De vulgari eloquentia

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De vulgari eloquentia
Dante, De vulgari eloquentia
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Libro 1. cap.1
Poiché non ci risulta che nessuno prima di noi abbia svolto una qualche trattazione
sulla teoria dell'eloquenza volgare, e ci è ben chiaro che quest'arte dell'eloquenza è
necessaria a tutti - tant'è vero che ad essa tendono non solo gli uomini, ma anche le
donne e i bambini, per quanto lo consente la natura -, nel nostro desiderio di
illuminare in qualche modo il discernimento di coloro che vagano come ciechi per le
piazze, e spesso credono di avere davanti a sé ciò che sta alle loro spalle, tenteremo,
assistiti dal Verbo che ci ispira dal cielo, di giovare alla lingua della gente illetterata; e
per riempire una così grande coppa non ci limiteremo ad attingere l'acqua del nostro
ingegno, ma, desumendo e mettendo assieme da ciò che altri ci forniscono, vi
mescoleremo dentro quanto vi è di meglio, così da poterne mescere un dolcissimo
idromele.
Ma dato che qualunque disciplina ha il compito non già di dimostrare, bensì di
dichiarare il proprio fondamento, in modo che si sappia su che cosa essa verte,
diremo, affrontando rapidamente la questione, che chiamiamo lingua volgare quella
lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando incominciano ad
articolare i suoni; o, come si può dire più in breve, definiamo lingua volgare quella che
riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola.
Abbiamo poi un'altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono
"grammatica". Questa lingua seconda la possiedono pure i Greci e altri popoli, non
tutti però: in realtà anzi sono pochi quelli che pervengono al suo pieno possesso,
poiché non si riesce a farne nostre le regole e la sapienza se non in tempi lunghi e con
uno studio assiduo.
Di queste due lingue la più nobile è la volgare: intanto perché è stata adoperata per
prima dal genere umano; poi perché il mondo intero ne fruisce, benché sia
differenziata in vocaboli e pronunce diverse; infine per il fatto che ci è naturale,
mentre l'altra è, piuttosto, artificiale.
Ed è di questa, la più nobile, che è nostro scopo trattare.
Libro I, cap. IX
Ma ora occorre mettere a repentaglio la ragione che è in noi, dato che intendiamo
indagare su argomenti per i quali non possiamo appoggiarci sull'autorità di nessuno,
vale a dire su come si sono avute successive variazioni a partire da quello che era
all'origine un solo e medesimo idioma. E poiché il transito per vie meglio note è più
sicuro e rapido, percorreremo solo la strada costituita dal nostro idioma, lasciando
stare gli altri: infatti ciò che è ragion d'essere in uno, risulta causa anche negli altri.
Dunque la lingua intorno alla quale procede la nostra trattazione è triforme, come si
è detto più sopra: infatti alcuni dicono oc, altri sì e altri oïl. E che sia stata, fin dal
principio della confusione, una lingua unica (ciò che va per prima cosa dimostrato),
appare dal fatto che ci accordiamo in molti vocaboli, come mostrano i maestri
d'eloquenza: ed è appunto questo accordo ad essere incompatibile con quella
confusione che piombò dal cielo durante la costruzione di Babele.
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I maestri delle tre lingue concordano dunque in molti vocaboli, e soprattutto in
questo: "amore". Ecco Giraldo del Bornelto:
Siÿm sentis fezelz amics, per ver encusera amor;
il Re di Navarra:
De fin amor si vient sen et bontè;
messer Guido Guinizelli:
Né fe' amor prima che gentil core, né gentil cor prima che amor, natura.
Ma indaghiamo ora perché la lingua fondamentale si sia differenziata in tre rami; e
perché ognuna di queste varietà si differenzi a sua volta al proprio interno, ad
esempio la parlata della parte destra d'Italia da quella della sinistra (infatti i
Padovani parlano altrimenti che i Pisani); e perché ancora discordi nel parlare gente
che abita più vicina, come Milanesi e Veronesi, Romani e Fiorentini, e inoltre chi è
accomunato dall'appartenenza a una stessa razza, come Napoletani e Caietani,
Ravennati e Faentini; e infine, ciò che è ancora più stupefacente, gente che vive
sotto una stessa organizzazione cittadina, come i Bolognesi di Borgo San Felice e i
Bolognesi di Strada Maggiore.
Perché si verifichino tutte queste differenze e varietà di linguaggi, risulterà chiaro in
base a un unico ed esclusivo motivo razionale.
Affermiamo dunque che nessun effetto, in quanto tale, va al di là della propria
causa, poiché non c'è nessuna cosa che possa produrre ciò che già non è. Dato
allora che ogni nostro linguaggio - all'infuori di quello creato da Dio in una col primo
uomo - è stato ricostruito a nostro arbitrio dopo la famosa confusione che non è
stata altro che oblio della lingua precedente, e dato che l'uomo è un animale
instabilissimo e mutevolissimo, in nessun caso può avere durata e continuità, ma
come tutte le altre cose che ci appartengono, quali abitudini e mode, deve
necessariamente variare in rapporto alle distanze di spazio e di tempo.
E sul fatto che ho appena detto "di tempo" non credo ci sia da aver dubbi, ma è anzi
giudizio da tener ben fermo: perché se esaminiamo a fondo tutti gli altri nostri
prodotti, risulta che discordiamo molto più dai nostri antichissimi concittadini che dai
nostri contemporanei anche più lontani. Per cui osiamo affermare che se ora
rinascessero i Pavesi dei tempi più antichi, parlerebbero una lingua distinta e diversa
da quella dei Pavesi di oggi.
E quanto diciamo non dovrà destare maggior meraviglia che il fatto di accorgersi che
un giovane è divenuto adulto senza averne prima notata la crescita: perché i
movimenti che avvengono a poco a poco non riusciamo minimamente a valutarli, e
quanto più il mutamento di una data realtà richiede tempi lunghi, tanto più la
riteniamo stabile.
Non c'è allora da meravigliarsi se uomini che quanto a capacità di giudizio sono poco
lontani dalle bestie ritengono che la vita civile della stessa città si sia sempre svolta
all'insegna di una lingua invariabile, dato che il mutamento della lingua vi avviene a
poco a poco, in una lunghissima successione temporale, mentre da parte sua la vita
umana, per intrinseca natura, è brevissima.
Se dunque la lingua parlata da un medesimo popolo muta, come s'è detto, via via
nel corso dei tempi e non può rimanere in alcun modo uguale a sé stessa, ne viene
di necessità che si diversifichino nei modi più diversi le lingue di coloro che vivono
separati e lontani, come varie sono le variazioni di abitudini e mode, cose che non
sono stabilizzate né dalla natura né da un accordo comune, ma nascono dalle libere
scelte degli uomini e dalla vicinanza nello spazio.
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Di qui sono partiti gli inventori della grammatica: la quale grammatica non è altro
che un tipo di linguaggio inalterabile e identico a sé stesso nella diversità dei tempi e
dei luoghi. Questa lingua, avendo ricevutole proprie regole dal consenso unanime di
molte genti, non appare esposta ad alcun arbitrio individuale, e di conseguenza non
può essere neppure mutevole. Pertanto coloro che la inventarono lo fecero per
evitare che il mutate del linguaggio, fluttuante in balìa dell'arbitrio individuale, ci
impedisse del tutto, o quantomeno ci consentisse solo imperfettamente, di venire in
contatto con il pensiero e le azioni memorabili degli antichi, così come di coloro che
la diversità dei luoghi rende diversi da noi.
Libro I, cap.X
Come si è detto più sopra, il nostro idioma si presenta ora come triforme, e all'atto di
svolgerne un confronto interno secondo la triplice forma sonora in cui si è risolto,
l'esitazione con cui maneggiamo la bilancia è così grande che non osiamo nel
confronto anteporre questa parte o quella o l'altra ancora, se non forse in base a
questo fatto, che i fondatori della grammatica hanno evidentemente preso come
avverbio di affermazione sic: il che sembra attribuire di diritto una certa preminenza
agli Italiani, che dicono sì.
E in effetti ciascuna delle tre parti difende la propria causa con larghezza di
testimonianze. Dunque: la lingua d'oïl adduce a proprio favore che, per la natura più
agevole e piacevole del suo volgare, tutto quello che è stato desunto o inventato in
volgare prosaico, le appartiene: vale a dire la compilazione che mette assieme Bibbia
e imprese dei Troiani e dei Romani, e le bellissime avventure di re Artù, e svariate
altre opere storiche e dottrinali. L'altra a sua volta, cioè la lingua d'oc, usa come
argomento a suo vantaggio che i rappresentanti dell'eloquenza volgare hanno poetato
dapprima in essa, come nella lingua più dolce e più perfetta: così Pietro d'Alvernia e
altri antichi maestri. Infine la terza lingua, quella degli Italiani, afferma la propria
superiorità sulla base di due prerogative: in primo luogo perché coloro che hanno
poetato in volgare più dolcemente e profondamente, come Cino Pistoiese e l'amico
suo, sono suoi servitori e ministri; secondariamente perché costoro mostrano di
appoggiarsi maggiormente alla grammatica che è comune a tutti, e questo a chi
osserva razionalmente appare un argomento di grandissimo peso.
Noi però tralasceremo di giudicare su questo punto, e ricondurremo la nostra
trattazione al volgare italiano, tentando di descrivere le varietà che ha assunto in sé e
anche di compararle fra loro.
Per prima cosa diciamo dunque che l'Italia è divisa in due parti, una destra e una
sinistra. E se qualcuno vuol sapere qual'è la linea divisoria, rispondiamo in breve che è
il giogo dell'Appennino: il quale, come la cima di una grondaia sgronda da una parte e
dal1'altra le acque che sgocciolano in opposte direzioni, sgocciola per lunghi condotti,
da una parte e dall'altra, verso i contrapposti litorali, giusta la descrizione di Lucano
nel secondo libro: e la parte destra ha per sgrondatoio il Mar Tirreno, mentre la
sinistra scende nell'Adriatico.
Le regioni di destra sono l'Apulia, non tutta però, Roma, il Ducato, la Toscana e la
Marca Genovese; quelle di sinistra invece parte dell'Apulia, la Marca Anconitana, la
Romagna, la Lombardia, la Marca Trevigiana con Venezia. Quanto al Friuli e all'Istria,
non possono appartenere che all'Italia di sinistra, mentre le isole del Mar Tirreno, cioè
la Sicilia e la Sardegna, appartengono senza dubbio all'Italia di destra, o piuttosto
vanno associate ad essa.
6 Ora in entrambe queste due metà, e relative appendici, le lingue degli abitanti
variano: così i Siciliani si diversificano dagli Apuli, gli Apuli dai Romani, i Romani dagli
Spoletini, questi dai Toscani, i Toscani dai Genovesi e i Genovesi dai Sardi; e allo
stesso modo i Calabri dagli Anconitani, costoro dai Romagnoli, i Romagnoli dai
Lombardi, i Lombardi dai Trevigiani e Veneziani, costoro dagli Aquileiesi e questi ultimi
dagli Istriani. Sul che pensiamo che nessun italiano dissenta da noi.
7 Ecco perciò che la sola Italia presenta una varietà di almeno quattordici volgari. I quali
poi si differenziano al loro interno, come ad esempio in Toscana il Senese e l'Aretino,
in Lombardia il Ferrarese e il Piacentino; senza dire che qualche variazione possiamo
coglierla anche nella stessa città, come abbiamo asserito più sopra nel capitolo
precedente. Pertanto, a voler calcolare le varietà principali del volgare d'Italia e le
secondarie e quelle ancora minori, accadrebbe di arrivare, perfino in questo
piccolissimo angolo di mondo, non solo alle mille varietà, ma a un numero anche
superiore.
Libro I, capitolo XI
1 In tanta dissonanza che tutte queste varietà producono nel volgare italiano, mettiamoci
sulle tracce della lingua più decorosa d'Italia, la lingua illustre; e per aprire alla nostra
caccia una strada transitabile, in primo luogo buttiamo fuori dalla selva cespugli
aggrovigliati e rovi.
2 E dunque, siccome i Romani ritengono di dover essere messi in testa a tutti, non è
ingiusto che li anteponiamo a tutti gli altri in quest'opera di sradicamento o estirpazione
che dir si voglia, dichiarando che non andranno presi in considerazione in nessuna
precettistica sull'eloquenza volgare. E diciamo pure che quello dei Romani - che non è
neanche una lingua ma piuttosto uno squallido gergo - è il più brutto di tutti i volgari
italiani: il che non meraviglia, dato che anche quanto a bruttura di abitudini e fogge
esteriori appaiono i più fetidi di tutti. Eccoli infatti dire: Messure, quinto dici?
3 Dopo costoro strappiamo via gli abitanti della Marca Anconitana, che dicono
Chignamente state siate: e assieme a loro via anche gli Spoletini.
4 E non si deve dimenticare 1'esistenza di svariate poesie create per schernire questi tre
popoli; tra le quali ne abbiamo vista una, perfettamente congegnata secondo le regole,
che aveva composto un fiorentino di nome Castra a che incominciava così:
Una fermana scopai da Cascioli, cita cita se 'n gìa 'n grande aina.
5 Dopo di questi estirpiamo Milanesi a Bergamaschi a loro vicini; anche su di loro
ricordiamo che un tale ha composto un canto di scherno:
Enter 1'ora del vesper, ciò fu del mes d'ochiover.
6 E dopo ancora, setacciamo via Aquileiesi e Istriani, che con quel loro accento ferino
pronunciano: Ces fas-tu? E assieme a questi buttiamo via tutte le parlate montanare e
campagnole, come quelle dei Casentinesi e degli abitanti di Fratta, che col loro accento
aberrante da tutte le regole suonano in modo da far a pugni col linguaggio di chi abita
nel centro delle città.
7 Quanto ai Sardi, che non sono Italiani ma andranno associati agli Italiani, via anche loro,
dato che sono i soli a risultare privi di un volgare proprio, imitando invece la grammatica
come fanno le scimmie con gli uomini: e infatti dicono domus nova e dominus meus.
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Libro I, cap. XII
Liberati in qualche modo dalla pula i volgari italiani, istituiamo un paragone fra quelli
che sono rimasti nel setaccio e scegliamo rapidamente il più onorevole e onorifico.
E per prima cosa facciamo un esame mentale a proposito del siciliano, poiché
vediamo che il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste
ragioni: che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e
che troviamo che molti maestri nativi dell'isola hanno cantato con solennità, per
esempio nelle famose canzoni
Ancor che 1'aigua per lo foco lassi
e
Amor, che lungiamente m'hai menato.
Ma questa fama della terra di Trinacria, a guardar bene a che bersaglio tende, sembra
persistere solo come motivo d'infamia per i principi italiani, i quali seguono le vie della
superbia vivendo non da magnanimi ma da gente di bassa lega. E in verità quegli
uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero
esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si
comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie. Ed è per questo che
quanti avevano in sé nobiltà di cuore a ricchezza di doni divini si sforzarono di
rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel
tempo producevano gli Italiani più nobili d'animo vedeva dapprima la luce nella reggia
di quei sovrani così insigni; e poiché sede del trono regale era la Sicilia, ne è venuto
che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si chiama siciliano:
ciò che anche noi teniamo per fermo, e che i nostri posteri non potranno mutare.
Racà, racà! Che cosa fa risuonare ora la tromba dell'ultimo Federico, che cosa la
campana di guerra del secondo Carlo, cosa i corni dei potenti marchesi Giovanni e
Azzo, cosa le trombette degli altri grandi della politica, se non: "A me carnefici, a me
gente piena di doppiezza, a me seguaci di avidità"?
Ma è meglio ritornare al punto che parlare a vuoto. Diciamo allora che il volgare
siciliano, a volerlo prendere come suona in bocca ai nativi dell'isola di estrazione
media (ed è evidentemente da loro che bisogna ricavare il giudizio), non merita
assolutamente 1'onore di essere preferito agli altri, perché non si può pronunciarlo
senza una certa lentezza; come ad esempio qui:
Tragemi d'este focora se t'este a bolontate.
Se invece lo vogliamo assumere nella forma in cui sgorga dalle labbra dei siciliani più
insigni, come si può osservare nelle canzoni citate in precedenza, non differisce in
nulla dal volgare più degno di lode, e lo mostreremo più sotto.
Gli Apuli d'altra parte, o per loro crudezza o per la vicinanza delle genti con cui
confinano, cioè Romani a Marchigiani, cadono in sconci barbarismi: e infatti dicono
Bòlzera che chiangesse lo quatraro.
Ma benché i nativi dell'Apulia parlino generalmente in modo turpe, alcuni che fanno
spicco tra di essi si sono espressi in modo raffinato, trascegliendo nelle loro canzoni i
vocaboli più degni della curia, cosa che risulta evidente ad osservare le loro poesie,
come ad esempio
Madonna, dir vi voglio,
e
Per fino amore vo sì letamente.
9 Perciò, se si considera quanto detto sopra, deve risultare pacifico che né il siciliano né
1'apulo rappresentano il volgare più bello che c'è in Italia, dato che, come abbiamo
mostrato, gli stilisti delle rispettive regioni si sono staccati dalla loro parlata.
Libro I, capitolo XIII
1 Dopo di che, veniamo ai Toscani i quali, rimbambiti per la loro follia, hanno 1'aria di
rivendicare a sé 1'onore del volgare illustre. E in questo non è solo la plebe a perdere
la testa con le sue pretese, anzi sappiamo bene che parecchi personaggi famosi
hanno avuto la stessa opinione: ad esempio Guittone Aretino, che non puntò mai al
volgare curiale, Bonagiunta Lucchese, Gallo Pisano, Mino Mocato di Siena, Brunetto
Fiorentino, le poesie dei quali, ad aver tempo e voglia di scrutarle attentamente, si
riveleranno non di livello curiale, ma soltanto municipale.
2 E poiché i Toscani sono più di tutti in preda a questo delirio da ubriachi, sembra giusto
e utile prendere uno per uno i volgari municipali della Toscana e sgonfiarli un po' della
loro prosopopea. Ecco che parlano i Fiorentini, e dicono Manichiamo, introcque che
noi non facciamo altro; e i Pisani: Bene andonno li fatti de Fiorensa per Pisa; i
Lucchesi: Fo voto a Dio ke in grassarra eie lo comuno de Lucca; i Senesi: Onche
renegata avess'io Siena. Ch'ee chesto? gli Aretini: Vuo' tu venire ovelle?
3 Di Perugia, Orvieto, Viterbo, nonché di Civita Castellana, non intendiamo
assolutamente trattare, data la loro parentela con Romani e Spoletini.