NewsMagazine n. 28 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro
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NewsMagazine n. 28 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro
neXus Gruppo Interstizi&Intersezioni Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano N Neew wssM MA AG GA AZ ZIIN NEE IInntteerrssttiizzii & & IInntteerrsseezziioonnii nn.. 2288,, PPrriim maavveerraa--EEssttaattee 22001133 Chiedo la forza del tirarsi indietro la forza d’ogni rinunciante, la forza d’ogni digiunante e vegliante la forza somma del non fare del non dire del non avere del non sapere. La forza del non, è quella che chiedo. Non non non: che parola splendida questo non (Mariangela Gualtieri) Editoriale - Piccoli paesi e grandi paesi Scrivo questa nota al ritorno da un viaggio in Georgia nel Caucaso, piccolo paese di 5 milioni di abitanti che resiste da millenni con la sua identità inconfondibile al contatto e all’urto con grandi imperi e grandi paesi che lo hanno circondato e al cui cuore ancora si trova. La Georgia, che si affaccia sul Mar Nero tra Turchia e Russia (ex-Urss, di cui fino al 1991 fece parte subendo un giogo molto duro), confina poi con l’Armenia – che presenta con la propria cultura aspetti analoghi per certi versi a quella georgiana – e con l’Azerbaigian, paese-chiave per gli oleodotti che alimentano l’Europa. Paese accogliente da sempre, la Georgia vive da anni un rapporto molto teso con la Russia, con cui sono tuttora interrotte le relazioni diplomatiche e che fino allo scorso anno aveva attuato l’embargo nei suoi confronti. Nel 2008 i carri armati russi sono arrivati a poche decine di chilometri dalla capitale Tbilisi, a Gori, la città che ospita un museo per il suo più illustre e sinistro concittadino, Stalin, e dove credo sarebbe augurabile che sorgesse invece un memoriale per le innumerevoli vittime del medesimo. Cinque anni fa la gente di Tblisi paventava di fare la fine di Grozny in Cecenia, appena al di là del Grande Caucaso, a motivo del conflitto per la provincia autonoma dell’Ossetia del Sud. Non è certo possibile in poche righe parlare adeguatamente di geopolitica. Mi limito ad accennare al problema del rapporto tra ciò che appare grande e piccolo, meglio tra ciò che è costruito socialmente e storicamente come - rispettivamente - grande e piccolo. Di fronte alla spregiudicatezza delle manovre di potere legate agli interessi politici nonché economici – mi riferisco in particolare alla presenza nella regione dell’Urss e ora della Russia –, che cosa può contare un piccolo paese prevalentemente montuoso e senza risorse che non siano quelle agricole (e forse quelle turistiche, in un prossimo futuro), un paese in preda alla crisi economica che cerca appoggi ma senza volersi vincolare politicamente? Eppure, la Georgia ha mantenuto un senso di identità stupefacente: basti pensare che oltre alla lingua, che non è indoeuropea e ha vaghe rassomiglianze soltanto con il basco (!), essa usa un alfabeto suo proprio, diverso da ogni altro esistente; e che la chiesa ortodossa georgiana – alla quale aderisce la stragrande maggioranza dei cittadini - è autocefala, pur avendo subito nei secoli influenze moscovite. In conclusione: di fronte ai facili determinismi storici, che tendono a spiegare tutto sulla misura della forza dei grandi imperi di ieri e di oggi, credo sia opportuno lasciare spazio e speranza a ciò che anche i piccoli paesi possono costruire, imprevedibilmente, con le loro risorse latenti di creatività e di buona volontà, specialmente se esse poggiano su valori antichi e profondi. Giovanni Gasparini SOMMARIO Forum su “Silenzio e Rumore”, a cura di Nicoletta Polla Mattiot 1. Incontri - Fabio Gino Seregni, Se questo è un uomo. Narrare la resistenza al disumano 2. Libri & Scritti - - Alida Airaghi, Il villaggio di cartone, di Ermanno Olmi Cristina Pasqualini, Rapporto sulla città di Milano 2013. Trentenni in cerca d’autore Francesca Rigotti, Nuova filosofia delle piccole cose 3. Arte & Comunicazione - Piermarco Aroldi, La nuova Tv dei Ragazzi: quando l’abbondanza non vuol sempre dire qualità Lucia Gasparini, L’Unesco e il patrimonio culturale immateriale Stefano Albarello, Napoli milionaria 4. Vita quotidiana - - Matteo Colleoni, Il tempo della mobilità quotidiana Giovanni Gasparini, Un incontro a Parigi: da Hélène Berr a Mariette Job Ivana Pais, Luoghi interstiziali: i contamination lab Pubblicazioni recenti 2 Forum su “Silenzio e Rumore”, a cura di Nicoletta Polla Mattiot Il rumore è una forma di inquinamento ambientale particolarmente invasiva. Due terzi della popolazione ne avvertono il fastidio e i disturbi (perdita di concentrazione, difficoltà di comunicazione, alterazioni del sonno). L'eccesso di rumore influisce negativamente sul benessere psicofisico e sulle attività quotidiane. Per sensibilizzare la città di Milano su questo problema, Accademia del silenzio, in collaborazione con l'Assessorato al Benessere e alla Qualità della vita del Comune, ha organizzato la prima Giornata contro il Rumore. In diversi punti della città si sono svolte passeggiate, dibattiti, reading, concerti di musica non amplificata, per dimostrare che è possibile avere accesso al silenzio anche in una grande città: per leggere, per scrivere, per ascoltare, per condividere esperienze a basso volume, sottovoce, lentamente, poiché riscoprire il silenzio significa anche sperimentare un ritmo diverso del vivere, prendersi una pausa dall'assedio sonoro, rallentare e allentare la morsa della frenesia quotidiana. L'iniziativa ha visto protagonisti poeti, filosofi, sociologi, musicisti, scrittori, con alcuni interessanti contributi sul significato e l'utilità del silenzio nelle diverse discipline e proseguirà nelle attività di Accademia del Silenzio (i seminari estivi presso la Libera Università di Anghiari, www.lua.it/accademiasilenzio) e nella pubblicazione, in collaborazione con la casa editrice Mimesis, della collana dei Taccuini del Silenzio, piccoli libri da tasca che approfondiscono il tema da molteplici angoli visuali e disciplinari. Il silenzio può essere infatti affrontato da diversi punti di vista. C'è per esempio quello dello scrittore, Tim Parks che, in una sua recente lezione al South Bank centre di Londra, si chiede: “Parlare di silenzio significa semplicemente parlare di assenza di suono? Forse il massimo che potremmo aspettarci è una drastica diminuzione del rumore, non la sua assenza assoluta. Anni fa, scrissi un romanzo, Cleaver, dove immaginavo un uomo alla ricerca del silenzio. Quest'uomo va in alta montagna, sulle Alpi: a certe altitudini non ci sono più alberi né vegetazione e si pensa di riuscire a vivere al di sopra del rumore. Un posto così alto, con l'aria così rarefatta, crede il protagonista, sarà completamente silenzioso. Né disturbi esterni né connessione per il suo cellulare. Ma anche a 2500 metri, scopre che il vento mormora fra le rocce e il sangue pulsa nelle orecchie. Non solo, quanto più si isola e diminuiscono le interferenze dalla famiglia, dai colleghi, dai giornali, dalla tv, tanto più i suoi pensieri fanno rumore, gli martellano in testa. Non foss'altro che per rimpiangere di non aver trovato il silenzio perfetto. Non foss'altro che per capire che, se anche l'avesse trovato, avrebbe comunque dovuto fare i conti con il rincorrersi dei suoi pensieri. In un certo senso, quanto più diminuiscono gli stimoli esterni, quanto meno rumore c'è fuori, tanto più rumore c'è dentro. Quindi, quando pensiamo al silenzio, e specialmente quando ne parliamo, - o perché aneliamo a trovarlo o perché ne abbiamo paura oppure in entrambi i casi (spesso desideriamo proprio quello che temiamo, non c'è niente di più comune) – quando noi pensiamo a un'idea di silenzio, siamo inevitabilmente costretti a riconoscere che, in realtà, si tratta di uno stato mentale. Una questione di consapevolezza. La più intensa esperienza di silenzio che io ho imparato a raggiungere è tramite la meditazione, chiamata Vipassana (ne ho parlato in un altro mio libro, Teach Us to Sit Still). E' una forma di disciplina che va al cuore di questo conflitto fra desiderare e temere il silenzio. Quando si entra in un centro di meditazione Vipassana si accetta di non parlare per tutta la durata del ritiro. Si vive in silenzio, si mangia in silenzio e soprattutto si sta seduti, per molte ore al giorno, almeno dieci, in silenzio. La meditazione Vipassana non blocca la mente con un mantra. Invita, lentamente e pazientemente, a sostituire la nostra normale coscienza basata sul linguaggio e sul confronto verbale con una consapevolezza del respiro e delle sensazioni... Il silenzio non è negazione e 3 perdita di sé, dell'esistenza”. ma una pienezza Per l'esperto di fenomeni religiosi contemporanei, Giampiero Comolli, il silenzio è una “pratica di rigenerazione sociale. Tutte le fedi viventi valorizzano la dimensione del silenzio, insegnano come fare silenzio, ciascuna secondo il proprio percorso spirituale. Ma se tutte le vie di fede, per quanto diverse l’una dall’altra, sono accomunate da un’identica valorizzazione del silenzio, allora il silenzio si rivela il linguaggio comune, la pratica condivisibile da parte di tutte le confessioni di fede. E c’è di più: tacere insieme non vuol dire semplicemente stare zitti insieme, ma dar vita a una comunicazione preverbale, un linguaggio fatto di sottili sensazioni reciproche e condivise: percepire cioè fisicamente la presenza, il calore dell’altro accanto a me; comunicargli tacitamente il suo essermi vicino, accogliere il suo muto messaggio di vicinanza a me. Entriamo qui in una dimensione addirittura pre-natale di comunicazione, tale per cui, come nel ventre materno, ci si scambiano informazioni, si riceve nutrimento e vita, senza appunto parlare. Ma per poter ovviamente parlare in seguito, una volta nati, e quindi aperti a ogni discorso possibile. Se si torna a una condizione pre-linguistica di vicinanza condivisa, si ritorna agli inizi dell’esistenza, quando tutto è ancora possibile perché nulla è ancora successo. Ecco dunque la dimensione rigenerativa del silenzio primordiale”. Per il filosofo, il silenzio è anche “un'occasione civile e culturale per ripensare le nostre città”. Spiega Duccio Demetrio, fondatore con Nicoletta Polla-Mattiot, di Accademia del silenzio: “Siamo costretti a convivere con aggressioni persistenti e subliminali all'udito spesso oltre i limiti della sopportabilità. Siamo noi del resto la causa prima di ciò che ci impedisce di vivere momenti di concentrazione mentale, tranquillità, sintonia con gli altri, con l'ambiente e innanzitutto con noi stessi. Ormai sembriamo accettare senza troppi problemi i rumori, improvvisi e di sottofondo, siamo noi che andiamo a cercarli, nei loro effetti narcotizzanti. Occorre invece che si diffonda una cultura del silenzio volta a diventare una proposta collettiva, inerente la difesa di un bene comune tra i più preziosi. Le oasi, gli itinerari, gli spazi di silenzio vanno trovati e inventati qui, nelle nostre città. Chi impara ad amare il silenzio in città, lo apprezza e cerca anche altrove. Non vi è qualità della vita soddisfacente quando, non il rumore in sé, ma la sua preponderanza ci impedisca di essere, agire, pensare. E' necessario che si riscopra il valore e il senso del silenzio perché le persone hanno un bisogno vitale di questa esperienza esistenziale. Più spesso e con più continuità. Dal momento che la loro, la nostra, vita quotidiana non può farne a meno: nelle relazioni interpersonali, nello svolgimento dei propri compiti civili, nell'assunzione di responsabilità che, già impostate secondo la cultura del silenzio, contribuirebbero alla sua diffusione”. Non diversa la posizione del sociologo, Gianni Gasparini, espressa nel recente C'è silenzio e silenzio (Mimesis editore): “Per chi vive nei contesti urbani si pone un problema concreto: dove cercare e sperimentare tempispazi, o almeno momenti prolungati di silenzio? Qui, ad un comportamento reattivo che consiste nel combattere e segnalare, per una loro repressione, le manifestazioni rumorose più invadenti e inquinanti, è opportuno unire modalità di comportamento “attivo”, volte alla ricerca e alla promozione esplicita di ambiti silenziosi nelle aree urbane. Il cercatore di silenzio dovrà dunque destreggiarsi opportunamente tra elementi naturali e culturali: utilizzare gli spazi verdi (parchi, giardini), ma anche fare ricorso a quegli spazi chiusi che sono ancora portatori di silenzi, o attraverso l'isolamento acustico e le norme che chiedono l'astensione dalla comunicazione verbale (biblioteche, musei, luoghi di culto, chiese e cappelle fuori dalle ore di celebrazione). In certe ore del giorno, soprattutto della sera e della notte, chi cerca silenzio potrà trovare soddisfazione nel percorrere a piedi certe aree del tessuto cittadino come le isole pedonali e gli spazi del centro esclusi al traffico veicolare, grande 4 imputato del rumore e dell'inquinamento sonoro di cui si soffre oggi”. Nicoletta Polla Mattiot, giornalista e saggista, [email protected] 1. Incontri Æ Convegno Se questo è un uomo. Narrare la resistenza al disumano Il 15 e il 16 maggio 2013, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si è tenuto il Convegno conclusivo del Ciclo seminariale “Giustizia e Letteratura”, organizzato dal centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale, ormai giunto alla sua quarta edizione. Idea ispiratrice dell’incontro: la narrazione come forma di resistenza al disumano, partendo dalle testimonianze delle vittime della Shoah. Il Convegno è stato preceduto da una serata introduttiva nella quale è stata presentata la figura di Primo Levi. Sono intervenuti il giornalista Giovanni Santambrogio, Alessandro Antonietti, Ordinario di psicologia generale, il semiotico dei media Ruggero Eugeni e le giuriste Claudia Mazzucato e Arianna Visconti. Nella serata agli interventi dei relatori si sono alternate la lettura di poesie di Primo Levi e la proiezione di brani cinematografici e documentaristici. Tra gli altri: interviste allo stesso Autore, il documentario del processo al gerarca nazista, Adolf Eichmann, Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno e, infine, un interessante montaggio di film sulla Shoah, realizzato da Adriano D’Aloia, avente come filo conduttore il treno e dal titolo evocativo: “Solo andata. E ritorno”. I lavori della giornata del 16 maggio sono stati aperti dai saluti introduttivi di Fabio Levi, direttore del Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino, il quale ha espresso il suo plauso per l’iniziativa, ricordando, tra l’altro, come la relazione tra “Giustizia e Letteratura” sia la chiave per creare nuovi approcci interpretativi. A seguire l’intervento di Gabrio Forti, direttore del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia Penale e la Politica Criminale, il quale ha ribadito l’importanza della parola per sviluppare una riflessione critica sul nazismo e prestare la “dovuta attenzione” alla sofferenza dei perseguitati. Alberto Cavaglion ha analizzato lo stile linguistico di Levi, sottolineando la ricerca da parte dell’autore di una prosa attenta alle diversità e alle sfumature del reale. Prospettiva confermata nell’analisi di “Se questo è un uomo”, fornita da Mario Barenghi, secondo cui l’opera di Levi assume la forma della testimonianza, affidando al lettore il compito di giudicare e ricordare. Altro intervento è stato quello di Cesare Segre, che ha approfondito l’opera poetica dello scrittore torinese e le sue caratteristiche. La mattinata si è conclusa con le relazioni di due giuristi: quella di Pasquale De Sena, che ha sviluppato, con particolare riferimento alla giurisprudenza tedesca, il controverso problema dell’inadeguatezza degli strumenti del diritto penale di fronte ai crimini contro l’umanità, e quella di Remo Danovi che ha ricordato l’adesione dei giuristi italiani al regime fascista e alla sua ideologia. La sessione pomeridiana, presieduta da Luciano Eusebi, ha avuto a oggetto le narrazioni al femminile. Roberto Cazzola ha analizzato i “Diari” di Etty Hillesum e la figura della scrittrice olandese, mentre Giovanni Gasparini si è soffermato su Hélène Berr, giovane ebrea francese uccisa dai nazisti. Arturo Cattaneo e Antonio Oleari, hanno posto l’attenzione sullo stereotipo del “bravo soldato italiano”, ricostruendo la vicenda processuale di Renzo Renzi e Guido Aristarco, rispettivamente autore ed editore del soggetto sulla c.d. “armata sagapò”, i cui abusi sono rimasti sottaciuti per molti anni. Infine, la giurista Paola Gaeta si è soffermata sulla genesi e l’evoluzione degli strumenti normativi internazionali a tutela dei diritti umani, intesi come principale forma attuale di risposta giuridica al disumano. Fabio Gino Seregni, dottore in Giurisprudenza, [email protected] 2. Libri & Scritti Æ Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, Archinto Ed., Milano 2012. “O noi cambiamo il corso impresso alla Storia o sarà la Storia a cambiare noi”: è 5 l'epigrafe conclusiva e assertoria con cui il regista Ermanno Olmi chiude la sceneggiatura del suo film presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2012. Film cristiano come pochi di un regista che ha sempre fatto della sua fede nel messaggio evangelico e della sua attenzione verso gli ultimi, i perdenti, gli sconfitti dal potere, il credo cui affidare la sua arte e la sua missione di uomo. Una chiesa periferica e vuota (di fedeli, di spirito e di amore) viene minacciata dalle ruspe della civiltà capitalistica interessata solo al profitto e all'interesse economico: ed ancora più pericolosamente è messa in pericolo dall'indifferenza, dal relativismo, dal dogmatismo di una comunità cattolica che non sa rinnovarsi nella direzione della speranza e della carità. Il vecchio parroco che ne è alla guida si scopre solo e dubbioso, messo in crisi dalle parole del suo medico ateo, dall'ambiguità codarda del suo sagrestano, e soprattutto da un'invasione notturna, pacifica e disperata, di un gruppo di clandestini affamati in cerca di riparo e conforto. I vari personaggi rivestono i panni dei protagonisti del Vangelo: c'è il neonato innocente e salvatore, ci sono Giuda e Pilato (con le guardie-sgherri di un potere ottuso e violento), ci sono i puri di cuore che perseguono il bene, e i corrotti pronti a vendersi e a tradire. Nella sua sapiente prefazione Vito Mancuso, partendo dall'amara constatazione della crisi in cui versa il cattolicesimo europeo, invoca una trasformazione della Chiesa e della religione, che per sopravvivere dovrebbero riconvertirsi, passare “da un fondamento statico a un fondamento dinamico”, dall'ortodossia all'ortoprassi: scegliendo “l'esserci-per-altri”, la giustizia, la persona, la spiritualità, Dio “non più come risposta, ma piuttosto come domanda”. Alida Airaghi, scrittrice, [email protected] ÆRapporto sulla città di Milano 2013. Trentenni in cerca d’autore Tra gli strumenti utili e importanti che sono stati messi a punto recentemente per leggere la complessità della condizione giovanile italiana, e nello specifico milanese, vorrei richiamare l’attenzione sul Rapporto sulla città di Milano 2013, curato da Rosangela Lodigiani, per la Fondazione Ambrosianeum. Un rapporto di ricerca incentrato quest’anno sulla generazione dei trentenni, che, come è noto, è stata più volte citata in questi anni non tanto per le sue qualità, bensì per le sue criticità, per i suoi punti di “debolezza”. I trentenni italiani fanno parte della Generazione X, sono i Bamboccioni, o se preferiamo la Generazione perduta. Etichette che descrivono questa generazione come una generazione in difetto piuttosto che come una generazione in debito. Per quanto mi riguarda, ritengo, aldilà degli slogan più o meno ad effetto, che i trentenni italiani siano la prima generazione in Italia, almeno dal Secondo dopoguerra, ad aver dovuto fare i conti sulla propria pelle non soltanto con importanti ed epocali trasformazioni culturali e sociali (pensiamo alle nuove tecnologie della comunicazione), ma anche con la crisi finanziaria ed economica, che ha ridotto sensibilmente la loro capacità di diventare pienamente adulti, ovvero di aspirare all’autonomia. I trentenni sono la prima generazione ad aver provveduto più che abbondantemente alla propria formazione (lauree, stage, master, dottorati, ecc.) per trovarsi intrappolati in lavori sottopagati, precari, spesso non pienamente attinenti ai titoli di studio conseguiti e alle proprie aspettative. Sono giovani, se così possiamo ancora definire coloro che hanno un’età compresa tra i 30-39 anni, che hanno imparato a farsi piacere un lavoro, che lottano quotidianamente per la propria autonomia (economica e abitativa), che progettano nel breve periodo. Questi giovani sono un pilastro portante per il nostro Paese, poiché offrono un importante contributo sia da un punto di vista economico che demografico, non rinunciando appunto a fare famiglia. Se devo pensare a un difetto di questa generazione, forse direi che sono stati troppo diligenti, hanno atteso di trovare il loro spazio nella società con troppa fiducia e per troppo tempo, senza rendersi conto che stavano diventando una generazione bloccata. Questa generazione, che è stata descritta spesso lontana e poco attaccata alle istituzioni (soprattutto politiche), contiene invece all’interno tutte le potenzialità per 6 diventare protagonista a pieno titolo del nostro tempo, la nuova classe dirigente. A Milano, i trentenni sono una generazione composita ed eterogenea. La metropoli evidenzia alcune difficoltà (avere figli e soprattutto gestirli se non si hanno reti abbastanza solide; aspirare ad avere una casa di proprietà è un vero è proprio lusso; trovare dei luoghi “sani” per coltivare la socialità) ma offre tuttavia ancora interessanti occasioni lavorative e di crescita culturale. C’è da dire però che anche Milano non è più la città di un tempo. Lo capiamo ad esempio se guardiamo i dati di quanti trentenni decidono di andarsene una volta terminati gli studi. Un tempo si andava a Milano per restarci, adesso a Milano si transita, Milano la si attraversa, Milano è un trampolino verso il mondo, un mondo che è sempre più dietro l’angolo. Cristina Pasqualini, Università Cattolica, Milano, [email protected] Æ Francesca Rigotti, Nuova filosofia delle piccole cose, Torino, Interlinea, 2013. «Toc toc...» Quando l'editore Roberto Cicala bussò alla mia cassetta di posta elettronica per propormi una nuova edizione di quel La filosofia delle piccole cose che era uscito presso la sua casa editrice Interlinea di Novara nel 2004, risposi con entusiasmo di sì. Sapevo infatti di avere parecchio materiale inedito sulle cose, piccole, in filosofia, col quale si sarebbero potuti costruire nuovi capitoli, già che la proposta era di farne un'edizione arricchita e aggiornata. I capitoli sono passati dunque da tre a cinque, preceduti da un prologo; tre sono di natura «teorica» e due di natura «empirica», nel senso che tre capitoli si occupano del senso delle cose in genere per la filosofia, mentre due esaminano alcune cose specifiche: tra le nuove cose, dal capitolo Le piccole cose crescono: la mela; lo scolapasta; tasti e tastiere; immondizia, cosmetici e scorie; il letto e l'armadio; la vestaglia, la scintilla, lo smartphone. Una bella accozzaglia, mi dico io per prima, e lo faccio in quanto il direttore della Newsletter Iterstizi e intersezioni, Gi[ov]anni Gasparini, mi ha chiesto di scrivere io stessa, per la rivistina, un'«autopresentazione». L'heautontimoroùmenos. Ora, quando uno si scrive un'autorecensione tende a fare, se proprio non ha un io-mongolfiera che non tollera critiche, il «punitore di sé stesso», l'heautontimoroùmenos, dal titolo della famosa commedia di Terenzio (ispirata a un'opera perduta di Menandro). In questo frangente l'autore si flagella esponendo pecche e omissioni che nemmeno il più severo recensore gli attribuirebbe. Beh, non sarà il mio caso, dal momento che ho deciso che più che fare ammenda, avanzerò delle precisazioni. Per esempio sul senso dell'operazione nostalgica che potrebbe apparire il parlare di cose; io, preciso, non ho voluto parlare di «cose perdute»: quello l'ha fatto Francesco Guccini con le sue cose anni '50 cui guarda con «affettuosa rimembranza» nel suo Dizionario delle cose perdute, libro intelligente e di gradevole lettura (ma Guccini è Guccini). I media che stanno in mezzo. Con la rivoluzione informatica e dai nuovi media che si mettono in mezzo tra noi e le cose, l'universo è diventato uno schermo e un network che si è frapposto tra noi e la realtà (=insieme delle res): come conseguenza le cose non sono più primarie e stanno perdendo importanza nella nostra vita. Ciò che ci interessa e ci sta a cuore oggi è l'immagine dello scolapasta: forse è il caso di prenderne in mano uno vero, di metallo, da toccare e vezzeggiare. Guardiamo egualmente alle cose che ci circondano, è il mio invito, prendiamo in mano la mela o il ferro da stiro, ma anche lo smartphone, e però tocchiamoli, guardiamoli con attenzione e intensità, annusiamoli, mettiamoli in bocca (con precauzione). Facciamone, per quanto possibile, un po' di filosofia. Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano, [email protected] 3. Arte & Comunicazione Æ La nuova Tv dei Ragazzi: quando l’abbondanza non vuol sempre dire qualità Lo scorso 8 maggio è stata presentata presso l’Università Cattolica una ricerca condotta da OssCom, Centro di ricerca sui Media e la Comunicazione, per conto della Fondazione 7 per la Sussidiarietà e del suo osservatorio denominato Focus in Media sul tema dell’offerta di televisione per bambini e preadolescenti. Si tratta di un segmento del mercato televisivo che, in Italia, è stato caratterizzata da una recente proliferazione di canali e di operatori. Dopo un lungo periodo in cui le grandi emittenti generaliste pubbliche e private hanno annullato o ridotto la loro programmazione per i più piccoli a favore dei canali tematici dedicati, l’offerta di questo genere televisivo è oggi abbondante (dal punto di vista del numero di canali), accessibile (dal punto di vista delle piattaforme e dei costi), differenziata (dal punto di vista dei player), segmentata (dal punto di vista dei target). Nel quadro europeo, l’Italia si contraddistingue per un grande numero di canali dedicati disponibili (22, senza contare i canali+1) con una forte presenza della Rai (due canali, Rai YoYo e Rai Gulp) pari in questo in Europa solo alla BBC. Sul Digitale Terrestre operano i principali player nazionali (RAI, Mediaset, Switchover Media - ora acquisito dal gruppo Discovery - e, in parte, DeAgostini) che garantiscono un ampio accesso a carattere gratuito. Sul satellite operano invece i principali player transnazionali (oltre a DeAgostini e Switchover, presenti su entrambe le piattaforme), che garantiscono l’accesso alla programmazione dei grandi produttori statunitensi (Disney, Nickelodeon, Turner). Da notare, infine, la presenza di due canali satellitari in lingua araba. La segmentazione del target vede la prima fascia di età dagli 0 ai 3 anni presidiata solo dall’offerta satellitare pay di un unico operatore; la fascia pre-school (fino ai 5 o 6 anni) è coperta attualmente da 7 canali, distribuiti (a vantaggio del satellite) su entrambe le principali piattaforme. Infine, la fascia school, articolata su circa 14 canali, si rivolge ai bambini in età scolare e ai preadolescenti (fino ai 14 anni). A fronte di un forte investimento progettuale sui target più bassi di età, che beneficiano di canali dedicati, l’offerta school appare meno specifica. Ne deriva un’organizzazione dell’offerta che, dovendo intercettare necessariamente più sotto-target, ricalca alcune caratteristiche dei canali generalisti, puntando esplicitamente su titoli e personaggi dai tratti di blockbuster transnazionali. Nonostante l’alto numero di canali non si riscontra, infatti, una altrettanto elevata disponibilità di investimenti o di contenuti editoriali. In questo contesto si assiste spesso a una forte ripetitività dei palinsesti, alla circolazione dei medesimi prodotti e properties trasversalmente ai diversi canali, al recupero di prodotti vintage quando non esplicitamente molto datati, alla ridotta capacità dei broadcaster di progettare linee editoriali differenziate ed originali per un numero così elevato di canali. Permane, infine, una sorta di divide tra chi accede alla programmazione per bambini attraverso il DTT e chi vi accede attraverso la piattaforma satellitare. Ne deriva una sorta di Tv per bambini “a due velocità” dove il differenziale non è più solo tecnologico, tra chi ha o non ha accesso alla tecnologia, ma più ampiamente economico-culturale. Il rapporto completo della ricerca è disponibile qui: http://centridiricerca.unicatt.it/osscom_1_ra pporto_televisione_e_infanzia_OssCom_Focu sInMedia.pdf Piermarco Aroldi, Direttore OssCom, Università Cattolica – Milano, [email protected] ÆL’Unesco e il patrimonio culturale immateriale È solo da un decennio che si è cominciato a parlare ufficialmente e diffusamente di patrimonio culturale immateriale, in particolare dall’ottobre del 2003, quando viene adottata la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale in sede UNESCO. Il più importante documento in tema di tutela del patrimonio culturale precedentemente stilato è stato la Convenzione per la protezione del patrimonio culturale e naturale del 1972, tuttora valido e dedito a proteggere elementi del patrimonio culturale che sono considerati possedere un valore eccezionale. In realtà, proprio l’opinabilità del parametro di eccezionalità è un elemento di debolezza intrinseco alla Convenzione stessa così come lo è ugualmente la visione eurocentrica che ne sostiene l’architettura, estranea alle concezioni e ai valori culturali di ampie zone 8 del pianeta, quali l’Africa, l’Asia, l’America Latina e la regione del Pacifico. L’apporto di nuove prospettive concettuali e pratiche sul patrimonio, in particolare provenienti dal Giappone e dai paesi del lontano oriente oltre che dalla cultura africana, ha condotto ad ampliare e ridefinire i parametri secolari attorno cui si è costruita l’idea di patrimonio culturale in occidente. Il cambiamento di fondo più evidente è lo slittamento da una concezione di patrimonio culturale di stampo umanistico ad una di matrice antropologica. Se la prima, focalizzata principalmente sui valori di eccellenza, monumentalità, unicità e autenticità è la categoria con cui si è cominciato a ragionare in particolar modo nel XIX e XX secolo in termini di conservazione e valorizzazione di un patrimonio culturale comune, la revisione della definizione di bene culturale è centrata non già esclusivamente sull’oggetto bensì si allarga fino a contemplare il processo culturale antropologico che si sviluppa attorno e a partire da esso. In questa prospettiva ovviamente gli elementi intangibili del patrimonio culturale assumono un ruolo fondamentale. L’apporto maggiore dell’antropologia alla definizione del patrimonio culturale è l’invito a scardinare numerose convinzioni di radice europea: tralasciare il filtro selettivo della eccezionalità in campo estetico per riconoscere il patrimonio innanzi tutto come espressione dell’identità di gruppi e comunità, ritrattare l’idea di autenticità spostando il focus dall’oggetto al processo che si genera e vive intorno all’oggetto, accettare l’idea di un patrimonio non tradizionalmente ancorato al passato ma legato al vivente, ripensare il processo conservativo in termini di salvaguardia e non di protezione. In particolare il termine salvaguardia offre un approccio ben più ampio rispetto a quello offerto dalla protezione, suggerendo che il patrimonio culturale immateriale non è solo protetto dalle minacce dirette ma vi è l’intenzione di attuare azioni positive che contribuiscono a fare in modo che esso possa continuare a sopravvivere. Differentemente da un sito, da un monumento o da un artefatto che ha una sua propria esistenza materiale al di là dell’individuo o della società che lo ha creato, il patrimonio culturale immateriale vive soltanto se messo in atto da chi lo pratica, e può avere un’esistenza futura solo se attivamente trasmesso. Uno degli aspetti più interessanti della Convenzione del 2003 è infatti il ruolo centrale che essa conferisce alle comunità culturali associate al patrimonio immateriale nell’ambito della tutela, sostenendo e incoraggiando un approccio di tipo partecipativo: si attua così uno slittamento dalla valorizzazione esclusiva degli artefatti alla considerazione della gente e del vissuto. Anche il museo, tradizionale custode dei beni artistici e culturali “materiali” in ambito occidentale, è chiamato ad adeguarsi a questo trend attuale, modificando alcune delle sue funzioni tradizionali per potersi proporre come luogo attivo di produzione e trasmissione culturale anziché quale deposito di oggetti muti. Lucia Gasparini, dottore di ricerca, Università Cattolica – Milano, [email protected] Æ Napoli Milionaria (testo di Eduardo De Filippo, musica di Nino Rota. Spoleto 1977 - Lucca 2013) E’ andata in scena nel febbraio 2013 quest’opera scritta da due grandi menti del teatro e della musica italiana. Al suo debutto nel 1977 al Festival di Spoleto (voluta fortemente da Giancarlo Menotti e Romolo Valli) fu uno dei rari eventi del teatro lirico trasmessi in mondovisione a quel tempo. Ma la critica tradizionalista levò gli scudi avversando il lavoro con paradossale accanimento. Eclatante, a mio avviso, l’aver voluto osteggiare il fatto che, il testo originale, ritenuto un capolavoro del teatro italiano, potesse essere modificato per favorire l’azione musicale (cosa per altro era già accaduta per la versione cinematografica del 1950). Allora sorge legittima una domanda: ma com’è possibile che l’autore dell’opera non possa decidere di apportare modifiche al suo testo? Dimenticavano che fu De Filippo in persona a volere e ad attuare queste modifiche per rendere la drammaturgia più fruibile per la musica e il teatro d’opera. Insomma il critico crede di rendere, con le sue parole, immortale l’opera 9 di un drammaturgo e può diventare paladino della medesima, avversando lo stesso creatore. Ma queste critiche evidentemente erano l’ultima spiaggia possibile per mettere in cattiva luce il lavoro eccezionale e sinergico di Rota e De Filippo che lavorarono con grande accanimento per realizzare l’opera. Essi pensarono ad un teatro totale fatto di parola e suono che si incontrano e si scontrano dando un senso nuovo anche al teatro musicale. La musica diventa quasi scenografica, la parola recitata interrompe la melodia per poi rientrare nella musica; diversi stili musicali si fondo e spesso le autocitazioni dell’autore compaiono quasi a creare una relazione familiare con l’ascoltatore. Eppure se si guarda la registrazione della trasmissione televisiva realizzata in occasione della prima a Spoleto (visibile su YouTube), i detrattori e i sostenitori si alternano tra un atto e l’altro senza dare corso al compimento dell’ultimo atto per un giudizio obiettivo. Segno evidente che le contestazioni di quegli anni non erano solo appannaggio degli studenti e degli operai ma anche della colta gerarchia culturale. Da quel ‘77 l’opera è caduta quasi nel dimenticatoio; la nuova edizione voluta dalla tenacia di Aldo Tarabella, compositore, regista e direttore artistico del Teatro del Giglio di Lucca, grande estimatore di Rota, ha ripreso vita nei teatri della Toscana e si spera nel 2014 possa girare in altre regioni. Ma strano a dirsi la stessa aria di diffidenza ha aleggiato su questa ripresa; i melomani Pucciniani e Mascagniani hanno reagito con diffidenza iniziale a questo lavoro teatrale quasi che Rota non fosse degno di risuonare nei teatri. Per fortuna alla fine quel neorealismo ancora è suonato attuale; magari chi si aspettava di sentire la famosa frase: “ha da passà a nuttata” è rimasto deluso perché nell’opera musicale non c’è, non serve. Il dramma di una madre che perde un figlio è più importante e Don Gennaro che dice: “Amalia la guerra non è finita non è finito niente”, ci riporta a quegli anni bui della nostra democrazia (mi riferisco al ‘77). La nuova revisione al copione teatrale attuata da De Filippo evidenzia il suo stato di totale pessimismo che porta i personaggi a subire fatalisticamente il degrado dei valori e il declino della dignità umana in un evidente squilibrio sociale. A rendere più reale e moderno il testo è la scelta di rendere reale il tradimento di Amalia con Enrico Settebellizze, dedicando a questo intrigo, causato dalla scomparsa di Don Gennaro, il secondo e terzo atto dell’opera; scompare la tragedia della bimba ammalata e del medicinale necessario alla guarigione. Mentre il tema del contrabbando e dell’illegalità aleggia in tutti e tre gli atti. E’ la drammaticità dei sentimenti che prevale, sebbene ci sia spazio per il sorriso, come sapeva fare De Filippo e qui grazie anche ai temi scherzosi della musica di Rota. Ma c’è la vena triste e poetica che tiene incollate agli occhi le lacrime degli ascoltatori durante gli applausi finali. Stefano Albarello 4. Vita quotidiana Æ Il tempo della mobilità quotidiana Il tempo della mobilità territoriale genera esperienze e sentimenti contrastanti. Quello delle migrazioni e della mobilità residenziale rinvia all’irreversibilità e alla straordinarietà dei cambiamenti che scandiscono gli avvenimenti importanti del corso della vita. Il tempo della mobilità quotidiana e del viaggio, viceversa, rimanda alla temporaneità e all’ordinarietà degli spostamenti che, giornalmente e in modo sempre più frequente, sono fatti sul territorio. Tuttavia, se il tempo del viaggio turistico è normalmente associato all’esperienza piacevole di muoversi sul territorio per vedere ambienti diversi da quelli usuali, quello della mobilità quotidiana rinvia alla monotonia e all’uniformità dei comportamenti ripetuti ed abitudinari. Le teorie economiche sulla disutilità del tempo della mobilità quotidiana rappresentano, in tal senso, la variante scientifica della più nota e diffusa consuetudine di considerare perso il tempo speso negli spostamenti giornalieri. Sono diverse le pratiche che, secondo alcuni autori, vengono adottate per impiegare e per ridare senso al tempo perso nella mobilità quotidiana. Nelle indagini realizzate da Flamm (2005) si indicano attività attese, come 10 lavorare e intrattenere relazioni sociali, ma anche pratiche più personali favorite dal movimento nello spazio-tempo degli interstizi delle attività, quali riposare e rilassarsi. Il fatto che lo spazio privato dell’automobile sia più adatto al loro svolgimento offre un’ulteriore spiegazione a quelle, già numerose, sul ricorso preferenziale a questo mezzo nelle scelte di mobilità. In “Rolling private in public space” (Sheller e Urry 2000), lo spazio domestico dell’automobile, oltre che un mezzo di trasporto, rappresenta il luogo in cui meglio esaudire il desiderio di riservatezza in società in cui si trascorre sempre più tempo viaggiando. Tuttavia il tempo crescente trascorso in automobile, in particolare da chi vive nelle aree sub e peri-urbane, ha richiamato l’attenzione sulle sue conseguenze negative in termini di isolamento e di impoverimento della quantità e qualità delle relazioni sociali. La possibilità di impiegare il tempo di viaggio osservando, ascoltando i discorsi e intrattenendo relazioni con i vicini ha cominciato ad essere considerato un beneficio dell’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblico (Stradling et al., 2007). Una recente ricerca condotta da chi scrive ha messo in evidenza che la propensione a condividere lo spazio con i vicini è una proprietà favorevolmente associata alla scelta di usare i mezzi di trasporto pubblico. Da conseguenza negativa della scelta di usare i mezzi pubblici, la prossimità ai compagni di viaggio è così diventata un’opportunità per restituire qualità al tempo della mobilità 1 . Matteo Colleoni - Università di Milano Bicocca, [email protected] Æ Un incontro a Parigi: da Hélène Berr a Mariette Job Il mio primo incontro con il Journal di Hélène Berr (tenuto dal 1942 al 1944 a Parigi, durante Flamm M. (2005), A qualitative perspective on travel time experience, Paper per la “5th Swiss Transport Research Conference”, Monte Verità, Ascona. Sheller M., Urry J. (2000), The City and the Car, International Journal of Urban and Regional Research, 24 (4), pp. 737–757. Stradling S.G., Carreno M., Rye T., Noble A. (2007), Passenger perceptions and the ideal urban bus journey experience, Transport Policy, 14, pp.283-292. 1 l’occupazione nazista), è avvenuto nel 2010 a Parigi, in occasione di una visita al Museo e Memoriale della Shoah, nel quartiere del Marais dove vivevano negli anni Quaranta molte migliaia di francesi di origine ebrea che sono stati sterminati nei campi di concentramento. Un alto e lungo muro con tutti i loro nomi in ordine alfabetico li ricorda; tra essi figura quello di Hélène e dei suoi genitori, morti rispettivamente a BergenBelsen e ad Auschwitz. Sono stato subito colpito dal contenuto e dalle vicende di questo Diario, che ha visto la luce in Francia nel 2008 ed è stato tradotto subito dopo in quasi trenta paesi (in Italia nel 2009 da Frassinelli), diventando un caso mondiale per il quale si è parlato di una “Anna Frank” francese, anche se il paragone più appropriato è quello con Etti Hillesum, di sette anni più anziana di Hélène, la quale nel 1942, quando entrarono in vigore le leggi razziali, aveva ventun anni ed era una brillante studentessa universitaria della Sorbona. In un altro articolo di questo Newsmagazine si dà conto di un Convegno (Università Cattolica, Milano, 16 maggio 2013) nel quale ho presentato una relazione su “Narrare e resistere a Parigi: Il Diario di Hélène Berr”. Qui vorrei dire di un incontro emozionante avuto a Parigi nel maggio scorso con Mariette Job, la nipote di Hélène che ha sentito una decina di anni fa la vocazione di recuperare questo documento per offrirlo alla memoria collettiva e vi è riuscita dopo molti sforzi, come testimonia la sua Postfazione al Diario. Mariette è stata la passeuse di un Diario di cui le avevano parlato in famiglia da quando era bambina ma il cui originale era stato consegnato nel 1945 al destinatario, Jean Morawiecki, il fidanzato di Hélène al quale era stato dedicato e che per tutta la vita ne aveva mantenuto il segreto e la memoria personale, con un dolore inconsolabile. Jean infatti, come mi ha raccontato Mariette, era una persona coraggiosa e romantica, una sorta di cavaliere dei tempi moderni: egli si sentiva in colpa per aver lasciato Hélène, sei mesi dopo l’inizio del loro meraviglioso rapporto d’amore (che richiama quello archetipico delle grandi coppie della storia e della letteratura) per raggiungere attraverso la Spagna le forze 11 francesi del generale De Gaulle in Algeria. Fatto prigioniero in un primo tempo a Pamplona, Jean non riuscì più a rivedere a Hélène, nel frattempo (1944) deportata ad Auschwitz con i genitori e poi a Bergen Belsen, dove – in modi che richiamano quelli della Hillesum – essa confortava e sosteneva con il suo coraggio e la sua serenità le compagne di sventura e dove morì pochi giorni prima della liberazione. Ragioni di spazio non mi consentono di dilungarmi sul Diario, che rappresenta un documento unico per la sua qualità e per il fatto di riuscire a tenere insieme contemporaneamente il piano della testimonianza storica dal basso, dell’attenzione socio-antropologica alla vita quotidiana a Parigi e della sensibilità poeticoletteraria, che era la grande vocazione di Hélène. Essa prediligeva i poeti inglesi Shelley e Keats e il teatro di Shakespeare: Patrick Modiano, uno dei più noti romanzieri francesi che ha introdotto il Journal, non esita ad affermare che Hélène sarebbe molto probabilmente diventata una scrittrice di valore. Qui preme osservare che la pubblicazione di questo Diario, non diversamente da quelli di Anna Frank e Etti Hillesum e dagli scritti di Primo Levi, rappresenta un arricchimento umano per il mondo, per la memoria collettiva che beneficia ora di una vicenda “privata” degna di essere conosciuta da tutti. Grazie all’incontro felice e non casuale tra due persone, Jean Morawiecki (mancato nel 2008, appena dopo l’uscita del Journal) e Mariette Job, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, ha potuto realizzarsi una sorta di miracolo: far venire alla luce un documento di valore eccezionale che era rimasto sepolto, quasi come un reperto archeologico, da oltre sessant’anni. Giovanni Gasparini, Università Cattolica – Milano, [email protected] Æ Luoghi interstiziali: i contamination lab Flessibile, agile, imprenditivo: le narrazioni del lavoro che cambia finora hanno ruotato intorno ad aggettivi riferiti al lavoratore, a cui venivano richieste conoscenze, capacità e competenze nuove per adattarsi a un mondo del lavoro sempre più competitivo. Qualcosa negli ultimi tempi sta cambiando: l’attenzione si sta spostando dal possesso all’accesso alle competenze, dalle caratteristiche personali a quelle relazionali. Il capitale umano acquista valore grazie al capitale sociale, alla rete di relazioni che consente la circolazione delle informazioni e delle conoscenze. Il fuoco dell’attenzione non è più il singolo lavoratore o il gruppo di lavoro, ma la rete in cui è inserito. L’azione individuale e quella collettiva lasciano il posto all’azione connettiva. Il binomio lavoratore dipendente/autonomo è superato dalla necessità, per tutti, di essere lavoratori “interdipendenti”. A supportare questa trasformazione ci sono le nuove tecnologie di relazione: blog, comunità digitali, siti di social network che facilitano la costruzione e il mantenimento di legami professionali “scelti”. Un nuovo modo di lavorare che, oltre agli spazi digitali, inizia a permeare anche quelli fisici. Si spiega in questo modo l’emergere di spazi di coworking, di fablab, maker space, ma anche la diffusione di incubatori e acceleratori di impresa. La parola chiave è “contaminazione”. L’idea guida è la rottura delle logiche di omofilia che hanno guidato finora l’organizzazione del lavoro. L’innovazione sociale, concetto attorno a cui ruota la nuova strategia UE per la crescita, non nasce in gruppi di lavoro (reparti, divisioni ecc.) omogenei al loro interno, ma dall’incontro tra persone, competenze ed esperienze diverse. In Italia, il Decreto Sviluppo 2.0 ha introdotto i “contamination lab”: luoghi interstiziali promossi dalle università per far collaborare studenti di facoltà diverse tra loro e con le aziende per realizzare progetti che abbiano un impatto sul territorio e sulla comunità locale. La sperimentazione verrà avviata in quattro Regioni del Sud, grazie a un bando del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in scadenza proprio in questi giorni (28 giugno). Un progetto da monitorare anche per riflettere sul modello educativo dell’università, spesso basato sulle stesse logiche di omogeneità e chiusura che il mondo del lavoro sta mettendo in discussione. 12 Ivana Pais, Università Cattolica – Milano, [email protected] ¾ P. Boitani, Il grande racconto delle ¾ Pubblicazioni recenti ¾ Fondazione Ambrosianeum, a cura di R. Lodigiani, Rapporto sulla città. Milano 2013. Trentenni in cerca d’autore. Attori dietro le quinte o nuova classe dirigente, FrancoAngeli, Milano, 2013. ¾ H. Berr, Journal, Editions Tallandier, Paris, 2008. ¾ M. Bertaud, François Cheng. Un cheminement vers la vie ouverte, Hermann, Paris, 2011. ¾ ¾ ¾ ¾ stelle, Il Mulino, Bologna, 2012. V. Cicchelli, L’autonomie des jeunes. Questions politiques et sociologiques sur les mondes étudiants, La documentation Française, Paris, 2013. G. Gasparini, Soffio fuoco lingua, Cittadella editrice, Perugia, 2013. Glaeser, Il trionfo della città, Bompiani, Milano, 2013. Stéphane Hessel, Non arrendetevi!, Passigli editori, Firenze, 2013. E. Morin, I miei filosofi, Erickson, Trento, 2013. 13 I nostri recapiti: Giovanni Gasparini (Il coordinatore) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.2547 Cristina Pasqualini (La segreteria) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.3976 Redazione: Piermarco Aroldi, Giampaolo Azzoni, Giovanni Gasparini, Ivana Pais, Cristina Pasqualini I corrispondenti: Stefano Albarello (Musica); Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi (Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara (Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università Cattolica – Milano (Teatro); Domenico Bodega, Università Cattolica – Milano (Organizzazione aziendale); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia); Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, Torino (Montagna); François Cheng, Académie Française – Parigi; Giacomo Corna Pellegrini, Università degli Studi di Milano (Geografia); Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca (Antropologia); Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Gabrio Forti, Università Cattolica – Milano (Diritto penale e Criminologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica); Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare Kaneklin, Università Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia); Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta, Milano (Paesaggio); Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia); Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi (Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica); Luigi L. Pasinetti, Accademia dei Lincei – Roma; Alberto Ricciuti, Milano (Medicina); Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia); Detlev Schild, University of Göttingen (Biologia); Cesare Segre, Accademia dei Lincei – Roma; Dan Vittorio Segre, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Politologia); Pierangelo Sequeri, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione); Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia); Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Viaggio); Serena Vitale (Letteratura russa). Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia (www.aissociologia.it) e sul sito del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano (http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=15524). Il contenuto degli articoli è liberamente riproducibile citando la fonte. Il NewsMagazine è anche su Facebook. Ci trovi alla pagina "Interstizi e intersezioni" Numero chiuso il: 28.06.2013 14