluppo 2.0 ha introdotto i “contamination
lab”: luoghi interstiziali promossi dalle
università per far collaborare studenti di
facoltà diverse tra loro e con le aziende per
realizzare progetti che abbiano un impatto
sul territorio e sulla comunità locale. La
sperimentazione verrà avviata in quattro
Regioni del Sud, grazie a un bando del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e
della Ricerca in scadenza proprio in questi
giorni (28 giugno). Un progetto da
monitorare anche per riflettere sul modello
educativo dell’università, spesso basato sulle
stesse logiche di omogeneità e chiusura che il
mondo del lavoro sta mettendo in
discussione.
12
Ivana Pais, Università Cattolica – Milano,
[email protected]
¾ P. Boitani, Il grande racconto delle
¾
Pubblicazioni recenti
¾ Fondazione Ambrosianeum, a cura di
R. Lodigiani, Rapporto sulla città.
Milano 2013. Trentenni in cerca
d’autore. Attori dietro le quinte o
nuova classe dirigente, FrancoAngeli,
Milano, 2013.
¾ H. Berr, Journal, Editions Tallandier,
Paris, 2008.
¾ M. Bertaud, François Cheng. Un
cheminement vers la vie ouverte,
Hermann, Paris, 2011.
¾
¾
¾
¾
stelle, Il Mulino, Bologna, 2012.
V. Cicchelli, L’autonomie des jeunes.
Questions politiques et sociologiques
sur les mondes étudiants, La
documentation Française, Paris, 2013.
G. Gasparini, Soffio fuoco lingua,
Cittadella editrice, Perugia, 2013.
Glaeser, Il trionfo della città,
Bompiani, Milano, 2013.
Stéphane Hessel, Non arrendetevi!,
Passigli editori, Firenze, 2013.
E. Morin, I miei filosofi, Erickson,
Trento, 2013.
13
I nostri recapiti:
Giovanni Gasparini
(Il coordinatore)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
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Cristina Pasqualini
(La segreteria)
Dipartimento di Sociologia
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(Viaggio); Serena Vitale (Letteratura russa).
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Numero chiuso il: 28.06.2013
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