Corrado Bevilacqua La rivoluzione copernicana di Marx

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Corrado Bevilacqua La rivoluzione copernicana di Marx
Corrado Bevilacqua
La rivoluzione copernicana di Marx
I quaderni di
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1- Che cos'è una rivoluzione scientifica? Una rivoluzione scientifica è, per dirla con Kuhn, un
cambiamento di paradigma che dà forma ad un nuovo modo di vedere la realtà. Ciò è quello che
fece Marx con la critica dell'economia politica.
Secondo a famosa definizione di Lord Robbins, l'economia politica è quella scienza che studia la
migliore allocazione di risorse scarse che hanno usi alternativi. Tale definizione presuppone
l'esistenza di soggetti perfettamente razionali, di un'economia perfettamente trasparente dove
vige un regime di concorrenza perfetta. Ora, nessuna di queste condizioni è presente
nell'economia reale la quale è caratterizzata dalla presenza di forme di mercato non concorrenziali,
dove agiscono imprese le cui strategie sembrano ispirarsi, per usare un'espressione di Kurt
Rotschild, più ad una logica militare che all'insegnamento impartito dai manuali di economia.
In termini formali, la definizione di Lord Robbins, presuppone, per ciascuna impresa delle curve di
offerta perfettamente elastiche alle variazioni dei prezzi, una perfetta trasparenza dei mercati che
conferisce ai singoli operatori una perfetta conoscenza delle possibili alternative. Ora , è evidente
che si tratta di condizioni che non trovano riscontro nella realtà economica di qualsiasi paese
capitalistico, sia esso avanzato o meno. Come spiegò Keynes, noi prendiamo le nostre decisioni in
condizione di ignoranza e di incertezza: ignoranza rispetto alle alternative possibili; incertezza
rispetto alle possibili conseguenze delle nostre decisioni.
Inoltre, essa presuppone che ogni operatore si comporti secondo la logica dell'homo economicus,
ovvero, che egli adotti il comportamento di chi pone come proprio obiettivo la ricerca del massimo
profitto. Tale logica di comportamento, teorizzata nel XVIII secolo da Adam Smith in Indagine sulla
natura e le cause della ricchezza delle nazioni, non è il solo comportamento possibile. Come
dimostrò Karl Polany, sono esistite, esistono e potrebbero esistere, società le cui economie sono
fondate sul principio della reciprocità; oppure, come dimostrò Marcel Mauss, sul principio del
dono
Il metodo di Marx. Il metodo di Marx è basato sulla concezione materialistica della storia. Tale
concezione è esposta nella sua forma compiuta nella Prefazione del 1859 a Per la critica
dell'economia politica.
“Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati,
necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un
determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di
produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva
una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della
coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo
sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere,
ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro
sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di
produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica)
dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle
forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale.
Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca
sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo
sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere
constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose,
artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo
conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso,
così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se
stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il
conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione
sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso;
nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno
alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si
propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova
sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o
almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e
borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della
formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma
antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo
individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le
forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le
condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si
chiude dunque la preistoria della società umana.”
La questione ebraica. Per comprendere questo celebre passo di Marx, è necessario fare un salto
all'indietro di parecchi anni. La formazione del pensiero di Marx passò infatti attraverso diverse fasi
e precisamente dalla critica della religione alla critica della filosofia, dalla critica della filosofia alla
critica del diritto, dalla critica del diritto alla critica della politica, dalla critica della politica alla
critica dell'economia. In questo quadro, un testo fondamentale è rappresentato da La questione
ebraica Essa venne pubblicata per la prima volta nel 1843 negli Annali franco-tedeschi diretti da
Ruge e dallo stesso Marx. Negli Annali Marx pubblicò un altro testo importante, la Critica della
filosofia del diritto di Hegel.
“Gli ebrei tedeschi chiedono l'emancipazione”, scrisse Bauer. “Quale emancipazione essi chiedono?
L'emancipazione civile, politica. Bruno Bauer risponde loro: nessuno in Germania è politicamente
emancipato. Noi stessi non siamo liberi. Come potremmo liberare voi? Voi ebrei siete egoisti se
pretendete un'emancipazione particolare per voi in quanto ebrei. Voi dovreste, in quanto tedeschi,
lavorare per l'emancipazione politica della Germania, in quanto uomini, per la emancipazione
umana, e non sentire come un'eccezione alla regola il modo particolare della vostra oppressione e
della vostra ignominia, ma piuttosto come conferma della regola.
Ovvero gli ebrei pretendono la parificazione con i sudditi cristiani? Ma così essi riconoscono come
legittimo lo Stato cristiano, così riconoscono il regime dell'asservimento generale. Perché dispiace
loro il proprio giogo particolare, se accettano il giogo generale? Perché il tedesco dovrebbe
interessarsi alla liberazione dell'ebreo, se l'ebreo non si interessa alla liberazione del tedesco?
Lo Stato cristiano conosce soltanto privilegi. In esso, l'ebreo possiede il privilegio di essere ebreo.
Come ebreo egli ha dei diritti. che i cristiani non hanno. Perché chiede dei diritti che egli non ha e
di cui i cristiani godono?
Volendo essere emancipato dallo Stato cristiano l'ebreo pretende che lo Stato cristiano abbandoni
il suo pregiudizio religioso. Ma egli, l'ebreo, abbandona il proprio pregiudizio religioso? Ha dunque
egli diritto di esigere da un altro questa rinunzia alla religione?
Lo Stato cristiano non può, per sua essenza, emancipare l'ebreo, ma, aggiunge Bauer, l'ebreo per
sua essenza non può venir emancipato. Fino a che lo Stato rimane cristiano e l'ebreo ebreo,
ambedue saranno egualmente incapaci tanto di concedere che di ricevere l'emancipazione.
Lo Stato cristiano rispetto all'ebreo può comportarsi soltanto da Stato cristiano, cioè secondo il
sistema del privilegio, poiché esso permette l'isolamento dell'ebreo dagli altri sudditi. facendogli
però sentire l'oppressione delle altre sfere da lui distinte, e facendogliela sentire tanto più
severamente, in quanto l'ebreo si trova in contrasto religioso rispetto alla religione dominante. Ma
anche l'ebreo rispetto allo Stato può comportarsi soltanto da ebreo, cioè come uno straniero
rispetto allo Stato, poiché egli alla nazionalità reale contrappone la sua nazionalità chimerica, alla
legge reale la sua legge illusoria, poiché egli si immagina autorizzato ad isolarsi dall'umanità,
poiché egli per principio non prende parte alcuna al movimento storico, poichè egli spera in un
futuro che non ha nulla in comune con il futuro generale dell'uomo, poichè egli ritiene se stesso
membro del popolo ebraico, e il popolo ebraico il popolo eletto.
A quale titolo voi ebrei chiedete l'emancipazione? In considerazione della vostra religione? Ma
essa è nemica mortale della religione dello Stato. Come cittadini? In Germania non vi sono
cittadini. Come uomini? Voi non siete uomini, come non lo sono coloro ai quali fate appello.
Bauer ha posto in termini nuovi la questione dell'emancipazione degli ebrei, dopo aver fornito una
critica delle posizioni e delle soluzioni tradizionali del problema. Qual è, egli si domanda, la natura
dell'ebreo che deve essere emancipato, dello Stato cristiano che deve emancipare? Egli risponde
con una critica della religione ebraica, analizza il contrasto religioso tra ebraismo e cristianesimo,
spiega l'essenza dello Stato cristiano, tutto ciò con arditezza, acutezza, spirito, profondità e con uno
stile tanto preciso quanto robusto ed energico.
Come dunque Bauer risolve la questione ebraica? Quale il risultato? Il modo di formulare un
problema contiene già la sua soluzione. La critica della questione ebraica è già la risposta alla
questione ebraica. Eccone il succo.
Noi dobbiamo emancipare noi stessi prima di poter emancipare altri.
La forma più rigida del contrasto tra l'ebreo e il cristiano è il contrasto religioso. Come si risolve un
contrasto? Rendendolo impossibile. Come rendere impossibile un contrasto religioso? Eliminando
la religione. Quando ebreo e cristiano riconosceranno che le reciproche religioni non sono altro
che differenti stadi di sviluppo dello spirito umano, non sono altro che differenti pelli di serpente
deposte dalla storia, e che l'uomo è il serpente che di esse si era rivestito, allora non si troveranno
più in rapporto religioso, ma ormai soltanto in un rapporto critico, scientifico, umano.
La scienza sarà allora la loro unità. Ma i contrasti nella scienza si risolvono mediante la scienza
stessa.
Invero all'ebreo tedesco si contrappone soprattutto la mancanza di emancipazione politica in
generale e la dichiarata cristianità dello Stato. Nel senso di Bauer, tuttavia, la questione ebraica ha
un significato generale, indipendente dai rapporti specificamente tedeschi. È la questione del
rapporto tra religione e Stato, della contraddizione tra il pregiudizio religioso e l'emancipazione
politica. L'emancipazione dalla religione viene posta come condizione, sia all'ebreo, che vuole
essere emancipato politicamente, sia allo Stato, che deve emancipare ed essere esso stesso
emancipato.
"Bene! -si dice, e lo dice lo stesso ebreo- l'ebreo dev'essere emancipato non come ebreo, non per il
fatto di essere ebreo, non per il fatto di avere un principio cosi squisito, così universalmente umano
della eticità; piuttosto l'ebreo cederà di fronte al cittadino e sarà cittadino, sebbene sia ebreo e
debba restar tale; cioè egli è e resta ebreo, sebbene sia cittadino e viva in rapporti universalmente
umani: alla fine, la sua essenza giudaica e limitata trionferà sempre sopra i suoi doveri umani e
politici. Il pregiudizio resta, nonostante sia sorpassato da princìpi generali. Ma se resta, è piuttosto
esso a sorpassare di molto ogni altra cosa". "Solo sofisticamente, in apparenza, l'ebreo potrebbe
rimanere tale nella vita dello Stato; in tal caso, se egli volesse rimanere ebreo, la mera apparenza
sarebbe l'essenziale e trionferebbe, cioè la sua vita nello Stato sarebbe soltanto apparenza, o una
momentanea eccezione contro l'essenza e la regola". (La capacità degli ebrei e dei cristiani d'oggi
a diventar liberi, Einundzwanzig Bogen, p. 57).
Vediamo, d'altra parte, come Bauer prospetta il compito dello Stato:
"La Francia -si dice- ci ha dato di recente (Dibattiti alla Camera dei Deputati del 26 dicembre 1840)
riguardo alla questione ebraica, così come sempre per tutte le questioni politiche (fin dalla
rivoluzione di luglio), lo spettacolo di una vita che è libera, ma che revoca la propria libertà nella
legge, quindi anche la dichiara un'apparenza, e d'altra parte confuta la sua libera legge mediante
l'azione" (Questione ebraica, p. 64).
"La libertà generale in Francia ancora non è legge, anche la questione ebraica ancora non è risolta,
perchè la libertà legale -il fatto che tutti i cittadini sono eguali- è limitata nella vita, la quale è
ancora dominata e frantumata dai privilegi religiosi, e questa illibertà della vita agisce a sua volta
sulla legge e la costringe a sanzionare la distinzione dei cittadini, in sè liberi, in oppressi e
oppressori" (p. 65).
Quando dunque sarebbe risolta per la Francia la questione ebraica?
"L'ebreo, ad esempio, dovrebbe cessare di essere ebreo quando non permettesse più alla sua
legge di impedirgli di assolvere ai suoi doveri verso lo Stato ed i suoi concittadini, quando, ad es., il
sabato si presentasse alla Camera dei Deputati e prendesse parte ai dibattiti pubblici.
Ogni privilegio religioso, in generale, quindi anche il monopolio di una chiesa dotata di prerogative,
dovrebbe essere abolito, e se alcuni, o parecchi, o anche la stragrande maggioranza, ritenessero di
dover adempiere a doveri religiosi, tale adempimento dovrebbe essere loro concesso come una
cosa meramente privata" (p. 65). "Non vi sarà più religione, se non vi saranno più religioni
privilegiate. Togliete alla religione la sua forza di esclusione, ed essa non esisterà più" (p. 66).
"Come il signor Martin du Nord nella proposta di tralasciare nella legge la menzione della
domenica vedeva il proposito di dichiarare che il cristianesimo aveva cessato di esistere, con lo
stesso diritto (e tale diritto è perfettamente fondato) la dichiarazione che la legge del sabato non
ha più obbligatorietà per l'ebreo sarebbe la proclamazione della fine del giudaismo" (p. 71).
Bauer esige quindi, da un lato, che l'ebreo rinunci al giudaismo, e in generale l'uomo rinunci alla
religione, per poter essere emancipato civilmente. D'altro lato, l'eliminazione politica della
religione, di conseguenza, equivale per lui all'eliminazione della religione senz'altro. Lo Stato che
presuppone la religione non è ancora uno Stato vero, reale. "Senza dubbio l'idea religiosa dà allo
Stato delle garanzie. Ma a quale Stato? A quale specie di Stato?" (p. 97).
Si rivela a questo punto la concezione unilaterale della questione ebraica.
Non bastava assolutamente chiedersi: chi deve emancipare? Chi deve essere emancipato? La
critica avrebbe dovuto fare una terza domanda. Essa avrebbe dovuto chiedere: di quale specie di
emancipazione si tratta? Quali condizioni si fondano sull'essenza dell'emancipazione richiesta? La
critica dell'emancipazione politica in sé avrebbe già costituito la critica conclusiva della questione
ebraica, e la sua vera risoluzione nella "questione generale dell'epoca".
Ma poiché Bauer non pone la questione in modo tanto elevato, cade in contraddizioni. Egli pone
condizioni che non si fondano sull'essenza dell'emancipazionepolitica stessa. Egli solleva questioni
che non rientrano nel suo compito e risolve compiti che lasciano intatta la sua questione. Quando
Bauer dice degli avversari dell'emancipazione degli ebrei: "Il loro errore fu solo di presupporre lo
Stato cristiano come l'unico vero, e di non sottoporlo a quella stessa critica con la quale avevano
esaminato il giudaismo" (p. 3), noi rileviamo l'errore di Bauer nel fatto che egli sottopone a critica
solo lo "Stato cristiano", non lo "Stato in sé", che non ricerca ilrapporto tra l'emancipazione
politica e l'emancipazione umana, e perciò pone condizioni che sono spiegabili soltanto con una
acritica confusione tra l'emancipazione politica e quella umana in generale. Se Bauer domanda agli
ebrei: dal vostro punto di vista avete voi il diritto di chiedere l'emancipazione politica? noi
domandiamo a nostra volta: il punto di vista dell'emancipazione politica ha il diritto di esigere dagli
ebrei l'abolizione del giudaismo, e dagli uomini in generale l'abolizione della religione?
La questione ebraica assume un aspetto differente secondo lo Stato nel quale si trova l'ebreo. In
Germania, dove non esiste uno Stato politico, uno Stato in quanto Stato, la questione ebraica è una
pura questione teologica. L'ebreo si trova in contrasto religioso con lo Stato, il quale riconosce
come suo fondamento il cristianesimo. Tale Stato è teologo ex professo. La critica è qui critica della
ideologia, critica a doppio taglio, critica della teologia cristiana e della teologia ebraica. Ma così ci
muoviamo ancor sempre nel campo della teologia, per quanto criticamente ci muoviamo.
In Francia, Stato costituzionale, la questione ebraica è la questione del costituzionalismo, la
questione della incompletezza della emancipazione politica. Poiché qui è conservata l'apparenza di
una religione di Stato, sebbene in una formula vuota e in sè contraddittoria, la formula di
una religione della maggioranza, il rapporto dell'ebreo con lo Stato conserva l'apparenza di un
contrasto religioso, teologico.
Solo nei liberi Stati dell'America del Nord -almeno in una parte di essi- la questione ebraica perde il
suo significato teologico per diventare una questione realmente mondana. Solo là dove lo Stato
politico esiste nella sua formazione compiuta, il rapporto dell'ebreo e in generale dell'uomo
religioso, con lo Stato politico, vale a dire il rapporto della religione con lo Stato, può presentarsi
nella sua peculiarità, nella sua purezza. La critica di questo rapporto cessa di essere teologica non
appena lo Stato cessi di comportarsi in modo teologico nei riguardi della religione, non appena
esso si comporti verso la religione da Stato, cioè politicamente. La critica diviene allora critica dello
Stato politico. A questo punto, nel quale la questione cessa di essere teologica, la critica di Bauer
cessa di essere critica. "Il n'existe aux Etats-Unis ni réligion de l'Etat, ni réIigion déclarée celle de la
majorité ni prééminence d'un culte sur un autre. L'Etat est étranger à tous les cultes". (Marie ou
l'esclavage aux Etats-Unis etc., par G. de Beaumont, Paris 1835, p. 214). Vi sono infatti Stati
nordamericani nei quali "la constitution n'impose pas les croyances religieuses et la pratique d'un
culte comme condition des privilèges politiques" (1.c., p. 225). Tuttavia "on ne croit pas aux EtatsUnis qu'un homme sans religion puisse étre un honnéte homme" (1.c., p. 224). Ciononostante
l'America del Nord è per eccellenza il paese della religiosità, come assicurano unanimi Beaumont,
Tocqueville, e l'inglese Hamilton. Gli Stati nordamericani, del resto, ci servono solo come esempio.
La questione è: come si comporta l'emancipazione politica compiutanei riguardi della religione. Se
perfino nel paese dell'emancipazione politica compiuta noi troviamo non soltanto l'esistenza, ma
l'esistenza vivace e vitale della religione, questo fatto testimonia che l'esistenza della religione non
contraddice alla perfezione dello Stato. Ma poiché l'esistenza della religione è l'esistenza di un
difetto, la fonte di tale difetto può ancora essere ricercata soltanto nell'essenza dello Stato stesso.
La religione per noi non costituisce più il fondamento, bensì ormai soltanto il fenomeno della
limitatezza mondana. Per questo; noi spieghiamo la soggezione religiosa dei liberi cittadini con la
loro soggezione terrena. Non riteniamo che essi dovrebbero sopprimere la loro limitatezza
religiosa, per poter sopprimere i loro limiti terreni. Affermiamo che essi sopprimeranno la loro
limitatezza religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti terreni. Noi non trasformiamo le
questioni terrene in questioni teologiche. Trasformiamo le questioni teologiche in questioni
terrene. Dopo che per lungo tempo la storia è stata risolta in superstizione, noi risolviamo la
superstizione in storia. La questione del rapporto tra l'emancipazione politica e la religione, diviene
per noi la questione del rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipazione
umana. Noi critichiamo la debolezza religiosa dello Stato politico, in quanto critichiamo lo Stato
politico, facendo astrazione dalle debolezze religiose nella sua costruzione terrena. Noi
umanizziamo il contrasto tra lo Stato e una determinata religione, ad esempio il giudaismo, nel
contrasto tra lo Stato e determinati elementi terreni, il contrasto dello Stato con la religione in
generale nel contrasto tra lo Stato e le sue premesse.
L'emancipazione politica dell'ebreo, del cristiano, dell'uomo religioso in generale,
è l'emancipazione dello Stato dal giudaismo, dal cristianesimo, dalla religione in generale. Nella sua
forma, nel modo proprio alla sua essenza, in quanto Stato, lo Stato si emancipa dalla religione
emancipandosi dalla religione di Stato, cioè quando lo Stato come Stato non professa religione
alcuna, quando lo Stato riconosce piuttosto se stesso come Stato. L'emancipazione politica dalla
religione non è emancipazione compiuta, senza contraddizioni, dalla religione, perché
l'emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni, dell'emancipazione umana.
Il limite dell'emancipazione politica appare immediatamente nel fatto che lo Stato può liberarsi da
un limite senza che l'uomo ne sia realmente libero, che lo Stato può essere un libero Stato senza
che l'uomo sia un uomo libero. Bauer stesso ammette ciò implicitamente, allorché pone
all'emancipazione politica la seguente condizione: "Ogni privilegio religioso in generale, quindi
anche il monopolio di una Chiesa dotata di prerogative dovrebbe essere abolito, e se alcuni, o
parecchi, o anche la stragrande maggioranza, ritenessero di dover assolvere a doveri religiosi, tale
adempimento dovrebbe essere loro concesso come una cosa meramente privata" Lo Stato può
dunque essersi emancipato dalla religione anche se la stragrande maggioranza e ancora religiosa. E
la stragrande maggioranza non cessa di essere religiosa per il fatto di essere religiosa privatim.
Ma il comportamento dello Stato verso la religione, e particolarmente dello Stato libero, non è
tuttavia altro che il comportamento degli uomini che formano lo Stato, verso la religione. Ne
consegue che l'uomo per mezzo dello Stato, politicamente, si libera di un limite, innalzandosi oltre
tale limite, in contrasto con se stesso, in un modo astratto e limitato, in un modo parziale. Ne
consegue inoltre che l'uomo, liberandosi politicamente, si libera per via indiretta, attraverso un
mezzo, anche se un mezzo necessario. Ne consegue infine che l'uomo, anche se con la mediazione
dello Stato si proclama ateo, cioè se proclama ateo lo Stato, rimane ancor sempre implicato
religiosamente, appunto perchè riconosce se stesso solo per via indiretta, solo attraverso un
mezzo. La religione è appunto il riconoscersi dell'uomo per via indiretta. Attraverso un mediatore.
Lo Stato è il mediatore tra l'uomo e la libertà dell'uomo. Come Cristo è il mediatore che l'uomo
carica di tutta la sua divinità, di tutto il suo pregiudizio religioso, cosi lo Stato è il mediatore nel
quale egli trasferisce tutta la sua mondanità, tutta la sua spregiudicatezza umana.
L'elevazione politica dell'uomo al di sopra della religione partecipa di tutti i difetti e i pregi
dell'elevazione politica in generale. Lo Stato in quanto Stato annulla, ad es., la proprietà privata,
l'uomo dichiara soppressa politicamente la proprietà privata non appena esso abolisce il censo per
l'eleggibilità attiva e passiva, come è avvenuto in molti Stati nordamericani. Hamilton interpreta
assai giustamente questo fatto dal punto di vista politico: "La grande massa ha trionfato sopra i
proprietari e la ricchezza monetaria". Non è forse idealmente soppressa la proprietà privata,
dacché il nullatenente diviene legislatore del proprietario? Il censo è l'ultima forma politica di
riconoscimento della proprietà privata.
Tuttavia, con l'annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la
proprietà privata, ma essa viene addirittura presupposta. Lo Stato sopprime nel suo modo le
differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione, dichiarando che nascita,
condizione, educazione, occupazione non sono differenze politiche, proclamando ciascun membro
del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali differenze,
trattando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello Stato. Nondimeno lo
Stato lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione operino nel loro modo, cioè come
proprietà privata, come educazione, come occupazione, e facciano valere la loro particolare
essenza. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in
quanto le presuppone, sente se stesso come Stato politico, e fa valere la propria universalità solo in
opposizione con questi suoi elementi. Hegel definisce perciò molto esattamente il rapporto dello
Stato politico con la religione, quando dice: "Affinché lo Stato giunga ad esistere come la realtà
morale autocosciente dello spirito, è necessario che esso si distingua dalla forma dell'autorità e
della fede; ma tale distinzione compare solo in quanto la parte ecclesiastica in se stessa perviene
alla separazione; soltanto così al di sopra delle Chiese particolari lo Stato ha ottenuto l'universalità
del pensiero, il principio della sua forma, e le dà esistenza" (Hegel, Filosofia del diritto, I ed., p.
346). Certamente! Solo così, al di sopra degli elementi particolari, lo Stato si costituisce come
universalità.
Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita dell'uomo come specie, in opposizione alla sua
vita materiale. Tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della
sfera dello Stato, nella società civile, ma come caratteristiche della società civile. Là dove lo Stato
politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella
coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella
comunità politica nella quale egli si afferma come comunità, e la vita nella società civile nella quale
agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e
diviene trastullo di forze estranee. Lo Stato politico si comporta nei confronti della società civile in
modo altrettanto spiritualistico come il cielo nei confronti della terra. Rispetto ad essa si trova nel
medesimo contrasto, e la vince nel medesimo modo in cui la religione vince la limitatezza del
mondo profano, cioè dovendo insieme riconoscerla, restaurarla e lasciarsi da essa dominare. Nella
sua realtà più immediata, nella società civile; l'uomo è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli
altri vale come individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato, dove l'uomo
vale come specie, egli è il membro immaginario di una sovranità fantastica, è spogliato della sua
reale vita individuale e riempito di una universalità irreale.
Il conflitto nel quale si trova l'uomo come seguace di una religione particolare, con se stesso in
quanto cittadino, con gli altri uomini in quanto membri della comunità, si riduce alla scissione
mondana tra lo Stato politico e la società civile. Per l'uomo in quanto bourgeois, "la vita nello Stato
è soltanto apparenza o una momentanea eccezione contro l'essenza e la regola". Certamente
il bourgeois, come l'ebreo, rimane nella vita solo sofisticamente, così come solo sofisticamente
ilcitoyen rimane ebreo o bourgeois; ma tale sofistica non è personale. Essa è la sofistica dello Stato
politico stesso. La differenza tra l'uomo religioso e il cittadino è la differenza tra il commerciante e il
cittadino, tra il salariato giornaliero e il cittadino, tra il proprietario fondiario e il cittadino, tra
l'individuo vivente e il cittadino. La contraddizione nella quale si trova l'uomo religioso con l'uomo
politico, è la medesima contraddizione nella quale si trova il bourgeois con il citoyen, nella quale si
trova il membro della società civile con il suo travestimento politico.
Questo conflitto mondano, al quale infine si riduce la questione ebraica, il rapporto dello Stato
politico coi suoi presupposti siano pur essi elementi materiali, come la proprietà privata ecc., o
spirituali, come educazione, religione, il conflitto tra l'interesse generale e l'interesse privato, la
scissione tra lo Stato politico e la società civile, questi contrasti mondani, Bauer li lascia sussistere,
mentre polemizza contro la loro espressione religiosa. "Proprio il suo fondamento, il bisogno, che
assicura alla società civile la sua esistenza e garantisce la sua necessità, espone la sua esistenza a
continui pericoli; mantiene in essa un elemento di insicurezza e produce quella mescolanza, in
continua vicenda, di miseria e ricchezza, di indigenza e prosperità, l'avvicendarsi in generale" (p. 8).
Si confronti l'intera sezione: "La società civile" (p. 8-9), che è redatta secondo le linee fondamentali
della filosofia del diritto di Hegel. La società civile nel suo contrasto con lo Stato politico si
riconosce necessaria, poiché si riconosce necessario lo Stato politico.
L'emancipazione politica è certamente un grande passo in avanti, non è però la forma ultima
dell'emancipazione umana in generale, ma è l'ultima forma dell'emancipazione
umana entro l'ordine mondiale attuale. S'intende: noi parliamo qui di reale, di pratica
emancipazione.
L'uomo si emancipa politicamente dalla religione confinandola dal diritto pubblico al diritto
privato. Essa non è più lo spirito dello Stato, dove l'uomo -anche se in modo limitato, sotto forma
particolare e in una particolare sfera- si comporta come specie, in comunità con altri uomini; essa è
divenuta lo spirito della società civile, della sfera dell'egoismo, del bellum omnium contra
omnes. Essa non è più l'essenza della comunità, ma l'essenza della distinzione. Essa è divenuta
l'espressione della separazione dell'uomo dalla sua comunità, da sé e dagli altri uomini, ciò che
essa era originariamente. Essa è ancora soltanto il riconoscimento astratto dell'assurdità
particolare, del capriccio privato, dell'arbitrio. L'infinito frazionamento della religione nell'America
del Nord, ad es., già esternamente le conferisce la forma di una faccenda puramente individuale.
Essa è stata relegata nel novero degli interessi privati, e in quanto ente comune esiliata dalla
comunità. Ma non ci si inganni circa i limiti della emancipazione politica. La scissione dell'uomo
nell'uomo pubblico e nell'uomo privato, il trasferimento della religione dallo Stato alla società
civile, non sono un gradino, sono il compimento dell'emancipazione politica, che pertanto
sopprime la religiosità reale dell'uomo tanto poco quanto poco tende a sopprimerla.
La scomposizione dell'uomo nell'ebreo e nel cittadino, nel protestante e nel cittadino, nell'uomo
religioso e nel cittadino, questa scomposizione non è una menzogna contro la qualità di cittadino,
non è un modo di eludere l'emancipazione politica, essa è l'emancipazione politica stessa, è il
modo politico di emanciparsi dalla religione. Certamente: in epoche in cui lo Stato politico in
quanto Stato politico viene generato con violenza dalla società civile, in cui l'auto-liberazione
umana tende a compiersi sotto la forma dell'auto-liberazione politica, lo Stato può e deve
procedere fino alla soppressione della religione, fino all'annientamento della religione, ma solo così
come procede alla soppressione della proprietà privata, al massimo, con la confisca, con l'imposta
progressiva, come procede alla soppressione della vita con la ghigliottina. Nei momenti del suo
particolare sentimento di sé, la vita politica cerca di soffocare il suo presupposto, la società civile e
i suoi elementi, e di costituirsi come la reale e non contraddittoria vita dell'uomo come specie. Essa
può questo, nondimeno, solo attraverso una violenta contraddizione con le sue proprie condizioni
di vita, solo dichiarando permanente la rivoluzione, e il dramma politico finisce perciò altrettanto
necessariamente con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elementi
della società civile, così come la guerra finisce con la pace.
Di più, non il cosiddetto Stato cristiano, che riconosce il cristianesimo come proprio fondamento,
come religione di Stato e si comporta perciò in modo esclusivo verso le altre religioni, è lo Stato
cristiano perfetto, ma lo è piuttosto lo Stato ateo, lo Stato democratico, lo Stato che confina la
religione tra gli altri elementi della società civile. Lo Stato che è ancora teologo, che fa ancora in
forma ufficiale professione di fede cristiana, che non osa ancora proclamarsi Stato, non è ancora
riuscito a esprimere in forma mondana, umana nella sua realtà in quanto Stato, il
fondamento umano, la cui espressione esagerata è il cristianesimo. Il cosiddetto Stato cristiano è
semplicemente il non-Stato, poiché non il cristianesimo come religione, ma soltanto lo sfondo
amano della religione cristiana può attuarsi in creazioni realmente umane.
Il cosiddetto Stato cristiano è la negazione cristiana dello Stato, e per nulla affatto la realizzazione
statale del cristianesimo. Lo Stato che riconosce ancora il cristianesimo nella forma della religione,
non lo riconosce ancora nella forma dello Stato, perché si comporta ancora religiosamente verso la
religione, cioè esso non è l'attuazione reale del fondamento umano della religione, poiché ancora
si richiama alla irrealtà, alla figura immaginaria di questo nocciolo umano. Il cosiddetto Stato
cristiano è lo Stato incompiuto, e la religione cristiana gli vale come integrazione e
come santificazione della sua incompiutezza. La religione diviene quindi per esso necessariamente
un mezzo, ed esso è lo Stato della ipocrisia. È cosa diversa se lo Stato perfetto, a causa del difetto
insito nell'essenza universale dello Stato, annovera la religione tra i propri presupposti, ovvero se lo
Stato imperfetto, a causa del difetto insito nella sua esistenza particolare, in quanto Stato difettoso,
dichiara proprio fondamento la religione. Nell'ultimo caso la religione diviene politica
incompiuta. Nel primo caso nella religione si mostra la stessa incompiutezza della politica perfetta.
Il cosiddetto Stato cristiano ha bisogno della religione cristiana per potersi completare come Stato.
Lo Stato democratico, lo Stato reale, non ha bisogno della religione per il proprio completamento
politico. Esso può anzi astrarre dalla religione poiché in esso il fondamento umano della religione è
attuato mondanamente. Il cosiddetto Stato cristiano, viceversa, si comporta politicamente verso la
religione e religiosamente verso la politica. Se abbassa ad apparenza le forme statali, abbassa
tuttavia parimenti ad apparenza la religione.
Per illustrare questa contraddizione, esaminiamo la costruzione di Bauer dello Stato cristiano, che
è derivata dalla concezione dello Stato cristiano-germanico.
"Di recente - dice Bauer- per dimostrare la impossibilità o non - esistenza di uno Stato cristiano si è
rimandato molto spesso a quei precetti del Vangelo, che lo Stato [odierno] non solo non segue,
ma neppure può seguire, se non vuole [come Stato] dissolversi completamente". "Ma la questione
non si risolve con tanta facilità. Che cosa esigono dunque quei precetti evangelici? La rinunzia
soprannaturale a se stessi, la sottomissione all'autorità della rivelazione, l'allontanamento dallo
Stato, la soppressione dei rapporti mondani. Orbene, tutto questo esige ed effettua lo Stato
cristiano. Esso si è appropriato dello Spirito del Vangelo, e se anche non lo ripete così letteralmente
come lo esprime il Vangelo, ciò accade solo perché esso esprime tale spirito in forme statali, cioè in
forme che sono bensì prese a prestito dall'essenza dello Stato e da questo mondo, ma nella
rigenerazione religiosa che devono subire, vengono abbassate ad apparenza. È l'allontanamento
dallo Stato, il quale per attuarsi si serve delle forme statali" (p. 55).
Bauer spiega quindi come il popolo dello Stato cristiano sia semplicemente un non-popolo, non
abbia più una volontà propria, ma possegga la sua vera esistenza nel capo al quale è soggetto, che
tuttavia originariamente e per sua natura gli è estraneo, cioè gli è dato da Dio e gli è capitato senza
sua cooperazione, come le leggi di questo popolo non siano opera sua bensì rivelazioni positive,
come il suo capo supremo abbia bisogno presso il popolo vero e proprio, presso la massa, di
mediatori privilegiati, come questa massa stessa si disgreghi in una quantità di circoli particolari
che il caso forma e determina, che si differenziano per i loro interessi, per le loro passioni e i loro
pregiudizi particolari, e che come privilegio ricevano il permesso di isolarsi reciprocamente gli uni
dagli altri, ecc. (p. 56).
Ma Bauer stesso dice: "La politica, se non dev'essere nient'altro che religione, non può essere
politica, così come la pulizia delle pentole, se deve avere valore di rito religioso, non può essere
considerata una faccenda economica" (p. 108). Nello Stato cristiano-germanico, però, la religione è
una "faccenda economica", come la "faccenda economica" è religione. Nello Stato cristianogermanico il dominio della religione è la religione del dominio.
La separazione dello "spirito del Vangelo" dalla "lettera del Vangelo" è un atto irreligioso. Lo Stato
che fa parlare il Vangelo con la lettera della politica, cioè con altra lettera che la lettera dello Spirito
Santo, compie un sacrilegio, se non di fronte agli occhi degli uomini, per lo meno di fronte ai suoi
stessi occhi religiosi. A quello Stato che riconosce il cristianesimo come sua norma suprema,
la Bibbia come sua Carta, si devono contrapporre le parole della Sacra Scrittura, perché la Scrittura
è sacra fin nella parola. Questo Stato, come pure l'immondizia umana sulla quale esso si basa, dal
punto di vista della coscienza religiosa cade in una contraddizione insormontabile se lo si rimanda
a quei precetti del Vangelo che esso "non solo non segue, ma neppure può seguire, se non vuole,
in quanto Stato dissolversi completamente". E perché non vuole dissolversi completamente? Esso
stesso non può rispondere a questa domanda, né a sé né ad altri. Dinnanzi alla sua propria
coscienza, lo Stato cristiano ufficiale è un dovere, la cui realizzazione è irraggiungibile, e soltanto
mentendo a se stesso, esso può constatare la realtà della propria esistenza, e rimane perciò
sempre per se stesso un oggetto di dubbio, un oggetto ambiguo, problematico. La critica dunque si
trova nel pieno diritto di costringere lo Stato che si richiama alla Bibbia, alla follia della coscienza,
in cui esso stesso non sa più se è una fantasia o una realtà, in cui l'infamia dei suoi scopi mondani,
ai quali la religione serve da mascheratura, entra in conflitto insolubile con l'onestà della sua
coscienza religiosa, cui la religione appare come lo scopo del mondo. Questo Stato
può riscattarsi dal suo tormento interiore soltanto divenendo lo sbirro della Chiesa cattolica. Di
fronte ad essa, che dichiara proprio corpo servente il potere mondano, lo Stato è impotente,
impotente il potere mondano che asserisce di essere l'autorità dello spirito religioso.
Nel cosiddetto Stato cristiano ha bensì valore l'estraneazione, ma non l'uomo. L'unico uomo che
abbia valore, il re, è un essere specificamente distinto dagli altri uomini, e perfino ancora religioso,
direttamente collegato col cielo, con Dio. Le relazioni che qui predominano, sono ancora relazioni
di fede. Lo spirito religioso, dunque, non è ancora realmente mondanizzato.
E del resto lo spirito religioso non può realmente mondanizzarsi: che cosa è infatti esso stesso se
non la forma non mondana di un grado di sviluppo dello spirito umano? Lo spirito religioso
può essere realizzato solo in quanto il grado di sviluppo dello spirito umano, di cui esso è
l'espressione religiosa, si presenta e si costituisce nella sua forma mondana. Ciò avviene nello
Stato democratico. Non il cristianesimo, bensì il fondamento umano del cristianesimo è il
fondamento di questo Stato. La religione rimane la coscienza ideale, non mondana, dei suoi
membri, poiché essa è solo la forma ideale del grado di sviluppo umano che in esso si attua.
I membri dello Stato politico sono religiosi attraverso il dualismo tra la vita individuale e la vita
della specie, tra la vita della società civile e la vita politica, religiosi in quanto l'uomo si comporta
verso la vita statale posta al di là della sua vera individualità come verso la sua vita vera, religiosi
nella misura in cui la religione è qui lo spirito della società civile, l'espressione della separazione e
dell'allontanamento dell'uomo dall'uomo. La democrazia politica è cristiana perché in essa l'uomo,
non soltanto un uomo ma ogni uomo, vale come essere sovrano, come essere supremo; si tratta
però dell'uomo nella sua forma fenomenica non educata, non sociale, l'uomo nella sua esistenza
casuale, l'uomo come vive e cammina, l'uomo guastato qual è da tutta l'organizzazione della nostra
società, perduto, fatto estraneo a se stesso, posto sotto il dominio di rapporti ed elementi
disumani, in una parola, l'uomo che non è ancora un reale essere della sua specie. La finzione della
fantasia, il sogno, il postulato del cristianesimo, la sovranità dell'uomo, ma in quanto ente
estraneo, differente dall'uomo reale, nella democrazia è realtà sensibile, presenza, massima
mondana.
Nella democrazia perfetta, la stessa coscienza religiosa e teologica ha tanto più valore religioso,
teologico, quanto più in apparenza, è priva di importanza politica, di scopi terreni, affare dell'animo
schivo del mondo, espressione della limitatezza intellettuale, prodotto dell'arbitrio e della fantasia,
quanto più è realmente una vita oltremondana. Qui il cristianesimo raggiunge l'espressione pratica
del suo significato religioso-universale, poiché le concezioni del mondo più disparate si raccolgono
l'una accanto all'altra nella forma del cristianesimo, e ancor più perché pone agli altri non
l'esigenza del cristianesimo, bensì ormai solo quella della religione in generale, di una qualsiasi
religione (cfr. il citato scritto di Beaumont). La coscienza religiosa gode nella ricchezza del contrasto
religioso e della varietà religiosa.
Noi abbiamo dunque mostrato: l'emancipazione politica dalla religione lascia sussistere la
religione, anche se non una religione privilegiata. La contraddizione nella quale il seguace di una
religione particolare si trova con la sua qualità di cittadino, è solo una
parte dell'universale contraddizione mondana tra lo Stato politico e la società civile. La perfezione
dello Stato cristiano è lo Stato che si riconosce come Stato, e fa astrazione dalla religione dei suoi
membri. L'emancipazione dello Stato dalla religione non è l'emancipazione dell'uomo reale dalla
religione.
Noi non diciamo dunque agli ebrei, con Bauer: voi non potete essere emancipati politicamente
senza emanciparvi radicalmente dal giudaismo. Piuttosto, diciamo loro: per il fatto che potete
essere emancipati politicamente senza abbandonare completamente e coerentemente il
giudaismo, per questo l'emancipazione politicastessa non è l'emancipazione umana. Se voi
ebrei volete essere emancipati politicamente, senza emancipare voi stessi umanamente, è perché
l'incompletezza e la contraddizione non risiedono in voi soltanto, esse risiedono nell'essenza e
nella categoria della emancipazione politica. Se voi siete rinchiusi in questa categoria, è perché
partecipate dell'universale soggezione. Come lo Stato agisce secondo il Vangelo, allorché, sebbene
Stato, si comporta cristianamente verso l'ebreo, così l'ebreoagisce secondo la politica, allorché,
sebbene ebreo, esige diritti di cittadinanza.
Ma se l'uomo, quantunque ebreo, può essere emancipato politicamente, può ricevere diritti di
cittadino, può pretendere e ricevere i cosiddetti diritti dell'uomo? Bauer lo nega. "La questione è se
l'ebreo, in quanto tale, cioè l'ebreo che spontaneamente confessa di essere costretto per la sua
vera essenza a vivere in eterno isolamento dagli altri, sia capace di ricevere gli universali diritti
dell'uomo e di accordarli ad altri".
"L'idea dei diritti dell'uomo venne scoperta per il mondo cristiano appena nel secolo scorso. Essa
non è innata nell'uomo, viene piuttosto conquistata solo nella lotta contro le tradizioni storiche
nelle quali venne finora allevato l'uomo. Cosi i diritti umani non sono un dono della natura, non
una dote della storia trascorsa, bensì il premio della lotta contro la casualità della nascita e contro i
privilegi, che la storia di generazione in generazione ha lasciato in eredità fino ad oggi. Sono il
risultato della cultura, e li può possedere solo colui che se li è guadagnati e meritati".
"Può dunque l'ebreo prenderne realmente possesso? Fino a che egli è ebreo, bisogna che, sulla
natura umana, che dovrebbe legarlo in quanto uomo agli uomini, l'essenza limitata che lo fa ebreo
riporti la vittoria e lo isoli dai non ebrei. Per tale isolamento, egli dimostra che l'essenza particolare
che fa di lui un ebreo è la sua vera e suprema essenza, dinnanzi alla quale l'essenza dell'uomo deve
cedere".
"Allo stesso modo il cristiano, in quanto cristiano, non può concedere diritti umani" (pp. 19, 20).
L'uomo, secondo Bauer, deve sacrificare il "privilegio della fede" per essere in grado di ricevere i
diritti umani universali.
Consideriamo, per un istante, i cosiddetti diritti umani, e cioè i diritti umani nella loro figura
autentica, nella figura che possiedono presso i loro scopritori, i nordamericani e i francesi! In parte
questi diritti umani sono diritti politici, diritti che vengono esercitati solo in comunione con gli altri.
La partecipazione allacomunità, e cioè alla comunità politica, all'essenza dello Stato, costituisce il
loro contenuto. Essi cadono sotto la categoria della libertà politica, sotto la categoria deidiritti del
cittadino, che, come vedemmo, non presuppongono affatto la soppressione coerente e positiva
della religione, dunque neppure del giudaismo. Rimane da considerare l'altra parte dei diritti
dell'uomo, i droits de l'homme in quanto essi sono distinti dai droits du citoyen.
Nel loro elenco si trova la libertà di coscienza, il diritto di praticare un qualsivoglia culto.
Il privilegio della fede viene riconosciuto espressamente, o come diritto dell'uomo, o come
conseguenza di un diritto dell'uomo, della libertà.
Declaration des droits de l'homme et du citoyen, 1791, art. 10: "Nul ne doit être inquiéte pour ses
opinions même religieuses". Nel titolo I della Costituzione del 1791 viene garantito come diritto
umano: "La liberté à tout homme d'exercer le culte religieux auquel il est attaché".
Déclaration des droits de l'homme et du citoyen, etc., 1793, annovera tra i diritti umani, art. 7: "le
libre exercice des cultes". Anzi, in relazione al diritto di manifestare pubblicamente i propri pensieri
e le proprie opinioni, di riunirsi, di praticare il proprio culto, è detto perfino: "La nécessité
d'énoncer ces droits suppose ou la présence ou le souvenir récent du despotisme". Si confronti la
Costituzione del 1795, titolo XIV, art. 354.
Constitution de Pennsylvanie, Art. 9 § 3: "Tous les hommes ont reçu de la nature
le droit imprescriptibile d'adorer le Tout-Puissant selon les inspirations de leur conscience, et nul
ne peut légalement être contraint de suivre, instituer ou soutenir contre son gré aucun culte ou
ministère religieux. Nulle autorité humaine ne peut, dans aucune cas intervenir dans les questions
de conscience et contrôler les pouvoirs de l'âme".
Constitution de New-Hampshire, Artt. 5 e 6: "Au nombre des droits naturels, quelques-uns sont
inaliénables de leur nature, parce que rien n'en peut être l'équivalent. De ce nombre sont les
droits de conscience " (Beaumont, op. cit., pp. 213-214).
L'inconciliabilità della religione con i diritti dell'uomo è tanto poco nel concetto dei diritti
dell'uomo, che il diritto di essere religioso, di essere religioso in qualsiasi modo, di praticare il culto
della propria religione particolare, viene anzi espressamente annoverato tra i diritti dell'uomo.
Il privilegio della fede è un diritto universale dell'uomo.
I droits de l'homme, i diritti dell'uomo, vengono in quanto tali distinti dai droits du citoyen, dai
diritti del cittadino. Chi è l'homme distinto dal citoyen? Nient'altro che il membro della società
civile. Perché il membro della società civile viene chiamato "uomo", uomo senz'altro, perché i suoi
diritti vengono chiamati "diritti dell'uomo"? Donde spieghiamo questo fatto? Dal rapporto dello
Stato politico con la società civile, dall'essenza dell'emancipazione politica.
Innanzi tutto costatiamo il fatto che i cosiddetti diritti dell'uomo, i droits de l'homme, come distinti
dai droits du citoyen non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell'uomo
egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità. La costituzione più radicale, la
costituzione del 1793 può dire:
"Déclar. des droits de l'homme et du citoyen":
Art. 2.: "Ces droits, etc. (les droits naturels et imprescriptibles) sont: l'égalíté, la líberté, la sûreté,
la propriété".
In che consiste la líberté?
Art. 6.: "La liberté est le pouvoir qui appartient à l'homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux
droits d'autrui", secondo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1791:"La liberté consiste à
pouvoir faire tout ce qui ne nuit pas à autrui".
La libertà è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il
quale ciascuno può muoversi senza nocumento altrui, è stabilito per mezzo della legge, come il
limite tra due campi è stabilito per mezzo di un cippo. Si tratta della libertà dell'uomo in quanto
monade isolata e ripiegata su se stessa. Perché l'ebreo, secondo Bauer, è incapace di ricevere i
diritti dell'uomo? "Fino a che egli è ebreo, bisogna che, sulla natura umana, che dovrebbe legarlo
in quanto uomo agli uomini, l'essenza limitata che lo fa ebreo riporti la vittoria e lo isoli dai non
ebrei". Ma il diritto dell'uomo alla libertà si basa non sul legame dell'uomo con l'uomo, ma
piuttosto sull'isolamento dell'uomo dall'uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto
dell'individuo limitato, limitato a se stesso.
L'utilizzazione pratica del diritto dell'uomo alla libertà è il diritto dell'uomo alla proprietà privata?
In che consiste il diritto dell'uomo alla proprietà privata?
Art. 16, (Const. de 1793): "Le droít de proprieté est celui qui appartient à tout citoyen de jouir et de
disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travaìl et de son industrie" .
Il diritto dell'uomo alla proprietà privata è dunque il diritto di godere arbitrariamente (à son gré),
senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, della propria sostanza e di
disporre di essa, il diritto dell'egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della
medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi
nell'altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà. Ma essa proclama
innanzi tutto il diritto dell'uomo "de jouir et de disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du
fruit de son travail et de son industrie".
Restano ancora gli altri diritti dell'uomo, la égalité e la sûreté.
L'égalité, qui nel suo significato non politico, non è altro che l'uguaglianza della libertà sopra
descritta, e cioè: che ogni uomo viene ugualmente considerato come una siffatta monade che
riposa su se stessa. La Costituzione del 1795 stabilisce così il concetto di tale uguaglianza, conforme
al suo significato:
Art. 5 (Const. de 1795): "L'egalité consiste en ce que la loi est la même pour tous, soit qu'elle
protège, soit qu'elle punisse".
E la sûreté?
Art. 8 (Const. de 1795): "La sûreté consiste dans la Protection accordée par la société à chacun de
ses membres pour la conservation de sa personne, de ses droits et des ses propriétés".
La sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto della polizia, che l'intera
società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua
persona, dei suoi diritti e della sua proprietà. In tal senso Hegel chiama la società civile: "Lo Stato
del bisogno e dell'intelletto".
Per il concetto di sicurezza la società civile non si innalza oltre il suo egoismo. La sicurezza è
piuttosto l'assicurazione del suo egoismo.
Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoistico, l'uomo in quanto è
membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo
arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso in essi come specie, la
stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come
limitazione della loro indipendenza originaria. L'unico legame che li tiene insieme è la necessità
naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona
egoistica.
È già abbastanza enigmatico il fatto che un popolo, il quale appunto incomincia a liberarsi, ad
abbattere tutte le barriere tra i diversi membri del popolo, a fondare una comunità politica, che un
tale popolo proclami solennemente (Déclar. de 1791) il diritto dell'uomo egoista, isolato dal suo
simile e dalla comunità, anzi ripeta tale proclamazione in un momento in cui soltanto la più eroica
dedizione può salvare la Nazione ed è perciò imperiosamente richiesta, in un momento in cui
dev'essere posto all'ordine del giorno il sacrificio di tutti gli interessi della società civile, e l'egoismo
dev'essere punito come un delitto (Décl. des droits de l'homme etc. de 1793). Ancor più enigmatico
diviene questo fatto quando vediamo che la cittadinanza, la comunità politica viene abbassata
dagli emancipatori politici addirittura a mero mezzo per la conservazione di questi cosiddetti diritti
dell'uomo, che pertanto il citoyen viene considerato servo dell'homme egoista, che la sfera nella
quale l'uomo si comporta come ente comune viene degradata al di sotto della sfera nella quale
esso si comporta come ente parziale, infine che non l'uomo come citoyen, bensì l'uomo
come bourgeois viene preso per l'uomo vero e proprio.
"Le but de toute association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptibles de
l'homme" (Déclar. des droits etc. de 1791, art. 2). "Legouvernement est institué pour garantir à
l'homme la jouissance de ses droits naturels et imprescriptibles" (Déclar. etc. de 1793, art. 1). Così,
perfino nei momenti di un entusiasmo ancor giovanile ed esaltato dall'urgere delle circostanze, la
vita politica si dimostra come puro mezzo, il cui scopo è la vita della società civile. In effetti, la sua
prassi rivoluzionaria si trova in flagrante contraddizione con la sua teoria. Mentre, ad es., la
sicurezza viene dichiarata un diritto dell'uomo, la violazione del segreto epistolare viene posta
pubblicamente all'ordine del giorno. Mentre la "liberté indefinie de la presse" (Const. de 1793, art.
122) viene garantita come conseguenza del diritto dell'uomo alla libertà individuale, la libertà di
stampa viene completamente annullata, dacchè "la liberté de la presse ne doit pas être permise
lorqu'elle compromets la liberté publique" (Robespierre jeune, Hist. parlam. de la rev. franç.
par Buchez et Roux, T. 28, p. 159), cioè dunque: il diritto dell'uomo alla libertà cessa di essere un
diritto non appena entra in conflitto con la vita politica, mentre, secondo la teoria, la vita politica è
soltanto la garanzia dei diritti dell'uomo, dei diritti dell'uomo individuale, insomma dev'essere
abbandonata non appena contraddice al suo scopo, a questi diritti dell'uomo. Ma la prassi è
soltanto l'eccezione, e la teoria è la regola. Che se poi si vuol considerare la prassi rivoluzionaria
come la giusta impostazione del rapporto, rimane tuttavia da risolvere ancora l'enigma, perché
nella coscienza degli emancipatori politici il rapporto venga capovolto, e lo scopo appaia come
mezzo, il mezzo come scopo. Questa illusione ottica della loro coscienza sarebbe ancor sempre il
massimo enigma, ancorché un enigma psicologico, teorico.
L'enigma si risolve semplicemente.
L'emancipazione politica è contemporaneamente la dissoluzione della vecchia società, sulla quale
riposa l'essenza dello Stato estraniato dal popolo, la potenza sovrana. La rivoluzione politica è la
rivoluzione della società civile. Qual era il carattere della vecchia società? Una sola parola la
caratterizza: la feudalità. La vecchia società civile aveva immediatamente un carattere politico, cioè,
gli elementi della vita civile, come ad es. la proprietà o la famiglia, o la maniera del lavoro, nella
forma del dominio fondiario, dello stato e della corporazione erano innalzati a elementi della vita
dello Stato. In tale forma essi determinavano il rapporto del singolo individuo verso la totalità
statale, cioè il suo rapporto politico, cioè il suo rapporto di separazione ed esclusione dalle altre
parti costitutive della società. Quell'organizzazione della vita del popolo, infatti, non innalzava ad
elementi sociali il possesso o il lavoro, ma piuttosto perfezionava la loro separazione dalla totalità
statale e le costituiva in società particolari nella società. Così intanto le funzioni e le condizioni di
vita della società civile erano ancor sempre politiche, anche se politiche nel senso della feudalità,
cioè esse escludevano l'individuo dalla totalità statale, esse trasformavano il
rapporto particolare della sua corporazione verso lo Stato nel suo proprio rapporto universale
verso la vita del popolo, così come la sua determinata attività e situazione civile nella sua attività e
situazione universale. Come conseguenza di questa organizzazione, l'unità statale, come la
coscienza, la volontà e l'attività dell'unità statale, la potenza universale dello Stato, appare
necessariamente appunto come affare particolare di un sovrano, diviso dal popolo, e dei suoi servi.
La rivoluzione politica che abbatté questa potenza sovrana e innalzò gli affari dello Stato ad affari
del popolo, che costituì lo Stato politico come affare universale, cioè come Stato reale, spezzò
necessariamente tutti gli stati, corporazioni, arti, privilegi, che erano altrettante espressioni delle
separazioni del popolo dalla sua comunità. La rivoluzione politica soppresse con ciò il carattere
politico della società civile. Essa spezzò la società civile nelle sue parti costitutive semplici, da un
lato gli individui, dall'altro gli elementi materiali e spirituali che costituiscono il contenuto della
vita, la situazione civile di questi individui. Essa svincolò lo spirito politico, che era parimenti diviso,
disgiunto, disperso nei diversi vicoli ciechi della società feudale; lo raccolse da tale smembramento,
lo liberò dalla sua mescolanza con la vita civile e lo costituì come la sfera della comunità,
dell'universale attività del popolo, in una ideale indipendenza da quegli elementi particolari della
vita civile. La determinata attività e le determinate condizioni di vita decaddero a significato solo
individuale. Esse non formarono più il rapporto universale dell'individuo nei confronti della totalità
dello Stato. La cosa pubblica in quanto tale divenne piuttosto l'affare universale di ciascun
individuo, e la funzione politica divenne la sua funzione universale.
Soltanto, il compimento dell'idealismo dello Stato fu contemporaneamente il compimento del
materialismo della società civile. L'abbattimento del giogo politico fu contemporaneamente
l'abbattimento dei legami che tenevano vincolato lo spirito egoista della società civile.
L'emancipazione politica fu contemporaneamente l'emancipazione della società civile dalla
politica, dall'apparenza stessa di un contenuto universale.
La società feudale era dissolta nel suo fondamento: l'uomo. Ma l'uomo quale realmente era, in
quanto suo fondamento, l'uomo egoista.
Quest'uomo, il membro della società civile, è ora la base, il presupposto dello Stato politico. Egli è
da esso riconosciuto come tale nei diritti dell'uomo.
La libertà dell'uomo egoista e il riconoscimento di questa libertà è però piuttosto il riconoscimento
dello sfrenato movimento degli elementi spirituali e materiali che formano il contenuto della sua
vita.
L'uomo non venne perciò liberato dalla religione, egli ricevette la libertà religiosa. Egli non venne
liberato dalla proprietà. Ricevette la libertà della proprietà. Egli non venne liberato dall'egoismo
dell'industria, ricevette la libertà dell'industria. La costituzione dello Stato politico e la dissoluzione
della società civile negli individui indipendenti -il cui rapporto è il diritto, così come il rapporto degli
uomini degli stati e delle arti era il privilegio- si adempie in un medesimo atto. L'uomo in quanto
membro della società civile, l'uomo non politico, appare perciò necessariamente come
l'uomo naturale. I droits de l'homme appaiono come droits naturels, dacché l'attività autocosciente
si concentra nell'atto politico. L'uomo egoistico è il risultato passivo e soltanto trovato della società
dissolta, oggetto della certezza immediata, dunque oggetto naturale. La rivoluzione
politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste parti stesse né
sottoporle a critica. Essa si comporta verso la società civile, verso il mondo dei bisogni, del lavoro,
degli interessi privati, del diritto privato, come verso il fondamento della propria esistenza, come
verso un presupposto non altrimenti fondato, perciò, come verso la sua base naturale. Infine
l'uomo, in quanto è membro della società civile, vale come uomovero e proprio, come
l'homme distinto dal citoyen, poiché egli è l'uomo nella sua immediata esistenza sensibile
individuale, mentre l'uomo politico è soltanto l'uomo astratto, artificiale, l'uomo come
persona allegorica, morale. L'uomo reale è riconosciuto solo nella figura dell'individuo egoista,
l'uomo vero solo nella figura delcitoyen astratto.
L'astrazione dell'uomo politico è esattamente così descritta da Rousseau:
"Celui qui ose entreprendre d'instituer un peuple doit se sentir en état de changer pour ainsi dire
la nature humaine, de transformer chaque individu, qui par lui-même est un tout parfait et
solitaire, en partie d'un plus grand tout dont cet individu reçoive en quelque sorte sa vie et son
être, de substituer une existence partielle et morale à l'existence physique et indépendante. Il faut
qu'il ôte à l'homme ses forces propres pour lui eri donner qui lui soient étrangères et dont il ne
puisse faire usage sans le secour d'autruì" (Contr. soc., liv. II, Londr. 1782, p. 67).
Ogni emancipazione è un ricondurre il mondo umano, i rapporti umani all'uomo stesso.
L'emancipazione politica è la riduzione dell'uomo, da un lato, a membro della società civile,
all'individuo egoista indipendente, dall'altro, al cittadino, alla persona morale.
Solo quando l'uomo reale, individuale riassume in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale
nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è divenuto membro
della specie umana, soltanto quando l'uomo ha riconosciuto e organizzato le sue "forces propres"
come forze sociali, e perciò non
separa più da sè la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l'emancipazione
umana è compiuta.
In questa forma Bauer tratta il rapporto della religione ebraica e cristiana come il rapporto di esse
verso la critica. Il loro rapporto verso la critica è il loro rapporto "verso la capacità di diventar
liberi".
Ne consegue: "Il cristiano deve sormontare solo un gradino, vale a dire la sua religione, per
abbandonare la religione in generale", quindi per diventar libero; "l'ebreo, viceversa, deve
romperla non soltanto con la sua essenza di ebreo, ma anche con lo sviluppo, il compimento della
sua religione, con uno sviluppo che gli è rimasto estraneo" (p. 71).
Bauer dunque trasforma qui la questione dell'emancipazione degli ebrei in una pura questione
religiosa. Lo scrupolo teologico: chi ha maggiore possibilità di salvarsi, l'ebreo o il cristiano, si ripete
nella forma illuminata: chi dei due è più capace di emancipazione? In effetti , non ci si domanda
più: il giudaismo o il cristianesimo rendono liberi? ma piuttosto: che cosa rende più liberi, la
negazione del giudaismo o la negazione del cristianesimo?
"Se vogliono diventar liberi, gli ebrei non devono professare il cristianesimo, ma un cristianesimo
dissolto, una religione dissolta in generale, cioè l'illuminismo, la critica ed il loro risultato, la libera
umanità" (p. 70).
Sì tratta ancor sempre per gli ebrei, di una professione di fede ma non più di professare il
cristianesimo, bensì un cristianesimo dissolto.
Bauer pone agli ebrei l'esigenza di romperla con l'essenza della religione cristiana, una esigenza
che, com'egli stesso dice, non risulta dallo sviluppo dell'essenza ebraica.
Dato che alla fine della Questione ebraica Bauer aveva concepito il giudaismo solo come la
grossolana critica religiosa al cristianesimo, e aveva quindi conferito ad esso un'importanza
"soltanto" religiosa, era da prevedersi che anche l'emancipazione degli ebrei si sarebbe
trasformata in un atto filosofico-teologico.
Bauer intende l'essenza ideale astratta dell'ebreo, la sua religione, come la sua intera essenza. A
ragione perciò egli conclude: "L'ebreo non dà nulla all'umanità quando sdegna per se stesso la sua
legge limitata", quando sopprime interamente il suo giudaismo (p. 65).
Il rapporto tra gli ebrei e i cristiani diviene di conseguenza il seguente: l'unico interesse del
cristiano all'emancipazione dell'ebreo è un interesse generalmente umano, un
interesse teoretico. Il giudaismo è un fatto oltraggioso per l'occhio religioso del cristiano. Non
appena il suo occhio cessa di essere religioso, questo fatto cessa di essere oltraggioso. In sé e per
se, l'emancipazione dell'ebreo non è un lavoro per il cristiano.
L'ebreo, viceversa, per liberarsi ha da sostenere non soltanto il suo proprio lavoro, ma anche il
lavoro del cristiano, la Critica dei sinottici, la Vita di Gesù [1], ecc.
"Questo è affar loro: essi determineranno a se stessi il proprio destino; la storia però non si lascia
beffare" (p. 71).
Noi cerchiamo di rompere la formulazione teologica della questione. La questione della capacità
dell'ebreo ad emanciparsi si trasforma per noi nella questione di quale particolare
elemento sociale sia da superare per sopprimere il giudaismo. Infatti la capacità ad emanciparsi
dell'ebreo d'oggi è il rapporto del giudaismo verso l'emancipazione del mondo di oggi. Tale
rapporto risulta necessariamente dalla posizione particolare del giudaismo nell'asservito mondo
odierno.
Consideriamo l'ebreo reale mondano, non l'ebreo del Sabbath, come fa Bauer, ma l'ebreo di tutti i
giorni.
Cerchiamo il segreto dell'ebreo non nella sua religione, bensì cerchiamo il segreto della religione
nell'ebreo reale.
Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l'egoismo.
Qual è il culto mondano dell'ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro.
Ebbene. L'emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico, reale, sarebbe
l'autoemancipazione del nostro tempo.
Un'organizzazione della società che eliminasse i presupposti del traffico, dunque la possibilità del
traffico, renderebbe impossibile l'ebreo. La sua coscienza religiosa si dissolverebbe come un vapore
inconsistente nella vitale atmosfera reale della società. D'altro lato: se l'ebreo riconosce come non
valida questa sua essenzapratica e lavora per la sua eliminazione, egli si svincola dal suo sviluppo
passato verso l'emancipazione umana senz'altro, e si volge contro la più alta espressione pratica
dell'autoestraneazione umana.
Noi riconosciamo dunque nel giudaismo un universale elemento attuale antisociale, il quale,
attraverso lo sviluppo storico, cui gli ebrei per questo lato cattivo hanno collaborato con zelo,
venne sospinto fino al sua presente vertice, un vertice sul quale deve necessariamente dissolversi.
L'emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è la emancipazione dell'umanità
dal giudaismo.
L'ebreo si è già emancipato in modo giudaico. "L'ebreo che, ad es. a Vienna, è solo tollerato, con la
sua potenza finanziaria determina il destino di tutto l'Impero. L'ebreo, che nel più piccolo Stato
tedesco può essere privo di diritti, decide delle sorti dell'Europa.
"Mentre le corporazioni e i mestieri sono chiusi all'ebreo o non gli sono ancora favorevoli,
l'arditezza dell'industria si fa beffe della ostinatezza degli istituti medioevali" (B. Bauer, Judenfrage,
p. 114).
Questo non è un fatto isolato. L'ebreo si è emancipato in modo giudaico non solo in quanto si è
appropriato della potenza del denaro, ma altresì in quanto il denaro per mezzo di lui e senza di lui
è diventato una potenza mondiale, e lo spirito pratico dell'ebreo, lo spirito pratico dei popoli
cristiani. Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati ebrei.
Il pio e politicamente libero abitante della Nuova Inghilterra, riferisce ad es. il colonnello Hamilton,
"è una specie di Laocoonte, il quale non fa neppure il più piccolo sforzo per liberarsi dai serpenti
che lo avvincono. Mammona è il loro idolo, essi lo pregano non soltanto con le loro labbra, ma
con tutte le forze del loro corpo e del loro animo. La terra ai loro occhi altro non è se non una
Borsa, ed essi sono convinti di non avere quaggiù altra destinazione che quella di diventare più
ricchi dei loro vicini. Il traffico si è impossessato di tutti i loro pensieri, lo scambio degli oggetti
forma il loro unico svago. Quando viaggiano, si portano in giro, per così dire, le loro merci e il loro
banco sulla schiena, e non parlano che di interessi e di guadagno. Se per un istante perdono
d'occhio i loro affari ciò avviene soltanto per ficcare il naso in quelli degli altri".
Invero la signoria pratica del giudaismo sul mondo cristiano ha raggiunto nel Nordamerica
l'espressione non equivoca, normale, così che l'annunzio stesso dei Vangelo, la predicazione
cristiana è divenuto un articolo di commercio, e il commerciante fallito traffica in Vangelo come
l'evangelista arricchito traffica negli affari. "Tel que vous voyez à la tête d'une congrégation
respectable a commencé par être marchand; son commerce étant tombé, il s'est fait ministre; cet
autre a débuté par le sacerdoce, -mais dès qu'il a eu quelque somme d'argent à sa disposition, il a
laissé la chaire pour le negoce. Aux yeux d'un grand nombre, le ministère religieux est une véritable
carrière industrielle" (Beaumont, op. cit., pp. 185, 186).
Secondo Bauer, è una situazione ipocrita, che in teoria all'ebreo vengano rifiutati i diritti politici,
mentre in pratica egli possiede un potere enorme ed esercita en gros la sua influenza politica,
che en détail gli viene ridotta (Judenfrage, p. 114).
La contraddizione in cui si trova la potenza politica pratica dell'ebreo con i suoi diritti politici, è la
contraddizione della politica e della potenza del denaro in generale. Mentre la prima sta
idealmente al di sopra della seconda, nel fatto ne è divenuta la serva.
Il giudaismo si è mantenuto a lato del cristianesimo non soltanto come critica religiosa del
cristianesimo, non soltanto come dubbio vivente sulla nascita religiosa del cristianesimo, ma
parimenti perché lo spirito pratico-giudaico, perché il giudaismo si è mantenuto nella società
cristiana, anzi vi ha ottenuto la sua massima perfezione. L'ebreo, che sta nella società civile come
membro particolare, è solo la manifestazione particolare dei giudaismo della società civile.
Il giudaismo si è conservato non già malgrado la storia, bensì per la storia.
Dalle sue proprie viscere la società civile genera continuamente l'ebreo.
Qual era in sé e per sé il fondamento della religione ebraica? Il bisogno pratico, l'egoismo.
Il monoteismo dell'ebreo è perciò, nella realtà, il politeismo dei molti bisogni, un politeismo che
persino della latrina fa un oggetto della legge divina. Il bisogno pratico, l'egoismo, è il principio
della società civile, ed emerge come tale puramente, non appena la società civile abbia
completamente partorito lo Stato politico. Il Diodel bisogno pratico e dell'egoismo è il denaro.
Il denaro è il geloso Dio d'Israele, di fronte al quale nessun altro Dio può esistere. Il denaro avvilisce
tutti gli Dei dell'uomo e li trasforma in una merce. Il denaro é il valore universale: per sé costituito,
di tutte le cose. Esso ha perciò spogliato il mondo intero, il mondo dell'uomo come la natura, del
valore loro proprio. Il denaro è l'essenza, fatta estranea all'uomo, del suo lavoro e della sua
esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l'adora.
Il Dio degli ebrei si è mondanizzato, è divenuto un Dio mondano. La cambiate è il Dio reale
dell'ebreo. Il suo Dio è soltanto la cambiale illusoria.
La concezione che si acquista della natura sotto la signoria della proprietà privata e del denaro, è il
reale disprezzo, la pratica degradazione della natura, che esiste bensì nella religione ebraica, ma
esiste soltanto nell'immaginazione.
In questo senso Tommaso Münzer dichiara insopportabile "che tutte le creature siano diventate
proprietà, i pesci nell'acqua gli uccelli nell'aria, le piante sulla terra: anche la creatura dovrebbe
diventar libera".
Ciò che si trova astrattamente nella religione ebraica, il disprezzo della teoria, dell'arte, della storia,
dell'uomo come fine a se stesso, è il reale, consapevole punto di partenza, la virtù dell'uomo del
denaro. Lo stesso rapporto sessuale, il rapporto tra uomo e donna ecc., diviene un oggetto di
commercio! La donna è oggetto di traffico.
La chimerica nazionalità dell'ebreo è la nazionalità del commerciante, in generale dell'uomo del
denaro.
la legge, campata in aria, dell'ebreo è soltanto la caricatura religiosa della moralità campata in aria
e del diritto in generale, dei riti soltanto formali, dei quali si circonda il mondo dell'egoismo.
Anche qui il rapporto più alto dell'uomo è il rapporto legale, il rapporto verso le leggi, che per lui
valgono non perché siano le leggi della sua propria volontà ed essenza, ma perché
esse dominano e perché la loro trasgressione viene punita.
Il gesuitismo giudaico, il medesimo gesuitismo pratico che Bauer indica nel Talmud, è il rapporto
del mondo dell'interesse individuale con le leggi che lo dominano, la cui astuta elusione è l'arte
suprema di questo mondo.
Invero, il movimento di questo mondo entro le sue leggi è necessariamente una costante
soppressione della legge.
Il giudaismo, come religione, non ha potuto, da un punto di vista teorico svilupparsi ulteriormente,
poiché la concezione del bisogno pratico è per sua natura limitata e si esaurisce in pochi tratti.
La religione del bisogno pratico, per la sua essenza, poteva trovare il compimento non nella teoria
ma soltanto nella prassi, appunto perché la sua verità è la prassi.
Il giudaismo non poteva creare un nuovo mondo; esso poteva solo attirare nell'ambito della
propria attività le nuove creazioni ed i nuovi rapporti del mondo, perché il bisogno pratico, il cui
intelletto è l'egoismo, si comporta passivamente e non si amplia a piacere, ma si trova ampliato
con il progressivo sviluppo delle condizioni sociali.
Il giudaismo raggiunge il suo vertice col perfezionamento della società civile; ma la società civile si
compie soltanto nel mondo cristiano. Soltanto sotto la signoria del cristianesimo, che
rende esteriori all'uomo tutti i rapporti nazionali, naturali, etici, teoretici, la società civile poteva
separarsi completamente dalla vita dello Stato, lacerare tutti i nostri legami dell'uomo con la
specie, porre l'egoismo, il bisogno particolaristico, al posto di questi legami con la specie,
dissolvere il mondo degli uomini in un mondo di individui atomistici, ostilmente contrapposti gli
uni agli altri.
Il cristianesimo è scaturito dal giudaismo. Nel giudaismo esso si è nuovamente dissolto.
Il cristiano era fin da principio l'ebreo teorizzante, l'ebreo è perciò il cristiano pratico, ed il cristiano
pratico è diventato nuovamente ebreo.
Solo in apparenza il cristianesimo aveva superato il giudaismo. Esso era troppo nobile, troppo
spiritualistico per rimuovere la grossolanità del bisogno pratico in altro modo che mediante
l'elevazione nel puro aere.
Il cristianesimo è il pensiero sublime del giudaismo, il giudaismo è la piatta applicazione del
cristianesimo, ma questa applicazione poteva diventare universale soltanto dopo che il
cristianesimo in quanto religione perfetta avesse compiuto teoricamente l'auto-estraneazione
dell'uomo da sé e dalla natura.
Appena allora il giudaismo poteva pervenire alla signoria universale e fare dell'uomo espropriato,
della natura espropriata oggetti alienabili, vendibili, caduti sotto la schiavitù del bisogno egoistico,
del traffico.
L'alienazione è la pratica dell'espropriazione. Come l'uomo, fino a che è impigliato nella religione,
sa oggettivare il proprio essere soltanto facendone un estraneoessere fantastico, così sotto il
dominio del bisogno egoistico egli può operare praticamente, praticamente produrre oggetti,
soltanto ponendo i propri prodotti, come la propria attività, sotto il dominio di un essere estraneo,
e conferendo ad essi il significato di un essere estraneo: il denaro.
Il cristiano egoismo della beatitudine nella sua pratica compiuta si capovolge necessariamente
nell'egoismo fisico dell'ebreo, il bisogno celeste in quello terreno, il soggettivismo nell'egoismo.
Noi spieghiamo la tenacia dell'ebreo non con la sua religione, ma piuttosto col fondamento umano
della sua religione, il bisogno pratico, l'egoismo.
Poiché l'essenza reale dell'ebreo nella società civile si è universalmente realizzata, mondanizzata, la
società civile non poteva convincere l'ebreo della irrealtà della sua essenza religiosa, che è
appunto soltanto la concezione ideale del bisogno pratico. Non quindi nel Pentateuco o nel
Talmud, ma nella società odierna noi troviamo l'essenza dell'ebreo odierno, non come essere
astratto ma come essere supremamente empirico, non soltanto come limitatezza dell'ebreo, ma
come limitatezza giudaica della società.
Non appena la società perverrà a sopprimere l'essenza empirica del giudaismo, il traffico e i suoi
presupposti, l'ebreo diventerà impossibile, perché la sua coscienza non avrà più alcun oggetto,
perché la base soggettiva dei giudaismo, il bisogno pratico si umanizzerà, perché sarà abolito il
conflitto dell'esistenza individuale sensibile con l'esistenza dell'uomo come specie.
L'emancipazione sociale dell'ebreo è l'emancipazione della società dal giudaismo.
2 -La critica della filosofia. Dalla critica della religione Marx passò alla critica della filosofia; nella
fattispecie della filosofia hegeliana.
“A questo punto”, scrisse Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, “è venuto forse il
momento di dare qualche indicazione tanto sulla dialettica hegeliana in generale per una
comprensione e una giustificazione [di quel che s'è detto], quanto in particolare sulla sua
applicazione alla fenomenologia e alla logica, e infine sua la situazione del movimento critico
recente.
E stato cosi forte l'interesse per il contenuto del vecchio mondo, e così violento lo sviluppo della
moderna, critica tedesca, per quanto impacciato dalla sua materia, che si è avuto un
comportamento completamento acritico di fronte al metodo critico ed una completa incoscienza
rispetto alla domanda, in parte formale, ma realmente essenziale: come dobbiamo comportarci
con la dialettica hegeliana? Questa incoscienza nei confronti del rapporto tra la critica moderna e
la filosofia hegeliana in generale e la dialettica in particolare, è stata cosi grande che critici come
Strauss e Bruno Bauer, il primo in tutte le sue opere, il secondo nei suoi Sinottici (dove contro
Strauss colloca «l'autocoscienza» dell'uomo astratto al posto della sostanza della «natura
astratta») e anche nel Cristianesimo rivelato, sono ancora, per lo meno potenzialmente, del tutto
avviluppati nella logica di Hegel. Ad esempio, nel Cristianesimo rivelato si legge: «Come se
l'autocoscienza ponendo il mondo, la distinzione, e producendo se stessa in ciò che produce, dal
momento che sopprime un'altra volta la distinzione tra ciò che è prodotto e se medesima, ed è se
stessa soltanto nel produrre e nel movimento, come se l'autocoscienza non avesse in questo
movimento il suo scopo, ecc.»; oppure: «Essi [i materialisti francesi] non hanno ancor potuto
vedere che il movimento dell'universo è diventato realmente per sé ed ha raggiunto l'unità con se
stesso solo come movimento dell'autocoscienza». Espressioni, queste, che non solo non mostrano
una differenza dalla concezione hegeliana neppure nella terminologia, ma anzi la riproducono
letteralmente.
[XII] Quanto poco fosse presente in questi critici la consapevolezza del loro rapporto con la
dialettica hegeliana nell'atto stesso della loro critica (Bauer nei Sinottici), e quanto poco una simile
consapevolezza sia sorta dopo l'atto della critica sostanziale, lo dimostra Bauer quando nella
sua Buona causa della libertà respinge la domanda impertinente del signor Gruppe: «E adesso che
ne è della logica?» e la respinge rinviandola ai critici futuri.
Ma anche ora, dopoché Feuerbach, sia nelle sue Tesi pubblicate negli Anekdota, sia diffusamente
nella sua Filosofia dell' avvenire, ebbe abbattuto colpendola nel suo cuore la vecchia dialettica e la
vecchia filosofia; dopoché, invece, quella critica, che non aveva saputo compiere questa
operazione, la vide, al contrario, già compiuta, essendo stata proclamata come la critica pura,
decisiva, assoluta, e venuta in chiaro con se stessa; dopoché essa nella sua presunzione
spiritualistica ebbe ridotto l'intero movimento storico al rapporto tra il resto del mondo - che di
fronte ad essa cade sotto la categoria della «massa» - e se medesima, ed ebbe risolto tutte le
opposizioni dogmatiche nell'unica opposizione dogmatica tra la propria furberia e la stupidità del
mondo, tra il Cristo critico e l'umanità, come «folla»; dopoché essa, giorno per giorno, ora per ora,
ebbe dimostrato la sua eccellenza sulla insulsaggine della massa; dopoché, finalmente, ebbe
annunciato il giorno del giudizio critico proclamando che era vicino il momento in cui tutta
l'umanità caduta si sarebbe schierata di fronte ad essa, e da essa sarebbe stata divisa in gruppi, e
ciascuna schiera particolare avrebbe ricevuto il suo testimonium paupertatis; dopoché essa ebbe
fatto imprimere la sua superiorità sia su tutti i sentimenti umani sia sul mondo - sul quale,
troneggiando, chiusa nella sua orgogliosa solitudine, fa scrosciare di tanto in tanto dalle sue
sarcastiche labbra un'olimpica risata - dopo tutti questi sollazzevoli gesti dell'idealismo (del giovane
hegelismo) che rende l'ultimo respiro sotto le spoglie della critica, esso non ha espresso neppure il
sospetto che si dovesse ormai venire ad una discussione critica con la propria madre, con la
dialettica hegeliana, come pure non ha saputo mettere in rilievo il suo rapporto critico con la
dialettica di Feuerbach: atteggiamento completamente acritico verso se stessa.
Feuerbach è l'unico che si trovi in un rapporto serio, in un rapporto critico con la dialettica
hegeliana ed abbia fatto in questo campo vere e proprie scoperte: in generale è il vero superatore
della vecchia filosofia. La grandezza della sua opera e la semplicità senza chiasso con cui Feuerbach
l'ha offerta al mondo, stanno in uno stupefacente contrasto col procedimento inverso degli altri.
Il grande contributo di Feuerbach consiste:
1) nell'aver dimostrato che la filosofia non è altro che la religione ridotta in pensieri e svolta col
pensiero; e che quindi bisogna parimenti condannarla, essendo una nuova forma, un nuovo modo
di presentarsi dell'estraniazione dell'essere umano;
2) nell'aver fondato il vero materialismo e la scienza reale, facendo del rapporto sociale «dell'uomo
con l'uomo» parimenti il principio fondamentale della teoria;
3) nell'aver contrapposto alla negazione della negazione, che pretende di essere l'assolutamente
positivo, il positivo che riposa su se stesso ed è fondato positivamente su se stesso.
Feuerbach spiega la dialettica hegeliana (e istituisce in tal modo il punto di partenza da ciò che è
positivo, da ciò che è certo per via sensibile) nel modo seguente:
Hegel prende le mosse dall'estraniazione (logicamente, dall'infinito, dall'universale astratto) della
sostanza, dalla astrazione assoluta e fissata; vale a dire, con espressione popolare, dalla religione e
dalla teologia.
In secondo luogo: egli sopprime l'infinito, e pone l'effettivo, il sensibile, il reale, il finito, il
particolare (la filosofia, la soppressione della religione e della teologia).
In terzo luogo: egli sopprime di nuovo il positivo, e pone di nuovo l'astrazione, l'infinito.
Ristabilimento della religione e della teologia.
Feuerbach intende quindi la negazione della negazione unicamente come la contraddizione della
filosofia con se stessa, come la filosofia che afferma la teologia (trascendenza, ecc.), dopo averla
negata, affermandola quindi in contrasto con se stessa.
La positività ovvero l'autoaffermazione e l'auto-conferma, implicita nella negazione della
negazione, viene intesa come una positività non ancora sicura di se stessa, e quindi viziata dal suo
opposto, dubbiosa di se stessa e quindi bisognosa di dimostrazione, incapace com'è di dimostrarsi
da sé con la propria esistenza, come una positività non confessata [XIII]; e perciò ad essa viene
contrapposta direttamente ed immediatamente la positività che è fondata su se stessa ed è certa
per la via dei sensi.
Ma Hegel, concependo la negazione della negazione - in base alla relazione positiva ivi implicita come l'unico e vero positivo, e in base alla relazione negativa pur ivi implicita, come l'unico atto
vero, come l'atto con cui ogni essere attua se stesso, non ha trovato altro che
l'espressione astratta, logica, speculativa per il movimento della storia, che non è ancora la storia
reale dell'uomo come soggetto presupposto, ma è soltanto l'atto di generazione dell'uomo, la
storia dell'origine dell'uomo. Noi spiegheremo tanto la forma astratta di questo movimento quanto
la differenza che questo movimento presenta in Hegel in contrasto con la critica moderna allo
stesso processo nell'Essenza del Cristianesimo di Feuerbach; o meglio spiegheremo la forma critica
di questo movimento, che in Hegel è ancora non critico.
Uno sguardo al sistema hegeliano. Si deve cominciare con la Fenomenologia di Hegel, dove si trova
il vero luogo di nascita ed è racchiuso il segreto della filosofia hegeliana.
Fenomenologia. A) L'autocoscienza.
I. Coscienza. a) La certezza sensibile o il questo e l'opinione, b) La percezione o la cosa con le sue
proprietà e l'illusione, c) Forza ed intelletto, fenomeno e mondo soprasensibile.
II. Autocoscienza. La verità della certezza di se stessi. a) Indipendenza e dipendenza
dell'autocoscienza, padronanza e servitù. b) Libertà dell'autocoscienza. Stoicismo, scetticismo, la
coscienza infelice.
III. Ragione. Certezza e verità della ragione. a) Ragione osservatrice; osservazione della natura e
dell'autocoscienza. b) Realizzazione dell'autocoscienza razionale mediante se stessa. Il piacere e la
necessità. La legge del cuore e il delirio della presunzione. La virtù e il corso del
mondo, c) L'individualità che è a se stessa reale in sé e per sé. Il regno animale dello spirito e
l'inganno o la cosa stessa. La ragione legislatrice. La ragione esaminatrice delle leggi.
B) Lo spirito.
I. Lo spirito vero: l'eticità. II Lo spirito estraniato a se stesso, la cultura. III. Lo spirito certo di se
stesso, la moralità.
C) La religione.
La religione naturale, la religione estetica, la religione rivelata.
D) Il sapere assoluto.
L'Enciclopedia di Hegel comincia con la Logica, e termina col pensiero puro speculativo e con
il sapere assoluto, con lo spirito che è cosciente di sé e si comprende da se stesso, con lo spirito
filosofico o assoluto, cioè sopra-umano ed astratto. Perciò l'intera Enciclopedia non è altro che
l'essenza tutta spiegata dello spirito filosofico, la sua auto-oggettivazione. [Feuerbach intende
ancora la negazione della negazione, il concetto concreto come il pensiero che si sopravanza nel
pensiero e vuole, come pensiero, essere immediatamente intuizione, natura, realtà]. Cosi pure lo
spirito filosofico non è altro che lo spirito estraniato del mondo, che pensa nell'ambito della
propria autoestraniazione, cioè si comprende astrattamente. La Logica - il denaro dello spirito, il
valore speculativo ideale dell'uomo e della natura - l'essenza dell'uomo e della natura diventata
completamente indifferente di fronte ad ogni determinatezza reale e perciò diventata irreale - il
pensiero alienato, e che perciò astrae dalla natura e dall'uomo reale; il pensiero astratto.
L'esteriorità di questo pensiero astratto... la natura, come essa è per questo pensiero astratto. Essa
è al pensiero astratto esterna, è per il pensiero astratto la perdita di se stesso; il quale la apprende
a sua volta in modo esterno, come pensiero astratto, ma come pensiero astratto alienato. Infine lo
spirito, questo pensiero che ritorna al suo luogo d'origine, che come spirito antropologico,
fenomenologico, psicologico, etico, artistico-religioso vale pur sempre soltanto per sé, sino a che si
trova alla fine come sapere assoluto nello spirito ormai assoluto, cioè astratto, e come tale si
riferisce a se stesso, e ivi raggiunge la sua esistenza cosciente e adeguata. Infatti, la sua esistenza
reale è l'astrazione.
In Hegel vi è un duplice errore. Il primo si rivela con la massima chiarezza nella Fenomenologia,
questo luogo d'origine della filosofia hegeliana. Quando egli, ad esempio, concepisce la ricchezza, il
potere statale, ecc., come enti resi estranei all'essere umano, ciò accade soltanto nella loro forma
ideale... Essi sono enti ideali, e quindi sono puramente e semplicemente una estraniazione del
pensiero filosofico puro, cioè astratto. Tutto il movimento finisce perciò nel sapere assoluto. Ciò da
cui questi oggetti sono alienati e a cui si contrappongono con la pretesa di essere oggetti reali, è
appunto il pensiero astratto. Il filosofo - e dunque proprio una forma astratta dell'uomo estraniato
- si pone come misura del mondo estraniato. Tutta intera la storia dell'alienazione e tutta intera la
revoca di questa alienazione non è quindi altro che la storia della produzione del pensiero astratto,
cioè assoluto, del pensiero logico speculativo. L'estraniazione che costituisce perciò l'interesse
proprio di questa alienazione e della soppressione di questa alienazione, è l'opposizione,
all'interno dello stesso pensiero, tra l'in sé e il per sé, tra la coscienza e l'autocoscienza, tra
l'oggetto e il soggetto, cioè è l'opposizione tra il pensiero astratto e la realtà sensibile o la
sensibilità reale. Tutte le altre opposizioni e tutti gli altri movimenti di queste opposizioni non sono
che l'apparenza, l'involucro, la forma essoterica di queste opposizioni, che sono le uniche
interessanti e costituiscono il senso delle altre opposizioni, delle opposizioni profane. Come
essenza posta e quindi da sopprimere dell'estraniazione vale [per Hegel] non già il fatto che
l'essere umano si oggettivizzi in modo disumano, in opposizione a se stesso, ma il fatto che si
oggettivizza differenziandosi e opponendosi al pensiero astratto.
[XVIII] L'appropriazione delle forze essenziali dell'uomo, diventate oggetti e oggetti estranei, è
dunque prima di tutto solo una appropriazione che ha luogo nella coscienza, nel pensiero puro,
cioè nell'astrazione, è l'appropriazione di questi oggetti come idee e movimenti ideali: perciò già
nella Fenomenologia, ad onta del suo aspetto del tutto negativo e critico, e nonostante che vi sia
realmente contenuta la critica, spesso anticipatrice dell'ulteriore svolgimento, è latente, ed è
presente come germe, come potenza, come un segreto, il positivismo acritico e l'idealismo
parimenti acritico delle opere successive di Hegel, questa dissoluzione e restaurazione filosofica
dell'empirismo presente. In secondo luogo, la rivendicazione del mondo oggettivo in favore
dell'uomo - per esempio, la conoscenza che la coscienza sensibile non è una coscienza
astrattamente sensibile, ma una coscienza umanamente sensibile, che la religione, la ricchezza,
ecc., non sono che la realtà estraniata dell'oggettivazione umana, delle forze essenziali umane nate
per operare, e quindi non sono che la via d'accesso alla vera realtà umana - questa appropriazione,
o l'intendimento di questo processo, appare quindi ad Hegel in modo tale che la sensibilità, la
religione, il potere statale, ecc., sono enti spirituali - e infatti solo lo spirito è la vera essenza
dell'uomo, e la vera forma dello spirito è lo spirito pensante, lo spirito logico, speculativo.
L'umanità della natura e della natura prodotta dalla storia, dei prodotti dell'uomo, si manifesta nel
fatto che essi sono prodotti dello spirito astratto e dunque, in quanto momenti spirituali, sono enti
ideali. La Fenomenologia è perciò la critica nascosta, non ancora chiara a se stessa, e mistificatrice;
ma nella misura in cui essa tien ferma l' estraniazione dell'uomo - anche se l'uomo vi appare
soltanto nella forma dello spirito -, tutti gli elementi della critica si trovano in essa nascosti e
spesso già preparati ed elaborati in un modo che va assai al di là del punto di vista di Hegel. La
«coscienza infelice», la «coscienza nobile», la lotta tra la coscienza nobile e quella ignobile, ecc.,
questi singoli capitoli contengono gli elementi critici - se pure ancora in una forma estraniata - di
interi settori, come la religione, lo stato, la vita civile, ecc. Quindi, come l'essenza, l'oggetto sono
enti ideali, così il soggetto è sempre coscienza o autocoscienza; o meglio, l'oggetto appare solo
come coscienza astratta, l'uomo solo come autocoscienza; le forme distinte dell'estraniazione, che
si presentano, sono perciò solo forme diverse della coscienza e dell'autocoscienza. Come la
coscienza astratta - quella nella forma della quale viene inteso l'oggetto - è, in sé, semplicemente
un momento distintivo dell'autocoscienza, così pure quale risultato del movimento si presenta
l'identità dell'autocoscienza con la coscienza, il sapere assoluto, il movimento del pensiero astratto
procedente non più verso l'esterno, ma ancora e soltanto in se stesso come risultato; vale a dire il
risultato è la dialettica del pensiero puro.
[XXIII ] L'importante nella Fenomenologia di Hegel e nel suo risultato finale - la dialettica della
negatività come principio motore e generatore - sta dunque nel fatto che Hegel concepisce
l'autogenerazione dell'uomo come un processo, l'oggettivazione come una contrapposizione, come
alienazione e soppressione di questa alienazione; che in conseguenza egli intende l'essenza del
lavoro e concepisce l'uomo oggettivo, l'uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio
lavoro. Il comportamento reale, attivo dell'uomo con se stesso come essere che appartiene ad una
specie, o la attuazione di sé come essere reale appartenente ad una specie, cioè come essere
umano, è possibile soltanto quando egli esplica realmente tutte le forze proprie della sua specie ciò che di nuovo è possibile soltanto attraverso l'opera collettiva dell'uomo, cioè solo come
risultato della storia -, e si riferisce ad esse come a oggetti, ciò che anzitutto è possibile di nuovo
soltanto nella forma dell'estraniazione.
L'unilateralità e il limite di Hegel esporremo ora distesamente con riferimento al capitolo finale
della Fenomenologia intorno al sapere assoluto: un capitolo che contiene sia lo spirito concentrato
della Fenomenologia, e il suo rapporto con la dialettica speculativa, sia anche la consapevolezza
che Hegel ha di entrambe [la fenomenologia e la dialettica] e del loro rapporto reciproco.
In via preliminare anticipiamo ancora soltanto questo: Hegel si è posto dal punto di vista
dell'economia politica moderna. Concepisce il lavoro come l'essenza, come l'essenza che si avvera
dell'uomo; egli vede solo il lato positivo del lavoro, non quello negativo. Il lavoro è il divenire-persé dell'uomo nell'ambito dell'alienazione o come uomo alienato. Il solo lavoro che Hegel conosce e
riconosce, è il lavoro astrattamente spirituale. Quindi quel che costituisce in generale
l'essenza della filosofia,l'alienazione dell'uomo che conosce se stesso o la scienza che pensa se
stessa alienata, Hegel concepisce come la sua essenza, e quindi può di fronte alla filosofia
precedente ricapitolarne i diversi momenti e presentare la sua filosofia come la filosofia. Quello
che gli altri filosofi hanno fatto - concepire i singoli momenti della natura e della vita umana come
momenti dell'autocoscienza e più precisamente dell'autocoscienza astratta - Hegel lo sa in base al
fare della filosofia; perciò la sua scienza è assoluta.
Passiamo ora al nostro argomento.
Il sapere assoluto. Capitolo ultimo della Fenomenologia.
La cosa principale è che l'oggetto della coscienza non è altro che l'autocoscienza o che l'oggetto è
soltanto l'autocoscienza oggettivata, l'autocoscienza come oggetto. (Posizione dell'uomo =
autocoscienza).
Si tratta quindi di superare l'oggetto della coscienza. L'oggettività come tale vale come rapporto
umano estraniato, non corrispondente all'essere umano, alla autocoscienza. La nuova
appropriazione dell'essere umano oggettivo, fatto estraneo sotto la determinazione
dell'estraniazione, ha dunque il significato di sopprimere non soltanto l'estraniazione, ma anche
l'oggettività; onde l'uomo vale come un essere non oggettivo, spiritualistico.
Il movimento che conduce al superamento dell'oggetto della coscienza è descritto da Hegel nel
modo seguente:
L'oggetto si mostra non soltanto nel suo ritorno all'Io-personale(è questa, secondo Hegel, la
comprensione unilaterale - cioè comprendente un solo lato - di quel movimento). L'uomo viene
equiparato all'Io-personale. Ma l'Io-personale non è altro che l'uomo astrattamente inteso e
prodotto mediante una astrazione. L'uomo è egoista. I suoi occhi, le sue orecchie, ecc., sono
egoiste; ognuna delle sue forze essenziali ha in lui la caratteristica di essere egoista. Ma perciò è
falsissimo dire: l'autocoscienza ha occhi, orecchie, forze essenziali. L'autocoscienza è, se mai, una
qualità della natura umana, dell'occhio umano, ecc., non già la natura umana è una qualità [XXIV]
dell'autocoscienza.
L'io-personale astratto e fissato per sé è l'uomo come egoista astratto, l'egoismo elevato, nella sua
pura astrazione, al pensiero. (Ritorneremo più tardi su questo punto).
L'essere umano, l'uomo, è equiparato in Hegel all'autocoscienza. Ogni estraniazione dell'essere
umano è quindi null'altro che estraniazione dell'autocoscienza. L'estraniazione della autocoscienza
non vale come espressione, come espressione riflettentesi nel sapere e nel pensiero, della
estraniazione reale dell'essere umano. L'estraniazione effettiva, che appare come reale, è anzi,
secondo la sua più intima e nascosta essenza - messa in luce soltanto dalla filosofia -, null'altro che
l'apparenza [il fenomeno] dell'estraniazione dell'essere umano reale, dell'autocoscienza. Per tale
ragione la scienza che comprende questo si chiama «fenomenologia». Quindi ogni nuova
appropriazione dell'essere oggettivo estraniato appare come una incorporazione
nell'autocoscienza; l'uomo che s'impossessa del proprio essere è soltanto l'autocoscienza che si
impossessa dell'essere oggettivo, il ritorno dell'oggetto all'Io-personale è perciò la nuova
appropriazione dell'oggetto.
Esaminato da tutte le parti il superamento dell'oggetto della coscienza si esprime in ciò:
1) che l'oggetto come tale si presenta alla coscienza sulla via di dileguarsi;
2) che è l'alienazione dell'autocoscienza che pone la «cosalità»;
3) che questa alienazione ha un significato non solo negativo ma positivo;
4) ed ha questo significato positivo non solo per noi o in sé, ma per l'autocoscienza stessa.
5) Per l'autocoscienza l'elemento negativo dell'oggetto o la sua propria soppressione, ha un
significato positivo o conosce questa sua negatività per il fatto che essa stessa [l'autocoscienza] si
aliena, poiché in questa alienazione si pone come oggetto o pone l'oggetto come se stessa in grazia
dell'unità inscindibile dell' essere-per-sé.
6) D'altra parte si trova qui ad un tempo quest'altro momento, consistente in ciò che la
autocoscienza ha parimenti soppresso e ripreso in sé questa alienazione e questa oggettività, e
quindi nel suo essere altro in quanto tale è presso di sé.
7) Questo è il movimento della coscienza e questa è perciò la totalità dei suoi momenti.
8) Essa deve in egual modo riferirsi all'oggetto secondo la totalità delle determinazioni dell'oggetto
e deve averlo cosi appreso secondo ciascuna di queste. Questa totalità delle determinazioni
dell'oggetto fa dell'oggetto in sé un ente spirituale e per la coscienza ciò avviene in verità quando
ogni singola determinazione è appresa come determinazione dell'Io-personale o per il già
menzionato comportamento spirituale verso di esse.
ad 1) Che l'oggetto come tale si presenti alla coscienza sulla via di dileguarsi, è il ritorno sopra
ricordato dell'oggetto all'Io-personale.
ad 2) L' alienazione dell' autocoscienza pone la cosalità. Poiché uomo è uguale ad autocoscienza, il
suo essere oggettivo alienato o la cosalità è uguale all'autocoscienza alienata (la cosalità è ciò che
per lui è oggetto, e oggetto è veramente per lui soltanto ciò che è per lui oggetto essenziale, e
quindi ciò che è il suo essere oggettivo. Siccome non l'uomo reale, e quindi neppure la natura l'uomo è la natura umana - sono come tali, diventati soggetti, ma solo l'astrazione dell'uomo,
l'autocoscienza, cosi la cosalità può essere soltanto l'autocoscienza alienata); e la cosalità è posta
da questa alienazione. E' del tutto naturale che un essere vivente, naturale, munito e provveduto
di forze essenziali oggettive, cioè materiali, abbia oggetti naturali reali del suo essere, come è
altrettanto naturale che la sua aut0-ienazione consista nella posizione di un mondo reale, ma sotto
la forma dell' esteriorità, e di conseguenza di un mondo oggettivo non appartenente al suo essere
e predominante. Non c'è nulla di incomprensibile e di misterioso in tutto ciò. Anzi sarebbe
misterioso il contrario. Ma è ugualmente chiaro che una autocoscienza, cioè la sua alienazione,
può porre soltanto la cosalità, cioè può porre soltanto una cosa astratta, una cosa dell'astrazione e
non una cosa reale. Ed è [XXVI] inoltre chiaro che lacosalità non è perciò assolutamente nulla di per
sé stante, di essenziale di fronte alla autocoscienza, ma è una semplice cosa creata, una cosa posta
dall'autocoscienza; e questa cosa posta, invece di confermare se stessa, è soltanto una conferma
dell'atto del porre che fissa per un attimo la sua energia in quanto prodotto e le attribuisce in
apparenza - ma solo per un istante - la parte di un essere reale e per sé stante.
Se con la sua alienazione l'uomo reale, corporeo, piantato sulla terra ferma e tonda, quest'uomo
che espira ed aspira tutte le forze della natura, pone le sue forze essenziali, reali ed oggettive,
come oggetti estranei, questo at-to del porre non è soggetto; è la soggettività di forze essenziali
oggettive, la cui azione deve essere quindi anch'essa oggettiva. L'essere oggettivo opera
oggettivamente; né opererebbe oggettivamente, se l'oggettività non si trovasse nella
determinazione del suo essere. Crea, pone solo oggetti, perché è posto da oggetti, perché è
originariamente natura. Dunque nell'atto del porre esso non passa dalla sua «attività pura» ad una
creazione dell'oggetto, ma il suo prodotto oggettivo non fa che confermare la sua attività
oggettiva, la sua attività come attività di un essere naturale oggettivo.
Vediamo qui come il naturalismo o umanismo condotto al proprio termine si distingua tanto
dall'idealismo che dal materialismo, e sia ad un tempo la verità che unisce entrambi. E insieme
vediamo che solo il naturalismo è in grado di comprendere l'azione della storia universale.
L'uomo è immediatamente un essere naturale. Come essere naturale, come essere naturale
vivente, egli è in parte fornito di forze naturali, di forze vitali, cioè è un essere naturale attivo: e
queste forze esistono in lui come disposizioni e facoltà, come impulsi; in parte egli è, in quanto
essere naturale, oggettivo, dotato di corpo e di sensi, un essere passivo condizionato e limitato, al
pari degli animali e delle piante: vale a dire, gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come
oggetti da lui indipendenti, ma questi oggetti sono oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali,
indispensabili ad attuare e confermare le sue forze essenziali. Che l'uomo sia un essere reale ed
oggettivo dotato di corpo, di forze naturali, di vita, di sensi, significa che egli ha per oggetto del suo
essere, delle sue manifestazioni vitali, oggetti reali e sensibili, o che egli può estrinsecare la sua vita
soltanto in oggetti reali e sensibili. Essere oggettivi, naturali, sensibili, e parimenti avere oggetto,
natura e sensi fuori di noi o essere noi stessi oggetto, natura e sensi nei confronti di un terzo, è la
stessa cosa. ha. fame è un bisogno naturale; essa quindi ha bisogno di una natura fuori di sé, di un
oggetto fuori di sé, per soddisfarsi e calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che un corpo ha di un
oggetto esterno a lui, indispensabile alla sua integrazione e alla estrinsecazione del suo essere. Il
sole è l'oggetto delle piante, un oggetto a loro indispensabile, un oggetto che ne conferma la vita;
parimenti, la pianta è oggetto del sole, come estrinsecazione della forza vivificatrice del sole, della
forza essenziale oggettiva del sole.
Un essere che non abbia la propria natura fuori di sé, non è un essere naturale, non partecipa
all'essere della natura. Un essere, che non abbia un oggetto fuori di sé, non è un essere oggettivo.
Un essere, che non sia esso stesso oggetto nei confronti di un terzo, non ha nessun essere per suo
oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è oggettivo.
[XXVII] Un essere non oggettivo è un non-essere. Si ponga un essere che non sia esso stesso
oggetto, né abbia un oggetto. Un essere siffatto sarebbe in primo luogo l'unico essere, non
esisterebbe essere alcuno fuori di lui, ed egli esisterebbe solitario e solo. Infatti, non appena si
danno oggetti fuori di me, non appena io non sono solo, io sono un altro, una realtà altra da quella
dell'oggetto fuori di me. Per questo terzo oggetto io sono dunque una realtà altra da quella che
esso è, cioè sono il suo oggetto. Un essere, che non sia oggetto di un altro essere, suppone dunque
che non esista nessun essere oggettivo. Non appena io ho un oggetto, quest'oggetto ha me per
oggetto. Ma un essere non oggettivo è un essere irreale, non afferrabile coi sensi, soltanto
pensato, cioè soltanto immaginato, un essere dell'astrazione. Essere sensibile, cioè essere reale,
vuol dire essere oggetto dei sensi, essere oggetto sensibile, e quindi avere oggetti sensibili fuori di
sé, oggetti della propria sensibilità. Essere sensibile vuol dire essere passivo.
L'uomo come essere oggettivo sensibile è quindi un essere passivo, e poiché sente questo suo
patire, è un essere appassionato. La passione è la forza essenziale dell'uomo che tende
energicamente al proprio oggetto.
Ma l'uomo non è soltanto un essere naturale; è anche un essere naturale umano, cioè è un essere
che è per se stesso, e quindi un essere che appartiene ad una specie; come tale egli si deve attuare
e confermare tanto nel suo essere che nel suo sapere. Perciò gli oggetti umani non sono gli oggetti
naturali, come si presentano in modo immediato; e, d'altra parte, il senso umano, come esso è in
modo immediato, in modo oggettivo, non è sensibilità umana, oggettività umana. Né la natura,
oggettivamente, né la natura, soggettivamente, è immediatamente presente all'essere umano in
forma adeguata. E come tutto ciò che è naturale deve avere un'origine, così anche l'uomo ha il suo
atto d'origine, la storia, che però è per lui un atto d'origine, di cui egli ha conoscenza, e che per ciò
in quanto atto di origine consapevole è un atto di origine che sopprime se stesso. La storia è la vera
storia naturale dell'uomo. (Su cui bisogna ritornare).
In terzo luogo, poiché questo atto di porre la cosalità è esso stesso soltanto un'apparenza, un atto
che contraddice all'essenza della attività pura, deve essere a sua volta soppresso, la cosalità deve
essere negata.
ad 3, 4, 5, 6. 3) Questa alienazione della coscienza ha un significato non soltanto negativo, ma
anche positivo; 4) ed ha questo significato positivo non solo per noi o in sé, ma per essa, per la
coscienza stessa. 5) Per l'autocoscienza l'elemento negativo dell'oggetto o la sua propria
soppressione ha un significato positivo o conosce questa sua negatività per il fatto che essa stessa
si aliena, poiché in questa alienazione si conosce come oggetto o conosce l'oggetto come se stessa
in grazia dell'unità inscindibile dell'essere-per-sé. 6) D'altra parte si trova qui ad un tempo
quest'altro momento, consistente in ciò che l'autocoscienza ha parimenti soppresso e ripreso in sé
questa alienazione e questa oggettività, e quindi nel suo essere altro in quanto tale è presso di sé.
Abbiamo già visto che l'appropriazione dell'essere oggettivo estraniato o la soppressione
dell'oggettività sotto la determinazione dell' estraniazione - che deve procedere dall'estraneità
indifferente sino alla estraniazione ostile reale - significa per Hegel ad un tempo, o meglio
principalmente, la soppressione dell'oggettività, perché per la autocoscienza ciò che vi è
di scandaloso nell'estraniazione non è il carattere determinato dell'oggetto, ma il suo carattere
oggettivo. L'oggetto è quindi qualcosa di negativo, qualcosa che si sopprime da sé, una nullità.
Questa nullità dell'oggetto ha per la coscienza un significato non soltanto negativo ma positivo,
perché questa nullità dell'oggetto è proprio l'auto-conferma della non-oggettività, della [XXVIII]
astrazione, di se stessa. Per la coscienza stessa la nullità dell'oggetto ha un significato positivo per il
fatto che essa conosce questa nullità, che è l'essere oggettivo, come la sua propria autoalienazione; che essa sa che questa nullità ha luogo solo mediante la sua propria autoalienazione..
Il modo con cui la coscienza è e con cui qualcosa è per essa, è il sapere. Il sapere è il suo unico atto.
Quindi qualcosa diviene per essa, in quanto essa sa questo qualcosa. Il sapere è il suo unico
comportamento oggettivo. Il sapere ora sa la nullità dell'oggetto, cioè sa che l'oggetto non si
distingue da esso, che l'oggetto non è per esso, e lo sa per il fatto che conosce l'oggetto come
l'alienazione che esso fa di se stesso; cioè esso conosce se stesso - il sapere come oggetto - per il
fatto che l'oggetto è soltanto l'apparenza di un oggetto, un fantasma, e però non è altro secondo la
sua essenza che il sapere stesso; che si è contrapposto a se stesso e quindi ha contrapposto a se
stesso una nullità, un qualcosa che non ha nessuna oggettività al di fuori del sapere; o in altre
parole il sapere sa che, riferendosi ad un oggetto, è soltanto fuori di sé, si aliena; che soltanto esso
stesso appare a sé come oggetto, o che ciò che gli appare come oggetto non è altri che lui stesso.
D'altra parte, dice Hegel, si trova qui a un tempo quest'altro momento; consistente in ciò che la
coscienza ha parimenti soppresso e ripreso in sé questa alienazione e questa oggettività, e quindi
nel suo esser altro in quanto tale è presso di sé.
Troviamo in questa spiegazione tutte insieme le illusioni della speculazione.
In primo luogo: la coscienza, l'autocoscienza, nel suo esser altro in quanto tale è presso dì sé.
Astraendo qui dall'astrazione di Hegel e collocando al posto dell'autocoscienza l'autocoscienza
dell'uomo, diciamo quindi che questa nel suo essere altro come tale è presso di sé. Qui si verifica in
primo luogo che la coscienza - il sapere come sapere - il pensiero come pensiero - pretende di
essere immediatamente altra da se stessa, pretende d'essere sensibilità, realtà, vita: il pensiero che
si sopravanza nel pensiero (Feuerbach). Questo momento è quivi contenuto, in quanto la coscienza
come coscienza trova il suo motivo di scandalo non nell'oggettività estraniata, ma nell'oggettività
come tale.
In secondo luogo vi si trova che l'uomo auto-ciente, in quanto ha riconosciuto e soppresso il
mondo spirituale - o l'esistenza universale spirituale del suo mondo -come alienazione di se stesso,
pur tuttavia lo riconferma in questa forma alienata e lo fa passare come la sua vera esistenza, lo
ricostituisce, pretende di essere presso dì sé nel suo essere altro come tale; e quindi dopo aver
soppresso, ad esempio, la religione, dopo aver riconosciuto la religione come un prodotto della
alienazione di sé, si trova tuttavia riconfermato nella religione come religione. Qui è la radice del
falso positivismo di Hegel o del suo criticismo solo apparente; è ciò che Feuerbach indica come la
posizione, la negazione e la ricostituzione della religione o della teologia, ma che conviene
intendere in un modo più generale. Dunque la ragione è presso di sé nella non-ragione in quanto
tale. L'uomo che ha riconosciuto che nel diritto, nella politica, ecc., conduce una vita alienata,
conduce in questa vita alienata come tale la sua vera vita umana. Così, il vero sapere, la vera vita è
l'affermazione di sé e la conferma di sé in contraddizione con se stessi, tanto col sapere quanto con
l'essere dell'oggetto.
Di un accomodamento di Hegel nei confronti della religione, dello stato, ecc., non si può dunque
più far parola, dacché questa menzogna è la menzogna del suo principio.
[XXIX] Se io della religione so che è l'autocoscienza umana alienata, so dunque che in essa come
religione è confermata non la mia autocoscienza, ma la mia autocoscienza alienata. E allora so che
la mia autocoscienza, in quanto appartenente a se stessa, alla propria essenza, è confermata non
nella religione, ma piuttosto nella religione annullata, soppressa.
In Hegel la negazione della negazione non è pertanto la conferma dell'essere vero, raggiunta
appunto mediante la negazione dell'essere apparente, ma è la conferma dell'essere apparente o
dell'essere estraniato a se stesso nella sua negazione, o la negazione di questo essere apparente
come essere oggettivo dimorante fuori dell'uomo e da lui indipendente, e il suo trasferimento nel
soggetto.
Una funzione particolare ha quindi la soppressione, dove la negazione e la conservazione,
l'affermazione, sono connesse.
Così, per esempio, nella filosofia del diritto di Hegel il diritto privato soppresso è uguale a morale,
la morale soppressa è uguale a famiglia, la famiglia soppressa è uguale a società civile, la società
civile soppressa è uguale a stato, lo stato soppresso è uguale a storia del mondo. Nella realtà diritto
privato, morale, famiglia, società civile, stato, ecc., rimangono, solo che son diventati momenti,
esistenze e modi d'esistere dell'uomo che non valgono isolatamente, si dissolvono e si producono
reciprocamente, ecc. Momenti del movimento.
Nella loro esistenza reale questo loro essere in movimento è nascosto. Esso appare e si rivela
soltanto nel pensiero, nella filosofia, e perciò la mia vera esistenza religiosa è la mia
esistenza filosofico-religiosa, la mia vera esistenza politica è la mia esistenza filosofico-giuridica, la
mia vera esistenza naturale è l'esistenza filosofico-naturale, la mia vera esistenza artistica è
l'esistenza filosofico-artistica, la mia vera esistenza umana è la mia esistenza filosofica. Parimenti la
vera esistenza della religione, dello stato, della natura, dell'arte è la filosofia della religione, della
natura, dello stato e dell'arte. Ma se soltanto la filosofia della religione, ecc., è per me la vera
esistenza della religione, allora pure io sono veramente religioso soltanto come filosofo della
religione e cosi nego la religiosità reale e l'uomo realmente religioso. Ma nello stesso tempo io li
confermo, in parte entro i limiti della mia propria esistenza o dell'esistenza estranea che
contrappongo ad essi, poiché questa è soltanto la loro espressione filosofica; in parte nella loro
caratteristica forma originaria, perché valgono per me come l'esser-altro soltanto apparente, come
allegorie, come forme, nascoste sotto involucri sensibili, della loro vera esistenza, cioè della mia
esistenza filosofica.
Parimenti la qualità soppressa è uguale a quantità, la quantità soppressa è uguale a misura, la
misura soppressa è uguale ad essenza, l'essenza soppressa è uguale a fenomeno, il fenomeno
soppresso è uguale a realtà, la realtà soppressa è uguale a concetto, il concetto soppresso è uguale
ad oggettività, l'oggettività soppressa è uguale a idea assoluta, l'idea assoluta soppressa è ugua
natura. La natura soppressa è uguale a spirito soggettivo, lo spirito soggettivo soppresso è uguale a
spirito soggettivo etico, lo spirito etico soppresso è uguale ad arte, l'arte soppressa è uguale a
religione, la religione soppressa è uguale a sapere assoluto.
Da una parte, questa soppressione è una soppressione dell'ente pensato, e quindi la proprietà
privata pensata si sopprime nel pensiero della morale. E poiché il pensiero si figura di essere
immediatamente l'altro di se stesso, la realtà sensibile, e quindi la sua azione ha per lui anche il
valore di azione reale sensibile, questa soppressione nel pensiero, che lascia sopravvivere il suo
oggetto nella realtà, crede di avere superato l'oggetto realmente, e d'altra parte questo oggetto,
essendo diventato ormai per essa un momento ideale, ha per essa anche nella sua realtà valore di
un'autoconferma di se stessa, di un'autoconferma dell'autocoscienza, dell'astrazione.
[XXX] Perciò, da un lato, l'esistenza che Hegel sopprime nella filosofia, non è la religione reale, lo
stato reale, la natura reale, ma la religione stessa già come un oggetto del sapere, cioè
la dogmatica; così la giurisprudenza, la scienza politica, la scienza naturale. Da questo lato, dunque,
egli sta in opposizione tanto all'ente reale quanto alla scienza non filosofica, alla scienza immediata
o ai concetti non filosofici di questo ente. Egli quindi contraddice i loro concetti correnti.
D'altra parte, l'uomo religioso, ecc., può trovare in Hegel la sua ultima conferma.
Bisogna ora cogliere i momenti positivi della dialettica hegeliana nell'ambito della determinazione
dell'estraniazione.
a) La soppressione come movimento oggettivo che revoca riportandola a sé l'alienazione. È questo,
espresso entro l'estraniazione, il modo d'intendere l'appropriazione dell'essere oggettivo
attraverso la soppressione della sua estraniazione, il modo estraniato d'intendere l'oggettivazione
reale dell'uomo, l'appropriazione reale del suo essere oggettivo attraverso l'annullamento della
determinazione estraniata del mondo oggettivo, cioè attraverso la sua soppressione, nella sua
esistenza estraniata: così l'ateismo è, in quanto soppressione di Dio, il divenire dell'umanismo
teoretico, e il comunismo, in quanto soppressione della proprietà privata, è la rivendicazione della
vita umana reale come sua proprietà, cioè è il divenire dell'umanismo pratico; o in altre
parole l'ateismo è l'umanismo mediato con se stesso dalla soppressione della religione, il
comunismo è l'umanismo mediato con se stesso dalla soppressione della proprietà privata. Solo
attraverso la soppressione di questa mediazione, che però è un presupposto necessario, si forma
l'umanismo che ha inizio positivamente da se stesso, l'umanismo positivo.
Ma l'ateismo e il comunismo non sono una fuga, una astrazione, una perdita del mondo oggettivo
prodotto dall'uomo, delle sue forze essenziali venute all'oggettività, non sono una povertà che
ritorna alla semplicità non naturale, non sviluppata. Anzi essi sono soltanto il divenire reale, la
realizzazione divenuta reale per l'uomo del suo essere e del suo essere come essere reale.
Così Hegel, intendendo il senso positivo della negazione riferita a se stessa - se pure a sua volta in
modo estraniato -, intende gli atti con cui l'uomo si estrania da se stesso, aliena il proprio essere, e
vien meno alla propria oggettivazione e alla propria realizzazione, come un atto con cui conquista
se stesso, muta il proprio essere, si fa oggettivo e reale. In breve, egli intende - entro l'astrazione - il
lavoro come l'atto con cui l'uomo produce se stesso, e intende il rapporto dell'uomo a se stesso
come rapporto ad essere estraneo e l'attuazione di sé come attuazione di un essere estraneo,
come la coscienza della specie e la vita della specie, in divenire.
b) Ma a prescindere, o meglio come conseguenza dell'assurdità già descritta, in Hegel questo atto
appare in primo luogo come un atto puramente formale, perché astratto, e perché l'essere umano
stesso è ritenuto come null'altro che un essere pensante astratto, come autocoscienza; o in
secondo luogo, perché il modo d'intenderlo è formale e astratto; e quindi la soppressione
dell'alienazione diventa una conferma dell'alienazione, ed il movimento dell'auto-produzione e
della auto-oggettivazione, intese come autoalienazione e autoestraniazione, è per Hegel la
manifestazione assoluta della vita umana, e quindi definitiva, che ha per scopo se stessa ed in sé si
acquieta, essendo pervenuta alla propria essenza.
Questo movimento nella sua forma astratta [XXXI] in quanto dialettica, ha quindi il valore della vita
veramente umana, ed essendo tuttavia un'astrazione, una estraniazione della vita umana, ha
valore di processo divino, e quindi di processo divino dell'uomo, - un processo, percorso dallo
stesso essere assoluto distinto dall'uomo, astratto, puro.
In terzo luogo: questo processo deve avere un portatore, un soggetto; ma il soggetto si forma
soltanto come risultato; questo risultato, il soggetto che sa di essere autocoscienza assoluta, è
quindi Dio, lo spirito assoluto, l' idea che conosce e attua se stessa. L'uomo reale e la natura reale
diventano puri predicati e simboli di questo uomo nascosto, irreale, e di questa natura irreale. Il
soggetto e il predicato stanno quindi fra di loro in un rapporto di inversione assoluta, oggettosoggetto mistico osoggettività oltrepassante l'oggetto, il soggetto assoluto come un processo,
come soggetto che si aliena e ritorna in sé dalla alienazione, ma ad un tempo la riprende in sé, e il
soggetto in quanto è questo processo; il circolo puro e senza riposo che si chiude in se stesso.
Anzitutto il modo formale e astratto di intendere l'atto dell'autoproduzione o della autooggettivazione dell'uomo. Poiché Hegel identifica l'uomo con l'autocoscienza, l'oggetto estraniato,
la realtà estraniata dell'essere dell'uomo non è altro che la coscienza, il pensiero dell'estraniazione,
la sua espressione astratta e quindi priva di contenuto e di realtà, la negazione. La soppressione
dell'alienazione è quindi parimenti null'altro che una soppressione astratta priva di contenuto, di
quella astrazione priva di contenuto, la negazione della negazione. Di conseguenza, l'attività
dell'auto-oggettivazione, che è attività ricca di contenuto, viva, sensibile, concreta, diventa la sua
pura e semplice astrazione, la negatività assoluta, un'astrazione che viene a sua volta fissata come
tale e pensata come attività per sé stante, come l'attività senz'altro. Poiché questa cosiddetta
negatività non è altro che la forma astratta, priva di contenuto, di quell'atto reale e vivo, anche il
suo contenuto può essere soltanto un contenuto formale, prodotto facendo astrazione da ogni
contenuto. Perciò le forme universali ed astratte dell' astrazione, appartenenti ad ogni contenuto,
e quindi altrettanto indifferenti ad ogni contenuto quanto, proprio perciò, valide per ogni
contenuto, le forme del pensiero, le categorie logiche sono staccate dallo spirito reale e dalla
natura reale. (Svolgeremo più oltre il contenuto logico della negatività assoluta).
Il contributo positivo che qui, nella sua logica speculativa, Hegel ha portato a compimento sta in
ciò che i concetti determinati, le forme fisse e universali del pensiero sono, nella loro indipendenza
dalla natura e dallo spirito, un risultato necessario della estraniazione universale dell'essere
umano, e quindi anche dell'umano pensiero, onde Hegel li ha esposti e riassunti come momenti
del processo di astrazione. Per esempio, l'essere soppresso è l'essenza, l'essenza soppressa è il
concetto, il concetto soppresso... l'idea assoluta. Ma che cosa è mai l'idea assoluta? Essa a sua
volta si sopprime da se stessa, se non vuole ripercorrere da capo l'intero atto dell'astrazione e
quindi accontentarsi di essere una totalità di astrazioni o l'astrazione che comprende se stessa. Ma
l'astrazione che si comprende come astrazione sa di non essere nulla; essa deve rinunciare a se
stessa, all'astrazione, e cosi finisce di giungere ad un essere che è proprio il suo contrario, la
natura. Tutta la Logica è dunque la prova che il pensiero astratto non è per se stesso nulla, che
nulla è l'idea assoluta per se stessa, e che solo la natura è qualche cosa.
[XXXII] L'idea assoluta, l'idea astratta che «considerata in base alla sua unità con se stessa è
intuizione» (Hegel, Enciclopedia, 3 ed., p. 222), che «nella assoluta verità di se stessa si decide a
liberare da se stessa il momento della sua particolarità o del suo primo determinarsi e del suo
esser altro, l'idea immediata, come il suo riflesso, come natura» , tutta intera questa idea che si
atteggia in modo cosi strano e barocco, ed ha procurato agli hegeliani tanti grattacapi, non è
assolutamente altro che l'astrazione - cioè il pensatore astratto -, la quale, ammaestrata
dall'esperienza e illuminata intorno alla sua verità, si decide, a certe condizioni - false e ancor esse
astratte -, a rinunciare a se stessa e a metter l'esser altro, il particolare, il determinato al posto del
suo essere presso di sé, del suo esser nulla, della sua universalità e indeterminatezza, a liberare da
sé la natura, che essa nascondeva in se soltanto come astrazione, come oggetto ideale, cioè ad
abbandonare l'astrazione e a contemplarsi finalmente la natura libera da essa. L'idea astratta che
diventa immediatamente intuizione, non è assolutamente null'altro che il pensiero astratto che
rinuncia a se stesso e si decide per l'intuizione. Tutto questo trapasso dalla Logica alla Filosofia
della natura non è altro che il trapasso - tanto difficile da mettere in atto per il pensatore astratto e
quindi da lui descritto in modo tanto avventuroso - dall'astrazione all'intuizione. Il sentimento
mistico, che spinge il filosofo dal pensiero astratto all'intuizione, è il tedio, la nostalgia di un
contenuto.
(L'uomo reso estraneo a se stesso è pure il pensatore reso estraneo al proprio essere, cioè
all'essere naturale ed umano. I suoi pensieri sono quindi spiriti fissi, dimoranti fuor della natura e
dell'uomo. Hegel nella sua Logica ha rinchiusi insieme tutti questi spiriti fissi e concepito ciascuno
di essi, prima, come negazione, cioè come alienazione del pensiero umano, poi come negazione
della negazione, cioè come soppressione di questa alienazione, come manifestazione reale del
pensiero umano; ma essendo in quanto tale ancora prigioniera dell'estraniazione questa negazione
della negazione, in parte, ristabilisce la stessa negazione nella sua estraniazione; in parte si tien
ferma all'ultimo atto, cioè si riferisce a se stessa nell'alienazione quale vera esistenza di questi
spiriti fissi [(cioè Hegel mette l'atto dell'astrazione che gira su se stesso al posto delle astrazioni
fisse; e con ciò ha il merito di averci indicato il luogo di nascita di tutti questi concetti indebiti, che
appartengono, a seconda della loro data d'origine, alle singole filosofie, di averli raccolti insieme, e
di aver creato come oggetto della critica, invece di un'astrazione determinata, lo svolgimento
completo dell'astrazione in tutta la sua estensione). (Vedremo più tardi perché Hegel separa il
pensiero dal soggetto, ma ora è evidente che se l'uomo non è, anche la manifestazione del suo
essere non può essere umana, e quindi anche il pensiero non poteva essere inteso come
manifestazione dell'essere dell'uomo quale soggetto umano e naturale, provvisto di occhi,
orecchie, ecc., vivente nella società, nel mondo, nella natura)]; in parte, in quanto questa
astrazione si intende da se stessa e prova di se stessa un tedio infinito, la rinuncia al pensiero
astratto che si muove soltanto nel pensiero, e che è senz'occhi, senza denti, senz'orecchie, senza
nulla, appare in Hegel come la decisione di riconoscere la natura come essere e di rivolgersi
all'intuizione).
[XXXIII] Ma anche la natura, astrattamente presa, per sé, fissata nella separazione dall'uomo, non è
per l'uomo un bel nulla. S'intende da sé che il pensatore astratto, che si è deciso per l'intuizione,
guarderà la natura astrattamente. Allo stesso modo che la natura si trovava dal pensatore
racchiusa, come idea assoluta, come oggetto ideale, nella sua forma, a lui nascosta e misteriosa;
così egli, liberandola da sé, ha in verità liberato da sé soltanto questa natura astratta, ma con
l'intendimento che essa sia l'esser-altro del pensiero, la natura reale, intuita, distinta dal pensiero
astratto; ha liberato da sé soltanto la natura come oggetto ideale, oppure, per parlare un
linguaggio umano, il pensatore astratto esperimenta, nella sua intuizione della natura, che gli
esseri, che egli nella dialettica divina credeva di creare dal nulla, dalla pura astrazione, quali
prodotti puri del lavoro che il pensiero compie movendosi in se stesso e non affacciandosi mai alla
realtà, non sono null'altro che astrazioni delle determinazioni della natura. Tutta intera la natura,
quindi, non fa che ripetergli le astrazioni logiche in una forma sensibile, esterna. Egli torna ad
analizzare la natura e queste astrazioni. La sua intuizione della natura è dunque soltanto l'atto con
cui egli conferma la sua astrazione dall'intuizione della natura, il processo generativo della sua
astrazione, riprodotto da lui consapevolmente. Così, per esempio, il tempo si identifica con la
negatività che si riferisce a se stessa (p. 238). Al divenire soppresso nell'esistenza corrisponde, in
forma naturale, il movimento soppresso nella materia. La luce è - la forma naturale - la riflessione
in sé. Il corpo come luna e cometa è - la forma naturale - dell'opposizione, che, secondo la Logica, è
da un lato il positivo che riposa su se stesso, dall'altro il negativo che riposa su se stesso. La terra è
la forma naturale del fondamento logico, in quanto è l'unità negativa dell'opposizione, ecc.
La natura come natura, cioè in quanto si distingue ancora sensibilmente da quel senso segreto e ivi
nascosto, la natura separata, distinta da queste astrazioni, non è nulla, è un nulla che si conferma
come nulla, è senza senso o ha soltanto il senso di una cosa esterna che è stata soppressa.
« Nel punto di vista teologico-finito si trova il giusto presupposto che la natura non contiene in se
stessa il fine assoluto», p. 225. Il suo fine è la conferma dell'astrazione. «La natura si è determinata
come l'idea nella forma dell'esser-altro. Poiché l'idea è in tal modo negazione di se stessa ed è
esterna a se stessa, la natura non è esterna soltanto relativamente rispetto a questa idea, ma
l'esteriorità costituisce la determinazione in cui essa è come natura», p. 227.
L'esteriorità non si deve qui intendere come la sensibilità che si estrinseca, e si apre alla luce,
all'uomo sensibile; bensì questa esteriorità è qui da assumere nel senso dell'alienazione, di un
errore, di un difetto che non dovrebbe essere. Infatti, il vero è ancor sempre l'idea. La natura non è
altro che la forma del suo esser-altro. E poiché il pensiero astratto è ciò che è, ciò che è esterno a
lui è essenzialmente soltanto un qualcosa di esterno. Il pensatore astratto riconosce ad un tempo
che la sensibilità è l'essenza della natura, l'esteriorità in opposizione al pensiero che si muove in se
stesso. Ma nello stesso tempo esprime questa opposizione in modo che questa esteriorità della
natura è l'opposizione della natura al pensiero, la sua deficienza, e che essa è, in quanto distinta
dall'astrazione, un essere deficiente. [XXXIV] Un essere deficiente non solo per me, ai miei occhi,
ma anche in se stesso, ha fuori di sé qualcosa che gli manca. Vale a dire, il suo essere è altro da se
stesso. Per il pensatore astratto quindi la natura deve sopprimersi da sé, essendo già da lui posta
come un essere potenzialmente soppresso.
« Lo spirito ha per noi come suo presupposto la natura, di cui è la verità e quindi il principio
assoluto. In questa verità la natura è dileguata e lo spirito risulta come l'idea giunta al suo essere
per sé, della quale tanto l'oggetto quanto il soggetto è il concetto. Questa identità è negatività
assoluta, perché nella natura il concetto ha la sua perfetta oggettività esterna, ma questa sua
alienazione è stata eliminata ed esso in questa alienazione si è identificato con se stesso. Così il
concetto è questa identità solo come ritorno dalla natura», p. 392.
«La rivelazione, che come idea astratta è un passaggio immediato, un divenire della natura, è in
quanto rivelazione dello spirito, che è libero, la posizione della natura come proprio mondo; una
posizione che come riflessione è nello stesso tempo una presupposizione del mondo come natura
per se stante. La rivelazione nel concetto è la creazione dello stesso mondo come essere suo
proprio, in cui il concetto si dà l'affermazione e la verità della sua libertà». «L'assoluto è lo spirito;
questa è la suprema definizione dell'assoluto».
3 - Marx sviluppò questa critica della filosofia hegeliana nella Introduzione del 1857 a Per la critica
dell'economia politica.
“Quando consideriamo un dato paese dal punto di vista economico-politico, incominciamo con la
sua popolazione, la divisione di questa in classi, la città, la campagna, il mare, i diversi rami della
produzione, esportazione e importazione, produzione e consumo Sembra giusto incominciare con
ciò che è reale e concreto, con il presupposto reale, quindi ad esempio nell'economia con la
popolazione, che è la base e il soggetto dell'intero atto sociale di produzione. Eppure,
considerando le cose più da presso, ciò si rivela sbagliato. La popolazione è un'astrazione, se ad
esempio non tengo conto delle classi di cui si compone. Queste classi sono a loro volta una parola
priva di significato, se non conosco gli elementi sui quali esse si fondano. Ad esempio il lavoro
salariato, il capitale ecc. Questi presuppongono lo scambio, la divisione del lavoro, i prezzi ecc. Il
capitale, ad esempio, senza lavoro salariato è nulla, come è nulla senza valore, denaro, prezzo ecc.
Se dunque incominciassi con la popolazione, avrei un'immagine caotica dell'insieme, e attraverso
una determinazione più precisa perverrei sempre più, analiticamente, a concetti più semplici; dal
concreto immaginato ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più
semplici. Da quel punto il viaggio dovrebbe esser nuovamente intrapreso a ritroso, fino a giungere
finalmente, di nuovo, alla popolazione, che questa volta però non sarebbe più la rappresentazione
caotica di un insieme, bensì una ricca totalità di molte determinazioni e relazioni. La prima via è
quella che l'economia ha imboccato storicamente al suo sorgere. Gli economisti del XVII secolo
incominciano ad esempio sempre dall'insieme vivente, la popolazione, la nazione, lo Stato, più
Stati ecc.; finiscono però sempre con l'individuare attraverso l'analisi alcune relazioni astratte e
generali determinanti, come la divisione del lavoro, il denaro, il valore ecc. Appena questi singoli
momenti furono, più o meno fissati e astratti, sorsero, i sistemi economici che dal semplice come il
lavoro, la divisione del lavoro, il bisogno, il valore di scambio, risalirono fino allo Stato, allo scambio
tra le nazioni e al mercato mondiale. Quest'ultimo è evidentemente il metodo scientificamente
corretto. Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, dunque unità di ciò che è
molteplice. Nel pensiero, esso [il concreto] appare quindi come processo di sintesi, come risultato
e non come punto di avvio, benché sia il reale punto d'avvio e quindi anche il punto d'avvio
dell'intuizione e della rappresentazione. Seguendo la prima via, la rappresentazione piena si
volatilizzava in determinazione astratta; seguendo la seconda, le determinazioni astratte
conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. Perciò Hegel cadde
nell'illusione di concepire il reale come risultato del pensiero che si riassume e si approfondisce in
se stesso e che si muove per energia autonoma; mentre il metodo di salire dall'astratto al concreto
è, per il pensiero, solo il modo in cui esso si appropria il concreto, lo riproduce come qualcosa di
spiritualmente concreto. Mai e poi mai è però il processo di formazione [di creazione, di
produzione] del concreto stesso. Ad esempio la più semplice categoria economica, diciamo ad
esempio il valore di scambio, presuppone la popolazione, una popolazione che produce in rapporti
determinati; anche un certo genere di sistema familiare, o comunitario, o statale ecc. Il valore di
scambio non può esistere che come relazione astratta, unilaterale di un insieme concreto, vivente,
già dato. Come categoria, il valore di scambio conduce invece un'esistenza antidiluviana. Alla
coscienza per la quale il pensiero intelligente [pensante, che comprende la realtà, che conosce la
realtà] è l'uomo reale e di conseguenza solo il mondo pensato è, in quanto tale, il reale, — e la
coscienza filosofica è così determinata, — il movimento delle categorie appare quindi come il reale
atto di produzione — il quale purtroppo riceve soltanto un impulso dall'esterno — il cui risultato è
il mondo; e ciò — ma si tratta nuovamente di una tautologia — è esatto nella misura in cui la
totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto di pensieri, è infatti un prodotto del
pensare, del comprendere: in nessun caso è però un prodotto del concetto che pensa al di fuori o
al di sopra dell'intuizione e della rappresentazione e che genera se stesso, bensì è un prodotto
dell'elaborazione in concetti dell'intuizione e dell'immagine. La totalità quale appare nella mente
come totalità di pensieri, è un prodotto della mente pensante che si appropria il mondo nell'unico
modo che le è possibile, un modo differente dall'appropriazione artistica, religiosa, praticospirituale di questo mondo. Il soggetto reale continua a sussistere, prima e dopo, nella sua
autonomia al di fuori della mente; finché cioè la mente mantiene un atteggiamento soltanto
speculativo, soltanto teorico [cioè finché la mente non diventa guida dell’azione pratica, guida del
soggetto nella sua azione pratica, forza che trasforma il mondo]. Anche nel metodo teorico, il
soggetto, la società, deve quindi costantemente esser presente alla rappresentazione come
presupposto.
Ma queste categorie semplici non hanno esse anche un'esistenza storica o naturale indipendente,
prima delle categorie più concrete? Ça dépend. Hegel ad esempio comincia correttamente la
filosofia del diritto con il possesso come la più semplice relazione giuridica del soggetto. Ma non
esiste possesso alcuno prima della famiglia o dei rapporti di dominio o di servitù, che sono rapporti
molto più concreti. Sarebbe invece corretto affermare che esistono famiglie, unità tribali, che
ancoraposseggono soltanto e non hanno proprietà. La categoria più semplice appare dunque come
rapporto di semplici associazioni familiari o tribali in relazione con la proprietà. Nella società più
progredita essa appare come il rapporto più semplice di un'organizzazione sviluppata. Il sostrato
concreto, la cui relazione è il possesso, è però sempre presupposto. Si può immaginare un singolo
selvaggio che sia possessore. Ma in tal caso il possesso non è un rapporto giuridico. È inesatto che
il possesso si sviluppa storicamente in direzione della famiglia. Piuttosto esso presuppone sempre
questa «categoria giuridica più concreta». Con tutto ciò resterebbe sempre il fatto che le categorie
semplici sono espressione di rapporti nei quali il concreto meno sviluppato può essersi realizzato,
senza avere ancora posto la relazione o il rapporto più complesso che è espresso intellettualmente
nella categoria più concreta; mentre il concreto più sviluppato conserva quella stessa categoria
come un rapporto subordinato. Il denaro può esistere ed è storicamente esistito prima che
esistessero il capitale, le banche, il lavoro salariato ecc. In questo senso si può quindi affermare che
la categoria più semplice può esprimere i rapporti dominanti in una totalità meno sviluppata o i
rapporti subordinati in una totalità più sviluppata, rapporti che storicamente esistevano ancor
prima che la totalità si sviluppasse nella direzione espressa da una categoria più concreta.(1) In
questo senso il movimento del pensiero astratto, che dal più semplice risale al complesso,
corrisponderebbe al processo storico reale.
D'altro canto si può affermare che esistono forme sociali molto sviluppate eppure storicamente
meno mature, nelle quali le forme più alte dell'economia, ad esempio la cooperazione, la divisione
sviluppata del lavoro ecc., hanno luogo senza che esista denaro alcuno, ad esempio in Perù.
Anche nelle comunità slave il denaro e lo scambio che lo condiziona non compaiono o compaiono
poco all'interno delle singole comunità, mentre compaiono alle loro frontiere, nel traffico con altri;
in generale è errato porre lo scambio all'interno della comunità come l'elemento costitutivo
originario. All'inizio esso compare invece più nella relazione tra le differenti comunità, che per i
membri all'interno di una medesima comunità. Inoltre: benché il denaro svolga molto presto e in
tutti i sensi un ruolo, nell'antichità esso è però unilateralmente assegnato come elemento
dominante solo a determinate nazioni, a nazioni commerciali. E perfino nell'antichità più evoluta,
presso i greci e i romani, il suo pieno sviluppo — che nella moderna società borghese è
presupposto — appare soltanto nel periodo della dissoluzione. Questa categoria semplicissima si
rivela dunque, storicamente, nella sua piena intensità soltanto nelle situazioni più sviluppate della
società. E senza permeare in alcun caso tutti i rapporti economici. Al culmine del suo sviluppo
l'impero romano rimase ad esempio fondato sull'imposta in natura e la prestazione in natura. A
quel tempo il sistema monetario vi era in realtà sviluppato appieno soltanto nell'esercito. Non
investi mai neppure la totalità del lavoro. Così, benché la categoria più semplice abbia potuto
esistere storicamente prima di quella più concreta, nel suo pieno sviluppo intensivo ed estensivo
essa può appartenere solo a una forma sociale complessa, mentre la categoria più concreta era
più compiutamente sviluppata in una forma sociale meno evoluta.
Il lavoro sembra una categoria semplicissima. Anche la nozione del lavoro in questa generalità —
come lavoro in generale — è antichissima. Nondimeno, compreso in questa semplicità dal punto di
vista economico il «lavoro» è una categoria moderna quanto i rapporti che creano questa semplice
astrazione. Il sistema monetario, ad esempio, pone la ricchezza ancora in modo del tutto oggettivo,
come cosa fuori di sé, nel denaro. Rispetto a questo punto di vista fu un grande progresso quando
il sistema manifatturiero o commerciale trasferì la fonte della ricchezza dall'oggetto nell'attività
soggettiva, nell'attività commerciale e manifatturiera, pur continuando ancor sempre a concepire
questa attività stessa nell'aspetto limitato del far denaro. Rispetto a questo sistema fu poi un
ulteriore progresso quello fisiocratico che pone una determinata forma di lavoro - l'agricoltura come creatrice di ricchezza, e concepisce l'oggetto stesso non più nel travestimento del denaro,
bensì come prodotto in generale, come risultato generale del lavoro. Questo prodotto, in
conformità con la limitatezza dell'attività, è concepito come ancora sempre determinato dalla
natura, prodotto agricolo, prodotto della terra.
È stato uno straordinario progresso che Adam Smith abbia rigettato ogni determinatezza
dell'attività creatrice di ricchezza e l'abbia considerata lavoro in quanto tale, non lavoro
manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma sia l'uno che l'altro. Alla generalità astratta
dell'attività creatrice di ricchezza ora corrisponde anche la generalità dell'oggetto definito come
ricchezza: prodotto in generale o nuovamente lavoro in generale, ma come lavoro passato,
oggettivato. Quanto questa transizione è stata difficile e importante risulta dal fatto che di tanto in
tanto Adam Smith stesso ricade nuovamente nel sistema fisiocratico.(2) Ora potrebbe sembrare
che con ciò sia stata soltanto trovata l'espressione astratta per la relazione più semplice e
antichissima in cui gli uomini — in qualunque forma di società — compaiono come produttori. Per
un verso questo è giusto. Per l'altro non lo è. L'indifferenza verso un genere di lavoro determinato
presuppone una totalità molto sviluppata di generi di lavoro reali, nessuno dei quali domini più
sull'insieme. Così le astrazioni più generali sorgono solo dove più ricco è lo sviluppo concreto, dove
un elemento appare come l'elemento comune a molti, comune a tutti. Allora esso cessa di poter
essere pensato solo in forma particolare. D'altro canto, questa astrazione del lavoro in generale
non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L'indifferenza verso un lavoro
determinato corrisponde a una forma di società nella quale gli individui passano con facilità da un
lavoro all'altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito, quindi indifferente. Non
solo nella categoria, ma nella realtà il lavoro qui è divenuto il mezzo per la creazione della ricchezza
in generale, e come determinazione ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione
particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella più moderna forma di n a delle
società borghesi, gli Stati Uniti. Solo qui diviene per la prima volta praticamente vera l'astrazione
della categoria «lavoro», «lavoro in generale», lavoro sans phrase che è il punto d'avvio
dell'economia moderna. Quindi l'astrazione più semplice, che l'economia moderna colloca al
vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare però
praticamente vera in questa sua astrazione solo come categoria della società più moderna. Si
potrebbe dire che ciò che negli Stati Uniti appare come prodotto storico — questa indifferenza nei
confronti del lavoro determinat — presso i russi, ad esempio, appare come disposizione naturale e
originaria. Ma innanzitutto fa una dannata differenza che del barbari abbiano la disposizione a
essere utilizzati per tutto, o che invece dei civilizzati si dedichino essi stessi a tutto. E poi, presso i
russi, a questa indifferenza verso la determinatezza del lavoro corrisponde praticamente il loro
tradizionale essere legati a un lavoro ben determinato, al quale vengono strappati solo da influssi
esterni.
Questo esempio del lavoro rivela con assoluta evidenza come anche le categorie più astratte,
sebbene siano valide — proprio a causa della loro astrazione — per tutte le epoche, in ciò che vi è
di determinato in questa astrazione stessa sono tuttavia il prodotto di condizioni storiche e hanno
piena validità soltanto per e all'interno di tali condizioni.
La società borghese è l'organizzazione storica più sviluppata e differenziata della produzione. Le
categorie che esprimono i suoi rapporti, la comprensione della sua articolazione, permettono
quindi in pari tempo di comprendere l'articolazione e i rapporti di produzione di tutte le forme di
società scomparse, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui in parte in essa
sopravvivono ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in essa era solo accennato
ha assunto significati compiuti ecc. L'anatomia dell'uomo fornisce una chiave per l'anatomia della
scimmia. Gli accenni a momenti superiori nelle specie animali inferiori possono invece esser
compresi solo se la forma superiore stessa è già nota. L'economia borghese fornisce quindi la
chiave di quella antica ecc. In nessun caso però procedendo come fanne, gli economisti, i quali
cancellano ogni differenza storica e in tutte le forme di società vedono sempre le forme borghesi.
Si possono comprendere il tributo, le decime ecc. se si conosce la rendita fondiaria. Ma non si deve
identificare questa con quelli. Poiché inoltre la società borghese stessa è soltanto una forma di
sviluppo antitetica, certi rapporti delle forme precedenti in essa si troveranno spesso solo del tutto
atrofizzati, o addirittura travestiti. Ad esempio la proprietà comunale. Se è quindi vero che le
categorie dell'economia borghese possiedono una validità per tutte le altre forme di società, ciò va
preso solo cum grano salis. Esse possono contenere quelle forme in modo sviluppato, atrofizzato,
caricato ecc., sempre con una differenza essenziale. La cosiddetta evoluzione storica si fonda
generalmente sul fatto che l'ultima forma considera quelle trascorse come gradini che portano a
essa e, poiché solo raramente e in condizioni molto particolari essa è in grado di criticare se stessa,
— naturalmente qui non stiamo parlando di periodi storici che si autopercepiscono come epoche
di decadenza, — le interpreta sempre in modo unilaterale. La religione cristiana fu in grado di
contribuire alla comprensione obiettiva delle mitologie precedenti solo quando la sua autocritica
fu in una certa misura, per così diredunamei, conclusa. Così l'economia borghese pervenne alla
comprensione di quella feudale, antica, orientale, non appena ebbe inizio l'autocritica della società
borghese. Nella misura in cui l'economia borghese non si limita a identificarsi in modo
mitologizzante con quella precedente, la sua critica dell'economia anteriore, in particolare di quella
feudale, con la quale dovette ancora combattere direttamente, è stata simile a quella che il
cristianesimo ha rivolto al paganesimo, o anche a quella che il protestantesimo ha rivolto al
cattolicesimo.
Come in generale per ogni scienza storica e sociale, nella successione delle categorie economiche
va sempre tenuto presente che, come nella, realtà così anche nella mente, il soggetto — qui la
moderna società borghese — è dato, e che quindi le categorie esprimono forme di esistenza,
determinazioni dell'esistenza, spesso soltanto singoli aspetti di questa determinata società, di
questo soggetto, e di conseguenza anche sui piano scientifico l'economia politica non comincia
affatto solo dove si parla di essa come tale. Ciò va tenuto ben presente, poiché fornisce
immediatamente clementi decisivi per la divisione della materia. Nulla sembra ad esempio più
naturale del cominciare con la rendita fondiaria, con la proprietà fon diaria, dal momento, che essa
è legata alla terra, alla fonte di ogni produzione e di ogni esistenza, oltre che alla prima forma di
produzione di tutte le società in qualche misura consolidate — l'agricoltura. E tuttavia nulla
sarebbe più errato. In tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango e
influenza a tutte le altre, come del resto anche 1 suoi rapporti assegnano rango e influenza a tutti
gli altri (vedi nota 2). È una luce generale in cui sono immersi tutti gli altri colori e che li modifica
nella loro particolarità. È un'atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutte le cose
esistenti che da essa emergono. Prendiamo ad esempio i popoli dediti alla pastorizia (popoli dediti
semplicemente alla caccia e alla pesca sono al di qua del punto in cui comincia lo sviluppo reale).
Presso di essi si riscontra una certa forma sporadica di agricoltura. Da ciò è determinata la
proprietà fondiaria. Essa è proprietà comune e mantiene in misura maggiore o minore questa
forma, a seconda che questi popoli si attengano ancora in misura maggiore o minore alla loto
tradizione, ad esempio la proprietà comunale degli slavi. Presso popoli ormai dediti stabilmente
all'agricoltura, — e questa stabilità è già un grosso passo avanti, — dove questa attività predomina
come presso gli antichi e nell'epoca feudale, l'industria stessa e la sua organizzazione e le forme
della proprietà che a essa corrispondono, hanno un carattere più o meno determinato dalla
proprietà fondiaria; l'industria è o completamente dipendente dalla proprietà fondiaria come
presso i romani più antichi oppure, come nel medioevo, imita nella città e nei suoi rapporti
l'organizzazione delle campagne. Nel medioevo il capitale stesso — nella misura in cui non è puro
capitale monetario — ha, sotto forma di strumenti tradizionali dell'artigiano ecc., questo carattere
di proprietà fondiaria. Nella società borghese avviene l'opposto. L'agricoltura diventa sempre più
un semplice ramo dell'industria ed è totalmente dominata dal capitale. Lo stesso dicasi della
rendita fondiaria. In tutte le forme in cui domina la proprietà fondiaria, il rapporto con la natura è
ancora predominante. In quelle in cui domina il capitale, predomina invece l'elemento creato
socialmente, storicamente. La rendita fondiaria non può essere compresa senza il capitale. Il
capitale può invece esserlo senza la rendita fondiaria. Il capitale è nella società borghese la potenza
economica che domina tutto. Esso deve costituire il punto di partenza così come il punto di arrivo,
e dev'essere trattato prima della proprietà fondiaria. Dopo che entrambi sono stati considerati
singolarmente, dovrà essere esaminato il loto rapporto reciproco.
Sarebbe dunque inopportuno ed errato far succedere serialmente le categorie economiche
nell'ordine in cui sono state storicamente determinanti. La loro successione è invece determinata
dalla relazione in cui esse si trovano l'una con l'altra nella moderna società borghese, e questa
successione è esattamente l'inverso di quella che sembra essere la loro successione naturale o di
ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico. Non si tratta del posto che i rapporti
economici assumono storicamente nel succedersi di differenti forme di società. Men che meno
della loro successione «nell'idea» (Proudhon) (una rappresentazione confusa del movimento
storico). Bensì della loro articolazione all'interno della Moderna società borghese.
La purezza (la determinatezza astratta), in cui i popoli commerciali — fenici, cartaginesi —
appaiono nel mondo antico, è data proprio dal predominio dei popoli agricoli stessi. Il capitale
come capitale commerciale o capitale monetario appare appunto in quest'astrazione là dove il
capitale non è ancora l'elemento dominante delle società. Lombardi ed ebrei occupano la stessa
posizione rispetto alle società medievali dedite all'agricoltura.
Come ulteriore esempio del posto diverso che le stesse categorie occupano in stadi diversi della
società: le jointstock-companies (società per azioni, public companies), una delle ultime forme
della società borghese. Compaiono però anche al suo inizio, nelle grandi compagnie commerciali
privilegiate e con posizione di monopolio.
Nel pensiero degli economisti del XVII secolo — con una concezione che in parte sopravvive anche
in quelli del XVIII — il concetto stesso di ricchezza nazionale si insinua in modo tale che la ricchezza
appare creata solo per lo Stato, e la potenza dello Stato appare proporzionale a questa ricchezza.
Questa era ancora la forma inconsapevolmente ipocrita in cui la ricchezza stessa e la produzione
della medesima si annunciavano come scopo degli Stati moderni, e non si consideravano questi
ultimi se non come mezzi per la produzione della ricchezza.
La suddivisione della materia deve, evidentemente, essere fatta in modo da trattare: 1) le
determinazioni generali astratte che come tali sono comuni più o meno a tutte le forme di società,
ma nel senso chiarito precedentemente. 2) Le categorie che costituiscono l'articolazione interna
della società borghese e su cui poggiano le classi fondamentali. Capitale, lavoro salariato, proprietà
fondiaria. Il loro rapporto reciproco. Città e campagna. Le tre grandi classi sociali. Scambio tra esse.
Circolazione. Credito (privato). 3) Sintesi della società borghese nella forma dello Stato.
Considerata in relazione a se stessa. Le classi «improduttive». Imposte. Debito di Stato. Credito
pubblico. La popolazione. Le colonie. Emigrazione. 4) Rapporto internazionale della produzione.
Divisione internazionale del lavoro. Scambio internazionale. Esportazioni e importazioni. Corso dei
cambi. 5) Il mercato mondiale e le crisi.”
4 – La critica della filosofia e la critica del diritto confluirono nella critica dell'economia politica. In
questo quadro, un testo fondamentale è rappresentato da
Miseria della filosofia che uscì a Parigi nel 1847.
“Eccoci in piena Germania! Dovremo dunque parlare di metafisica, pur trattando di economia
politica. E, anche in questo, non facciamo che seguire le "contraddizioni" di Proudhon. Poco fa egli
ci costringeva a parlare inglese, a diventare, in certo qual modo, inglesi. Ora la scena cambia.
Proudhon ci trasporta nella nostra cara patria e ci costringe a riprendere la nostra qualità di
tedeschi, nostro malgrado.
Se l'inglese trasforma gli uomini in cappelli, il tedesco trasforma i cappelli in idee. L'inglese è
Ricardo, ricco banchiere e grande economista; il tedesco è Hegel, semplice professore di filosofia
all'Università di Berlino.
Luigi XV, ultimo re assoluto, che rappresentava la decadenza della regalità francese, aveva un
medico personale che era contemporaneamente il primo economista di Francia. Questo medico,
questo economista, rappresentava il trionfo imminente e sicuro della borghesia francese. Il dottor
Quesnay ha fatto dell'economia politica una scienza; e l'ha riassunta nel suo famoso "Tableau
économique". Oltre ai mille e uno commenti che sono apparsi su questo Tableau, noi ne
possediamo uno del dottore medesimo. È la "Analyse du tableau économique", seguita da
"sept observations importantes".
Proudhon è un altro dottor Quesnay. È il Quesnay della metafisica dell'economia politica.
Ora la metafisica, la filosofia tutta intera, si riassume, secondo Hegel, nel metodo. Dovremo
dunque tentare di chiarire il metodo di Proudhon che è per lo meno altrettanto oscuro quanto il
"Tableau économique". Per questo faremo sette osservazioni più o meno importanti. Se il dottor
Proudhon non è contento delle nostre osservazioni, ebbene si farà abate Baudeau, e fornirà lui
stesso la "spiegazione del metodo economico-metafisico" [1]
Prima osservazione
"Noi non facciamo una storia secondo l'ordine dei tempi, ma secondo la successione
delle idee. Le fasi o categorie economiche si manifestano talvolta
contemporaneamente, talvolta no.... Ciò nondimeno, le teorie economiche hanno la
loro successione logica e una loro serie nell'intelletto: è questo l'ordine che noi ci
lusinghiamo di avere scoperto." (Proudhon, vol. I, p. [ 145-146].)
Decisamente Proudhon ha voluto metter paura ai francesi, gettando loro in faccia delle frasi quasi
hegeliane.
Noi dobbiamo dunque fare i conti con due uomini, prima con Proudhon, poi con Hegel. In che si
distingue Proudhon dagli altri economisti? E Hegel, quale parte sostiene nell'economia politica di
Proudhon?
Gli economisti esprimono i rapporti della produzione borghese, la divisione del lavoro, il credito, la
moneta, ecc., come categorie fisse, immutabili, eterne. Proudhon, che ha davanti a sé queste
categorie già formate, ce ne vuole spiegare l'atto di formazione; ci vuole spiegare la genesi di
queste categorie, di questi princìpi, leggi, idee, pensieri.
Gli economisti ci spiegano come avviene la produzione entro questi rapporti dati, ma ciò che non ci
spiegano è come questi rapporti si producano, vale a dire non ci spiegano il movimento storico che
li ha generati. Proudhon, avendo assunto questi rapporti come dei princìpi, delle categorie, dei
pensieri astratti, non ha che da mettere ordine in questi pensieri; i quali si trovano già elencati in
ordine alfabetico alla fine di ogni trattato di economia politica.
I materiali degli economisti sono la vita attiva e fattiva degli uomini; i materiali di Proudhon sono i
dogmi degli economisti. Ma dal momento che non si persegue il movimento storico dei rapporti di
produzione, di cui le categorie non sono che l'espressione teorica, dal momento che si vuol vedere
in queste categorie solo idee, pensieri spontanei, indipendenti dai rapporti reali, si è ben costretti
ad assegnare come origine di questi pensieri il movimento della ragione pura. Come la ragione
pura, eterna, impersonale genera questi pensieri? Quali procedimenti segue essa per produrli?
Se in fatto di hegelismo fossimo intrepidi come Proudhon, diremmo: essa si distingue in se stessa
da se stessa. Che mai significa? Dal momento che la ragione impersonale non ha al di fuori di sé né
terreno sul quale possa poggiare, né oggetto al quale possa opporsi, né soggetto col quale
comporsi, si vede costretta a fare il salto mortale, ponendosi, opponendosi, e componendosi:
posizione, opposizione, composizione. Parlando in greco, abbiamo la tesi, l'antitesi e la sintesi. Per
coloro poi che non conoscono il linguaggio hegeliano pronunceremo la formula sacramentale:
affermazione, negazione e negazione della negazione. Ecco che cosa significa parlare. Certo,
questo non è ebraico, con permesso di Proudhon; ma è semplicemente il linguaggio di questa
ragione tanto pura da esser separata dall'individuo. Invece dell'individuo ordinario, con la sua
maniera ordinaria di parlare e di pensare, non ci resta che questa maniera ordinaria in sé, senza più
l'individuo.
C'è forse da meravigliarsi se ogni cosa, in ultima astrazione, poiché di astrazione si tratta e non di
analisi, si presenta come categoria logica? C'è da meravigliarsi forse se, eliminando a poco a poco
tutto ciò che costituisce l'individualità di una cosa, facendo astrazione dai materiali di cui essa si
compone, dalla forma che la distingue, voi arrivate a non avere più che un corpo; se, facendo
astrazione dai contorni di questo corpo, ben presto, non avrete più che uno spazio; e se facendo
infine astrazione dalle dimensioni di questo spazio, finirete per non avere più che la quantità in sé,
la categoria logica? A forza di astrarre in questo modo, da ogni soggetto, da tutti i pretesi accidenti,
animati o inanimati, uomini o cose, abbiamo certo ragione di dire che, in ultima astrazione, si
arriva ad avere come sostanza soltanto le categorie logiche. Così i metafisici, i quali, facendo
queste astrazioni, si immaginano di far dell'analisi, e che, a misura che si staccano sempre più dagli
oggetti, si immaginano di avvicinarsi a loro fino a penetrarli, questi metafisici hanno a loro volta
ragione di dire che le cose di quaggiù sono dei ricami, di cui le categorie logiche formano l'ordito.
Ecco ciò che distingue il filosofo dal cristiano. Il cristiano conosce una sola incarnazione del Logos, a
dispetto della logica; il filosofo non la finisce più con le incarnazioni. Che tutto ciò che esiste, che
tutto ciò che vive sulla terra e nell'acqua possa, a forza di astrazione, essere ridotto a una categoria
logica; che a questo modo l'intero mondo reale possa dissolversi nel mondo delle astrazioni, nel
mondo delle categorie logiche, è forse sorprendente?
Tutto ciò che esiste, tutto ciò che vive sulla terra e nell'acqua, non esiste, non vive che in grazia di
un qualche movimento. Così il movimento della storia produce i rapporti sociali, il movimento
industriale ci dà i prodotti industriali, ecc. pag 67
Nello stesso modo in cui, a forza di astrazione, abbiamo trasformato ogni cosa in categoria logica,
così è sufficiente fare astrazione da ogni carattere distintivo dei differenti movimenti per arrivare al
movimento allo stato astratto, al movimento puramente formale, alla formula puramente logica
del movimento. Se nelle categorie logiche si trova l'essenza di ogni cosa, si ritiene di trovare nella
formula logica del movimento il metodo assoluto che non solo spiega ogni cosa, ma che abbraccia
anche il movimento delle cose. Si tratta di quel metodo assoluto di cui Hegel parla nei termini
seguenti:
"Il metodo è la forza assoluta, unica, suprema, infinita, alla quale nessun oggetto può
resistere; è la tendenza della ragione a ritrovarsi, a riconoscersi in ogni cosa." ("Logica",
vol. III [pp. 330-331].)
Essendo ogni cosa ridotta a una categoria logica, ed ogni movimento, ogni atto di produzione, al
metodo, ne segue naturalmente che ogni complesso di prodotti e di produzione, di oggetti e di
movimento, si riduce ad una metafisica applicata. Ciò che Hegel ha fatto per la religione, il diritto,
ecc., Proudhon tenta di farlo per l'economia politica.
E allora che cosa è dunque questo metodo assoluto? L'astrazione del movimento. Che cosa è
l'astrazione del movimento? Il movimento in astratto. La formula puramente logica del movimento,
ovvero il movimento della ragione pura. In che consiste il movimento della ragione pura? Nel porsi,
opporsi, comporsi; nel formularsi come tesi, antitesi, sintesi; ovvero nell'affermarsi, negarsi, e
negare la propria negazione.
Come fa la ragione ad affermarsi, a porsi in categoria determinata? È affare, questo, della ragione
stessa e dei suoi apologisti.
Ma, una volta che essa sia pervenuta a porsi come tesi, questa tesi, opponendosi a se stessa, si
sdoppia in due pensieri contraddittori, il positivo e il negativo, il sì e il no. La lotta di questi due
elementi antagonistici, racchiusi nella antitesi, costituisce il movimento dialettico. Il sì diventa no, il
no diventa sì, il sì diventa contemporaneamente sì e no, il no diventa contemporaneamente no e sì:
quindi i contrari si equilibrano, si neutralizzano, si annullano. La fusione di questi due pensieri
contraddittori costituisce un pensiero nuovo che ne è la sintesi. Questo pensiero nuovo si svolge
ancora in due pensieri contraddittori che si fondono a loro volta in una nuova sintesi. Da questo
travaglio generativo nasce un gruppo di pensieri. Questo gruppo di pensieri segue il medesimo
movimento dialettico di una categoria semplice, ed ha per antitesi un gruppo contraddittorio. Da
questi due gruppi di pensieri nasce un nuovo gruppo di pensieri che ne è la sintesi.
Come dal movimento dialettico delle categorie semplici nasce il gruppo, così dal movimento
dialettico dei gruppi nasce la serie e dal movimento dialettico delle serie nasce l'intero sistema.
Applicate questo metodo alle categorie dell'economia politica, ed avrete la logica e la metafisica
dell'economia politica, o, in altri termini, avrete le categorie economiche, conosciute da tutti,
tradotte in un linguaggio poco noto, che conferisce loro la parvenza di essere di fresco sbocciate in
una testa che è ragione pura: a tal punto queste categorie sembrano generarsi le une dalle altre,
concatenarsi e intersecarsi le une nelle altre, attraverso il solo lavorio del movimento dialettico.
Non si spaventi il lettore di questa metafisica con tutta la sua impalcatura di categorie, di gruppi, di
serie e di sistemi. Proudhon, ad onta del suo affannarsi a scalare le altezze del sistema delle
contraddizioni, non va mai al di sopra dei due primi gradini della tesi e della antitesi semplici, e
anche su questi si è innalzato solo due volte, una delle quali è caduto a gambe all'aria.
Comunque, fino a questo momento, non abbiamo esposto che la dialettica di Hegel. Vedremo in
seguito come Proudhon sia riuscito a ridurla alle più meschine proporzioni. Così, per Hegel, tutto
ciò che è avvenuto e che avviene tuttora è, né più né meno, quello che avviene nel suo pensiero.
Così la filosofia della storia non è più che la storia della filosofia, e della filosofia sua personale.
Non c'è più "la storia secondo l'ordine dei tempi"; c'è solo la "successione delle idee
nell'intelletto". Egli crede di costruire il mondo col movimento del pensiero, mentre non fa che
ricostruire sistematicamente, e classificare secondo il metodo assoluto, i pensieri che sono nella
testa di tutti.
Seconda osservazione
Le categorie economiche non sono che le espressioni teoriche, le astrazioni dei rapporti sociali di
produzione. Proudhon, capovolgendo le cose da vero filosofo, vede nei rapporti reali soltanto le
incarnazioni di quei princìpi, di quelle categorie che sonnecchiavano, - ci dice ancora Proudhon, il
filosofo, - in seno alla "ragione impersonale dell'umanità".
Proudhon, l'economista, ha compreso perfettamente che gli uomini fabbricano il panno, la tela, la
seta entro determinati rapporti di produzione. Ma non ha compreso che questi rapporti sociali
determinati sono prodotti dagli uomini esattamente come lo sono la tela, il lino, ecc. I rapporti
sociali sono intimamente connessi alle forze produttive. Impadronendosi di nuove forze produttive,
gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di
guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società col
signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale.
Quegli stessi uomini che danno ai rapporti sociali una forma corrispondente, alla loro produttività
materiale [*2], danno anche ai princìpi, alle idee, alle categorie, una forma corrispondente ai loro
rapporti sociali.
Così queste idee, queste categorie sono tanto poco eterne quanto i rapporti che esse
esprimono. Sono prodotti storici e transitori.
Vi è un continuo movimento di accrescimento delle forze produttive, di distruzione di rapporti
sociali, di formazione d'idee; di immobile non vi è che l'astrazione dal movimento: "mors
immortalis".
Terza osservazione
I rapporti di produzione di ogni società formano un tutto. Proudhon considera i rapporti economici
come altrettante fasi sociali, che si generano a vicenda, che risultano l'una dall'altra come l'antitesi
dalla tesi, e che realizzano, nella loro successione logica, la ragione impersonale dell'umanità.
Il solo inconveniente di questo metodo è che Proudhon, quando vuole esaminare a parte una sola
di queste fasi, non può spiegarla senza risalire agli altri rapporti sociali, rapporti che, tuttavia, egli
non ha ancora fatto generare dal suo movimento dialettico. Quando poi Proudhon, per mezzo della
ragione pura, passa alla generazione delle altre fasi, si comporta come se si trattasse di neonati, e
dimentica che esse hanno la stessa età della prima.
Così, per giungere alla costituzione del valore, che per lui è la base di tutte le evoluzioni
economiche, egli non poteva trascurare la divisione del lavoro, la concorrenza, ecc. Tuttavia
nella serie, nell'intelletto di Proudhon, nella successione logica, questi rapporti non esistevano
ancora.
Costruendo con le categorie dell'economia politica l'edificio di un sistema ideologico, si
sconnettono le membra del sistema sociale; si mutano i vari elementi della società in altrettante
società a parte, che si succedono l'una all'altra. Come, in effetti, la sola formula logica del
movimento, della successione, del tempo potrebbe spiegare il corpo della società, nella quale,
appunto, tutti i rapporti coesistono simultaneamente, e si sostengono gli uni con gli altri?
Quarta osservazione
Vediamo ora a quali modificazioni Proudhon sottopone la dialettica di Hegel applicandola
all'economia politica.
Per lui, per Proudhon, ogni categoria economica ha due lati, l'uno buono, l'altro cattivo.
Egli si prospetta le categorie come il piccolo borghese si prospetta i grandi uomini della
storia: Napoleone è un grand'uomo; ha fatto molto di bene, ma ha fatto anche molto di male.
Il lato buono e il lato cattivo, il vantaggio e lo svantaggio presi assieme formano, per Proudhon,
la contraddizione in ogni categoria economica.
Tutto il problema da risolvere consiste nel conservare, il lato buono, eliminando quello cattivo.
La schiavitù è una categoria economica come un'altra, dunque anch'essa ha i suoi due lati.
Lasciamo stare il lato cattivo e parliamo del lato buono della schiavitù; ben inteso, non si tratta qui
che della schiavitù diretta, quella dei negri a Surinam, in Brasile, nei territori meridionali
dell'America del Nord. La schiavitù diretta è il cardine dell'industria borghese, proprio come le
macchine, il credito, ecc. Senza schiavitù niente cotone, senza cotone niente industria moderna.
Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, le colonie hanno creato il commercio
mondiale, e il commercio mondiale è la condizione della grande industria. Perciò la schiavitù
diventa una categoria economica della più alta importanza.
Senza la schiavitù, l'America del Nord, il paese oggi più progredito, si trasformerebbe in paese
patriarcale. Cancellate l'America del Nord dalla carta delle nazioni, e avrete l'anarchia, la
decadenza completa del commercio e della civiltà moderna. Fate scomparire la schiavitù, ed avrete
cancellato l'America dalla carta delle nazioni.
Così la schiavitù, essendo una categoria economica, è sempre stata nelle istituzioni dei popoli. I
popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e
l'hanno imposta senza maschera al nuovo mondo.
A che ricorrerà Proudhon per salvare la schiavitù? Egli porrà il problema: conservare il lato buono
di questa categoria economica, eliminare il cattivo.
Hegel non ha problemi da porre: non possiede che la dialettica. Proudhon, della dialettica di Hegel,
non possiede che il linguaggio. Il movimento dialettico proprio di Proudhon è la distinzione
dogmatica del bene e del male.
Prendiamo per un istante il medesimo Proudhon come categoria. Esaminiamo il suo lato buono e il
suo lato cattivo, i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti.
Se egli ha su Hegel il vantaggio di porre dei problemi, che si riserva di risolvere per il bene
dell'umanità, ha però inconveniente di essere affetto da sterilità quando si tratta di dar
concepimento, attraverso il travaglio della generazione dialettica, ad una categoria nuova. Ciò che
costituisce il movimento dialettico è la coesistenza dei due lati contraddittori, la loro lotta e il loro
passaggio in una nuova categoria. Basta porsi il problema di eliminare il lato cattivo, per liquidare
di colpo il movimento dialettico. Al posto della categoria, che si pone e si oppone a se stessa per la
sua natura contraddittoria, sta Proudhon che si infervora, si dibatte, si dimena fra i due lati della
categoria.
Preso così in un ginepraio donde è difficile uscire con mezzi leciti, Proudhon spicca un vero e
proprio salto che lo trasporta di colpo in una nuova categoria. È allora che al suo sguardo
stupefatto si svela la serie nell'intelletto.
Egli afferra la prima categoria che gli capita e le attribuisce arbitrariamente la proprietà di
rimediare agli inconvenienti della categoria che vuole purificare. Così le tasse rimediano - a sentire
Proudhon - agli inconvenienti del monopolio; la bilancia commerciale agli inconvenienti delle tasse;
la proprietà fondiaria agli inconvenienti del credito.
E prendendo in tal modo successivamente le categorie economiche una per una, e facendo
dell'una l'antidoto dell'altra, Proudhon giunge a comporre con questo miscuglio di contraddizioni e
di antidoti alle contraddizioni due volumi di contraddizioni che egli - ben a ragione - intitola:
"Sistema delle contraddizioni economiche".
Quinta osservazione
"Nella ragione assoluta, tutte queste idee... sono egualmente semplici e generali...
Infatti noi non perveniamo alla scienza che attraverso una sorta di impalcatura delle
nostre idee. Ma la verità in sé è indipendente da queste figure dialettiche e affrancata
dalle combinazioni del nostro spirito." (Proudhon, vol. II, p. 97.)
Ecco che, di punto in bianco, per una specie di svolta improvvisa, di cui ora conosciamo il segreto,
la metafisica dell'economia politica è divenuta un'illusione! Mai Proudhon l'ha meglio azzeccata.
Certo, dal momento che il processo del movimento dialettico si riduce al semplice procedimento di
opporre il bene al male, di porre problemi che tendono all'eliminazione del male e a fornire una
categoria come antidoto all'altra, le categorie non hanno più spontaneità; l'idea
"non funziona più"; non ha più vita in sé. Non si pone, né si decompone più in categorie. La
successione delle categorie è divenuta una sorta di impalcatura. La dialettica non è più il
movimento della ragione assoluta. Non vi è più dialettica; tutt'al più c'è solo un po' di morale allo
stato puro.
Quando Proudhon parlava della serie nell'intelletto, della successione logica delle categorie,
dichiarava positivamente di non voler fornire una storia secondo l'ordine dei tempi, ossia, secondo
Proudhon, la successione storica nella quale le categorie si sono manifestate. Tutto, allora, secondo
lui avveniva nell'etere puro della ragione. Tutto doveva derivare da questo etere per mezzo della
dialettica. Ora che si tratta di mettere in pratica questa dialettica, la ragione gli vien meno. La
dialettica di Proudhon prende in giro la dialettica di Hegel, ed ecco che Proudhon ci deve dire che
l'ordine nel quale egli espone le categorie economiche non è più l'ordine nel quale esse si
generano l'una dall'altra. Le evoluzioni economiche non sono più le evoluzioni della ragione stessa.
Che cosa ci dà allora Proudhon? La storia reale, ossia, secondo l'intendimento di Proudhon, la
successione secondo la quale le categorie si sono manifestatenell'ordine dei tempi? No. La storia
quale si svolge nell'idea stessa? Meno ancora. E allora, né la storia profana delle categorie, né la
loro storia sacra! Quale è dunque la storia che egli ci dà? La storia delle sue proprie, private
contraddizioni. Vediamo come queste procedano e come si trascinino dietro Proudhon.
Prima di intraprendere questo esame, che dà luogo alla sesta osservazione importante, abbiamo
ancora un'osservazione meno importante da fare.
Ammettiamo con Proudhon che la storia reale, la storia secondo l'ordine dei tempi, sia la
successione storica in cui le idee, le categorie, i princìpi si sono manifestati.
Ogni principio ha avuto il suo secolo, per manifestarsi. Il principio d'autorità, per esempio, ha avuto
l'XI secolo, mentre il principio dell'individualismo ha avuto il XVIII secolo. Di conseguenza in
conseguenza, era dunque il secolo che apparteneva al principio e non il principio al secolo. In altri
termini era il principio a fare la storia e non la storia a fare il principio. Quando infine, per salvare
sia i princìpi che la storia, ci si domanda perché il tale principio si sia manifestato nell'XI o nel XVIII
secolo piuttosto che nel tal altro, ci si trova necessariamente costretti a esaminare
minuziosamente quali fossero gli uomini dell'XI secolo, quali quelli del XVIII, quali fossero le
rispettive necessità, le loro forze produttive, il loro modo di produzione, le materie prime della loro
produzione, e quali fossero i rapporti fra uomo e uomo, risultanti da queste condizioni di esistenza.
Ora, approfondire tutte queste questioni, non significa appunto fare la storia reale, profana, degli
uomini in ciascun secolo, rappresentare questi uomini come gli autori e contemporaneamente gli
attori del loro dramma? Ma dal momento che si rappresentano gli uomini come autori e come
attori della loro storia, si è dunque ritornati esattamente, dopo un lungo giro, al vero punto di
partenza, avendo abbandonato i princìpi eterni donde avevate preso le mosse.
Proudhon dunque non s'è neppure inoltrato abbastanza su quella via traversa che prende
l'ideologo per raggiungere la strada maestra della storia.
Sesta osservazione
Incamminiamoci con Proudhon per la via traversa. Ammettiamo che i rapporti economici,
considerati come leggi immutabili, come principi eterni, come categorie ideali, siano anteriori agli
uomini vivi e attivi; ammettiamo anche che queste leggi, che questi princìpi, queste categorie
abbiano sonnecchiato fin dall'origine dei tempi "nella ragione impersonale dell'umanità". Abbiamo
già visto che con tutte queste eternità immutabili non c'è più storia, c'è tutt'al più la storia
nell'idea, cioè la storia che si riflette nel movimento dialettico della ragione pura. Ma, dicendo che
nel movimento dialettico le idee non si "differenziano" più, Proudhon ha annullato e l'ombra del
movimento e il movimento delle ombre, per mezzo delle quali cose sarebbe stato almeno possibile
creare un simulacro della storia. Invece egli imputa alla storia la sua impotenza personale; se la
prende con tutto, perfino con la lingua francese.
"Non è dunque esatto dire", afferma Proudhon filosofo, "che qualche cosa avviene, che
qualche cosa si produce: nella civiltà come nell'universo tutto esiste, tutto agisce da
sempre... Altrettanto avviene per tutta l'economia sociale." (Vol. II, p. 102.)
Tanta è la forza creatrice delle contraddizioni che agiscono su Proudhon e lo fanno funzionare, che
volendo spiegare la storia egli è costretto a negarla, volendo spiegare il susseguirsi dei rapporti
sociali egli nega che qualche cosa possa avvenire, e volendo spiegare la produzione con tutte le sue
fasi egli contesta che qualche cosa possa prodursi.
Così, per Proudhon, non c'è né storia né successione di idee; e tuttavia il suo libro esiste sempre, e
questo libro è precisamente, secondo la sua stessa espressione, "la storia secondo la successione
delle idee". Come trovare una formula (poiché Proudhon è l'uomo delle formule) che l'aiuti a
superare di un solo balzo tutte le sue contraddizioni?
A questo scopo egli ha inventato una ragione nuova, che non è la ragione assoluta, pura e vergine,
né la ragione comune degli uomini vivi e agenti nei differenti secoli, ma che è una ragione tutta
particolare, la ragione della società-persona, dell'ente umanità che sotto la penna di Proudhon si
presenta ora come "genio sociale", ora come "ragione generale", e infine come "ragione
umana". Questa ragione, cui sono stati affibbiati tanti nomi, si fa tuttavia riconoscere, ad ogni
istante, come la ragione individuale di Proudhon, col suo lato buono e quello cattivo, i suoi
antidoti, i suoi problemi.
"La ragione umana non crea la verità", che è nascosta nel profondo della ragione assoluta, eterna.
Essa non può che svelarla. Ma le verità che ha svelato fino ad oggi sono incomplete, insufficienti e
quindi contraddittorie. Dunque, essendo anche le categorie economiche verità scoperte, rivelate
dalla ragione umana, dal genio sociale, esse sono egualmente incomplete e racchiudono il germe
della contraddizione. Prima di Proudhon, il genio sociale non ha visto che gli elementi
antagonistici - e non la formula sintetica - nascosti entrambi simultaneamente nella ragione
assoluta. Ma poiché i rapporti economici non fanno che realizzare sulla terra queste verità
insufficienti, queste categorie incomplete, queste nozioni contraddittorie, sono essi stessi
contraddittori, e presentano due lati, l'uno buono e l'altro cattivo.
Trovare la verità completa, l'idea in tutta la sua pienezza, la formula sintetica che annulli
l'antinomia: ecco il problema del genio sociale. Ecco ancora perché nell'illusione di Proudhon lo
stesso genio sociale è stato sospinto da una categoria all'altra senza ancora essere pervenuto, con
tutta la batteria delle sue categorie, a strappare a Dio, alla ragione assoluta, una formula sintetica.
"Innanzi tutto la società (il genio sociale) [*4] pone un primo fatto, una
prima ipotesi... vera e propria antinomia, i cui risultati antagonistici si svolgono
nell'economia sociale in quel modo medesimo secondo il quale, nello spirito,
avrebbero potuto esserne dedotte le conseguenze; e pertanto il movimento
industriale, seguendo in tutto la deduzione delle idee, si sdoppia in due correnti, l'una
di effetti utili, l'altra di risultati sovversivi... Per comporre armonicamente questo
principio a doppia faccia e risolvere questa antinomia, la società ne fa sorgere
una seconda, la quale sarà presto seguita da una terza: e questa sarà la marcia del
genio sociale fino al momento in cui, dopo aver esaurito tutte le sue contraddizioni - io
suppongo, ma certo non è provato, che le contraddizioni umane abbiano un termine - il
genio ritorna di colpo su tutte le sue posizioni anteriori e con una sola formula risolve
tutti i suoi problemi." (Vol. I, p. 133.)
Come precedentemente l'antitesi si è trasformata in antidoto, così la tesi diviene ora ipotesi. In
Proudhon questo scambio di termini non ci può più sorprendere. La ragione umana, che è tutto
meno che pura, poiché la sua visuale è limitata, incontra ad ogni passo nuovi problemi da risolvere.
Ogni nuova tesi, che essa scopre nella ragione assoluta e che è la negazione della tesi precedente,
diventa per essa una sintesi, che viene accettata abbastanza ingenuamente come la soluzione del
problema in questione. Così questa ragione si dibatte in contraddizioni sempre nuove, finché,
arrivata alla fine di tali contraddizioni, si accorge che tutte le sue tesi e sintesi non sono che ipotesi
contraddittorie. Nella sua perplessità, la ragione umana,
"il genio sociale, ritorna di colpo su tutte le sue posizioni anteriori e con una sola
formula risolve tutti i suoi problemi".
Questa formula unica, sia detto tra parentesi, costituisce la vera e propria scoperta di Proudhon. È,
il valore costituito.
Le ipotesi si fanno solo in vista di uno scopo determinato. Lo scopo che si proponeva in primo
luogo il genio sociale che parla per bocca di Proudhon era di eliminare ciò che vi è di cattivo in
qualsiasi categoria economica, lasciandone solo il lato buono. Per lui il bene è il bene supremo, il
vero scopo da raggiungere èl'eguaglianza. E perché il genio sociale si proponeva l'eguaglianza
piuttosto che l'ineguaglianza, la fraternità, il cattolicesimo, o un qualsiasi altro principio? Perché
l'"umanità ha realizzato successivamente tante ipotesi particolari solo in vista di una ipotesi
superiore", che è precisamente l'eguaglianza. In altre parole: perché l'eguaglianza è l'ideale di
Proudhon. Egli immagina che la divisione del lavoro, il credito, la fabbrica, tutti i rapporti
economici, insomma, siano stati inventati semplicemente a profitto dell'eguaglianza, anche se
hanno sempre finito per rivolgersi contro di essa.
Dal fatto che la storia e la finzione di Proudhon si contraddicono ad ogni pie' sospinto, il nostro
conclude che vi è contraddizione. Ma se contraddizione esiste, essa esiste solo tra l'idea fissa di
Proudhon e il movimento reale.
Siamo ormai al punto che il lato buono di un rapporto economico è sempre quello che afferma
l'eguaglianza; il lato cattivo è quello che la nega e che afferma l'ineguaglianza. Ogni nuova
categoria è un'ipotesi del genio sociale, per eliminare l'ineguaglianza generata dall'ipotesi
precedente. Riassumendo: l'eguaglianza è l'intenzione primitiva, la tendenza mistica, lo scopo
provvidenziale che il genio sociale ha costantemente dinnanzi agli occhi, pur aggirandosi entro la
cerchia delle contraddizioni economiche. Così la Provvidenza è la locomotiva che fa marciare tutto
il bagaglio economico di Proudhon meglio assai della sua ragione pura e nebulosa. Ed egli ha
dedicato alla Provvidenza tutt'un intero capitolo, che viene dopo quello delle imposte.
Provvidenza, scopo provvidenziale, ecco la grande parola di cui ci si serve oggi per spiegare il
procedere della storia. In effetti la parola non spiega nulla. È tutt'al più una forma declamatoria,
una maniera come un'altra di parafrasare i fatti.
È un fatto che in Scozia le proprietà fondiarie acquistarono un nuovo valore a causa dello sviluppo
dell'industria inglese, la quale aprì nuovi sbocchi alla lana. Per produrre la lana su vasta scala, era
necessario trasformare i campi coltivabili in pascoli; per effettuare questa trasformazione, era
necessario concentrare le proprietà; per concentrare le proprietà era necessario abolire le piccole
tenute, cacciare migliaia di piccoli coltivatori dal loro paese natale e mettere al loro posto qualche
pastore che sorvegliasse milioni di montoni. Così, per via di trasformazioni successive, la proprietà
fondiaria in Scozia ha avuto per risultato di far espellere gli uomini dai montoni. Dichiarate ora che
lo scopo provvidenziale dell'istituzione della proprietà fondiaria in Scozia era stato di far cacciare gli
uomini dai montoni, e avrete fatto della storia provvidenziale.
Certo, la tendenza all'eguaglianza è propria del nostro secolo. Dire ora che tutti i secoli anteriori,
con bisogni, con mezzi di produzione, ecc., del tutto differenti, si adoperavano provvidenzialmente
per realizzare l'eguaglianza, significa innanzi tutto sostituire i mezzi e gli uomini del nostro secolo
agli uomini e ai mezzi dei secoli anteriori, e misconoscere il movimento storico attraverso il quale le
generazioni successive trasformavano i risultati acquisiti dalle generazioni che le precedevano. Gli
economisti sanno molto bene che la stessa cosa che per l'uno è un prodotto finito, per l'altro è
soltanto la materia prima di una nuova produzione.
Supponete, come fa Proudhon, che il genio sociale abbia prodotto, o meglio improvvisato, i signori
feudali, allo scopo provvidenziale di trasformare i coloni inlavoratori responsabili ed egualitari:
avrete fatto una sostituzione di scopi e di persone del tutto degna di quella Provvidenza che in
Scozia istituiva la proprietà fondiaria per pigliarsi il maligno piacere di far cacciare gli uomini dai
montoni.
Ma poiché Proudhon si interessa tanto teneramente alla Provvidenza lo rimandiamo all'"Histoire
de l'Economie Politique" del signor Villeneuve-Bargemont, che insegue anch'egli uno scopo
provvidenziale. Ma questo scopo non è più l'eguaglianza: è il cattolicesimo.
Settima ed ultima osservazione
Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di
istituzioni, quelle dell'arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni
artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai
teologi, i quali pure stabiliscono due sorta di religioni. Ogni religione che non sia la loro è
un'invenzione degli uomini, mentre la loro è una emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali
- i rapporti della produzione borghese - sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta
di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle
leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall'influenza del
tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c'è stata storia, ma ormai
non ce n'è più. C'è stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in queste istituzioni
feudali si trovano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese, che gli
economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni.
Anche il feudalesimo aveva il suo proletariato: i servi della gleba, in cui erano racchiusi i germi della
borghesia. Anche la produzione feudale aveva elementi antagonistici; che, se si vuole, possono
essere ben designati come il lato buono e il lato cattivo del feudalesimo, senza pensare che è
quello cosiddetto cattivo che finisce sempre con l'avere il sopravvento. È, il lato cattivo a produrre
il movimento che fa la storia, determinando la lotta. Se all'epoca del regime feudale gli economisti,
entusiasmati dalle virtù cavalleresche, dalla bella armonia fra i diritti e i doveri, dalla vita
patriarcale delle città, dalle condizioni prospere dell'industria domestica nelle campagne, dallo
sviluppo dell'industria organizzata in corporazioni, e corpi dei consoli e maestri d'arte, ecc., infine
da tutto ciò che costituisce il lato buono del feudalesimo, si fossero posti il problema di eliminare
tutto ciò che offusca questo quadro - servitù, privilegi, anarchia - che sarebbe avvenuto? Sarebbero
stati annullati tutti gli elementi che costituivano la lotta e si sarebbe soffocato in germe lo sviluppo
della borghesia. Insomma, si sarebbe posto l'assurdo problema di eliminare la storia.
Quando la borghesia l'ebbe vinta, non vi fu più questione né del lato buono né di quello cattivo del
feudalesimo. Ad essa andarono le forze produttive che si erano sviluppate per mezzo suo sotto il
regime feudale. Tutte le vecchie forme economiche, le relazioni di diritto civile loro corrispondenti,
lo stato politico che era l'espressione ufficiale dell'antica società civile, vennero spezzati.
Così, per ben giudicare la produzione feudale, è necessario considerarla come un modo di
produzione fondato sull'antagonismo. Bisogna mostrare come la ricchezza veniva prodotta
all'interno di questo antagonismo, come le forze produttive si sviluppavano di pari passo
all'antagonismo delle classi, come una di queste classi, il lato cattivo, l'inconveniente della società,
andasse sempre crescendo finché le condizioni materiali della sua emancipazione non furono
pervenute al punto di maturazione. Non è tutto ciò sufficiente per dire che il modo di produzione, i
rapporti in cui si sviluppano le forze produttive, sono tutt'altro che leggi eterne, ma corrispondono
invece a un grado di sviluppo determinato degli uomini e delle loro forze produttive, e che un
mutamento sopravvenuto nelle forze produttive degli uomini comporta necessariamente un
mutamento nei loro rapporti di produzione? Poiché innanzi tutto importa non essere privati dei
frutti della civiltà, delle forze produttive acquisite, è necessario infrangere le forme tradizionali
nelle quali quelle sono state prodotte. Da questo momento, la classe rivoluzionaria diviene
conservatrice.
La borghesia ha inizio con un proletariato che a sua volta è un resto del proletariato dei tempi
feudali. Nel corso del suo sviluppo storico, la borghesia svolge necessariamente il suo carattere
antagonistico, che all'inizio si trova ad essere più o meno dissimulato, non esiste che allo stato
latente. A misura che la borghesia si sviluppa, si sviluppa nel suo seno un nuovo proletariato, un
proletariato moderno; si sviluppa una lotta fra la classe proletaria e la classe borghese, lotta che,
prima di essere sentita dalle due parti, individuata, valutata, compresa, ammessa e infine
proclamata ad alta voce, non si manifesta, all'inizio, che attraverso conflitti parziali e momentanei,
attraverso episodi di sovversivismo. D'altra parte, se tutti i membri della moderna borghesia hanno
i medesimi interessi in quanto formano una classe contrapposta a un'altra, hanno però interessi
opposti, antagonistici, in quanto si trovano gli uni contrapposti agli altri. Questa opposizione di
interessi deriva dalle condizioni economiche della loro vita borghese. Di giorno in giorno diventa
dunque più chiaro che i rapporti di produzione entro i quali si muove la borghesia non hanno un
carattere unico, semplice, bensì un carattere duplice; che negli stessi rapporti entro i quali si
produce la ricchezza, si produce altresì la miseria; che entro gli stessi rapporti nei quali si ha
sviluppo di forze produttive, si sviluppa anche una forza produttrice di repressione; che questi
rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di
annientare continuamente la ricchezza di alcuni membri di questa classe, e a patto di dar vita a un
proletariato ognora crescente.
Più il carattere antagonistico viene in luce, più gli economisti, i rappresentanti scientifici della
produzione borghese, entrano in contraddizione con le loro stesse teorie; e nascono diverse
scuole.
Abbiamo così gli economisti fatalisti, che nella loro teoria sono indifferenti a ciò che essi chiamano
gli inconvenienti della produzione borghese, come lo sono, nella pratica, i borghesi di fronte alle
sofferenze dei proletari, che li aiutano ad acquistare le loro ricchezze. In questa scuola fatalista vi
sono i classici e i romantici. I classici, come Adam Smith e Ricardo, rappresentano una borghesia
che, lottando ancora contro i resti della società feudale, opera solo per epurare i rapporti
economici dai residui feudali, per aumentare le forze produttive e dare un nuovo impulso
all'industria e al commercio. Il proletariato, che partecipa a questa lotta, assorbito in questo lavoro
febbrile, non ha che sofferenze accidentali, passeggere, che esso stesso considera come tali. Gli
economisti come Adam Smith e Ricardo, che sono gli storici di quest'epoca, hanno soltanto la
missione di dimostrare come si acquisti la ricchezza entro i rapporti di produzione borghesi, di
formulare in secondo luogo questi rapporti in categorie, in leggi, di dimostrare infine quanto
queste leggi, queste categorie, siano, per la produzione delle ricchezze, superiori alle leggi e alle
categorie della società feudale. La miseria, ai loro occhi, non è che il dolore che accompagna ogni
parto, nella natura come nell'industria.
I romantici appartengono alla nostra epoca, in cui la borghesia si trova in diretta opposizione al
proletariato, in cui la miseria si produce con un'abbondanza pari alla ricchezza. Gli economisti
posano allora a fatalisti annoiati, che, dall'alto della loro posizione, gettano un superbo sguardo di
disdegno sugli uomini-macchine che fabbricano le ricchezze. Essi ripetono tutte le spiegazioni già
date dai loro predecessori, ma l'indifferenza, che per questi era ingenuità, diviene in loro civetteria.
Viene appresso la scuola umanitaria, che si prende a cuore il lato cattivo degli attuali rapporti di
produzione. Questa scuola cerca, per scarico di coscienza, di trovare almeno dei palliativi ai
contrasti reali: deplora sinceramente le miserevoli condizioni del proletariato, la concorrenza
sfrenata dei borghesi fra loro; consiglia agli operai di essere sobri, di lavorare bene e di mettere al
mondo pochi figli; raccomanda ai borghesi di mettere nella produzione un ardore ponderato. Tutta
la teoria di questa scuola si basa su interminabili distinzioni fra la teoria e la pratica, fra i princìpi e i
risultati, fra l'idea e l'attuazione, fra il contenuto e la forma, fra l'essenza e la realtà, fra il diritto e il
fatto, fra il lato buono e quello cattivo.
La scuola filantropica poi è la scuola umanitaria perfezionata. Essa nega la necessità
dell'antagonismo; vuol fare di tutti gli uomini dei borghesi; vuole realizzare la teoria, per quel tanto
che essa si distingue dalla pratica e non racchiude antagonismi. È superfluo dire che nella teoria è
facile fare astrazione dalle contraddizioni che si incontrano ad ogni istante nella realtà. Questa
teoria sarebbe dunque la realtà idealizzata. I filantropi vogliono insomma conservare le categorie
che esprimono i rapporti borghesi, senza l'antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile.
Essi credono di combattere sul serio la prassi borghese e sono più borghesi degli altri.
Come gli economisti sono i rappresentanti scientifici della classe borghese, così i socialisti e
i comunisti sono i teorici della classe proletaria. Finché il proletariato non si è ancora
sufficientemente sviluppato per costituirsi in classe, e di conseguenza la lotta del proletariato con
la borghesia non ha ancora assunto un carattere politico, e finché le forze produttive non si sono
ancora sufficientemente sviluppate in seno alla stessa borghesia, tanto da lasciar intravedere le
condizioni materiali necessarie all'affrancamento del proletariato e alla formazione di una società
nuova, questi teorici non sono che utopisti, i quali, per soddisfare i bisogni delle classi oppresse,
improvvisano sistemi e rincorrono le chimere di una scienza rigeneratrice. Ma a misura che la
storia progredisce e con essa la lotta del proletariato si profila più netta, essi non hanno più
bisogno di cercare la scienza nel loro spirito; devono solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti
ai loro occhi e farsene portavoce. Finché cercano la scienza e costruiscono solo dei sistemi, finché
sono all'inizio della lotta, nella miseria non vedono che la miseria, senza scorgerne il lato
rivoluzionario, sovvertitore, che rovescerà la vecchia società. Ma quando questo lato viene scorto,
la scienza prodotta dal movimento storico - e al quale si è associata con piena cognizione di causa ha cessato di essere dottrinaria per divenire rivoluzionaria.
Ma torniamo a Proudhon.
Ogni rapporto economico ha un lato buono e uno cattivo: è questo l'unico punto sul quale
Proudhon non si smentisce. Il lato buono egli lo vede esposto dagli economisti; quello cattivo lo
vede denunciato dai socialisti. Egli prende a prestito dagli economisti la necessità dei rapporti
eterni; dai socialisti l'illusione di vedere nella miseria solo la miseria. E si trova d'accordo con gli uni
e con gli altri, volendosi appoggiare all'autorità della scienza, che, per lui, si riduce alle esigue
proporzioni di una formula scientifica; è l'uomo alla ricerca delle formule. Quindi Proudhon si vanta
di aver fornito la critica e dell'economia politica e del comunismo: mentre si trova al di sotto
dell'una e dell'altro. Al di sotto degli economisti, poiché come filosofo che ha sotto mano una
formula magica, ha creduto di potersi esimere dall'entrare in dettagli puramente economici; al di
sotto dei socialisti, poiché non ha né sufficiente coraggio, né sufficienti lumi per elevarsi, non fosse
altro in maniera speculativa, oltre l'orizzonte borghese.
Proudhon vuole essere la sintesi. Ed è invece un errore composto.
Vuole librarsi come uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei proletari; e non è che il piccolo
borghese, sballottato costantemente fra il capitale e il lavoro, fra l'economia politica e il
comunismo. :
2. La divisione del lavoro e le macchine
La divisione del lavoro apre, secondo Proudhon, la serie delle evoluzioni economiche.ondo
Proudhon, una legge eterna, una categoria semplice e astratta. Dunque anche l'astrazione, l'idea,
la parola gli deve bastare per spiegare la divisione del lavoro nelle differenti epoche della storia. Le
caste, le corporazioni, il regime manifatturiero, la grande industria devono spiegarsi con la sola
parola "dividere". Studiate anzitutto bene il senso della parola "dividere" e non avrete bisogno di
studiare le numerose influenze che in ogni epoca hanno conferito alla divisione del lavoro un
carattere determinato.
In realtà si rendono le cose troppo semplici, riducendole alle categorie di Proudhon. La storia non
procede così "categoricamente". Occorsero tre secoli interi, in Germania, per stabilire quella prima
divisione del lavoro su vasta scala che è la separazione delle città dalle campagne. A misura che si
modifica questo solo rapporto fra la città e la campagna, la società intera si modifica. Per
considerare questo solo aspetto della divisione del lavoro, si hanno le antiche repubbliche o il
feudalesimo cristiano; la vecchia Inghilterra coi suoi baroni, oppure l'Inghilterra moderna coi suoi
magnati del cotone (cotton-lords). Nei secoli XIV e XV, quando non v'erano ancora colonie, quando
l'America non esisteva ancora per l'Europa, quando l'Asia esisteva per essa solo attraverso
Costantinopoli, e il Mediterraneo era il centro dell'attività commerciale, la divisione del lavoro
aveva tutt'altra forma, tutt'altro aspetto che nel XVII secolo, quando gli spagnoli, i portoghesi, gli
olandesi, gli inglesi e i francesi avevano stabilito colonie in tutte le parti del mondo. L'estensione
del mercato, la sua fisionomia conferiscono alla divisione del lavoro, nelle diverse epoche, una
fisionomia, un carattere, che sarebbe difficile dedurre dalla sola parola "dividere", dall'idea, dalla
categoria della "divisione".
"Tutti gli economisti", dice Proudhon, "da A. Smith in poi, hanno segnalato i vantaggi e
gli inconvenienti della legge della divisione del lavoro; ma hanno insistito molto più sui
primi che sui secondi, perché ciò serviva meglio il loro ottimismo; né alcuno di essi si è
mai chiesto quali potevano essere gli inconvenienti di una simile legge... Come lo stesso
principio, svolto rigorosamente nelle sue conseguenze, può condurre ad effetti
diametralmente opposti? Nessun economista, né prima né dopo A. Smith, si è anche
soltanto accorto che là vi fosse un problema da chiarire. Say giunge sino a riconoscere
che nella divisione del lavoro la stessa causa che produce il bene genera anche il male."
[I, pp. 95-96.]
A. Smith va molto più lontano di quanto pensi Proudhon. Egli ha visto molto bene che
"nella realtà la differenza delle capacità naturali tra gli individui è molto minore di quel
che crediamo. Queste attitudini così diverse, che sembrano distinguere gli uomini delle
diverse professioni quando sono giunti all'età matura, non sono tanto la causa quanto
l'effetto della divisione del lavoro". [Smith, loc. cit., I, pp. 33-34.]
In linea di principio un facchino differisce da un filosofo meno che un mastino da un levriero. È la
divisione del lavoro che ha creato un abisso tra l'uno e l'altro. Tutto ciò non impedisce a Proudhon
di dire in un altro punto che Adam Smith non sospettava neppure gli inconvenienti che produce la
divisione del lavoro. Così egli non si perita di affermare che J.-B. Say ha per primo riconosciuto "che
nella divisione del lavoro la stessa causa che produce il bene genera anche il male".
Ma ascoltiamo Lemontey: suum cuique.
"Il signor J-B. Say mi ha fatto l'onore di adottare, nel suo eccellente trattato di
economia politica, il principio che io per primo ho esposto nel frammento"
sull'influenza morale della divisione del lavoro. "Il titolo un po' frivolo del mio
libro [4] non gli ha, senza dubbio, permesso di citarmi. Io non posso attribuire che a
questo motivo il silenzio di uno scrittore troppo ricco di per se stesso per disconoscere
un prestito così modesto." (Lemontey, "Oeuvres complètes", vol. I, pp. 192-193, Paris
1829.)
Rendiamogli questa giustizia: Lemontey ha spiritosamente descritto le spiacevoli conseguenze
della divisione del lavoro, quale essa si attua ai giorni nostri; e Proudhon non ha trovato nulla da
aggiungervi. Ma poiché, per colpa di Proudhon, ci siamo ormai ingolfati in questa questione di
priorità, diciamo ancora - di passaggio - che molto tempo prima di Lemontey, e diciassette anni
prima di Adam Smith, allievo di A. Ferguson, quest'ultimo aveva esposto chiaramente la cosa in un
capitolo che tratta specificamente della divisione del lavoro.
"Ci sarebbe perfino da dubitare che la capacità generale di una nazione cresca in
proporzione al progresso della tecnica. Molti mestieri manuali... riescono
perfettamente quando sono totalmente privi del soccorso della ragione e del
sentimento, e l'ignoranza è la madre dell'industria così come lo è della superstizione. La
riflessione e l'immaginazione sono suscettibili di errore: ma l'abitudine di muovere il
piede o la mano non dipende né dall'una né dall'altra. Così si potrebbe dire che nel
lavoro della manifattura la perfezione consiste nel poter fare a meno della mente, che
l'officina funzionante senza l'ausilio dell'intelligenza può essere considerata come una
macchina di cui gli uomini siano le parti... Il generale può essere molto abile nell'arte
della guerra, mentre tutto il merito del soldato sta nell'eseguire alcuni movimenti del
piede o della mano. L'uno può aver guadagnato quel che l'altro ha perduto... In un
periodo in cui tutto è separato, l'arte di pensare può costituire benissimo un mestiere a
parte." (A. Ferguson, "Essai sur l'histoire de la société civile", Paris 1793 [II, pp. 134, 135
e 136].)
Per completare questo panorama di letture, noi neghiamo formalmente che "tutti gli economisti
abbiano insistito molto più sui vantaggi che sugli inconvenienti della divisione del lavoro". Basta
nominare Sismondi.
Così, quanto ai vantaggi della divisione del lavoro, a Proudhon non resta che parafrasare più o
meno ampollosamente le frasi generali che ognuno conosce.
Vediamo ora come egli faccia derivare dalla divisione del lavoro presa come legge generale, come
categoria, come idea, gli inconvenienti che vi sono connessi. Come mai questa categoria, questa
legge, implica una ripartizione ineguale del lavoro, a detrimento del sistema egualitario di
Proudhon?
"In quest'ora, solenne della divisione del lavoro, il vento delle tempeste comincia a
soffiare sull'umanità. Il progresso non si compie per tutti in modo eguale ed uniforme...
esso comincia con l'impadronirsi di un piccolo numero di privilegiati... Questa
preferenza dunque, dimostrata a certi uomini dal progresso, ha fatto credere così a
lungo all'ineguaglianza naturale e provvidenziale delle condizioni di vita, ha generato le
caste e costituito gerarchicamente tutte le società." (Proudhon, vol. I, p. 94.)
La divisione del lavoro ha creato le caste. Ora, le caste sono gli inconvenienti della divisione del
lavoro; dunque la divisione del lavoro ha generato degli inconvenienti.Quod erat demonstrandum.
Vogliamo andare oltre, e domandarci che cosa ha fatto sì che la divisione del lavoro creasse le
caste, le costituzioni gerarchiche e i privilegi? Proudhon vi dirà: il progresso. E che cosa è che ha
creato il progresso? Il limite. Il limite, per Proudhon, è la preferenza per certe persone da parte del
progresso.
Dopo la filosofia viene la storia: ma non la storia descrittiva né la storia dialettica, bensì la storia
comparata. Proudhon stabilisce un parallelo tra lo stampatore attuale e lo stampatore del
medioevo, tra l'operaio del Creusot e il fabbro ferraio di campagna, tra il letterato dei nostri giorni
e il letterato del medioevo, ed egli fa pendere la bilancia dalla parte di coloro che dipendono più o
meno dalla divisione del lavoro quale il medioevo l'ha costituita o trasmessa. Egli oppone la
divisione del lavoro di un'epoca storica alla divisione del lavoro di un'altra epoca storica. Era questo
che Proudhon doveva dimostrare? No. Egli doveva mostrarci gli inconvenienti della divisione del
lavoro in generale, della divisione del lavoro come categoria. A che scopo d'altronde insistere su
questa parte dell'opera di Proudhon, dal momento che lo vedremo tra poco rinnegare lui stesso
formalmente tutti questi pretesi sviluppi?
"Il primo effetto del lavoro frazionato", continua Proudhon, "dopo l'abbrutimento
dell'anima, è il prolungamento dell'orario di lavoro, che cresce in ragione inversa della
somma di intelligenza spesa... Ma siccome la durata dell'orario di lavoro non può
oltrepassare le 16-18 ore al giorno, dal momento in cui la compensazione non potrà
effettuarsi sul tempo, essa si effettuerà sul prezzo, e il salario diminuirà... Quello che è
certo, e che solo ci interessa notare, è che la coscienza universale non valuta allo stesso
tasso il lavoro di un capomastro e la prestazione di un manovale. Vi è dunque la
necessità di ridurre il prezzo della giornata: in modo che il lavoratore dopo essere stato
afflitto nello spirito da una funzione degradante, non può mancare di essere colpito
anche nel corpo dall'esiguità della ricompensa." [I, pp. 96-97.]
Passiamo sopra al valore logico di questi sillogismi, che Kant chiamerebbe paralogismi che vanno di
sbieco.
Ecco la sostanza:
La divisione del lavoro riduce l'operaio a una funzione degradante. A questa funzione degradante
corrisponde un'anima abbrutita; all'abbrutimento dell'anima corrisponde una riduzione sempre
crescente del salario. E per provare che questa riduzione del salario si addice ad un'anima
abbrutita, Proudhon dice, per sgravio della sua coscienza, che è la coscienza universale che vuole
così. L'anima di Proudhon è computata nella coscienza universale?
Le macchine sono, per Proudhon, "l'antitesi logica della divisione del lavoro" [I, p. 135] e, con
l'aiuto della sua dialettica, egli comincia col trasformare le macchine in fabbrica.
Dopo aver supposto la fabbrica moderna per far derivare la miseria dalla divisione del lavoro,
Proudhon suppone la miseria generata dalla divisione del lavoro, per arrivare alla fabbrica e
poterla rappresentare come la negazione dialettica di questa miseria. Dopo aver colpito il
lavoratore nel morale con una funzione degradante, nel fisico con l'esiguità del salario; dopo aver
messo il lavoratore alle dipendenze del capomastro e abbassato il suo lavoro fino alla prestazione
di un manovale, egli se la prende di nuovo con la fabbrica e le macchine per degradare il
lavoratore, "dandogli un padrone" [I, p. 164 ], e completa il suo avvilimento facendolo "decadere
dal rango di artigiano a quello di semplice maestranza" [I, p. 164 ]. Bella dialettica! E ancora si
accontentasse di questo; ma no, gli occorre una nuova storia della divisione del lavoro, non più per
farne derivare le contraddizioni, ma per ricostituire la fabbrica a modo suo. Per raggiungere questo
scopo, egli ha bisogno di dimenticare tutto quello che poco prima ha detto sulla divisione del
lavoro.
Il lavoro si organizza e si divide diversamente, a seconda degli strumenti dei quali dispone. Il
mulino a braccia presuppone una divisione del lavoro diversa da quella del mulino a vapore.
Cominciare dalla divisione del lavoro in generale per giungere in seguito a uno strumento specifico
di produzione, le macchine, significa non aver nessun riguardo della storia.
Le macchine non sono una categoria economica più di quanto lo sia il bue che trascina l'aratro. Le
macchine non sono che una forza produttiva. La fabbrica moderna, che si basa sull'impiego delle
macchine, è un rapporto sociale di produzione, una categoria economica.
Vediamo ora come si svolgono le cose nella brillante immaginazione di Proudhon.
"Nella società l'apparizione incessante delle macchine è l'antitesi, la formula inversa del
lavoro: è la protesta del genio industriale contro il lavoro frazionato e omicida. Che cosa
è in effetti una macchina? Un modo di riunire le diverse parti del lavoro, che la
divisione aveva separato. Ogni macchina può essere definita come un riassunto di
parecchie operazioni ... Dunque, attraverso la macchina, vi sarà una restaurazione del
lavoratore ... Le macchine, che si pongono nell'economia come antitesi alla divisione
del lavoro, rappresentano la sintesi, che si oppone nello spirito umano all'analisi... La
divisione non faceva che separare le diverse parti del lavoro, lasciando che ciascuno si
dedicasse alla specializzazione che più gli piacesse; la fabbrica raggruppa i lavoratori
secondo il rapporto di ciascuna parte con il tutto... introduce il principio d'autorità nel
lavoro... Ma questo non è tutto: la macchina, o la fabbrica, dopo aver degradato il
lavoratore dandogli un padrone, completa il suo avvilimento facendolo decadere dal
rango di artigiano a quello di semplice maestranza... Il periodo che attraversiamo in
questo momento, quello delle macchine, si distingue per un carattere particolare,
il lavoro salariato. Il lavoro salariato è posteriore alla divisione del lavoro e allo
scambio." [I, pp. 135, 136, 161 e 164.]
Una semplice osservazione vogliamo fare a Proudhon. La separazione delle diverse parti del lavoro,
che lascia a ciascuno la facoltà di dedicarsi alla specializzazione che più gli aggrada, separazione
che Proudhon fa datare dall'inizio del mondo, esiste solo nell'industria moderna, sotto il regime
della concorrenza.
Proudhon ci dà in seguito una "genealogia" fin troppo "interessante", per dimostrare come la
fabbrica sia nata dalla divisione del lavoro, e il lavoro salariato dalla fabbrica.
1.Egli presuppone un uomo che "ha notato che, dividendo la produzione nelle sue diverse
parti e facendo eseguire ciascuna di esse ad un operaio separatamente" [I,p.161] si
moltiplicherebbero le forze di produzione.
2.Quest'uomo, "afferrando al volo il filo di una simile idea, pensa che, formando un gruppo
permanente di lavoratori, scelti in funzione dell'oggetto particolare che egli si propone di
costruire, otterrà una produzione più elevata, ecc." [I, p. 161].
3.Quest'uomo fa una proposta ad altri uomini, perché facciano propria la sua idea e il filo
della sua idea.
4.Quest'uomo, "all'inizio dell'industria, tratta da pari a pari con i suoi compagni d'arte che
diverranno più tardi i suoi operai".
5."È evidente, in effetti, che questa eguaglianza primitiva dovette rapidamente scomparire
per la posizione vantaggiosa del padrone e la dipendenza del salariato." [I, p. 163.]
Ecco ancora un saggio del metodo storico e descrittivo di Proudhon.
Esaminiamo ora, dal punto di vista storico ed economico, se veramente la fabbrica, o la macchina,
abbia introdotto il principio d'autorità nella società posteriormente alla divisione del lavoro; se la
fabbrica, da un lato, ha riabilitato l'operaio, pur sottomettendolo, dall'altro, all'autorità; se la
macchina è la ricomposizione del lavoro diviso, la sintesi del lavoro opposta alla sua analisi.
La società nel suo insieme ha di comune con l'interno di una fabbrica che anch'essa ha la sua
divisione del lavoro. Se si prendesse per modello la divisione del lavoro in una fabbrica moderna
per applicarla a un'intera società, la società meglio organizzata per la produzione delle ricchezze
sarebbe incontestabilmente quella che avesse un solo imprenditore a dirigerla, il quale distribuisse
i compiti ai diversi membri della comunità secondo una regola fissata in precedenza. Ma non è
affatto così. Mentre all'interno della fabbrica moderna la divisione del lavoro è minuziosamente
regolata dall'autorità dell'imprenditore, la società moderna non ha altra regola, altra autorità, per
distribuire il lavoro, che la libera concorrenza.
Sotto il regime patriarcale, sotto il regime delle caste, sotto il regime feudale e corporativo, vi era
divisione del lavoro nella società tutt'intera secondo regole fisse. Queste regole sono state forse
stabilite da un legislatore? No. Nate in origine dalle condizioni della produzione materiale, esse
sono state elevate a leggi molto più tardi. Così queste diverse forme di divisione del lavoro
divennero altrettante basi d'organizzazione sociale. Quanto alla divisione del lavoro nell'officina, in
tutte queste forme di società essa era poco sviluppata.
Si può stabilire come principio generale che, quanto meno l'autorità presiede alla divisione del
lavoro nell'interno della società, tanto più la divisione del lavoro si sviluppa nell'interno
dell'officina, e vi è sottoposta all'autorità di uno solo. Così l'autorità nell'officina e quella nella
società, in rapporto alla divisione del lavoro, sono inragione inversa l'una dell'altra.
Interessa ora vedere che cosa sia esattamente quella fabbrica, nella quale le mansioni sono molto
distinte, il compito di ciascun operaio è ridotto a un'operazione molto semplice, e dove l'autorità, il
capitale, raggruppa e dirige i lavoratori. Come è nata questa fabbrica? Per rispondere a questa
domanda, dobbiamo esaminare come l'industria manifatturiera propriamente detta si sia
sviluppata. Intendo riferirmi a quell'industria che non è ancora l'industria moderna, con le sue
macchine, ma che non è ormai più né l'industria degli artigiani del medioevo, né l'industria
domestica. Non entreremo in minuti particolari: faremo solo alcuni accenni sommari, per
dimostrare come con delle formule non sia possibile fare la storia.
Una delle condizioni più indispensabili per la formazione dell'industria manifatturiera era
l'accumulazione dei capitali; e questa venne facilitata dalla scoperta dell'America e dall'immissione
nel mercato dei suoi metalli preziosi.
È provato a sufficienza che l'aumento dei mezzi di scambio ebbe per conseguenza, da un lato, il
deprezzamento dei salari e delle rendite fondiarie, e, dall'altro, l'accrescimento dei profitti
industriali. In altri termini quanto più la classe dei proprietari terrieri e la classe dei lavoratori, i
signori feudali e il popolo, decaddero, tanto più si sviluppò la classe dei capitalisti, la borghesia. Vi
furono altre circostanze ancora che concorsero simultaneamente allo sviluppo dell'industria
manifatturiera: l'aumentata quantità delle merci messe in circolazione (dopo che fu stabilito il
collegamento con le Indie Orientali per la via del Capo di Buona Speranza), il sistema coloniale, lo
sviluppo del commercio marittimo.
Un altro aspetto che ancora non è stato considerato abbastanza nella storia dell'industria
manifatturiera è il licenziamento delle corti affollate dei signori feudali, i cui membri subalterni
divennero dei vagabondi prima di entrare nella fabbrica. La creazione della fabbrica è preceduta da
un vagabondaggio quasi universale nei secoli XV e XVI. La fabbrica trovò inoltre una solida e larga
base nei numerosi contadini, che, cacciati continuamente dalle campagne in seguito alla
trasformazione dei campi in pascoli e ai progressi nell'agricoltura, che rendevano necessario un
minor numero di braccia per la coltivazione delle terre, continuarono ad affluire nelle città per
secoli interi.
L'allargarsi del mercato, l'accumulazione dei capitali, le modificazioni sopravvenute nella posizione
sociale delle classi, una folla di persone che si vedono private delle loro fonti di reddito, ecco
altrettante condizioni storiche per la formazione della manifattura. Non furono dunque, come dice
invece Proudhon, accordi amichevoli e cose del genere, a riunire gli uomini nella fabbrica. E
neppure in seno alle antiche corporazioni è nata la manifattura. Fu il mercante a divenire il capo
dell'officina moderna, non l'antico maestro delle corporazioni. Quasi ovunque si ebbe anzi una
lotta accanita tra la manifattura e le corporazioni dei mestieri.
L'accumulazione e la concentrazione di strumenti e di lavoratori precedette lo sviluppo della
divisione del lavoro nell'interno dell'officina. Una manifattura consisteva molto di più nella
riunione di molti lavoratori e di molti mestieri in un sol luogo, in una sala, sotto il comando di un
capitale, che non nella suddivisione dei lavori, e nell'adattamento d'un operaio speciale a un
compito molto semplice.
L'utilità di una fabbrica consisteva molto meno nella divisione del lavoro propriamente detta che
non nel fatto che si lavorava su più vasta scala e si risparmiavano molte spese accessorie, ecc. Alla
fine del XVI e all'inizio del XVII secolo la manifattura olandese conosceva appena la divisione del
lavoro.
Lo sviluppo della divisione del lavoro presuppone la riunione di più operai in una fabbrica. Non c'è
neppure un solo caso, né nel XVI, né nel XVII secolo, in cui i diversi rami d'una stessa attività
produttiva siano stati praticati separatamente al punto che sarebbe bastato riunirli in un solo luogo
per ottenere la fabbrica bell'e fatta. Ma una volta riuniti gli uomini e gli strumenti, la divisione del
lavoro, quale esisteva nelle corporazioni, si riproduceva, si rifletteva necessariamente nell'interno
della fabbrica.
Per Proudhon, che vede le cose alla rovescia, se pure le vede, la divisione del lavoro, come la
intende Adam Smith, precede la fabbrica, che invece è una delle condizioni per il suo realizzarsi.
Le macchine propriamente dette datano dalla fine del XVIII secolo.
Niente di più assurdo che vedere nelle macchine l'antitesi della divisione del lavoro, la sintesi che
ristabilisce l'unità nel lavoro frazionato
La macchina è una riunione di strumenti di lavoro, e niente affatto una combinazione dei lavori per
l'operaio stesso.
"Quando, per effetto della divisione del lavoro, ciascuna operazione particolare è stata
ridotta all'impiego di uno strumento semplice, la riunione di tutti questi strumenti
azionati da un solo motore costituisce una macchina." (Babbage, "Traité sur l'Economie
des machines, ecc.", Paris 1833 [p. 230].)
Utensili semplici, accumulazione di utensili, utensili composti, messa in moto d'un utensile
composto ad opera di un solo motore manuale, l'uomo; messa in moto di questi strumenti ad
opera delle forze naturali; macchina, sistema di macchine aventi un solo motore; sistema di
macchine aventi un motore automatico: ecco il cammino delle macchine.
La concentrazione degli strumenti di produzione e la divisione del lavoro sono inseparabili l'una
dall'altra quanto lo sono, nel campo politico, la concentrazione dei poteri pubblici e la divisione
degli interessi privati. L'Inghilterra, infatti, con la concentrazione di quello strumento del lavoro
agricolo che è la terra, ha la divisione del lavoro agricolo e la meccanica applicata allo sfruttamento
della terra. La Francia, che ha la divisione dello strumento, cioè il sistema particellare, non ha
invece, in generale, né divisione del lavoro agricolo, né applicazione delle macchine all'agricoltura.
Per Proudhon, la concentrazione degli strumenti di lavoro è la negazione della divisione del lavoro.
Nella realtà troviamo ancora una volta il contrario. A misura che si sviluppa la concentrazione degli
strumenti, si sviluppa anche la divisione del lavoro e viceversa. Per questo motivo ogni grande
invenzione della meccanica ha per conseguenza una più grande divisione del lavoro, mentre ogni
accrescimento nella divisione del lavoro porta a sua volta a nuove invenzioni meccaniche.
Non abbiamo bisogno di ricordare che i grandi progressi della divisione del lavoro sono cominciati
in Inghilterra dopo l'invenzione delle macchine. Così i tessitori e i filatori erano per la maggior
parte contadini quali se ne trovano ancora nei paesi arretrati. L'invenzione delle macchine ha
completato la separazione dell'industria manifatturiera dall'industria agricola. Il tessitore e il
filatore, dianzi riuniti in una sola famiglia, furono separati dalla macchina. Grazie alla macchina, il
filatore può abitare in Inghilterra nello stesso momento in cui il tessitore vive nelle Indie Orientali.
Prima dell'invenzione delle macchine, l'industria di un paese si esercitava principalmente sulla base
delle materie prime nazionali: così in Inghilterra c'era l'industria della lana; in Germania era
caratteristica quella del lino; in Francia, quelle della seta e del lino; nelle Indie Orientali, e nel
Levante, quella del cotone, ecc. Grazie all'applicazione della macchina e del vapore la divisione del
lavoro ha potuto assumere tali dimensioni che la grande industria, distaccata ormai dal suolo
nazionale, dipende unicamente dal mercato mondiale, dagli scambi internazionali, da una divisione
del lavoro internazionale. Infine, la macchina esercita tale influenza sulla divisione del lavoro, che
quando nella fabbricazione di un prodotto qualsiasi si è trovato il mezzo di produrre a macchina
qualche parte di esso, la sua fabbricazione si divide immediatamente in due gestioni indipendenti
l'una dall'altra.
Occorre ancora parlare del fine provvidenziale e filantropico che Proudhon scopre nell'invenzione e
nella prima applicazione delle macchine?
Quando in Inghilterra il mercato ebbe preso uno sviluppo tale che il lavoro manuale non poteva
essere più sufficiente, si sentì il bisogno delle macchine. Si pensò allora all'applicazione della
scienza meccanica, già completamente elaborata nel XVIII secolo.
Gli inizi della fabbrica meccanizzata furono caratterizzati da atti tutt'altro che filantropici. I fanciulli
erano mantenuti al lavoro a colpi di frusta; se ne fece un oggetto di traffico, e si stipularono
contratti con gli orfanotrofi. Si abolirono tutte le leggi sull'apprendistato degli operai, perché, per
usare le espressioni di Proudhon, non si aveva più bisogno di operai sintetici. Infine, a partire dal
1825, quasi tutte le nuove invenzioni furono il risultato di urti e contrasti tra l'operaio e
l'imprenditore che cercava ad ogni costo di deprezzare la specializzazione dell'operaio. Dopo ogni
nuovo sciopero di qualche importanza, nasceva una nuova macchina. L'operaio vedeva così poco
nell'impiego delle macchine una sorta di riabilitazione, di restaurazione, come dice Proudhon, che
nel XVIII secolo egli resistette per lungo tempo all'imperio nascente della macchina.
"Wyatt", dice il dottor Ure, "aveva scoperto lo stiramento meccanico" (la serie dei
cilindri scanalati) "molto tempo prima di Arkwright "La principale difficoltà non
consisteva tanto nell'invenzione di un meccanismo automatico... La difficoltà consisteva
soprattutto nella disciplina che era necessaria per far rinunziare gli uomini alle loro
abitudini irregolari nel lavoro, e per farli identificare con la regolarità invariabile di un
grande automa. Inventare e mettere in vigore un codice di disciplina manifatturiera,
conveniente ai bisogni e alla celerità del sistema automatico, ecco invece un'impresa
degna di Ercole; ed ecco appunto la nobile fatica di Arkwright."]
Insomma, l'introduzione delle macchine ha accresciuto la divisione del lavoro all'interno della
società, ha semplificato il compito dell'operaio all'interno della fabbrica, ha concentrato il capitale
e ha smembrato l'uomo ancora di più.
Proudhon, quando vuol essere economista e abbandonare per un istante "l'evoluzione nella serie
dell'intelletto", va ad attingere la sua erudizione da Adam Smith, al tempo in cui la fabbrica
meccanizzata era appena ai suoi albori. In effetti che differenza tra la divisione del lavoro quale
esisteva al tempo di Adam Smith, e quale la vediamo nella fabbrica meccanizzata! Per far ben
comprendere tale differenza, basterà citare alcuni passi della "Filosofia delle manifatture" del
dottor Ure.
"Quando Adam Smith scrisse la sua opera immortale sugli elementi dell'economia
politica, il sistema meccanizzato dell'industria era ancora appena conosciuto. La
divisione del lavoro gli parve con ragione il grande principio del progresso nella
manifattura; egli dimostrò, nel suo esempio della fabbrica di spilli, che un operaio,
perfezionandosi con la pratica su di un solo e medesimo oggetto, diventa più spedito e
meno costoso. In ogni ramo della manifattura, egli vide che, secondo questo principio,
certe operazioni, quale il taglio dei fili di ottone in pezzi di eguale lunghezza, divengono
di facile esecuzione; che altre, invece, quali la modellatura e l'applicazione delle teste
di spillo, sono, in proporzione, più difficili; e ne concluse che si può molto naturalmente
adattare a ciascuna di queste operazioni un operaio il cui salario corrisponda alla sua
abilità. In questo adattamento sta l'essenza della divisione dei lavori. Ma ciò che poteva
servire come esempio adeguato al tempo del dottor Smith non avrebbe altro risultato
oggi se non di indurre il pubblico in errore relativamente ai princìpi dell'industria
manifatturiera. In effetti, la distribuzione, o piuttosto l'adattamento dei lavori alle
differenti capacità individuali entra ben poco nel piano d'operazione delle manifatture
meccanizzate: al contrario, dovunque un qualsiasi procedimento esiga molta abilità e
una mano sicura, lo si toglie al braccio dell'operaio troppo abile e perciò spesso incline
a irregolarità di vario genere, per affidarlo a un meccanismo particolare, la cui
operazione automatica è così ben regolata che anche un fanciullo la può sorvegliare.
Il principio del sistema automatico, dunque, sta nel sostituire il lavoro meccanico al
lavoro manuale e nel sostituire la divisione del lavoro tra gli artigiani con la
scomposizione di un procedimento nelle sue parti costitutive. Secondo il sistema
dell'operazione manuale, la mano d'opera era, ordinariamente, l'elemento più costoso
di ogni prodotto; ma, con il sistema della meccanizzazione, gli artigiani capaci vengano
progressivamente sostituiti da semplici sorveglianti di macchina.
La debolezza della natura umana è tale che più l'operaio è abile, più diviene esigente e
intrattabile, e di conseguenza meno è adatto a un sistema meccanizzato, al cui insieme
le sue bizzarrie possono arrecare un danno considerevole. Il grande obiettivo
dell'odierno padrone di manifatture è dunque di combinare la scienza con i suoi capitali
in modo da ridurre il compito dei suoi operai all'esercizio della loro vigilanza e della
loro prontezza: facoltà che possono essere molto ben perfezionate nella loro
giovinezza, quando siano fissate su di un solo oggetto.
Nell'ambito del sistema delle gradazioni del lavoro, bisogna fare un apprendistato di
parecchi anni prima che l'occhio e la mano divengano abbastanza abili per compiere
certi atti di destrezza meccanici; ma nel sistema che scompone un procedimento
industriale dividendolo nelle sue singole parti costitutive e che fa eseguire tutte le parti
da una macchina automatica, si possono affidare queste parti elementari a una
persona di capacità ordinarie, dopo averla sottoposta a un breve tirocinio; si può
anche, in caso di urgenza, far passare questa persona da una macchina all'altra, a
volontà del direttore dello stabilimento. Tali mutamenti sono in aperto contrasto con la
vecchia prassi, che divide il lavoro, assegna a un operaio il compito di modellare le teste
di spillo, a un altro quello di aguzzare le punte, lavori che, con la loro noiosa uniformità,
snervano la mano d'opera... Ma, secondo il principio di egualizzazione, ossia secondo il
sistema della meccanizzazione, le capacità dell'operaio sono sottoposte soltanto a un
esercizio piacevole, ecc... Il suo compito è semplicemente di sorvegliare il
funzionamento di un meccanismo ben regolato; egli può quindi apprenderlo in poco
tempo; e quando trasferisce le sue prestazioni da una macchina a un'altra egli varia il
suo compito e sviluppa le sue idee, riflettendo sulle combinazioni generali che risultano
dai suoi lavori e da quelli dei suoi compagni. Così quella costrizione delle capacità,
quella restrizione delle idee, quello stato di malessere del corpo, che sono stati
attribuiti non a torto alla divisione del lavoro, non possono verificarsi, in circostanze
ordinarie, in un sistema di eguale distribuzione dei lavori.
Lo scopo costante e la tendenza di ogni perfezionamento nel processo di
meccanizzazione è in effetti di fare a meno interamente del lavoro dell'uomo o di
diminuirne il prezzo, sostituendo le prestazioni delle donne e dei fanciulli a quelle
dell'operaio adulto, o anche il lavoro di operai non altamente qualificati a quello di abili
artigiani...Questa tendenza a impiegare fanciulli dallo sguardo pronto e dalle dita
sciolte al posto di lavoratori esperti, dimostra che il dogma scolastico della divisione del
lavoro secondo i diversi gradi di abilità è stato infine superato dai nostri manifatturieri
illuminati." (André Ure, "Philosophie des manufactures ou économie industrielle", vol.
I, cap. 1 [ pp. 28, 29, 30-31, 32-33, 34, 34-35 ].)
La caratteristica peculiare della divisione del lavoro nella società moderna sta nel fatto di generare
le specializzazioni, i tipi e, con esse, l'idiotismo del mestiere.
"Noi restiamo colpiti da ammirazione", dice Lemontey, "al vedere tra gli antichi lo
stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta,
oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale. I nostri spiriti si sbigottiscono alla
vista di un campo così vasto. Ai giorni nostri ognuno pianta la sua siepe e si chiude nel
suo recinto. Ignoro se con questo spezzettamento il campo si ingrandisce, ma so bene
che l'uomo si rimpicciolisce." [Lemontey, loc. cit., p. 213.]
Ciò che caratterizza la divisione del lavoro nella fabbrica meccanizzata è che il lavoro vi ha perduto
ogni carattere di specializzazione. Ma dal momento che ogni sviluppo speciale cessa, il bisogno di
universalità, la tendenza verso uno sviluppo integrale dell'individuo, comincia a farsi sentire. La
fabbrica meccanica cancella le specializzazioni e l'idiotismo del mestiere.
Proudhon non ha neppure compreso questo, che è il solo aspetto rivoluzionario della fabbrica
meccanizzata; egli fa perciò un passo indietro e propone all'operaio di fare non soltanto la
dodicesima parte di uno spillo, ma tutte le dodici parti successivamente. L'operaio arriverebbe così
alla scienza e alla coscienza dello spillo. Ecco cos'è il lavoro sintetico di Proudhon. Nessuno
contesterà che fare un movimento in avanti ed un altro indietro significa anche fare un movimento
sintetico.
Riassumendo, Proudhon non è andato di là dall'ideale del piccolo borghese. E per realizzare questo
ideale egli non sa immaginare niente di meglio che riportarci al lavorante, o, tutt'al più, al maestro
artigiano del medioevo. Basta, ci dice nel suo libro, aver fatto una sola volta nella propria vita un
capolavoro, per essersi sentiti una sola volta uomini. Non è questo, tanto per la forma come per la
sostanza, il capolavoro richiesto dalla corporazione di mestiere del medioevo?
3. La concorrenza e il monopolio Proudhon comincia col difendere la necessità eterna della
concorrenza contro coloro che la vogliono sostituire con l'emulazione.
Non vi è "emulazione senza scopo", e poiché
"l'oggetto di ogni passione è necessariamente analogo alla passione stessa, una donna
per l'innamorato, il potere per l'ambizioso, l'oro per l'avaro, una corona d'alloro per il
poeta, l'oggetto dell'emulazione industriale è necessariamente il profitto.
L'emulazione, dunque, non è altro che la concorrenza stessa". [I, p. 187.]
La concorrenza è l'emulazione in vista del profitto. Ma l'emulazione industriale è necessariamente
emulazione in vista del profitto, e cioè concorrenza? Proudhon lo prova affermandolo. L'abbiamo
già visto: affermare per lui significa provare, come presupporre significa negare.
Se l'oggetto immediato dell'innamorato è la donna, l'oggetto immediato dell'emulazione
industriale è il prodotto, e non il profitto.
La concorrenza non è l'emulazione industriale, è l'emulazione commerciale. Ai giorni nostri,
l'emulazione industriale non esiste se non in relazione al commercio. Si verificano persino, nella
vita economica dei popoli moderni, fasi particolari, in cui tutti sono presi da una sorta di vertigine,
a causa della possibilità di realizzare profitti senza produrre. Questa vertigine speculativa, che
ritorna periodicamente, mette a nudo il vero carattere della concorrenza, che cerca appunto di
sfuggire alla necessità dell'emulazione industriale.
Se aveste detto a un artigiano del XIV secolo che si era sul punto di abrogare i privilegi e tutta
l'organizzazione feudale dell'industria, per sostituirvi l'emulazione industriale detta concorrenza,
egli vi avrebbe risposto che i privilegi delle diverse corporazioni, i corpi dei consoli e dei maestri
d'arte, sono proprio la concorrenza organizzata. Proudhon non dice nulla di meglio affermando che
"l'emulazione non è altro che la concorrenza stessa".
"Ordinate che a partire dal 1° gennaio 1847 il lavoro e il salario siano garantiti a tutti:
immediatamente un immenso rilassamento succederà alla tensione ardente
dell'industria." [I, p. 189.]
In luogo di una supposizione, di una affermazione e di una negazione, abbiamo ora un'ordinanza
che Proudhon pronunzia espressamente per provare la necessità della concorrenza, la sua eternità
come categoria, ecc.
Se si immagina che bastino delle ordinanze per uscire dalla concorrenza, non se ne uscirà mai. E se
si spingono le cose fino a proporre l'abolizione della concorrenza, pur conservando il salario, si
proporrà di fare un non-senso per decreto reale. Ma i popoli non procedono per decreto reale.
Prima di poter emettere simili decreti essi debbono, almeno, aver cambiato da cima a fondo le loro
condizioni di esistenza industriale e politica e, di conseguenza, tutto il loro modo di essere.
Proudhon risponderà, con la sua imperturbabile sicurezza, che questo è il presupposto di una
"trasformazione della nostra natura senza preliminari condizioni" [I, p. 191], e che egli avrebbe il
diritto "di escluderci dalla discussione" [ibid.], non sappiamo in virtù di quale decreto.
Proudhon ignora che tutta la storia non è che una trasformazione continua della natura umana.
"Atteniamoci ai fatti. La Rivoluzione francese è stata compiuta sia per la libertà
industriale che per la libertà politica, e quantunque la Francia nel 1789, diciamolo
apertamente, non avesse intravisto tutte le conseguenze del principio di cui
domandava la realizzazione, pure non si è ingannata, né nei suoi voti, né nella sua
attesa. Chiunque tentasse di negarlo, perderebbe ai miei occhi diritto alla critica; io non
discuto mai con un avversario che ponga come possibile in linea di principio l'errore
volontario di venticinque milioni di uomini... Perché dunque, se la concorrenza non
fosse un principio dell'economia, undecreto del destino, una necessità dell'anima
umana, perché invece di abolire le corporazioni e le cariche di maestro d'arte e di
console non si pensava a restaurare il tutto?" [I, pp. 191-192.]
Così poiché i francesi del XVIII secolo hanno abolito le corporazioni e le cariche di maestro d'arte e
di console invece di correggerle, i francesi del XIX secolo debbono correggere la concorrenza invece
di abolirla. Poiché la concorrenza si è imposta in Francia, nel XVIII secolo, come conseguenza di
bisogni storici, questa concorrenza non deve essere distrutta nel XIX secolo a causa di altri bisogni
storici. Proudhon, non comprendendo che l'instaurarsi della concorrenza era legato allo sviluppo
reale degli uomini del XVIII secolo, fa della concorrenza una necessità dell'anima umana in partibus
infidelium. Che avrebbe fatto del Grand Colbert per il XVII secolo?
Dopo la rivoluzione venne lo stato di cose attuale. Proudhon vi attinge egualmente dei fatti per
dimostrare l'eternità della concorrenza, provando che tutte le industrie nelle quali questa categoria
non è ancora abbastanza sviluppata, come l'agricoltura, sono in uno stato di inferiorità, di
deperimento.
Dire che vi sono industrie che non sono ancora pervenute allo stadio della concorrenza, che altre
sono ancora al di sotto del livello della produzione borghese, è un'insulsaggine che non prova per
nulla l'eternità della concorrenza.
Tutta la logica di Proudhon si riassume in questo: la concorrenza è un rapporto sociale nell'ambito
del quale sviluppiamo attualmente le nostre forze produttive. Egli dà a questa verità non già degli
sviluppi logici, ma semplicemente delle forme, che sono spesso pronunciatamente sviluppate,
dicendo che la concorrenza è l'emulazione industriale, è la maniera attuale di essere liberi, la
responsabilità nel lavoro, la costituzione del valore, una condizione per l'avvento dell'eguaglianza,
un principio dell'economia sociale, un decreto del destino, una necessità dell'anima umana, una
ispirazione della giustizia eterna, la libertà nella divisione, la divisione nella libertà, una categoria
economica.
"La concorrenza e l'associazione si appoggiano l'una sull'altra. Lungi dall'escludersi,
esse non sono neppure divergenti. Chi dice concorrenza, presuppone già fine comune.
La concorrenza non è dunque l'egoismo; e il socialismo ha commesso il più deplorevole
dei suoi errori a considerarla come il rovesciamento della società." [I, p.223.]
Chi dice concorrenza dice fine comune e ciò prova, da un lato, che la concorrenza è l'associazione;
dall'altro, che la concorrenza non è l'egoismo. E chi dice egoismo non dice forse scopo comune?
Ogni egoismo si esercita nella società e mediante la società. Esso presuppone dunque la società,
cioè scopi comuni, bisogni comuni, mezzi di produzione comuni, ecc. ecc. È dunque un puro caso
che la concorrenza e l'associazione, di cui parlano i socialisti, non sono neppure divergenti?
I socialisti sanno molto bene che la società attuale è fondata sulla concorrenza. Come potrebbero
rimproverare alla concorrenza di rovesciare la società attuale che essi stessi vogliono rovesciare? E
come potrebbero rimproverare alla concorrenza di rovesciare la società avvenire, nella quale essi
vedono al contrario il rovesciamento della concorrenza?
Proudhon dice più oltre che la concorrenza è l'opposto del monopolio, e che, di conseguenza, essa
non potrebbe essere l'opposto dell'associazione.
Il feudalesimo, alla sua origine, era opposto alla monarchia patriarcale; quindi non era opposto alla
concorrenza, la quale, per altro, non esisteva ancora. Ne segue forse che la concorrenza non è
opposta al feudalesimo?
Nei fatti, società, associazione, sono denominazioni che possono darsi a tutte le società, alla
società feudale come alla società borghese, che è l'associazione fondata sulla concorrenza. Come
dunque possono esservi dei socialisti, i quali, per mezzo della sola parola associazione, credono di
poter confutare la concorrenza? E come può Proudhon stesso voler difendere la concorrenza
contro il socialismo, designando a concorrenza col termine unico di associazione?
Tutto quel che abbiamo detto fin qui costituisce il lato buono della concorrenza, quale l'intende
Proudhon. Passiamo ora al lato spiacevole, cioè al lato negativo della concorrenza, ai suoi
inconvenienti, a ciò che essa ha di distruttivo, di sovversivo: alle sue proprietà malefiche.
Il quadro che ne fa Proudhon ha degli aspetti lugubri.
La concorrenza genera la miseria, fomenta la guerra civile, "modifica le zone naturali", confonde le
nazionalità, sconvolge le famiglie, corrompe la coscienza pubblica, "sovverte le nozioni dell'equità,
della giustizia", della morale, e, ciò che è peggio, distrugge il commercio probo e libero, mentre
non dà neppure in compenso ilvalore sintetico, il prezzo fisso ed onesto. Essa delude tutti, anche
gli economisti. Essa spinge le cose fino a distruggere se stessa.
Dopo tutto quel che di male ne dice Proudhon può esserci, per i suoi princìpi e le sue illusioni, per i
rapporti della società borghese, un elemento più dissolvente, più distruttivo della concorrenza?
Si noti bene che la concorrenza diviene sempre più distruttiva per i rapporti borghesi, quanto più
stimola a creare febbrilmente nuove forze produttive, cioè le condizioni materiali di una società
nuova. Sotto questo rapporto, almeno, il lato cattivo della concorrenza avrebbe qualcosa di buono.
"La concorrenza come posizione o fase economica, considerata nella sua origine, è il
risultato necessario... della teoria della riduzione delle spese di produzione." [I, p.235.]
Per Proudhon, la circolazione del sangue deve essere una conseguenza della teoria di Harvey.
"Il monopolio è il termine fatale della concorrenza, che lo genera mediante una
continua negazione di se stessa. Questa generazione del monopolio ne è già la
giustificazione... Il monopolio è l'opposto naturale della concorrenza... Ma dal
momento che la concorrenza è necessaria, essa implica l'idea del monopolio, poiché il
monopolio è come il seggio su cui posa ogni individualità concorrente." [I, pp. 236 e
237.]
Ci rallegriamo con Proudhon che almeno una volta egli possa applicare bene la sua formula di tesi
e di antitesi. Tutti sanno che il monopolio moderno è generato dalla concorrenza stessa.
Quanto al contenuto, Proudhon si limita ad immagini poetiche.
La concorrenza faceva "di ogni suddivisione del lavoro come una sovranità, dove ogni individuo si
poneva nella sua forza e nella sua indipendenza". [I, p. 186.] Il monopolio è "il seggio su cui posa
ogni individualità concorrente". La sovranità comporta almeno il seggio.
Proudhon parla solo del monopolio moderno, creato dalla concorrenza. Ma noi tutti sappiamo che
la concorrenza è stata generata dal monopolio feudale. Così all'origine la concorrenza era il
contrario del monopolio, e non il monopolio il contrario della concorrenza. Dunque, il monopolio
moderno non è una semplice antitesi, è al contrario la vera sintesi.
Tesi: Il monopolio feudale, predecessore della concorrenza.
Antitesi: La concorrenza.
Sintesi: Il monopolio moderno, che è la negazione del monopolio feudale, in quanto presuppone il
regime della concorrenza, e che è la negazione della concorrenza in quanto è monopolio.
Così il monopolio moderno, il monopolio borghese, è il monopolio sintetico, la negazione della
negazione, l'unità dei contrari. È il monopolio allo stato puro, normale, razionale. Proudhon è in
contraddizione con la sua stessa filosofia, quando fa del monopolio borghese il monopolio allo
stato grezzo, semplicistico, contraddittorio, spasmodico. Rossi, che Proudhon cita parecchie volte a
proposito del monopolio, sembra aver afferrato meglio il carattere sintetico del monopolio
borghese. Nel suo "Cours d'économie politique", distingue tra monopoli artificiali e monopoli
naturali. I monopoli feudali, egli dice, sono artificiali, cioè arbitrari; i monopoli borghesi sono
naturali, cioè razionali.
Il monopolio è una buona cosa, ragiona Proudhon, poiché è una categoria economica,
un'emanazione "della ragione impersonale dell'umanità". La concorrenza è anch'essa una cosa
buona, poiché anch'essa è una categoria economica. Ma quel che non è buono, è la realtà del
monopolio e la realtà della concorrenza. E ancora peggiore è il fatto che la concorrenza e il
monopolio si divorano a vicenda. Che fare? Bisogna cercare la sintesi di queste due idee eterne:
strapparla dal seno di Dio, dove è deposta da tempo immemorabile.
Nella vita pratica si trovano non soltanto la concorrenza, il monopolio e il loro antagonismo, ma
anche la loro sintesi, che non è una formula, ma un movimento. Il monopolio produce la
concorrenza, la concorrenza produce il monopolio. I monopolisti si fanno concorrenza, i
concorrenti divengono monopolisti. Se i monopolisti limitano la concorrenza tra loro con
associazioni parziali, la concorrenza si accresce tra gli operai; e più la massa dei proletari si
accresce di fronte ai monopolisti di una nazione, più la concorrenza tra i monopolisti di differenti
nazioni diventa sfrenata. La sintesi è tale, che il monopolio non può mantenersi se non entrando
continuamente nella lotta della concorrenza.
Per passare dialetticamente alle imposte, che vengono dopo il monopolio, Proudhon ci parla
del genio sociale che, dopo aver seguito intrepidamente la sua strada a zig-zag,
"dopo aver marciato con passo sicuro, senza pentimenti e senza esitazioni, arrivato
all'angolo del monopolio, volge indietro un melanconico sguardo e, dopo una
riflessione profonda, colpisce di imposte tutti gli oggetti della produzione, e crea tutta
una organizzazione amministrativa, affinché tutte le funzioni siano affidate al
proletariato e pagate dagli uomini del monopolio". [I, pp. 284-285.]
Che dire di questo genio che, digiuno, passeggia a zig-zag? E che dire di questa passeggiata che
avrebbe l'unico scopo di demolire i borghesi per mezzo delle imposte, mentre le imposte servono
precisamente a fornire ai borghesi i mezzi per conservarsi come classe dominante?
Per far intravvedere soltanto la maniera nella quale Proudhon tratta i particolari economici,
basterà dire che, secondo lui, l'imposta sul consumo sarebbe stata stabilita in vista
dell'eguaglianza, e per venire in aiuto del proletariato.
L'imposta sul consumo ha preso il suo pieno sviluppo solo dopo l'avvento della borghesia. Nelle
mani del capitale industriale, cioè della ricchezza sobria ed economa che si mantiene, si riproduce,
si ingrandisce attraverso lo sfruttamento diretto del lavoro, l'imposta sul consumo era un mezzo
per sfruttare la ricchezza frivola, gioiosa, prodiga, dei gran signori che non facevano che
consumare. James Steuart ha esposto molto bene questo scopo primitivo dell'imposta sul
consumo nella sua "Inquiry into the Principles of Political Economy", che egli ha pubblicato dieci
anni prima di A. Smith.
"Nella monarchia assoluta", egli dice, "i principi sembrano gelosi in qualche modo
dell'accrescimento delle ricchezze, e di conseguenza mettono delle imposte a coloro
che divengono ricchi (imposte sulla produzione). Nel governo costituzionale, esse
ricadono principalmente su coloro che divengono poveri (imposte sul consumo). Così, i
monarchi mettono un'imposta sull'industria... per esempio la capitazione e la taglia
sono proporzionate alla supposta opulenza di quelli che vi sono soggetti. Ciascuno è
tassato in ragione del profitto che si suppone egli faccia. Nei paesi costituzionali le
imposte sono generalmente applicate sul consumo." [II, pp. 190-191.]
Ciascuno è tassato in ragione della spesa che fa.
Per quanto riguarda - nell'intendimento di Proudhon - la successione logica delle imposte, della
bilancia commerciale, del credito, faremo osservare soltanto che la borghesia inglese, pervenuta
sotto Guglielmo d'Orange alla sua costituzione politica, creò subito un nuovo sistema d'imposte, il
credito pubblico e il sistema dei diritti protettivi, non appena fu in grado di sviluppare liberamente
le sue condizioni di esistenza.
Questo accenno basterà per dare al lettore una giusta idea delle elucubrazioni di Proudhon sulla
polizia o l'imposta, la bilancia commerciale, il credito, il comunismo e la popolazione. Sfidiamo la
critica, anche la più indulgente, a discutere con serietà questi capitoli.
4. La proprietà fondiaria o la rendita.
In ogni epoca storica la proprietà si è sviluppata diversamente e in rapporti sociali interamente
differenti. Così, definire la proprietà borghese non significa altro che descrivere tutti i rapporti
sociali della produzione borghese.
Voler dare una definizione della proprietà come d'un rapporto indipendente, di una categoria a
parte, di un'idea astratta ed eterna, non può essere che un'illusione della metafisica o della
giurisprudenza.
Proudhon, pur avendo tutta l'aria di parlare della proprietà in generale, non tratta in effetti che
della proprietà fondiaria, della rendita fondiaria.
"L'origine della proprietà fondiaria è per così dire extraeconomica: essa risiede in
considerazioni di psicologia e di morale che riguardano solo molto da lontano la
produzione delle ricchezze." (Vol. II, p. 269.)
Così, Proudhon si riconosce incapace di comprendere l'origine economica della rendita e della
proprietà. Egli ammette che questa incapacità l'obbliga a ricorrere a considerazioni di psicologia e
di morale che, riguardando effettivamente molto da lontano la produzione delle ricchezze,
riflettono tuttavia molto da vicino l'angustia delle sue vedute storiche. Proudhon afferma che
l'origine della proprietà ha qualcosa di mistico e di misterioso. Ora veder del mistero nell'origine
della proprietà, cioè trasformare in un mistero il rapporto in cui è la produzione stessa con la
distribuzione degli strumenti di produzione, non significa, per parlare il linguaggio di Proudhon,
rinunziare ad ogni pretesa di scienza economica?
Proudhon
"si limita a ricordare che nella settima epoca dell'evoluzione economica, quella
del credito, - avendo la finzione fatto scomparire la realtà, e minacciando l'attività
umana di perdersi nel vuoto, era divenuto necessario riallacciare più fortemente
l'uomo alla natura: ebbene, la rendita è il prezzo di questo nuovo contratto" (Vol. II, p.
265.)
L'uomo dai quaranta scudi ha presentito un futuro Proudhon.
"Signor creatore, fate quel che volete: ciascuno è padrone del suo proprio mondo, ma
non mi farete mai credere che quello in cui ci troviamo sia di vetro."
Nel vostro mondo, dove il credito è un mezzo per perdersi nel vuoto, è ben possibile che la
proprietà sia divenuta necessaria per riallacciare l'uomo alla natura. Ma nel mondo della
produzione reale, dove la proprietà fondiaria precede sempre il credito, l'horror vacui di Proudhon
non poteva esistere.
Ammessa l'esistenza della rendita, quale che ne sia l'origine, essa è oggetto di dibattito
contraddittorio tra il fittavolo e il proprietario fondiario. Qual è il risultato finale di questo dibattito
o, in altre parole, qual è la quota media della rendita? Ecco quel che dice Proudhon:
"La teoria di Ricardo risponde a questa domanda. Agli inizi della società, quando
l'uomo, nuovo sulla terra, aveva davanti a sé solo l'immensità delle foreste, quando la
terra era vasta e l'industria cominciava appena a nascere, la rendita dovette essere
nulla. La terra, non ancora trasformata dal lavoro, era un oggetto d'uso; non era un
valore di scambio: esso era comune, non sociale. A poco a poco il moltiplicarsi delle
famiglie e il progresso dell'agricoltura fecero avvertire il valore della terra. Il lavoro
conferì al suolo il suo valore: di là nacque la rendita. Più prodotti poteva dare un campo
con la stessa quantità di lavoro, più era stimato; così la tendenza del proprietario fu
sempre quella di appropriarsi la totalità dei prodotti del suolo, meno il salario del
fittavolo, cioè meno le spese di produzione. Così la proprietà tiene dietro al lavoro per
togliergli tutto quello che, nel prodotto, oltrepassa le spese reali. Adempiendo così il
proprietario ad un dovere mistico, e rappresentando egli di fronte al colono la
comunità, nelle disposizioni della provvidenza il fittavolo è un semplice lavoratore
responsabile, che deve render conto alla società di tutto quel che egli raccoglie in più
del suo salario legittimo... Per essenza e destinazione, la rendita è dunque uno
strumento di giustizia distributiva, uno dei mille mezzi che il genio economico mette in
opera per giungere all'eguaglianza. È un immenso catasto eseguito
contraddittoriamente dai proprietari e dai fittavoli, che però esclude ogni conflitto in
un interesse superiore; e il cui risultato finale deve essere di eguagliare il possesso della
terra tra gli sfruttatori del suolo e gli industriali... Occorreva proprio questa magia della
proprietà per poter strappare al coltivatore l'eccedenza del prodotto, che egli non può
fare a meno di considerare come suo, e di cui si considera l'unico autore. La rendita, o
per meglio dire la proprietà, ha infranto l'egoismo agricolo e creato una solidarietà che
nessuna potenza, nessuna spartizione della terra avrebbe potuto far nascere... Oggi
come oggi, ottenuto l'effetto morale della proprietà, resta da fare la distribuzione della
rendita." [II, pp. 270-272.]
Tutto questo fracasso verbale si riduce innanzitutto a questo: Ricardo dice che l'eccedenza del
prezzo dei prodotti agricoli sulle loro spese di produzione, ivi compresi il profitto e l'interesse
ordinari del capitale, dà la misura della rendita. Proudhon fa di meglio. Fa intervenire il proprietario
come un deus ex machina che strappa alcolono tutta l'eccedenza della sua produzione sulle spese
di produzione. Egli si serve dell'intervento del proprietario per spiegare la proprietà, dell'intervento
del rentier per spiegare la rendita. Egli risponde al problema formulando il medesimo problema e
aumentandolo ancora di una sillaba.
Osserviamo ancora che, determinando la rendita in base alla differenza di fertilità della terra,
Proudhon le assegna una nuova origine, poiché la terra, prima di essere stimata in base ai diversi
gradi di fertilità, "non era", secondo lui, "un valore di scambio, ma era comune". Dov'è finita,
dunque, questa finzione della rendita che aveva tratto origine dalla necessità di ricondurre alla
terra l'uomo che stava per perdersi nell'infinito del vuoto?
Liberiamo ora la dottrina di Ricardo dalle frasi provvidenziali, allegoriche e mistiche nelle quali
Proudhon ha avuto cura di avvolgerla.
La rendita, nel senso datole da Ricardo, è la proprietà fondiaria nella sua forma borghese: cioè la
proprietà feudale che ha subìto le condizioni della produzione borghese.
Abbiamo visto che, secondo la dottrina di Ricardo, il prezzo di tutti gli oggetti è in ultima istanza
determinato dalle spese di produzione, ivi compreso il profitto industriale; in altri termini, dal
tempo di lavoro impiegato. Nell'industria manifatturiera, il prezzo del prodotto ottenuto col
minimo di lavoro regola il prezzo di tutte le altre merci della stessa specie, dal momento che si
possono moltiplicare all'infinito gli strumenti di produzione meno costosi e più produttivi, e che la
libera concorrenza determina un prezzo di mercato, cioè un prezzo comune per tutti i prodotti
della stessa specie.
Nell'industria agricola, al contrario, è il prezzo del prodotto ottenuto dalla più grande quantità di
lavoro che regola il prezzo di tutti i prodotti della stessa specie. In primo luogo, non si può, come
nell'industria manifatturiera, moltiplicare a volontà gli strumenti di produzione di uguale
produttività, ossia i terreni ugualmente fertili. In secondo luogo, a misura che la popolazione si
accresce, si cominciano a sfruttare terreni di qualità inferiore, o ad introdurre sullo stesso terreno
nuovi investimenti di capitale, proporzionalmente meno produttivi dei primi. Nell'un caso e
nell'altro s'impiega una maggiore quantità di lavoro per ottenere un prodotto proporzionalmente
minore. Ma poiché è il bisogno della popolazione che ha reso necessario questo aumento di
lavoro, il prodotto del terreno a sfruttamento più costoso trova il suo necessario smercio
esattamente come quello del terreno a sfruttamento meno costoso. Livellando la concorrenza il
prezzo di mercato, il prodotto del terreno migliore sarà pagato ad un prezzo alto quanto quello del
terreno peggiore. L'eccedenza del prezzo dei prodotti del terreno migliore sulle loro spese di
produzione costituisce dunque la rendita. Se si avessero sempre a disposizione terreni di uguale
fertilità; se si potesse, come nell'industria manifatturiera, ricorrere costantemente alle macchine
meno costose e più produttive, o se i successivi investimenti di capitale producessero quanto i
primi, allora sì che il prezzo dei prodotti agricoli sarebbe determinato dal prezzo di costo delle
derrate prodotte dai migliori strumenti di produzione, come abbiamo visto per il prezzo dei
prodotti manufatti. Ma anche la rendita, in questo caso, sarebbe scomparsa.
Perché la dottrina di Ricardo sia generalmente valida, è necessario che i diversi rami dell'industria
siano aperti al capitale; che una concorrenza fortemente sviluppata tra i capitalisti abbia portato i
profitti a un tasso eguale; che l'imprenditore agricolo sia semplicemente un capitalista industriale
che, dovendo investire il suo capitale in terreni di qualità inferiore vuole un profitto eguale a quello
che egli trarrebbe dal suo capitale investito, per esempio, nell'industria cotoniera; che l'agricoltura
sia praticata secondo il sistema della grande industria; che, infine, lo stesso proprietario fondiario
miri solo al reddito monetario.
In Irlanda la rendita non esiste ancora, quantunque l'affitto della terra vi abbia preso un estremo
sviluppo. Essendo la rendita l'eccedente non soltanto sul salario, ma anche sul profitto industriale,
non può esistere laddove, come in Irlanda, il reddito del proprietario non è che un prelevamento
sul salario.
Dunque, ben lungi dal fare del coltivatore, del fittavolo, un semplice lavoratore, e "di strappare al
colono l'eccedente del prodotto che egli non può fare a meno di considerare come suo", la rendita
mette di fronte al proprietario fondiario, invece dello schiavo, del servo, del tributario, del
salariato, il capitalista industriale]. La proprietà fondiaria, una volta costituitasi in rendita, non ha
più in suo possesso che l'eccedente sui costi di produzione, determinati non soltanto dal salario,
ma anche dal profitto industriale. La rendita ha dunque strappato al proprietario fondiario una
parte del suo reddito. Così ha dovuto trascorrere un gran lasso di tempo prima che il contadino
feudale fosse sostituito dal capitalista industriale. In Germania, per esempio, questa
trasformazione non è cominciata che nell'ultimo terzo del XVIII secolo. Solo in Inghilterra questo
rapporto fra il capitalista industriale e il proprietario fondiario ha avuto uno sviluppo completo.
Finché c'era solo il colono di Proudhon, non c'era rendita. Da quando vi è rendita, il colono non è
l'imprenditore agricolo, ma l'operaio è il colono dell'imprenditore agricolo. L'avvilimento del
lavoratore, ridotto al rango di semplice giornaliero, di salariato che lavora per il capitalista
industriale, la comparsa del capitalista industriale che sfrutta la terra come qualsiasi fabbrica, la
trasformazione del proprietario fondiario da piccolo sovrano in usuraio volgare: ecco i vari rapporti
espressi dalla rendita.
La rendita, nel senso dato da Ricardo, è l'agricoltura patriarcale trasformata in industria
commerciale, il capitale industriale applicato alla terra, la borghesia delle città trapiantata nelle
campagne. La rendita, invece di legare l'uomo alla natura, ha soltanto legato lo sfruttamento della
terra alla concorrenza. Una volta costituita come rendita, la proprietà fondiaria stessa è il risultato
della concorrenza, poiché da questo momento essa dipende dal valore di mercato dei prodotti
agricoli. Come rendita, la proprietà fondiaria viene mobilizzata e diventa un "articolo di
commercio". La rendita diviene possibile solo dal momento in cui lo sviluppo dell'industria nelle
città e l'organizzazione sociale che ne risulta obbligano il proprietario fondiario a mirare
unicamente al profitto venale, al controvalore monetario dei suoi prodotti agricoli, a vedere infine
nella sua proprietà fondiaria solo una macchina per battere moneta. La rendita ha staccato il
proprietario fondiario dal suolo, dalla natura, in modo così completo che egli non ha neanche
bisogno di conoscere le sue terre, come possiamo appunto constatare in Inghilterra. Quanto
all'imprenditore agricolo, al capitalista industriale e all'operaio agricolo, essi non sono legati alla
terra che sfruttano più di quanto l'imprenditore e l'operaio delle manifatture lo siano al cotone o
alla lana che lavorano; essi provano attaccamento solo per il prezzo del loro impiego, solo per il
prodotto monetario. Di qui le geremiadi dei partiti reazionari, che invocano con tutta l'anima il
ritorno al feudalesimo, alla buona vita patriarcale, ai costumi semplici e alle grandi virtù dei nostri
avi. L'assoggettamento del suolo alle leggi che regolano tutte le altre industrie è, e sarà sempre,
oggetto di lamentele interessate. Si può dunque dire che la rendita è divenuta la forza motrice che
ha lanciato l'idillio nel movimento della storia.
Ricardo, dopo aver presupposto la produzione borghese come necessaria per determinare la
rendita, l'applica tuttavia alla proprietà fondiaria di tutte le epoche e di tutti i paesi. È l'errore di
tutti gli economisti, che rappresentano i rapporti della produzione borghese come categorie
eterne.
Dal fine provvidenziale della rendita, che è per lui la trasformazione del colono in lavoratore
responsabile, Proudhon passa alla ridistribuzione egualitaria della rendita.
La rendita, come abbiamo visto, è costituita dal prezzo eguale dei prodotti di terreni d'ineguale
fertilità, di modo che un ettolitro di grano che è costato 10 franchi si vende a 20 franchi, se le spese
di produzione per un terreno di qualità inferiore si elevano a 20 franchi.
Finché il bisogno costringe a comprare tutti i prodotti agricoli portati sul mercato, il prezzo di
mercato è determinato dal costo del prodotto più costoso. È dunque questo livellamento del
prezzo, risultante dalla concorrenza e non dalla differente fertilità dei terreni, che procura al
proprietario del terreno migliore una rendita di 10 franchi per ogni ettolitro venduto dal suo
fittavolo.
Supponiamo un momento che il prezzo del grano sia determinato dal tempo di lavoro necessario
per produrlo; immediatamente l'ettolitro di grano ottenuto sul terreno migliore si venderà a 10
franchi, mentre quello ottenuto sul terreno di qualità inferiore sarà pagato 20 franchi. Ciò
ammesso, il prezzo medio di mercato sarà di 15 franchi, mentre, secondo la legge della
concorrenza, esso è di 20 franchi. Se il prezzo medio fosse di 15 franchi, non vi sarebbe luogo ad
alcuna distribuzione, né egualitaria, né altro, perché non vi sarebbe rendita. La rendita infatti esiste
semplicemente per il fatto che l'ettolitro di grano che costa 10 franchi al produttore è venduto a 20
franchi. Proudhon suppone l'eguaglianza del prezzo di mercato con costi di produzione ineguali,
per giungere alla ridistribuzione egualitaria del prodotto dell'ineguaglianza.
Comprendiamo bene che economisti come Mill, Cherbuliez, Hilditch e altri abbiano domandato
che la rendita sia assegnata allo Stato per servire al pagamento delle imposte. È questa la scoperta
espressione dell'odio nutrito dal capitalista industriale per il proprietario fondiario, che gli appare
come un'inutilità, una superfetazione, nell'insieme della produzione borghese.
Ma cominciare col far pagare l'ettolitro di grano 20 franchi, per poi fare una distribuzione generale
dei 10 franchi di troppo prelevati sui consumatori, basta questo perché il genio sociale,
prosegua melanconicamente per la sua strada a zig-zag, e vada a rompersi la testa contro
un angolo qualsiasi.
La rendita diviene, sotto la penna di Proudhon,
"un immenso catasto, eseguito contraddittoriamente dai proprietari e dai fittavoli... in
un interesse superiore; e il cui risultato finale deve essere di eguagliare il possesso della
terra tra gli sfruttatori del suolo e gli industriali". [II, p.271.]
Perché un catasto qualsiasi, formato sulla base della rendita, abbia un valore pratico, bisogna
sempre restare nelle condizioni della società attuale.
Ora, abbiamo dimostrato che il fitto pagato dal fittavolo al proprietario s'avvicina ad esprimere
esattamente la rendita solo nei paesi più avanzati nell'industria e nel commercio. Inoltre, questo
fitto comprende spesso l'interesse pagato al proprietario per il capitale incorporato nella terra. La
posizione dei terreni, la vicinanza delle città e molte altre circostanze ancora influiscono sul fitto e
modificano la rendita. Queste ragioni perentorie basterebbero per provare l'inesattezza di un
catasto basato sulla rendita.
D'altra parte, la rendita non può essere l'indice costante del grado di fertilità di un terreno, poiché
l'applicazione moderna della chimica può cambiare in ogni momento la natura del terreno, e
poiché le conoscenze geologiche cominciano, proprio ai nostri giorni, a capovolgere tutta l'antica
valutazione della fertilità relativa: appena da venti anni, all'incirca, si sono cominciati a dissodare
nelle contee orientali dell'Inghilterra vasti terreni che si lasciavano incolti poiché non si era
convenientemente valutato il rapporto tra l'humus e la composizione del sottosuolo.
Così la storia, lungi dal dare nella rendita un catasto bello e fatto, non fa che cambiare, rovesciare
totalmente i catasti esistenti.
Infine, la fertilità non è una qualità così naturale come si potrebbe credere; essa è connessa
intimamente con i rapporti sociali del momento. Una terra può essere molto fertile per la
cerealicoltura, e tuttavia il prezzo di mercato potrà spingere il coltivatore a trasformarla in pascolo
artificiale e a renderla così improduttiva.
Proudhon ha improvvisato il suo catasto, che non vale neppure il catasto ordinario, solo per dare
un contenuto allo scopo provvidenzialeegualitario della rendita.
"La rendita", continua Proudhon, "è l'interesse pagato per un capitale che non
deperisce mai, cioè la terra. E siccome questo capitale non è suscettibile di alcun
aumento, quanto alla materia, ma soltanto d'un miglioramento indefinito quanto
all'utilizzazione, succede che mentre l'interesse o il beneficio del prestito (mutuum)
tende a diminuire senza posa a causa dell'abbondanza di capitali, la rendita tende ad
aumentare sempre a causa del perfezionamento dell'industria e del conseguente
miglioramento nell'uso della terra... Tale è, nella sua essenza, la rendita." (Vol. II,
p.265.)
Questa volta Proudhon vede nella rendita tutte le caratteristiche dell'interesse, ad eccezione del
fatto che essa proviene da un capitale di natura particolare. Questo capitale è la terra, capitale
eterno,
"che non è suscettibile di nessun aumento, quanto alla materia, ma soltanto d'un
miglioramento indefinito quanto all'utilizzazione" [ II, p. 265.]
Nel cammino progressivo della civiltà, l'interesse ha una tendenza continua verso il basso, mentre
la rendita tende continuamente verso l'alto. L'interesse diminuisce a causa dell'abbondanza dei
capitali; la rendita aumenta con i perfezionamenti apportati nell'industria, i quali hanno per
conseguenza una utilizzazione sempre migliore della terra.
Tale è, nella sua essenza, l'opinione di Proudhon.
Esaminiamo, in primo luogo, fino a che punto è giusto dire che la rendita è l'interesse di un
capitale.
Per lo stesso proprietario fondiario la rendita rappresenta l'interesse del capitale che la terra gli è
costata, o che egli ne trarrebbe se la vendesse. Ma comprando o vendendo la terra, egli compra o
vende soltanto la rendita. Il prezzo che paga per comprare la rendita, si regola sul tasso generale
dell'interesse e non ha niente a che fare con la natura della rendita come tale. L'interesse dei
capitali investiti in terreni è, in generale, inferiore a quello dei capitali investiti nelle manifatture o
nel commercio. Così per chi non distingue l'interesse, che la terra rappresenta per il proprietario,
dalla rendita stessa, l'interesse della terra-capitale diminuisce ancor più dell'interesse degli altri
capitali. Ma non si tratta del prezzo di acquisto o di vendita della rendita, del valore di mercato
della rendita, della rendita capitalizzata, si tratta della rendita stessa.
Il fitto può comprendere, oltre la rendita propriamente detta, anche l'interesse del capitale
investito nella terra. Allora il proprietario riceve questa parte del fitto non come proprietario, ma
come capitalista; tuttavia non è questa la rendita propriamente detta, come la si deve definire
esattamente.
La terra, finché non è sfruttata come mezzo di produzione, non è un capitale. Le terre-capitali
possono essere aumentate proprio come tutti gli altri strumenti di produzione. Non si aggiunge
niente alla materia, per parlare il linguaggio di Proudhon, ma si aumentano le terre che servono da
strumento di produzione. Basta applicare a terre già trasformate in mezzi di produzione ulteriori
investimenti di capitale, per aumentare la terra-capitale senza aggiungere nulla alla terra-materia,
cioè all'estensione della terra. La terra-materia di Proudhon è la terra come limite. Quanto
all'eternità che Proudhon attribuisce alla terra, noi ci auguriamo che essa abbia questa virtù in
quanto materia. Ma la terra-capitale non è più eterna di qualsiasi altro capitale.
L'oro e l'argento, che danno interesse, sono durevoli ed eterni esattamente come la terra. Se il
prezzo dell'oro e dell'argento diminuisce, mentre quello della terra aumenta, ciò non deriva certo
dalla natura più o meno eterna di questa.
La terra-capitale è un capitale fisso, ma il capitale fisso si consuma come i capitali circolanti. I
miglioramenti apportati alla terra hanno bisogno di riproduzione e manutenzione; essi durano solo
per un tempo limitato, proprio come tutti gli altri miglioramenti che servono a trasformare la
materia in mezzo di produzione. Se la terra-capitale fosse eterna, certi terreni presenterebbero
tutt'altro aspetto da quello odierno. Noi vedremmo la campagna romana, la Sicilia, la Palestina in
tutto lo splendore della loro antica prosperità.
Si danno anche casi in cui la terra-capitale può scomparire anche se i miglioramenti restano.
In primo luogo, ciò accade tutte le volte che la rendita propriamente detta si annulla a causa della
concorrenza di nuovi terreni più fertili; in secondo luogo, determinati miglioramenti, che potevano
aver valore in una certa epoca, cessano di averne da quando divengono generali a causa dello
sviluppo della agronomia.
Chi rappresenta la terra-capitale non è il proprietario fondiario ma l'imprenditore agricolo. Il
reddito che la terra dà come capitale è l'interesse e il profitto industriale, e non la rendita. Vi sono
terre che danno questo interesse e questo profitto e non danno alcuna rendita.
Riassumendo: la terra, in quanto dà un interesse, è terra-capitale, e come tale non dà una rendita,
non costituisce la proprietà fondiaria. La rendita risulta dai rapporti sociali nei quali l'agricoltura si
esercita. Essa non può risultare dalla natura più o meno consistente, più o meno durevole della
terra. La rendita proviene dalla società, e non dal suolo.
Secondo Proudhon "il miglioramento nell'utilizzazione della terra" - conseguenza del
"perfezionamento dell'industria" - è causa dell'aumento continuo della rendita. Questo
miglioramento, al contrario, la fa diminuire periodicamente.
In che consiste, in generale, qualsiasi miglioramento, nell'agricoltura come nell'industria? Nel
produrre di più con lo stesso lavoro, nel produrre altrettanto o anche di più con minor lavoro.
Grazie a questi miglioramenti l'imprenditore agricolo è dispensato dall'impiegare una maggiore
quantità di lavoro per un prodotto proporzionalmente minore. Non è necessario allora ricorrere a
terreni meno fertili, e le porzioni di capitale investite successivamente nello stesso terreno restano
egualmente produttive. Dunque questi miglioramenti, lungi dal far aumentare continuamente la
rendita, come dice Proudhon, sono al contrario altrettanti ostacoli che temporaneamente si
oppongono al suo aumento.
I proprietari inglesi del XVII secolo comprendevano così bene questa verità, che si opposero allo
sviluppo dell'agricoltura, per timore di veder diminuire i loro redditi. (Cfr. Petty, economista inglese
del tempo di Carlo.
5. Gli scioperi e le coalizioni degli operai
"Ogni movimento di rialzo dei salari non può avere altro effetto che quello di un
aumento del prezzo del grano, del vino, ecc., cioè l'effetto di una carestia. Che cosa è
infatti il salario? È il prezzo di costo del grano, ecc.; è il prezzo integrale di ogni
prodotto. Andiamo ancora più in profondità: il salario è la proporzionalità degli
elementi che compongono la ricchezza e che sono consumati riproduttivamente ogni
giorno dalla massa dei lavoratori. Ora, raddoppiare i salari... significa attribuire a
ciascuno dei produttori una parte più grande di ciò che ha prodotto, il che è
contraddittorio; e se l'aumento non riguarda che un piccolo numero di industrie,
questo provoca una perturbazione generale negli scambi, in una parola una carestia... È
impossibile, lo affermo, che gli scioperi seguiti da aumenti di salari non finiscano in un
rincaro generale. Questo è così certo come due e due fan quattro." (Proudhon, vol. I,
pp. 110-111.)
Neghiamo tutte queste asserzioni, tranne quella che due e due fanno quattro.
Anzitutto non si ha un rincaro generale. Se il prezzo di ogni cosa raddoppia contemporaneamente
al salario, non si ha mutamento nei prezzi, ma solo nei termini.
In secondo luogo, un aumento generale dei salari non può mai produrre un rincaro più o meno
generale delle merci. In effetti, se tutte le industrie impiegassero lo stesso numero di operai in
rapporto con il capitale fisso, o con gli strumenti di cui esse si servono, un rialzo generale dei salari
produrrebbe un abbassamento generale dei profitti e il prezzo corrente delle merci non subirebbe
alcuna alterazione.
Ma siccome il rapporto del lavoro manuale col capitale fisso non è lo stesso nelle diverse industrie,
tutte quelle industrie che impiegano una massa relativamente maggiore di capitale fisso e una
massa minore di mano d'opera saranno costrette, presto o tardi, ad abbassare il prezzo delle loro
merci. Nel caso contrario, in cui il prezzo delle loro merci non diminuisca, il loro profitto verrebbe
ad elevarsi al disopra del tasso comune dei profitti. Le macchine non sono salariati. Dunque, il
rialzo generale dei salari colpirà meno quelle industrie che impiegano, comparativamente alle
altre, più macchine che operai. Ma poiché la concorrenza tende sempre a livellare i profitti, quelli
che si elevassero al disopra del tasso ordinario non potrebbero essere che passeggeri. Così, a parte
alcune fluttuazioni, un rialzo generale dei salari porterà, invece che al rincaro generale, come dice
Proudhon, a un abbassamento parziale dei prezzi, cioè a un abbassamento nel prezzo corrente
delle merci che si fabbricano principalmente con l'aiuto delle macchine.
L'aumento e la diminuzione del profitto e dei salari non esprimono che la proporzione nella quale i
capitalisti e i lavoratori partecipano al prodotto di una giornata di lavoro, senza influire, nella
maggior parte dei casi, sul prezzo del prodotto. Ma che "gli scioperi seguiti da aumento di salari
finiscano in un rincaro generale, in una carestia addirittura" è una di quelle idee che possono
sbocciare soltanto nel cervello d'un poeta incompreso.
In Inghilterra gli scioperi hanno sollecitato regolarmente l'invenzione e l'applicazione di nuove
macchine. Le macchine erano, lo si può ben dire, l'arma che usavano i capitalisti per reprimere le
ribellioni del lavoro specializzato. La self-acting mule [8], la più grande invenzione dell'industria
moderna, mise fuori combattimento i filatori in rivolta. Quand'anche le coalizioni e gli scioperi non
avessero altro effetto che di far reagire contro di loro gli sforzi del genio meccanico, già per questo
eserciterebbero un'influenza immensa sullo sviluppo dell'industria.
"Io trovo", continua Proudhon, "in un articolo pubblicato del signor Léon Faucher... nel
settembre 1845, che da qualche tempo gli operai inglesi hanno perduto l'abitudine
delle coalizioni; ciò è sicuramente un progresso, e se ne devono porgere loro le
felicitazioni più vive: ma trovo che questo miglioramento nel morale degli operai deriva
soprattutto dalla loro istruzione economica. I salari non dipendono affatto dai padroni
delle manifatture, - gridava a un comizio di Bolton un operaio tessile. Nelle epoche di
depressione, i padroni sono semplicemente, per così dire, la frusta di cui si arma la
necessità e, lo vogliano o no, bisogna che colpiscano. Il principio regolatore è il
rapporto dell'offerta con la domanda; e i padroni non hanno questo potere... "A la
bonne heure ", grida Proudhon, "ecco degli operai come si deve, degli operai modello,
ecc., ecc., ecc." "Questa miseria mancava all'Inghilterra; essa non passerà la Manica."
(Proudhon, vol. I, pp. 261 e 262.)
Di tutte le città inglesi, Bolton è quella dove il radicalismo è più sviluppato. Gli operai di Bolton
sono noti come i più rivoluzionari fra tutti. Durante la grande agitazione che ebbe luogo in
Inghilterra per l'abolizione delle leggi sui cereali, gli industriali inglesi stimarono di poter far fronte
ai proprietari fondiari solo mettendo avanti gli operai. Ma siccome gli interessi degli operai non
erano certo in minor contrasto con quelli degli industriali, di quanto gli interessi degli industriali lo
fossero con quelli dei proprietari fondiari, era naturale che gli industriali dovessero avere la peggio
nei comizi degli operai. Che fecero allora gli industriali? Per salvare le apparenze, organizzarono dei
comizi composti, in gran parte, di sorveglianti, di operai a loro devoti, in verità in piccolissimo
numero, e degli amici del commercio propriamente detti. Quando in seguito gli operai autentici
tentarono, come a Bolton e a Manchester, di partecipare a queste manifestazioni fittizie per
elevare la loro protesta, si vietò loro l'ingresso, dicendo che si trattava di un ticket-meeting. Si
definiscono con questa espressione i comizi in cui si ammettono solo le persone munite di biglietti
di ingresso. Tuttavia i manifesti affissi sui muri avevano annunciato comizi pubblici. Tutte le volte
che si tenevano tali comizi i giornali degli industriali davano un resoconto pomposo e dettagliato
dei discorsi ivi pronunziati. Tali discorsi, non c'è bisogno di dirlo, erano pronunziati dai sorveglianti.
I fogli di Londra li riportavano alla lettera. Proudhon ha la sventura di scambiare i sorveglianti con
gli operai ordinari, e proibisce a questi di passare la Manica.
Se nel 1844 e nel 1845 gli scioperi si notavano meno di prima, la spiegazione è semplice: il 1844 e il
1845 furono i due primi anni prosperità per l'industria inglese dopo il 1837. Nondimeno nessuna
delle trades unions era stata disciolta.
Ascoltiamo ora i sorveglianti di Bolton. Secondo loro gli industriali non sono padroni del salario,
perché non sono padroni del prezzo del prodotto, e non sono padroni del prezzo del prodotto,
perché non sono padroni del mercato mondiale. Con questo ragionamento essi davano a intendere
che non si dovevano fare coalizioni per strappare ai padroni un aumento di salari. Proudhon, al
contrario, proibisce agli operai le coalizioni nel timore che una coalizione sia seguita da un rialzo
dei salari, che comporterebbe una carestia generale. Non abbiamo bisogno di dire che su un solo
punto vi è una intesa cordiale tra i sorveglianti e Proudhon: cioè che un rialzo dei salari equivale a
un rialzo nel prezzo dei prodotti.
Ma il timore di una carestia è la vera causa del rancore di Proudhon?
No. Egli ce l'ha coi sorveglianti di Bolton semplicemente perché essi determinano il valore in base
all'offerta e alla domanda, e non si ano affatto del valore costituito, del valore passato allo stato di
costituzione, della costituzione del valore, ivi compresa la scambiabilità permanente e tutte le
altre proporzionalità di rapporti e rapporti di proporzionalità, con l'aggiunta della Provvidenza.
"Lo sciopero degli operai è illegale, e non è soltanto il codice penale che lo dice, ma
anche il sistema economico, la necessità dell'ordine stabilito... Che ogni operaio
individualmente possa disporre in piena libertà della sua persona e delle sue braccia
può tollerarsi; ma che gli operai tentino, per mezzo di coalizioni, di far violenza al
monopolio, questo la società non può permetterlo." (Vol. I, pp. 334 e 335.)
Proudhon pretende di far passare un articolo del codice penale per un risultato necessario e
generale dei rapporti della produzione borghese.
In Inghilterra, le coalizioni sono autorizzate da un atto del parlamento; ed è il sistema economico
che ha costretto il parlamento a dare per legge questa autorizzazione. Nel 1825, quando, sotto il
ministro Huskisson, il parlamento dovette modificare la legislazione, per accordarla sempre di più
con uno stato di cose risultante dalla libera concorrenza, esso dovette necessariamente abolire
tutte le leggi che proibivano le coalizioni degli operai. Più l'industria moderna e la concorrenza si
sviluppano, più vi sono elementi che provocano e assecondano le coalizioni, e quando le coalizioni
sono divenute un fatto economico che acquista ogni giorno maggior consistenza, non possono
certo tardare a divenire un fatto legale.
Così l'articolo del codice penale prova tutt'al più che l'industria moderna e la concorrenza non
erano ancora molto sviluppate sotto l'Assemblea costituente e sotto l'Impero.
Gli economisti e i socialisti sono d'accordo su di un solo punto: la condanna delle coalizioni.
Soltanto che essi motivano diversamente la loro condanna.
Gli economisti dicono agli operai: Non coalizzatevi. Coalizzandovi, voi ostacolate il progresso
regolare dell'industria, impedite agli industriali di soddisfare le ordinazioni, turbate il commercio e
affrettate l'invasione delle macchine, le quali, rendendo il vostro lavoro in parte inutile, vi
costringono ad accettare un salario ancora più basso. D'altronde, avete un bel darvi da fare, il
vostro salario sarà sempre determinato dal rapporto delle braccia richieste con le braccia offerte,
ed è uno sforzo ridicolo quanto pericoloso mettervi in rivolta contro le leggi eterne dell'economia
politica.
I socialisti dicono agli operai: Non vi coalizzate, perché in fin dei conti, cosa vi guadagnereste? Un
aumento dei salari? Gli economisti vi proveranno fino all'evidenza che quei pochi soldi che
guadagnereste per un breve tempo, in caso di successo, saranno seguiti poi da un ribasso durevole.
Abili calcolatori vi proveranno che occorreranno degli anni solo per rifarvi, mediante un aumento
dei salari, delle spese necessarie per organizzare e mantenere le coalizioni. E noi vi diciamo, in
qualità di socialisti, che a parte questa questione di denaro voi resterete ugualmente gli operai, e i
padroni resteranno sempre i padroni, come prima. Così, niente coalizioni, niente politica; fare delle
coalizioni, infatti, non è forse fare della politica?
Gli economisti vogliono che gli operai restino nell'ambito della presente società quale essa si è
formata, e quale essi l'hanno delineata e suggellata nei loro manuali.
I socialisti vogliono che gli operai lascino stare la vecchia società, per poter entrare in quella nuova,
che essi hanno loro preparata con la previdenza.
Malgrado gli uni e gli altri, malgrado i manuali e le utopie, le coalizioni non hanno cessato un
istante di progredire e di ingrandirsi con lo sviluppo e l'espansione dell'industria moderna.
Cosicché si è giunti ormai a stabilire il principio che il grado di sviluppo delle coalizioni in un paese
segna nettamente il rango che esso occupa nella gerarchia del mercato mondiale. L'Inghilterra,
dove l'industria ha raggiunto il più alto grado di sviluppo, ha le coalizioni più vaste e meglio
organizzate.
In Inghilterra non ci si è limitati a coalizioni parziali, che avessero semplicemente per scopo uno
sciopero passeggero, e che scomparissero con esso. Si sono formate coalizioni permanenti, trades
unions, che servono da baluardo agli operai nella loro lotta contro gli imprenditori. E, al momento
attuale, tutte queste trades unions locali trovano un punto d'unione nella National Association of
United Trades [, il cui comitato centrale risiede a Londra, e che conta già ottantamila membri. La
formazione di questi scioperi, coalizioni, trades unions fu contemporanea alle lotte politiche degli
operai, che costituiscono ora un grande partito politico, sotto il nome di Cartisti.
I primi tentativi degli operai per associarsi tra loro assumono sempre la forma di coalizioni.
La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La
concorrenza le divide, nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune
che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione.
Così la coalizione ha sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai tra loro,
per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Se il primo scopo della resistenza era solo il
mantenimento dei salari, a misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di
repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre
unito, il mantenimento dell'associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del
salario. Ciò è talmente vero, che gli economisti inglesi rimangono stupiti a vedere come gli operai
sacrifichino una buona parte del salario a favore di associazioni che, agli occhi di questi economisti,
erano state istituite solo a favore dei salari. In questa lotta - vera guerra civile - si riuniscono e si
sviluppano tutti gli elementi necessari a una battaglia imminente. Una volta giunta a questo punto,
l'associazione acquista un carattere politico.
Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in
lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi
comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa.
Nella lotta, della quale abbiamo segnalato solo alcune fasi, questa massa si riunisce, si costituisce
in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di
classe contro classe è una lotta politica.
Nella borghesia dobbiamo distinguere due fasi: quella durante la quale essa si costituì in classe
sotto il regime della feudalità e della monarchia assoluta, e quella in cui, ormai costituitasi in
classe, rovesciò la feudalità e la monarchia per fare della società una società borghese. La prima di
queste fasi fu la più lunga e richiese i più grandi sforzi. Anche la borghesia aveva cominciato con
coalizioni parziali contro i signori feudali.
Si sono fatte molte ricerche per descrivere le differenti fasi storiche che la borghesia ha percorso,
dal comune fino alla sua costituzione come classe.
Ma quando si tratta di rendersi esattamente conto degli scioperi, delle coalizioni e delle altre
forme nelle quali i proletari realizzano davanti ai nostri occhi la loro organizzazione come classe, gli
uni sono presi da un timore reale, gli altri ostentano uno sprezzo trascendentale.
Una classe oppressa è la condizione vitale di ogni società fondata sull'antagonismo delle classi.
L'affrancamento della classe oppressa implica dunque di necessità la creazione di una società
nuova. Perché la classe oppressa possa affrancarsi, bisogna che le forze produttive già acquisite e i
rapporti sociali esistenti non possano più esistere le une a fianco degli altri. Di tutti gli strumenti di
produzione, la più grande forza produttiva è la classe rivoluzionaria stessa. L'organizzazione degli
elementi rivoluzionari come classe presuppone l'esistenza di tutte le forze produttive che potevano
generarsi nel seno della società antica.
Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell'antica società ci sarà una nuova dominazione di classe,
riassumentesi in un nuovo potere politico? No.
La condizione dell'affrancamento della classe lavoratrice è l'abolizione di tutte le classi, come la
condizione dell'affrancamento del "terzo stato", dell'ordine borghese fu l'abolizione di tutti gli stati
e di tutti gli ordini.
La classe lavoratrice sostituirà, nel corso dello sviluppo, all'antica società civile un'associazione che
escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto,
poiché il potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell'antagonismo nella società civile.
Nell'attesa, l'antagonismo tra il proletariato e la borghesia è una lotta di classe contro classe, lotta
che, portata alla sua più alta espressione, è una rivoluzione totale. D'altronde, bisogna forse
stupirsi che una società basata sull'opposizione delle classi metta capo alla contraddizione brutale,
a un urto corpo a corpo come sua ultima conclusione?
Non si dica che il movimento sociale esclude il movimento politico. Non vi è mai movimento
politico che non sia sociale nello stesso tempo.”
5 - Per la critica dell'economia politica. Miseria della filosofia è del 1847. Per la critica
dell'economia politica è del 1859. Le due opere sono separate da un decennio fra i più difficili della
vita di Marx; ma anche dei più fecondi dal punto di vista teorico. Sono gli anni, infatti, dei
Grundrisse.
“A un primo sguardo la ricchezza borghese appare come una enorme raccolta di merci e la singola
merce come sua esistenza elementare. Ma ogni merce si presenta sotto il duplice punto di vista
di valore d'uso e di valore di scambio.
La merce è in primo luogo, nel linguaggio degli economisti inglesi, "qualsiasi cosa necessaria, utile
o gradevole alla vita", oggetto di bisogni umani, mezzo di sussistenza nel senso più ampio della
parola. Questo esistere della merce come valore d'uso e la sua esistenza naturale tangibile
coincidono. Il grano ad esempio è un valore d'uso particolare, differente dai valori d'uso cotone,
vetro, carta, ecc. Il valore d'uso ha valore solo per l'uso e si attua soltanto nel processo del
consumo. Un medesimo valore d'uso può essere sfruttato in modo diverso. La somma delle sue
possibili utilizzazioni si trova però racchiusa nel suo esistere quale oggetto dotato di determinate
qualità. Questo valore d'uso, inoltre, è determinato non solo qualitativamente, bensì anche
quantitativamente. Valori d'uso differenti hanno misure differenti secondo le loro naturali
peculiarità, ad esempio un moggio di grano, una libbra di carta, un braccio di tela, ecc.
Qualunque sia la forma della ricchezza, i valori d'uso costituiscono sempre il suo contenuto, che in
un primo tempo è indifferente nei confronti di questa forma. Gustando del grano, non si sente chi
l'ha coltivato, se un servo della gleba russo, un contadino particellare francese o un capitalista
inglese. Sebbene sia oggetto di bisogni sociali e quindi si trovi in un nesso sociale, il valore d'uso
non esprime tuttavia un rapporto di produzione sociale. Questa merce come valore d'uso sia ad
esempio un diamante. Guardando il diamante, non si avverte che è merce. Là dove serve come
valore d'uso, esteticamente o meccanicamente, al seno di una ragazza allegra o in mano a chi mola
i vetri, è diamante e non merce. L'essere valore d'uso sembra presupposto necessario per la
merce, ma l'essere merce sembra pel valore d'uso una definizione indifferente. Il valore d'uso in
questa sua indifferenza verso la definizione della forma economica, ossia il valore d'uso quale
valore d'uso, esula dal campo d'osservazione dell'economia politica. Vi rientra solo là dove è esso
medesimo definizione formale. In modo immediato, il valore d'uso è la base materiale in cui si
presenta un determinato rapporto economico, il valore di scambio.
Il valore di scambio appare in primo luogo come un rapporto quantitativo, entro il quale valori
d'uso sono intercambiabili. Entro questo rapporto essi costituiscono la medesima grandezza di
scambio. Così, un volume di Properzio e 8 once di tabacco da fiuto possono essere un medesimo
valore di scambio, nonostante la disparità dei valori d'uso tabacco ed elegia. Come valore di
scambio, un valore d'uso vale esattamente quanto l'altro, purchè sia presente nella dovuta
proporzione. Il valore di scambio di un palazzo può essere espresso in un determinato numero di
scatole di lucido da scarpe. Viceversa, i fabbricanti di lucido londinesi hanno espresso in palazzi il
valore di scambio delle scatole sempre più numerose del loro prodotto. Astraendo quindi del tutto
dal loro modo d'esistenza naturale e senza tener conto della natura specifica del bisogno per il
quale sono valori d'uso, le merci si equivalgono in determinate quantità, si sostituiscono le une alle
altre nello scambio, sono considerate equivalenti e in tal modo rappresentano la medesima unità
malgrado la loro variopinta apparenza.
I valori d'uso sono direttamente mezzi di sussistenza. Ma viceversa questi mezzi di sussistenza sono
essi stessi prodotti della vita sociale, sono risultato di forza umana spesa, sono lavoro oggettivato.
In quanto materializzazione del lavoro sociale, tutte le merci sono cristallizzazioni di una medesima
unità. Quello che ora dobbiamo considerare è il carattere determinato di questa unità, ossia del
lavoro che si esprime nel valore di scambio.
Un'oncia d'oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e venti braccia di seta siano, poniamo,
valori di scambio uguali. In quanto sono tali equivalenti, in cui è cancellata la differenza qualitativa
dei loro valori d'uso, essi rappresentano un volume uguale di uno stesso lavoro. Il lavoro che in essi
uniformemente si oggettiva dev'essere esso stesso lavoro semplice, uniforme, indifferenziato, per il
quale sia indifferente apparire nell'oro, nel ferro, nel grano, nella seta, allo stesso modo che è
indifferente per l'ossigeno trovarsi nella ruggine del ferro, nell'atmosfera, nel succo dell'uva o nel
sangue dell'uomo. Ma scavare oro, portar alla luce ferro, coltivare grano e tessere seta, sono tipi di
lavoro che differiscono qualitativamente l'uno dall'altro. Infatti, ciò che oggettivamente appare
come diversità dei valori d'uso, appare nel corso del processo come diversità dell'attività che
produce i valori d'uso. Perciò, il lavoro che crea valore di scambio, in quanto è indifferente nei
riguardi della particolare materia dei valori d'uso, lo è anche nei confronti della forma particolare
del lavoro stesso. I differenti valori d'uso sono inoltre prodotti dell'attività di individui differenti,
sono dunque il risultato di lavori individualmente differenti. Ma come valori di scambio
rappresentano un lavoro uguale, indifferenziato, ossia lavoro in cui è cancellata l'individualità di chi
lavora. Il lavoro che crea valore di scambio è quindi lavoro astrattamente generale.
Se un'oncia d'oro, una tonnellata di ferro, un quarter di grano e venti braccia di seta sono valori di
scambio di uguale grandezza, ossia equivalenti, un'oncia d'oro, mezza tonnellata di ferro,
tre bushel di grano e cinque braccia di seta saranno valori di scambio di grandezza del tutto
differente, e questa differenza quantitativa è l'unica differenza di cui siano in genere suscettibili in
quanto valori di scambio. Come valori di scambio di grandezza differente rappresentano un più o
un meno, un quantitativo maggiore o minore di quel lavoro semplice, uniforme, astrattamente
generale, il quale costituisce la sostanza del valore di scambio. Si tratta di vedere come misurare
questi quantitativi. O piuttosto si tratta di vedere quale sia la esistenza quantitativa di quel lavoro
stesso, poichè le differenze di grandezza delle merci come valori di scambio non sono che
differenze di grandezza del lavoro in esse oggettivato. Allo stesso modo che il tempo è l'esistenza
quantitativa del movimento, iltempo di lavoro è l'esistenza quantitativa del lavoro. La diversità
della propria durata è l'unica differenza di cui sia suscettibile il lavoro, presupposta come data la
sua qualità. Come tempo di lavoro esso ottiene la propria scala di misura nelle naturali misure del
tempo, ora, giornata, settimana, ecc. Il tempo di lavoro è l'esistenza vivente del lavoro,
indipendentemente dalla sua forma, dal suo contenuto, dalla sua individualità; ne è l'esistenza
vivente come esistenza quantitativa, e insieme è la misura immanente di questa esistenza. Il tempo
di lavoro oggettivato nei valori d'uso delle merci è la sostanza che fa dei valori d'uso valori di
scambio e quindi merci, allo stesso modo che ne misura la determinata grandezza di valore. I
quantitativi correlativi di valori d'uso differenti nei quali si oggettiva un medesimo tempo di lavoro,
sono degli equivalenti, ossia tutti i valori d'uso sono degli equivalenti nelle proporzioni in cui
contengono il medesimo tempo di lavoro consumato oggettivato. Come valori di scambio tutte le
merci non sono che misure di tempo di lavoro coagulato.
Per comprendere la determinazione del valore di scambio in base al tempo di lavoro occorrerà
tener fermi i seguenti punti di partenza principali: la riduzione del lavoro a lavoro semplice, per
così dire privo di qualità; il modo specifico in cui il lavoro, che crea valore di scambio e quindi
produce merci, è lavoro sociale; infine, la differenza che si ha fra il lavoro che ha per risultato valori
d'uso e il lavoro che ha per risultato valori di scambio.
Per misurare i valori di scambio delle merci in base al tempo di lavoro in esse contenuto, i differenti
lavori dovranno essi stessi essere ridotti a lavoro semplice, indifferenziato e uniforme, in breve al
lavoro che qualitativamente è sempre uguale e si differenzia solo quantitativamente.
Questa riduzione sembra un'astrazione, ma è un'astrazione che nel processo sociale della
produzione si compie ogni giorno. La riduzione di tutte le merci a tempo di lavoro è un'astrazione
non maggiore, ma allo stesso tempo non meno reale, della riduzione di tutti i corpi organici in aria.
Il lavoro, così misurato mediante il tempo, non appare infatti come lavoro di soggetti differenti,
bensì i differenti individui che lavorano appaiono invece come semplici organi del lavoro. Ossia il
lavoro, come si rappresenta in valori di scambio, potrebbe essere espresso come
lavoro generalmente umano. Questa astrazione del lavoro generalmente umano esiste nel lavoro
medio che ogni individuo medio può compiere in una data società, è un determinato dispendio
produttivo di muscoli, nervi, cervello, ecc. umani. E' lavoro semplice [3]al quale ogni individuo
medio può essere addestrato e che esso deve compiere in una forma o nell'altra. Il carattere di
questo lavoro medio varia esso stesso in paesi differenti e in epoche di civiltà differenti, ma si
presenta come dato in una società esistente. Il lavoro semplice costituisce la massa di gran lunga
maggiore di tutto il lavoro delle società borghesi, come ci si potrà convincere da tutte le statistiche.
Che A durante 6 ore produca ferro e durante 6 ore tela, e che B allo stesso modo produca durante
6 ore ferro e durante 6 ore tela, o che A produca durante 12 ore ferro e B durante 12 ore tela, è
evidente che si tratta semplicemente di un uso differente di un medesimo tempo di lavoro. Ma
come si fa per il lavoro complesso che si eleva al di sopra del livello medio in quanto lavoro di più
alta intensità, di maggiore peso specifico? Questo tipo di lavoro si riduce a lavoro semplice messo
insieme, a lavoro semplice a potenza più elevata, cosicchè ad esempio una giornata di lavoro
complesso sarà uguale a tre giornate di lavoro semplice. Non è questo ancora il luogo di trattare
delle leggi che regolano questa riduzione. Ma è chiaro che questa riduzione ha luogo: infatti, come
valore di scambio, il prodotto del lavoro più complesso è in una determinata proporzione
equivalente del prodotto del lavoro medio semplice, e quindi pari a un determinato quantitativo di
questo lavoro semplice.
La determinazione del valore di scambio mediante il tempo di lavoro presuppone inoltre che in una
determinata merce, ad esempio in una tonnellata di ferro, sia oggettivato lo stesso quantitativo di
lavoro, non importa che sia il lavoro di A o di B o che individui differenti impieghino, per la
produzione di uno stesso valore d'uso determinato qualitativamente e quantitativamente, un
tempo di lavoro di uguale durata. In altre parole, si presuppone che il tempo di lavoro contenuto in
una merce sia il tempo di lavoro necessario per la sua produzione, vale a dire il tempo di lavoro
richiesto per produrre in date condizioni generali di produzione un nuovo esemplare di quella
stessa merce.
Le condizioni del lavoro che crea valore di scambio, come risultano dall'analisi del valore di
scambio, sono determinazioni sociali del lavoro oppure determinazioni del lavoro sociale, ma non
sono sociali senz'altro, lo sono in un modo particolare. Si tratta di un modo particolare di socialità.
In primo luogo la semplicità indifferenziata del lavoro è uguaglianza dei lavori di individui differenti,
un reciproco riferirsi dei loro lavori l'uno all'altro come a lavoro uguale, e ciò mediante una reale
riduzione di tutti i lavori a un lavoro di uguale specie. Il lavoro di ogni individuo, in quanto si
presenta in valori di scambio, ha questo carattere sociale di uguaglianza, e si presenta nel valore di
scambio solo in quanto è riferito al lavoro di tutti gli altri individui come a lavoro uguale.
Inoltre, nel valore di scambio, il tempo di lavoro del singolo individuo si presenta immediatamente
come tempo di lavoro generale, e questo carattere generaledel lavoro individuale si presenta
come carattere sociale di quest'ultimo. Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio è
tempo di lavoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall'altro singolo, da tutti i singoli in
quanto compiono un lavoro uguale, e quindi il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una
determinata merce è il tempo di lavoro necessario, che ogni altro impiegherebbe per la produzione
di quella stessa merce. E' il tempo di lavoro del singolo, il suotempo di lavoro, ma solo come tempo
di lavoro comune a tutti, per il quale è indifferente di quale singolo individuo esso sia il tempo di
lavoro. Come tempo di lavoro generale, esso si esprime in un prodotto generale, in un equivalente
generale, in un determinato quantitativo di tempo di lavoro oggettivato; e quest'ultimo, astraendo
dalla forma determinata del valore d'uso in cui appare immediatamente come prodotto dell'uno, è
traducibile a piacere in qualsiasi altra forma di valore d'uso in cui si esprima come prodotto di
qualsiasi altro. E' grandezza sociale soltanto in quanto è una tale grandezza generale. Per risultare
valore di scambio, il lavoro del singolo deve risultare equivalente generale, ossia rappresentazione
del tempo di lavoro del singolo come tempo di lavoro generale o, ancora, rappresentazione del
tempo di lavoro generale come tempo di lavoro del singolo. E' come se i diversi individui avessero
messo insieme i loro tempi di lavoro e avessero espresso in valori d'uso diversi quantitativi diversi
del tempo di lavoro a loro comune disposizione. Infatti, il tempo di lavoro del singolo è in tal modo
il tempo di lavoro di cui la società ha bisogno per la espressione di un determinato valore d'uso,
ossia per il soddisfacimento di un determinato bisogno. Ma qui si tratta soltanto della forma
specifica in cui il lavoro acquisisce carattere sociale. Poniamo che un determinato tempo di lavoro
del filatore si oggettivizzi per esempio in cento libbre di filato di lino; e che cento braccia di tela di
lino, prodotte dal tessitore, rappresentino un quan- titativo uguale di tempo di lavoro. In quanto
questi due prodotti rappresentano un quantitativo uguale di tempo di lavoro generale e sono
quindi equivalenti per ogni valore d'uso che contenga un tempo di lavoro di uguale durata, essi
sono equivalenti l'uno dell'altro. Solo per il fatto che il tempo di lavoro del filatore e il tempo di
lavoro del tessitore si presentano come tempo di lavoro generale e i loro prodotti si presentano
quindi come equivalenti generali, il lavoro del tessitore diventa qui per il filatore e il lavoro del
filatore per il tessitore il lavoro dell'uno per il lavoro dell'altro, vale a dire per entrambi l'esistenza
sociale dei loro lavori. Nell'industria contadina patriarcale invece, in cui filatore e tessitore
abitavano sotto lo stesso tetto, in cui la parte femminile della famiglia filava e quella maschile
tesseva, diciamo per il solo fabbisogno della famiglia, filato e tela erano prodotti sociali, filatura e
tessitura erano lavori sociali entro i limiti della famiglia. Ma il loro carattere sociale non consisteva
nel fatto che il filato si scambiava come equivalente generale con la tela come equivalente generale
o entrambi reciprocamente come espressioni indifferenti ed equivalenti di uno stesso tempo di
lavoro generale. Il nesso familiare, anzi, con la sua naturale e spontanea divisione del lavoro,
imprimeva al prodotto del lavoro il suo peculiare timbro speciale. Oppure, prendiamo i servizi in
natura e le prestazioni in natura del Medioevo. I determinati lavori dei singoli nella loro forma
naturale, la particolarità, non la generalità del lavoro costituiscono qui il legame sociale. Oppure
prendiamo infine il lavoro in comune nella sua forma naturale spontanea, come lo troviamo alle
soglie della storia di tutti i popoli civili [4]. Qui il carattere sociale del lavoro evidentemente non è
dato dal fatto che il lavoro del singolo assume la forma astratta della generalità o che il suo
prodotto assume la forma di equivalente generale. E' la comunità, il presupposto della produzione,
ad impedire che il lavoro del singolo individuo sia il lavoro privato e il suo prodotto privato a far
apparire invece il lavoro singolo direttamente come funzione di un membro dell'organismo sociale.
Il lavoro che si esprime nel valore di scambio è presupposto come lavoro del singolo preso
singolarmente: diventa sociale assumendo la forma del suo diretto opposto, la forma dell'astratta
generalità.
Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è infine che il rapporto sociale delle persone si
rappresenta per così dire rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose. Soltanto in quanto un
valore d'uso si riferisce all'altro quale valore di scambio, il lavoro di persone diverse è riferito l'uno
all'altro come a lavoro uguale e generale. Quindi, se è esatto dire che il valore di scambio è un
rapporto fra persone, bisogna tuttavia aggiungere: un rapporto celato sotto il velo delle cose. Allo
stesso modo che una libbra di ferro e una libbra d'oro rappresentano lo stesso quantitativo di peso
malgrado le loro qualità fisiche e chimiche diverse, due valori d'uso di merci, in cui sia contenuto lo
stesso tempo di lavoro, rappresentano lo stesso valore di scambio. Il valore di scambio appare in tal
modo come determinazione naturale sociale dei valori d'uso, come determinazione che spetta a
questo in quanto cose, e a causa della quale nel processo di scambio essi si sostituiscono a vicenda
secondo determinati rapporti quantitativi, costituiscono equivalenti, allo stesso modo che le
sostanze chimiche semplici si combinano secondo determinati rapporti quantitativi, costituendo
equivalenti chimici. E' soltanto l'abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale,
come cosa ovvia che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto, cosicchè il
rapporto fra le persone nel loro lavoro si presenti piuttosto come un rapporto reciproco fra cose e
fra cose e persone. Nella merce questa mistificazione è ancor molto semplice. Tutti più o meno
capiscono vagamente che il rapporto delle merci quali valori di scambio è piuttosto un rapporto fra
le persone e la loro reciproca attività produttiva. Nei rapporti di produzione di più alto livello
questa parvenza di semplicità si dilegua. Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal fatto
che dall'aspetto del denaro non si capisce che esso rappresenta un rapporto di produzione sociale,
se pure nella forma di una cosa naturale di determinate qualità. Presso gli economisti moderni i
quali sdegnano sghignazzando le illusioni del sistema monetario, fa capolino questa medesima
illusione, non appena essi maneggino categorie economiche superiori, ad esempio il capitale. Essa
irrompe nella confessione di ingenuo stupore quando ora appare come rapporto sociale ciò che
essi goffamente ritenevano di fissare come cosa, e ora li stuzzica di nuovo come cosa ciò che
avevano appena finito di fissare come rapporto sociale.
Il valore di scambio delle merci, essendo infatti null'altro che il rapporto reciproco fra i lavori dei
singoli individui come lavori uguali e generali, null'altro che l'espressione oggettuale di una forma
specificamente sociale del lavoro, è una tautologia dire che il lavoro è l'unica fonte del valore di
scambio e quindi della ricchezza in quanto consiste di valori di scambio. E la stessa tautologia è dire
che la materia naturale come tale non contiene valore di scambio [6] perchè non contiene lavoro e
che il valore di scambio come tale non contiene materia naturale. Ma quando William Petty
chiama "il lavoro il padre e la terra la madre della ricchezza", oppure quando il vescovo Berkeley
domanda "se i quattro elementi e il lavoro dell'uomo applicato ad essi non siano la vera fonte della
ricchezza", o quando l'americano Th. Cooper spiega volgarizzando: "Togli da una pagnotta il lavoro
applicatovi, il lavoro del fornaio, mugnaio, affittuario, ecc., e che cosa rimane? Alcuni granelli di
erbe che crescono allo stato selvatico, inservibili ad ogni uso umano", allora, in tutte queste
vedute, non si tratta del lavoro astratto come fonte del valore di scambio, bensì del lavoro concreto
come fonte di ricchezza materiale, in breve del lavoro in quanto produce valori d'uso. Pel fatto che
il valore d'uso della merce sia presupposto, è presupposta la particolare utilità, la determinata
finalità del lavoro consumato in essa, ma con ciò, dal punto di vista della merce, è allo stesso
tempo esaurita ogni considerazione del lavoro come lavoro utile. Nel pane, come valore d'uso, ci
interessano le sue qualità come mezzo alimentare, non ci interessano affatto i lavori dell'affittuario,
del mugnaio, del fornaio. Qualora per mezzo di qualche invenzione i 19/20 di questi lavori
venissero meno, la pagnotta farebbe lo stesso servizio di prima. Qualora cadesse bell'e pronta dal
cielo, non perderebbe un atomo del suo valore d'uso. Mentre il lavoro che crea valore di scambio si
attua nell'uguaglianza delle merci come equivalenti generali, il lavoro, come attività produttiva
conforme al fine, si attua nell'infinita varietà dei suoi valori d'uso. Mentre il lavoro che crea valore
di scambio è lavoro astrattamente generale e uguale, il lavoro che crea valore d'uso è lavoro
concreto e particolare che si scinde in modi di lavoro infinitamente vari a seconda della forma e
della materia.
E' sbagliato dire che il lavoro, in quanto produce valori d'uso, sia l'unica fonte della ricchezza da
esso prodotta, ossia della ricchezza materiale. Siccome il lavoro è l'attività svolta per adattare il
materiale a questo o a quello scopo, il lavoro ha bisogno della materia come presupposto. In valori
d'uso differenti la proporzione fra lavoro e materia naturale è molto differente, pure il valore d'uso
contiene un sostrato naturale. Come attività conforme allo scopo di adattare l'elemento naturale in
una forma o nell'altra, il lavoro è condizione naturale dell'esistenza umana, è una condizione del
ricambio organico fra uomo e natura. Il lavoro che crea valore di scambio è per contro una forma
specificamente sociale del lavoro. Il lavoro del sarto ad esempio, nella sua proprietà materiale di
particolare attività produttiva, produce l'abito, ma non il valore di scambio dell'abito. Quest'ultimo
lo produce non in quanto lavoro di sarto, bensì in quanto lavoro astrattamente umano, e questo
rientra in un nesso sociale che non è stato infilato dal sarto. In questo modo, nell'antica industria
domestica le donne producevano l'abito, senza produrre il valore di scambio dell'abito. Il lavoro
come fonte di ricchezza materiale era noto tanto a Mosè legislatore quanto all'impiegato di dogana
Adam Smith.
Consideriamo ora alcune determinazioni più particolari che risultano dalla riduzione del valore di
scambio a tempo di lavoro.
Come valore d'uso la merce agisce causalmente. Il grano ad esempio agisce come mezzo
alimentare. Una macchina sostituisce il lavoro in determinate proporzioni. Quest'azione della
merce, per la quale soltanto essa è valore d'uso, oggetto di consumo, può essere chiamata il suo
servizio, il servizio che essa presta come valore di uso. Ma come valore di scambio la merce è
sempre considerata soltanto dal punto di vista del risultato. Non si tratta del servizio che presta,
bensì del servizio [10] che è stato prestato alla merce stessa durante la sua produzione. Così
dunque il valore di scambio di una macchina, ad esempio, non è determinato dal quantitativo di
tempo di lavoro che viene da essa sostituito, bensì dal quantitativo di tempo di lavoro che è stato
consumato nella sua produzione ed è perciò richiesto per produrre una nuova macchina dello
stesso tipo.
Se quindi il quantitativo di lavoro richiesto per la produzione di merci rimanesse costante, il loro
valore di scambio sarebbe invariabile. Ma la facilità e la difficoltà della produzione variano
costantemente. Se la forza produttiva del lavoro cresce, essa produrrà lo stesso valore d'uso entro
un tempo più breve. Se la forza produttiva del lavoro diminuisce, si richiederà un tempo maggiore
per la produzione di quello stesso valore d'uso. La grandezza del tempo di lavoro contenuto in una
merce, quindi il valore di scambio di questa, varia dunque, aumenta o diminuisce in proporzione
inversa dell'aumento o della diminuzione della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del
lavoro che è impiegata nell'industria manifatturiera a un grado prestabilito, è condizionata,
nell'agricoltura e nell'industria estrattiva, da condizioni naturali incontrollabili. Uno stesso lavoro
darà un prodotto maggiore o minore di metalli differenti, a seconda della presenza relativamente
più rara e più frequente di questi metalli nella crosta terrestre. Uno stesso lavoro potrà oggettivarsi
con il favore della stagione in due bushel di grano, con lo sfavore della medesima in un busheldi
grano. Rarità o abbondanza come condizioni naturali sembrano qui determinare il valore di
scambio delle merci poichè determinano la forza produttiva di un particolare lavoro reale,
vincolata a condizioni naturali.
Valori d'uso differenti contengono, in volumi disuguali, lo stesso tempo di lavoro ossia lo stesso
valore di scambio. Quanto minore è il volume del valore d'uso in cui, a paragone di altri valori
d'uso, una merce contiene un determinato quantitativo di tempo di lavoro, tanto maggiore è il
suo valore di scambio specifico. Se in epoche di civiltà differenti, lontane l'una dall'altra, troviamo
che certi valori d'uso costituiscono tra di loro una serie di valori di scambio specifici i quali, se pur
non conservano il rapporto numerico esattamente uguale, conservano tuttavia l'uno nei confronti
dell'altro il rapporto generale della superiorità e della inferiorità, come ad esempio oro, argento,
rame, ferro, o grano, segala, orzo, avena, ne consegue semplicemente che il progressivo sviluppo
delle forze di produzione sociali agisce uniformemente o quasi sul tempo di lavoro richiesto per la
produzione di quelle differenti merci.
Il valore di scambio di una merce non si manifesta nel valore d'uso di questa merce. Ma come
oggettivazione del tempo di lavoro generalmente sociale, il valore d'uso di una merce è posto in
rapporto con i valori di uso di altre merci. Il valore di scambio di una delle merci si manifesta in tal
modo nei valori d'uso delle altre merci. Un equivalente è infatti il valore di scambio di una merce
espresso nel valore d'uso di un'altra merce. Se dico per esempio che un braccio di tela vale due
libbre di caffè, il valore di scambio della tela è espresso nel valore d'uso caffè, e cioè in un
determinato quantitativo di questo valore d'uso. Data questa proporzione, potrò esprimere in caffè
ogni quantitativo di tela. E' chiaro che il valore di scambio di una merce, ad esempio della tela, non
si esaurisce nella proporzione in cui un' altra merce particolare, p. es. il caffè, costituisce il suo
equivalente. Il quantitativo di tempo di lavoro generale, la cui espressione è il braccio di tela, è
contemporaneamente attuato in volumi infinitamente diversi di valori d'uso di tutte le altre merci.
Nella proporzione in cui il valore d'uso di ogni altra merce rappresenta un tempo di lavoro di
uguale grandezza, esso costituisce un equivalente del braccio di tela. Il valore di scambio di questa
singola merce è perciò espresso esaurientemente soltanto nelle infinite equazioni nelle quali i
valori d'uso di tutte le altre merci costituiscono il suo equivalente. Soltanto nella somma di queste
equazioni o nella totalità delle differenti proporzioni in cui una merce è scambiabile con qualsiasi
altra merce, essa è espressa esaurientemente come equivalente generale. Ad esempio, la serie
delle equazioni:
1 braccio di tela
=
1/2 libbra di tè,
1 braccio di tela
=
2 libbre di caffè,
1 braccio di tela
=
8 libbre di pane,
1 braccio di tela
=
6 braccia di cotone,
può essere espressa come: 1 braccio di tela = 1/8 libbra di tè + 1/2 libbra di caffè + 2 libbre di pane
+ 1 1/2 braccio di cotone.
Quindi, se avessimo dinanzi a noi l'intera somma delle equazioni nelle quali il valore di un braccio
di tela è espresso esaurientemente, potremmo raffigurare il suo valore di scambio in forma di
serie. In realtà questa serie è infinita, poichè l'ambito delle merci non è mai chiuso in via definitiva,
bensì si allarga costantemente. Ma misurando così una data merce il proprio valore di scambio nei
valori d'uso di tutte le altre merci, i valori di scambio di tutte le altre merci, viceversa, si misurano
nel valore d'uso di questa data merce che si misura in essi [11]. Se il valore di scambio di un braccio
di tela si esprime in mezza libbra di tè o in due libbre di caffè o in sei braccia di cotone o in otto
libbre di pane, ecc., ne consegue che caffè, tè, cotone, pane, ecc. sono uguali fra di loro nella
proporzione in cui sono uguali a un terzo valore d'uso, alla tela, e che quindi la tela serve da misura
comune dei loro valori di scambio. Ogni merce, come tempo di lavoro generalmente oggettivato,
vale a dire come determinata quantità di tempo di lavoro generale, esprime il proprio valore di
scambio in una serie di determinate quantità dei valori d'uso di tutte le altre merci, e i valori di
scambio di tutte le altre merci si misurano, viceversa, nel valore d'uso di quest'unica merce esclusa.
Ma come valore di scambio, ogni merce è tanto la merce unica esclusa, che serve da misura
comune dei valori di scambio di tutte le altre merci, quanto, d'altra parte, è semplicemente una
delle numerose merci nel cui ambito complessivo ogni altra merce esprime in modo immediato il
proprio valore di scambio.
La grandezza di valore di una merce non risente del fatto che all'infuori di essa esistano poche o
molte merci di altra specie. Ma che la serie delle equazioni in cui il suo valore di scambio si attua,
sia maggiore o minore, dipende dalla maggiore o minore varietà di altre merci. La serie delle
equazioni in cui si esprime per esempio il valore del caffè esprime la sfera della sua scambiabilità, i
limiti entro i quali funziona da valore di scambio. Al valore di scambio di una merce in quanto
oggettivazione del tempo di lavoro generale sociale corrisponde l'espressione dell'equivalenza
della merce in valori d'uso infinitamente differenti.
Abbiamo visto che il valore di scambio di una merce varia con il variare della quantità del tempo di
lavoro contenuto in essa. Il suo valore realizzato, ossia espresso nei valori d'uso di altre merci, deve
a sua volta dipendere dalla proporzione in cui varia il tempo di lavoro impiegato nella produzione
di tutte le altre merci. Se ad esempio rimanesse uguale il tempo di lavoro necessario alla
produzione di un moggio di grano, mentre il tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le
altre merci raddoppiasse, il valore di scambio del moggio di grano, espresso nei suoi equivalenti,
sarebbe diminuito della metà. Praticamente il risultato sarebbe uguale a quello che si avrebbe se il
tempo di lavoro necessario alla produzione del moggio di grano fosse diminuito della metà e il
tempo di lavoro necessario alla produzione di tutte le altre merci fosse rimasto invariato. Il valore
delle merci è determinato dalla proporzione in cui possono essere prodotte entro il medesimo
tempo di lavoro. Per vedere a quali possibili variazioni sia esposta questa proporzione, poniamo il
caso di due merci, A e B. Primo: supponiamo che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di B
rimanga invariato. In questo caso il valore di scambio di A, espresso in B, diminuisce o aumenta
nella stessa proporzione in cui diminuisce o aumenta il tempo di lavoro necessario per la
produzione di A. Secondo: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A rimanga invariato. Il
valore di scambio di A, espresso in B, diminuisce o aumenta nella proporzione inversa della
diminuzione o dell'aumento del tempo di lavoro richiesto per la produzione di B.Terzo: Il tempo di
lavoro richiesto per la produzione di A e B diminuisca o aumenti nella medesima proporzione. In tal
caso l'espressione di equivalenza di A in B rimarrà invariata. Se a causa di una circostanza qualsiasi
la forza produttiva di tutti i lavori diminuisse nella stessa misura, di modo che tutte le merci
richiedessero in ugual proporzione un aumento del tempo di lavoro necessario alla loro
produzione, sarebbe salito il valore di tutte le merci, l'espressione reale del loro valore di scambio
sarebbe rimasta invariata, e la ricchezza reale della società sarebbe diminuita, poichè quest'ultima
avrebbe bisogno di un tempo di lavoro maggiore per creare la medesima massa di valori
d'uso. Quarto: Il tempo di lavoro richiesto per la produzione di A e B aumenti o diminuisca per
entrambi, ma in grado disuguale, oppure aumenti il tempo di lavoro necessario per A mentre
diminuisca quello per B, o viceversa. Tutti questi casi possono essere ridotti semplicemente al fatto
che il tempo di lavoro richiesto per la produzione di una merce rimane invariato, mentre quello
delle altre aumenta o diminuisce.
Il valore di scambio di ogni merce si esprime nel valore d'uso di ogni altra merce, sia in unità di
questo valore o in sue frazioni. In quanto valore di scambio, ogni merce è altrettanto divisibile
quanto lo stesso tempo di lavoro che in essa è oggettivato. L'equivalenza delle merci è
indipendente dalla loro divisibilità come valori d'uso, allo stesso modo che per l'addizione dei
valori di scambio delle merci non ha importanza quale reale mutamento di forma subiscano i valori
d'uso di queste merci nella loro rifusione in una sola merce nuova.
Finora la merce è stata considerata da un duplice punto di vista, come valore d'uso e come valore
di scambio, entrambe le volte unilateralmente. Ma come merce essa è immediatamente unità di
valore d'uso e di valore di scambio; allo stesso tempo è merce soltanto in relazione alle altre merci.
L'effettiva relazione reciproca delle merci è il loro processo di scambio. E' questo un processo
sociale che gli individui stabiliscono indipendentemente l'uno dall'altro, ma lo stabiliscono soltanto
come possessori di merci; la loro vicendevole esistenza dell'uno per l'altro è l'esistenza delle loro
merci, e perciò in realtà non si presentano che come titolari consapevoli del processo di scambio.
La merce è valore d'uso, grano, tela, diamante, macchina, ecc., ma come merce allo stesso
tempo non è valore d'uso. Se pel suo possessore fosse valore d'uso, ossia mezzo immediato per il
soddisfacimento dei suoi bisogni, non sarebbe merce. Per lui la merce è invece non valore d'uso,
cioè semplicemente depositario materiale del valore di scambio ossia semplice mezzo di scambio;
come depositario attivo del valore di scambio, il valore d'uso diventa mezzo di scambio. Per il
possessore la merce, è ormai valore d'uso soltanto in quanto valore di scambio [12]. Valore d'uso
essa deve quindi cominciar a divenire, in primo luogo per altri. Siccome non è valore per il suo
possessore, è valore d'uso per i possessori di altre merci. Se non lo è, il lavoro del possessore è
stato inutile, il suo risultato quindi non è merce. D'altra parte, deve diventare valore d'uso per lui
stesso, poichè al di fuori di essa, nei valori d'uso di merci altrui, esistono i suoi mezzi di sussistenza.
Per diventare valore d'uso la merce deve trovarsi di fronte quel particolare bisogno pel quale essa
è oggetto di soddisfacimento. I valori d'uso delle merci diventano quindi valori d'uso cambiando
posto in tutte le direzioni, passando dalla mano in cui sono mezzi di scambio alla mano in cui sono
oggetti d'uso. Solo mediante questa generale alienazione delle merci, il lavoro in esse contenuto
diventa lavoro utile. In questo progressivo riferirsi delle merci l'una all'altra in quanto valori d'uso,
esse non acquisiscono alcuna nuova determinazione di forma economica. Scompare, anzi, la
determinazione formale che le caratterizzava come merci. Il pane, ad esempio, passando dalla
mano del fornaio in quella del consumatore, non muta la propria esistenza come pane. Viceversa, il
consumatore è il primo che vi si riferisca come a valore d'uso, come a quel determinato mezzo
alimentare, mentre nella mano del fornaio il pane era l'espressione di un rapporto economico, una
cosa sensibilmente extrasensibile. L'unico mutamento formale, che le merci subiscono nel loro
divenire come valori d'uso, è dunque l'abolizione della loro esistenza formale, in cui erano non
valore d'uso per il loro possessore, valore d'uso per il loro non-possessore. Il divenire delle merci
come valori d'uso presuppone la loro generale alienazione, il loro entrare nel processo di scambio,
ma la loro esistenza per lo scambio è la loro esistenza come valori di scambio. Per attuarsi quindi
come valori d'uso, devono attuarsi come valori di scambio.
Se, dal punto di vista del valore d'uso, la singola merce in origine ci appariva come cosa autonoma,
come valore di scambio era invece considerata fin da principio in relazione a tutte le altre merci.
Questa relazione era però solo una relazione teorica, ideale. Solo nel processo di scambio essa si
attua. D'altra parte, la merce è bensì valore di scambio in quanto in essa è consumata una
determinata quantità di tempo di lavoro ed in quanto essa è quindi tempo di lavoro oggettivato.
Ma, in modo immediato, è soltanto tempo di lavoro oggettivato individuale, di contenuto
particolare, non è tempo di lavoro generale. Perciò non è valore di scambio in modo immediato,
bensì deve divenire tale. In un primo tempo non può essere che oggettivazione del tempo di lavoro
generale, alla maniera in cui esprime il tempo di lavoro in una determinata applicazione utile,
dunque in un valore d'uso. Era questa la condizione materiale alla quale soltanto il tempo di lavoro
contenuto nelle merci era presupposto come tempo di lavoro generale, sociale. Se dunque la
merce può divenire, come valore d'uso, soltanto attuandosi come valore di scambio, d'altra parte
può attuarsi come valore di scambio soltanto affermandosi come valore d'uso al momento della
sua alienazione. Una merce può essere ceduta come valore d'uso solo a colui pel quale essa è
valore d'uso, ossia oggetto di un particolare bisogno. D'altra parte la merce viene ceduta solo in
cambio di un'altra merce, ossia, ponendoci dalla parte del possessore dell'altra merce, anche
costui può alienare la sua merce, realizzata, soltanto mettendola in contatto con il particolare
bisogno di cui essa sia l'oggetto. Nell'alienazione generale delle merci come valori d'uso, esse
vengono riferite l'una all'altra a seconda della loro disparità materiale, in quanto cose particolari, le
quali in virtù delle loro qualità specifiche soddisfano particolari bisogni. Ma in quanto tali semplici
valori d'uso, le merci sono esistenze indifferenti l'una per l'altra, sono anzi prive di reciproche
relazioni. In quanto valori d'uso possono essere scambiate soltanto in relazione a particolari
bisogni. Ma sono scambiabili solo come equivalenti, e sono equivalenti solo come uguali
quantitativi di tempo di lavoro oggettivato, cosicchè ogni considerazione delle loro qualità naturali
come valori d'uso, e quindi del rapporto delle merci con particolari bisogni, è cancellata. Come
valore di scambio una merce funziona invece sostituendo come equivalente una quantità
comunque determinata di qualsiasi altra merce, non importa se pel possessore dell'altra merce
essa sia valore d'uso o no. Ma per il possessore dell'altra merce essa diventa merce solo in quanto
per lui è valore d'uso, e per il proprio possessore diventa valore di scambio solo in quanto è merce
per l'altro. Questa relazione sarà quindi relazione delle merci in quanto grandezze essenzialmente
uguali, differenti solo quantitativamente, sarà la loro equiparazione come materializzazione del
tempo di lavoro generale e sarà allo stesso tempo la loro relazione come cose differenti
qualitativamente, come valori d'uso particolari per bisogni particolari, in breve sarà la relazione
che le differenzia come reali valori d'uso. Ma questa equiparazione e differenziazione si escludono
a vicenda. Così appare non soltanto un circolo vizioso di problemi, presupponendo la soluzione
dell'uno la soluzione dell'altro, bensì una somma di esigenze contraddittorie, essendo
l'adempimento di una condizione vincolato immediatamente all'adempimento della condizione
opposta.
Il processo di scambio delle merci deve essere sia lo svolgimento sia la soluzione di queste
contraddizioni che in esso non possono tuttavia essere espresse in questo modo semplice.
Abbiamo solo osservato come le merci stesse sono riferite reciprocamente l'una all'altra come
valori d'uso, cioè come le merci entro il processo di scambio si presentano come valori d'uso. Il
valore di scambio invece, come lo abbiamo considerato sin qui, era presente nella nostra
astrazione soltanto, o, se si vuole, nell'astrazione del singolo possessore di merce che ha in
magazzino la merce come valore d'uso e l'ha sulla coscienza come valore di scambio. Ma le merci
stesse entro il processo di scambio devono esistere l'una per l'altra non soltanto come valori d'uso,
bensì come valori di scambio, e questa loro esistenza apparirà come la loro propria relazione
reciproca. La difficoltà in cui subito abbiamo inciampato era questa: per potersi esprimere come
valore d'uso, come lavoro oggettivato, la merce deve prima essere alienata come valore d'uso,
dev'essere spacciata a qualcuno, mentre la sua alienazione come valore d'uso presuppone
viceversa la sua esistenza come valore di scambio. Ma poniamo che questa difficoltà sia risolta.
Poniamo che la merce si sia disfatta del proprio particolare valore d'uso e alienandolo abbia
adempiuto la condizione materiale di essere lavoro socialmente utile invece che lavoro particolare
di un uomo singolo per se stesso. Così dovrà poi, nel processo di scambio, come valore di scambio
diventare equivalente generale, tempo di lavoro generale oggettivato, per le altre merci ed in tal
modo acquisire non più soltanto l'effetto limitato di un particolare valore d'uso, bensì l'immediata
capacità di essere espressa in tutti i valori d'uso quali suoi equivalenti. Ma ogni merce è la merce
che in questo modo, mediante l'alienazione del proprio particolare valore d'uso, deve presentarsi
come materializzazione diretta del tempo di lavoro generale. Ma d'altra parte nel processo di
scambio si trovano di fronte soltanto merci particolari, lavori di individui privati, incarnati in
particolari valori d'uso. Lo stesso tempo di lavoro generale è un'astrazione che come tale non
esiste per le merci.
Se consideriamo la somma delle equazioni in cui il valore di scambio di una merce trova la sua
espressione reale, ad esempio:
1 braccio di tela
=
2 libbre di caffè,
1 braccio di tela
=
1/2 libbra di tè,
1 braccio di tela
=
8 libbre di pane, ecc.,
queste equazioni enunziano soltanto, è vero, che un tempo di lavoro sociale generale di uguale
grandezza si oggettiva in un braccio di tela, 2 libbre di caffè, 1/2 libbra di tè, ecc. Ma in realtà i
lavori individuali che si esprimono in questi particolari valori d'uso, diventano lavoro generale e, in
questa forma, lavoro sociale, soltanto scambiandosi realmente reciprocamente in proporzione
della durata del lavoro in essi contenuto. Il tempo di lavoro sociale esiste per così dire solo allo
stato latente in queste merci e si manifesta soltanto nel processo del loro scambio. Non si parte dal
lavoro degli individui in quanto lavoro comune, ma, viceversa, da lavori particolari di individui
privati, lavori che soltanto nel processo di scambio, con l'abolizione dell'oro carattere originale, si
affermano come lavoro sociale generale. Il lavoro generalmente sociale non è quindi il presupposto
bell'e pronto, è bensì risultato in divenire. E così risulta la nuova difficoltà: da un lato le merci
devono entrare nel processo di scambio come tempo di lavoro generale oggettivato, dall'altro lato
l'oggettivazione del tempo di lavoro degli individui, come tempo di lavoro generale, è essa stessa
null'altro che il prodotto del processo di scambio.
Mediante l'alienazione del proprio valore d'uso, quindi della originale esistenza, ogni merce deve
acquisire la sua corrispondente esistenza come valore di scambio. Nel processo di scambio la
merce deve dunque raddoppiare la propria esistenza. D'altra parte la sua seconda esistenza come
valore di scambio, a sua volta, non può essere che un'altra merce, poichè nel processo di scambio
si stanno di fronte soltanto merci. Come rappresentare una merce particolare quale tempo di
lavorogenerale oggettivato o, il che è la stessa cosa, come dare direttamente al tempo di lavoro
individuale, oggettivato in una merce particolare, il carattere della generalità? L'espressione reale
del valore di scambio di una merce, vale a dire di ogni merce in quanto equivalente generale,
appare in una somma infinita di equazioni, come:
1 braccio di tela
=
2 libbre di caffè,
1 braccio di tela
=
1/2 libbra di tè,
1 braccio di tela
=
8 libbre di pane,
1 braccio di tela
=
6 braccia di cotone,
1 braccio di tela
=
ecc.
Questa espressione era teorica in quanto la merce era soltanto pensata come un quantitativo
determinato di tempo di lavoro generale oggettivato. L'esistenza di una merce particolare come
equivalente generale diventa per mera astrazione risultato sociale del processo di scambio stesso,
mediante la semplice inversione della serie di equazioni sopra annotata. Quindi p. es.:
2 libbre di caffè
=
1 braccio di tela,
1/2 libbra di tè
=
1 braccio di tela,
8 libbre di pane
=
1 braccio di tela,
6 braccia di cotone
=
1 braccio di tela,
Mentre caffè, tè, pane, cotone, in breve tutte le merci, esprimono in tela il lavoro contenuto in
esse, il valore di scambio della tela si manifesta, viceversa, in tutte le altre merci in quanto suoi
equivalenti, e il tempo di lavoro oggettivato nella tela diventa immediatamente il tempo di lavoro
generale che si esprime uniformemente in volumi differenti di tutte le altre merci. La tela diventa
in questo caso equivalente generale in virtù dell'azione generale esercitata su di essa da tutte le
altre merci. Come valore di scambio ogni merce è diventata misura dei valori di tutte le altre merci.
Qui viceversa, misurando tutte le merci il proprio valore di scambio in una merce particolare, la
merce esclusa diventa esistenza adeguata del valore di scambio, diventa l'esistenza di quest'ultimo
quale equivalente generale. Per contro, la serie infinita ossia le equazioni infinite di numero, in cui
si esprime il valore di scambio di ogni merce, si riducono a un'equazione unica di sole due
componenti. 2 libbre di caffè = 1 braccio di tela, è ora l'espressione esauriente di valore di scambio
del caffè, poichè la tela in questo momento appare direttamente come equivalente di un
determinato quantitativo di ogni altra merce. Entro il processo di scambio le merci esistono
dunque ora l'una per l'altra, o appaiono l'una all'altra come valori di scambio, nella forma della
tela. Il fatto che tutte le merci siano riferite l'una all'altra come valori di scambio, semplicemente
come quantità differenti di tempo di lavoro generale oggettivato, si presenta ora nel modo
seguente: le merci, come valori di scambio, non rappresentano che quantità differenti di uno
stesso oggetto, della tela. Il tempo di lavoro generale a sua volta quindi si esprime come una cosa
particolare, una merce accanto e al di fuori di tutte le altre merci. Ma allo stesso tempo
l'equazione, in cui una merce si rappresenta come valore di scambio di un'altra merce, p. es. 2
libbre di caffè = 1 braccio di tela, è ancora un'equiparazione da realizzarsi. Solo mediante la propria
alienazione come valore d'uso, la quale dipende dal suo affermarsi come oggetto di un bisogno nel
processo di scambio, la merce si trasforma realmente dalla sua esistenza come caffè nella sua
esistenza come tela, assumendo così la forma di equivalente generale e diventando realmente
valore di scambio per tutte le altre merci. Viceversa, trasformandosi tutte le merci, mediante la
loro alienazione in quanto valori d'uso, in tela, quest'ultima diventa la esistenza trasformata di
tutte le altre merci; e solo come risultato di questa trasformazione di tutte le altre merci in essa
tela, quest'ultima diventa direttamente oggettivazione del tempo di lavoro generale, ossia
prodotto dell'alienazione generale, superamento dei lavori individuali. Se in questo modo le merci
raddoppiano la propria esistenza per apparire come reciproci valori di scambio, la merce esclusa in
quanto equivalente generale raddoppia il proprio valore d'uso. Oltre al proprio valore d'uso
particolare come merce particolare, acquisisce un valore d'uso generale. Quest'ultimo suo valore
d'uso è esso stesso una determinatezza formale, vale a dire risulta dalla funzione specifica che essa
esercita nel processo di scambio in virtù dell'azione generale esercitata su di essa dalle altre merci.
Il valore d'uso di ogni merce, quale oggetto di un particolare bisogno, ha un valore differente in
mani differenti, ad esempio ha valore differente in mano di colui che l'aliena da quello che ha in
mano a colui che l'acquista. La merce esclusa in qualità di equivalente generale è ora oggetto di un
bisogno generale derivante dallo stesso processo di scambio, e ha per ognuno il medesimo valore
d'uso, di essere rappresentante del valore di scambio, cioè mezzo di scambio generale. Così, in
quest'unica merce, è risolta la contraddizione racchiusa dalla merce come tale, di essere, come
valore d'uso particolare, contemporaneamente equivalente generale e quindi valore d'uso per
ognuno, di essere valore d'uso generale. Mentre dunque tutte le altre merci esprimono in un
primo tempo il proprio valore di scambio come equazione ideale, non ancora realizzata, con la
merce esclusa, in questa merce esclusa il valore d'uso, benchè reale, nel processo stesso appare
come una esistenza meramente formale, la quale è da realizzarsi appena compiuta la
trasformazione in valori d'uso reali. In origine la merce si presentava come merce in genere, come
tempo di lavoro generale, oggettivato in un particolare valore d'uso. Nel processo di scambio tutte
le merci si riferiscono alla merce esclusiva come merce in genere, come la merce, esistenza del
tempo di lavoro generale in un valore d'uso particolare. Come merci particolari sono quindi in un
rapporto antitetico con una merce particolare in qualità di merce generale [13]. Il fatto che i
possessori di merci si riferiscono a vicenda ai propri lavori come lavoro sociale generale, appare
quindi così: essi si riferiscono alle proprie merci come valori di scambio, la reciproca relazione fra le
merci, l'una con l'altra come valori di scambio nel processo di scambio, appare come la loro
generale relazione con una merce particolare quale espressione adeguata del loro valore di
scambio, il che, viceversa, appare a sua volta come relazione specifica di questa merce particolare
con tutte le altre merci, e quindi come carattere sociale di una cosa, determinato e per così dire
naturale e spontaneo. La merce particolare che in tal modo rappresenta l'esistenza adeguata del
valore di scambio di tutte le merci, ossia il valore di scambio delle merci quale merce particolare,
esclusiva, è - il denaro. E' una cristallizzazione del valore di scambio delle merci che esse
determinano nello stesso processo di scambio. Quindi, mentre le merci, entro il processo di
scambio, diventano l'una per l'altra, in quanto valori d'uso, liberandosi da ogni determinatezza di
forma e riferendosi l'una all'altra nella loro figura materiale immediata, devono assumere una
nuova determinatezza formale, devono procedere alla formazione di denaro per presentarsi
reciprocamente come valori di scambio. Come non è un simbolo la esistenza di un valore d'uso
come merce, così non è simbolo il denaro. Il fatto che un rapporto di produzione sociale si presenti
come un oggetto presente al di fuori degli individui, e che le determinate relazioni che questi
allacciano nel processo di produzione della loro vita sociale si presentino come qualità specifiche di
una cosa, questo rovesciamento, questa mistificazione non immaginaria, bensì prosaicamente
reale, caratterizza tutte le forme sociali del lavoro creatore di valore di scambio. Nel denaro questa
mistificazione appare semplicemente più evidente che nella merce.
Le qualità fisiche necessarie della merce particolare, nella quale deve cristallizzarsi l'essere denaro
di tutte le merci, per quanto derivino direttamente dalla natura del valore di scambio, sono la
divisibilità a piacere, l'uniformità delle parti e la identicità in tutti gli esemplari di questa merce.
Come materializzazione del tempo di lavoro generale, questa merce deve essere materializzazione
uniforme e capace di esprimere differenze puramente quantitative. L'altra qualità necessaria è la
durevolezza del suo valore d'uso poichè la merce deve durare entro il processo di scambio. I metalli
nobili posseggono queste qualità in misura eminente. Siccome il denaro non è un prodotto di una
riflessione o di un accordo, ma è formato quasi istintivamente nel processo di scambio, merci
differentissime, più o meno inadatte, si sono alternate nella funzione di denaro. La necessità
subentrante a un determinato grado dello sviluppo del processo di scambio, di distribuire
polarmente sulle merci le determinazioni di valore di scambio e di valore d'uso in modo che una
merce ad esempio figuri come mezzo di scambio, mentre l'altra è alienata come valore d'uso,
comporta che dappertutto la merce o anche più merci del più generale valore d'uso abbiano in un
primo momento per caso la funzione di denaro. Qualora non siano oggetto di un bisogno esistente
direttamente, la loro esistenza come componente più importante della ricchezza dal punto di vista
materiale, assicura ad esse un carattere più generale di quel che abbiano gli altri valori d'uso.
Il commercio di scambio immediato, forma spontanea del processo di scambio, rappresenta
piuttosto l'iniziale trasformazione dei valori d'uso in merci che non quella delle merci in denaro. Il
valore di scambio non acquisisce forma libera, è bensì ancora vincolato direttamente al valore
d'uso. Questo risulta in due modi. La produzione stessa in tutta la sua costruzione è diretta al
valore d'uso, non al valore di scambio, ed è quindi soltanto per l'eccedenza sulla misura in cui i
valori d'uso sono richiesti per il consumo, che essi cessano qui di essere valori d'uso e diventano
mezzi di scambio, merce. D'altra parte, diventano propriamente merci solo entro i limiti del valore
d'uso diretto, sia pure distribuito polarmente, cosicchè le merci da scambiarsi dai possessori
devono essere per entrambi valori d'uso, ma ognuna di esse dovrà essere valore d'uso per il suo
non-possessore. In realtà, il processo di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle
comunità naturali e spontanee, bensì là dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui
entrano in contatto con altre comunità. Qui ha inizio il commercio di scambio e da qui si ripercuote
sull'interno della comunità, con un'azione disgregatrice. I particolari valori d'uso che nel
commercio di scambio fra le diverse comunità diventano merci, come lo schiavo, il bestiame, i
metalli, costituiscono quindi per lo più il primo denaro in seno alle comunità stesse. Abbiamo visto
come il valore di scambio di una merce si esprima come valore di scambio in un grado tanto più
elevato quanto più lunga è la serie dei suoi equivalenti o quanto maggiore è la sfera dello scambio
per quella merce. La graduale estensione del commercio di scambio, l'aumento degli scambi e la
moltiplicazione delle merci entranti nel commercio di scambio, evolvono quindi la merce in quanto
valore di scambio, sollecitano la formazione del denaro e esplicano con ciò un'azione dissolvitrice
sul commercio di scambio diretto. Gli economisti sono soliti derivare il denaro dalle difficoltà
esterne in cui si imbatte il commercio di scambio ampliatosi, ma così facendo dimenticano che
queste difficoltà derivano dallo sviluppo del valore di scambio e quindi risalgono al lavoro sociale
quale lavoro generale. Per esempio: le merci, in qualità di valori d'uso, non sono divisibili a piacere,
come devono esserlo in qualità di valori di scambio. Oppure, la merce di A può essere valore d'uso
per B, mentre la merce di B non è valore d'uso per A. Oppure, i possessori delle merci possono
aver bisogno delle loro merci indivisibili, da scambiarsi a vicenda, in proporzioni di valore ineguali.
In altre parole, con il pretesto di considerare il commercio di scambio semplice, gli economisti si
rendono conto di certi lati della contraddizione avvolta nell'esistenza della merce come unità
immediata di valore d'uso e valore di scambio. D'altra parte tengono fermo, coerentemente, al
commercio di scambio come forma adeguata del processo di scambio delle merci, il quale sarebbe
semplicemente legato a certi disagi tecnici pei quali il denaro sarebbe una via d'uscita
intelligentemente escogitata. Da questo punto di vista, del tutto superficiale, un intelligente
economista inglese ha quindi sostenuto giustamente che il denaro è uno strumento puramente
materiale, come una nave o una macchina a vapore, ma non è l'espressione di un rapporto di
produzione sociale e quindi non è una categoria economica. Soltanto abusivamente è trattato
quindi nella economia politica, la quale infatti non ha nulla in comune con la tecnologia.
Nel mondo delle merci è presupposta una sviluppata divisione del lavoro, ossia quest'ultima si
esprime, piuttosto, direttamente nella molteplicità dei valori d'uso che si stanno dinanzi come
merci particolari e nei quali sono incorporati modi di lavoro altrettanto molteplici. La divisione del
lavoro, in quanto totalità di tutti i modi particolari dell'occupazione produttiva, è la figura
complessiva del lavoro solidale considerato nel suo lato materiale, considerato come lavoro che
produce valori d'uso. Ma come tale la divisione del lavoro esiste, dal punto di vista delle merci e
entro il processo di scambio, soltanto nel suo risultato, nella particolarizzazione delle merci stesse.
Lo scambio delle merci è il processo entro il quale il ricambio sociale, ossia lo scambio dei
particolari prodotti di individui privati, è allo stesso tempo creazione di determinati rapporti della
produzione sociale, nei quali gli individui entrano in questo ricambio. Le relazioni progressive fra le
merci nei confronti dell'una con l'altra si cristallizzano come determinazioni differenziate
dell'equivalente generale, e in tal modo il processo di scambio è allo stesso tempo processo di
formazione del denaro. L'insieme di questo processo, che appare come il decorso di processi
differenti, è la circolazione.
L'analisi della merce come lavoro in duplice forma, l'analisi del valore d'uso come lavoro reale o
attività produttiva conforme allo scopo, l'analisi del valore di scambio come tempo di lavoro o
lavoro sociale uguale, sono il risultato critico finale delle indagini compiute durante più di
centocinquant'anni dall'economia classica, la quale ha inizio in Inghilterra con William Petty, in
Francia con Boisguillebert e ha termine in Inghilterra con Ricardo, in Francia con Sismondi.
Il Petty riduce il valore d'uso a lavoro, senza illudersi sulla determinatezza naturale del suo vigore
creativo. Il lavoro reale, egli lo concepisce subito nella sua figura complessiva sociale,
come divisione del lavoro [17]. Questa concezione della fonte della ricchezza materiale non
rimane, come accade ad esempio al suo contemporaneo, Hobbes, più o meno sterile, lo conduce
bensì alla aritmetica politica che è la prima forma in cui l'economia politica si distacchi come
scienza autonoma. Il valore di scambio egli lo interpreta però, così come si presenta nel processo di
scambio delle merci, come denaro, e il denaro stesso egli lo interpreta come merce esistente,
come oro e argento. Legato alle idee del sistema monetario, egli definisce il tipo particolare di
lavoro reale con cui vengono acquisiti oro e argento, come lavoro creatore di valore di scambio.
Egli ritiene infatti che il lavoro borghese non debba produrre un valore d'uso immediato, bensì
merce, valore d'uso capace di esprimersi mediante la sua alienazione nel processo di scambio
come oro e argento, ossia come denaro, ossia come valore di scambio, ossia come lavoro generale
oggettivato. Ma il suo esempio mostra in modo lampante che la conoscenza del lavoro come fonte
della ricchezza materiale non esclude affatto il disconoscimento della determinata forma sociale,
entro la quale il lavoro è fonte del valore di scambio.
Da parte sua, Boisguillebert riduce, anche se in modo inconsapevole, pure effettivamente, il valore
di scambio di una merce in tempo di lavoro, determinando il "vero valore" (la juste valeur)
mediante la esatta proporzione in cui il tempo di lavoro degli individui è ripartito sulle particolari
branche industriali, e rappresentando la libera concorrenza come il processo sociale che creerebbe
questa proporzione esatta. Ma allo stesso tempo e in contrasto con il Petty egli lotta fanaticamente
contro il denaro, che con il suo intervento turberebbe il naturale equilibrio ossia la armonia dello
scambio delle merci e, da fantastico Moloch, esigerebbe come sacrificio ogni ricchezza naturale.
Ora, se da un lato questa polemica contro il denaro è connessa con determinate condizioni
storiche, giacchè il Boisguillebert attacca la cieca e rovinosa bramosia d'oro della corte di un Luigi
XIV, degli appaltatori delle sue finanze e della sua nobiltà, mentre il Petty celebra nella bramosia
dell'oro l'impulso efficace che incita un popolo allo sviluppo industriale e alla conquista del
mercato mondiale, risalta qui però allo stesso tempo l'antitesi di principio, più profonda, che si
ripete come costante contrasto fra l'economia tipicamente inglese e quella tipicamente francese. Il
Boisguillebert ravvisa infatti soltanto il contenuto materiale della ricchezza, il valore d'uso, il
godimento, e considera la forma borghese del lavoro, la produzione dei valori d'uso come merci e il
processo di scambio delle merci come la forma sociale naturale in cui il lavoro individuale
raggiungerebbe quello scopo. Quindi là dove gli si fa contro il carattere specifico della ricchezza
borghese, come accade nel denaro, egli è convinto si tratti di un'interferenza di elementi estranei
usurpatori, e si inalbera contro il lavoro borghese nell'una delle due forme, mentre allo stesso
tempo lo trasfigura utopisticamente nell'altra. Il Boisguillebert ci fornisce la dimostrazione del fatto
che il tempo di lavoro può essere trattato quale misura della grandezza di valore delle merci,
sebbene il lavoro oggettivato nel valore di scambio delle merci e misurato mediante il tempo venga
scambiato per l'attività naturale diretta degli individui.
La prima analisi consapevole, quasi banalmente chiara, del valore di scambio come tempo di
lavoro, si trova in un uomo del mondo nuovo, dove i rapporti di produzione borghesi, importati
insieme con i loro rappresentanti, si svilupparono con straordinaria rapidità su di un terreno che
equilibrava la propria deficienza di tradizione storica con un'eccedenza di humus. Quest'uomo
è Benjamin Franklin il quale, nel suo lavoro giovanile scritto nel 1719, passato alla stampa nel 1721,
formulò la legge fondamentale dell'economia politica moderna. Egli ritiene sia necessario cercare
una misura dei valori diversa dai metalli nobili. Questa misura sarebbe il lavoro. "Mediante il lavoro
il valore dell'argento può essere misurato come quello di tutte le altre cose. Poniamo ad esempio
un uomo che sia occupato nella produzione del grano mentre un altro scava e raffina l'argento. Alla
fine dell'anno o dopo un qualsiasi altro determinato periodo di tempo, il prodotto pieno del grano
e quello dell'argento saranno l'uno il prezzo naturale dell'altro, e se l'uno sarà di 20 bushels e l'altro
di 20 once, in tal caso un'oncia d'argento avrà il valore del lavoro impiegato per la produzione di
un bushel di grano. Ma se in virtù della scoperta di miniere più vicine, più accessibili e più ricche,
un uomo potrà ora produrre 40 once d'argento con la stessa facilità con cui prima ne produceva
20, e se per la produzione di 20 bushels di grano rimarrà necessario il medesimo lavoro di prima,
allora 2 once d'argento non avranno più lo stesso valore dello stesso lavoro impiegato nella
produzione di 1 bushel di grano, e il bushel che prima valeva 1 oncia, ne varrà 2 ora,caeteris
paribus. In tal modo la ricchezza di un paese sarà da stimarsi mediante la quantità di lavoro che i
suoi abitanti sono in grado di comprare." Il tempo di lavoro si presenta in Franklin subito in modo
economicisticamente unilaterale come misura dei valori. La trasformazione dei reali prodotti in
valori di scambio s'intende allora da sé, e si tratta quindi solo di trovare una misura della loro
grandezza di valore. "Siccome - dice Franklin - il commercio, in genere, non è altro che lo scambio
di lavoro con lavoro, il valore di tutte le cose sarà stimato nel modo più esatto mediante il
lavoro." Se qui poniamo al posto della parola lavoro il lavoro reale, scopriamo subito la mescolanza
di lavoro in una forma con il lavoro nell'altra forma. Siccome il commercio per esempio consiste di
uno scambio di lavoro di calzolaio, lavoro di miniera, lavoro di filatura, lavoro di pittura, ecc., il
valore di stivali sarà stimato nel modo più esatto mediante il lavoro di pittura? Il Franklin riteneva
viceversa che il valore di stivali, prodotti di miniera, filati, dipinti, ecc. è determinato mediante il
lavoro astratto che non ha qualità particolare e quindi è misurabile mediante la semplice quantità.
Ma siccome svolge il lavoro contenuto nel valore di scambio, non come il lavoro sociale
generalmente astratto, derivante dall'universale alienazione dei lavori individuali, egli disconosce
necessariamente il denaro, supponendo che esso sia la forma immediata di esistenza di questo
lavoro alienato. Il denaro e il lavoro che crea valore di scambio non hanno quindi per lui alcuna
connessione interna, il denaro è bensì piuttosto uno strumento immesso dal di fuori nello scambio
per ragioni di comodità tecnica. L'analisi del valore di scambio fatta dal Franklin rimase senza
influsso immediato sull'andamento generale della scienza, perchè egli non trattava che problemi
singoli dell'economia politica in determinate occasioni pratiche.
L'antitesi fra il lavoro realmente utile e fra il lavoro che crea valore di scambio agitava l'Europa
durante il secolo XVIII nella forma del seguente problema: quale tipo particolare di reale lavoro è la
fonte della ricchezza borghese? In tal modo si presupponeva che non ogni lavoro che si realizzi in
valori d'uso o fornisca prodotti, per ciò stesso crei direttamente la ricchezza. Ma per i fisiocratici,
come per i loro avversari, la questione scottante controversa non è tanto quale lavoro crei il valore,
bensì quale lavoro crei il plusvalore. Perciò trattano il problema in una forma complessa prima di
averlo risolto nella sua forma elementare, allo stesso modo che il corso storico di tutte le scienze
conduce ai reali punti di partenza di queste solo attraverso una grande quantità di vie traverse e
incrociate. A differenza di altri architetti, la scienza non soltanto disegna castelli in aria, ma
costruisce qualche piano abitabile dell'edificio prima di gettarne le fondamenta. Non ci
soffermeremo qui più a lungo sui fisiocratici e, tralasciando tutt'una serie di economisti italiani che,
con idee più o meno calzanti, si avvicinano a una esatta analisi della merce, passeremo subito al
primo economista britannico il quale abbia lavorato sul sistema complessivo dell'economia
borghese, a Sir James Steuart. Allo stesso modo che in lui le categorie astratte dell'economia
politica appaiono ancora nel processo di distacco dal loro contenuto materiale, e quindi sfumate e
oscillanti, così anche quelle del valore di scambio. In un punto egli determina il valore
reale mediante il tempo di lavoro (what a workman can perform in a day), ma accanto a questa
definizione figurano in modo confuso anche il salario e le materie prime In un altro punto la lotta
con il contenuto materiale si manifesta in modo ancora più lampante. Egli chiama il materiale
naturale contenuto in una merce, p. es. l'argento in un lavoro d'argento filigranato, il suo valore
intrinseco (intrinsic worth), mentre chiama suo valore d'uso (useful value) il tempo di lavoro
contenuto in essa. "Il primo - egli dice - è qualcosa di reale in sé... il valore d'uso invece deve essere
stimato in base al lavoro che è costata la sua produzione. Il lavoro impiegato nella modificazione
della materia rappresenta una porzione del tempo d'un uomo, ecc."Quel che fa eccellere lo Steuart
fra i suoi predecessori e successori, è la rigorosa differenziazione che egli fa fra il lavoro
specificamente sociale, raffigurantesi nel valore di scambio, e il lavoro reale che produce valori
d'uso. "Il lavoro, - egli dice, - che mediante la propria alienazione (alienation) crea un equivalente
universale (universal equivalent), io lo chiamo industria." Il lavoro come industria è da lui distinto
non soltanto dal lavoro reale, bensì anche dalle forme sociali del lavoro. Esso è per lui la forma
borghese del lavoro in antitesi con le sue forme antiche e medievali. In particolare lo Steuart
s'interessa dell'antitesi fra lavoro borghese e lavoro feudale, il quale ultimo, nella fase del suo
tramonto, era stato da lui osservato sia nella stessa Scozia sia nei suoi estesi viaggi sul continente.
Lo Steuart sapeva naturalmente benissimo che il prodotto acquisisce la forma di merce, e la merce
la forma di denaro anche in epoche preborghesi, ma egli dimostra con molti particolari che la
merce come forma fondamentale, elementare della ricchezza, e l'alienazione, come forma
dominante
dell'appropriazione, appartengono al periodo della produzione borghese soltanto, che il carattere
del lavoro creatore di valore di scambio è quindi specificamente borghese.
Dopo che erano state proclamate vere fonti della ricchezza le forme particolari del lavoro reale,
come l'agricoltura, la manifattura, la navigazione, il commercio, ecc., Adam Smith proclamò come
fonte unica della ricchezza materiale, ossia dei valori d'uso, il lavoro in generale e cioè il lavoro
nella sua figura complessiva sociale come divisione del lavoro. Mentre, dicendo questo, dimentica
del tutto l'elemento naturale, questo lo persegue nella sfera della ricchezza puramente sociale,
nella sfera del valore di scambio. Certo, Adam determina il valore della merce mediante il tempo di
lavoro in essa contenuto, ma poi relega di nuovo la realtà di questa determinazione del valore nelle
epoche preadamitiche. In altre parole, ciò che gli appare vero dal punto di vista della merce
semplice, gli diventa oscuro non appena al posto di questa subentrino le forme più elevate e più
complesse di capitale, lavoro salariato, rendita fondiaria, ecc. E questo lo esprime nel seguente
modo: il valore delle merci veniva misurato mediante il tempo di lavoro in esse contenuto
nel paradise lost della borghesia, quando gli uomini non stavano ancora l'uno di fronte all'altro
come capitalisti, salariati, proprietari fondiari, affittuari, usurai, ecc., bensì come semplici
produttori e scambiatori di merci. Egli scambia costantemente la determinazione del valore delle
merci mediante il tempo di lavoro in esse contenuto, per la determinazione dei loro valori
mediante il valore del lavoro, oscilla ovunque si tratti di chiarire i particolari e non si accorge
dell'equiparazione obiettiva compiuta a forza dal processo sociale fra i lavori disuguali, allo scopo
di creare la parità di diritti dei singoli lavori individuali. Il passaggio dal lavoro reale al lavoro che
crea valore di scambio, vale a dire al lavoro borghese nella sua forma fondamentale, egli cerca di
ottenerlo mediante la divisione del lavoro. Ora, per quanto sia esatto dire che lo scambio privato è
divisione del lavoro, altrettanto sbagliato è dire che la divisione del lavoro presuppone lo scambio
privato. Fra i peruviani p. es., il lavoro era diviso a un grado straordinario, benchè non avessero
luogo scambi privati né scambi dei prodotti in qualità di merci.
In contrapposizione ad Adam Smith, David Ricardo elaborò nettamente la determinazione del
valore della merce mediante il tempo di lavoro, ed egli mostra che questa legge domina anche i
rapporti di produzione borghesi che in apparenza più la contraddicono. Le indagini di Ricardo si
limitano esclusivamente alla grandezza di valore, e in relazione a questa egli per lo meno sospetta
che l'attuazione della legge dipenda da determinati presupposti storici. Infatti dice che la
determinazione della grandezza di valore mediante il tempo di lavoro vale soltanto per le merci,
"che mediante l'industria possano essere aumentate a piacere e la cui produzione sia dominata da
una concorrenza illimitata". In realtà ciò significa soltanto che la legge del valore, per giungere al
suo pieno sviluppo, presuppone la società della grande produzione industriale e della libera
concorrenza, ossia la moderna società borghese. Del resto Ricardo considera la forma borghese del
lavoro come la forma naturale eterna del lavoro sociale. I primi pescatori e i primi cacciatori,
secondo lui, si scambiano subito pesce e selvaggina in qualità di possessori di merci, e lo scambio
avviene in proporzione del tempo di lavoro oggettivato in questi valori di scambio. In questo caso
egli cade nell'anacronismo, poichè sembra che i primi pescatori e i primi cacciatori, per calcolare i
loro strumenti di lavoro, consultino le tabelle degli interessi correnti per la Borsa di Londra nel
1817. I "parallelogrammi del signor Owen" sembrano essere l'unica formazione sociale che egli
conoscesse al di fuori di quella borghese. Sebbene limitato entro questo orizzonte borghese,
Ricardo seziona l'economia borghese, che nelle sue profondità ha un aspetto del tutto diverso da
quello che presenta alla superficie, con tanto acume teorico che Lord Brougham poteva dire di lui:
"Mr. Ricardo seemed as if he had dropped from an other planet". In diretta polemica con Ricardo,
il Sismondi da un lato pone in rilievo il carattere specificamente sociale del lavoro che crea valore
di scambio, dall'altro indica quale "carattere del nostro progresso economico" la riduzione della
grandezza di valore a tempo di lavoro necessario, alla "proporzione tra il fabbisogno dell'intera
società e la quantità di lavoro sufficiente a soddisfare questo fabbisogno". Il Sismondi non è più
impigliato nell'idea del Boisguillebert secondo cui il lavoro creatore di valore di scambio viene
falsato dal denaro, ma, come Boisguillebert denunzia il denaro, così egli denunzia il grande capitale
industriale. Se Ricardo porta decisamente l'economia politica alle sue ultime conseguenze, e così
facendo la conclude, Sismondi completa questa conclusione rappresentando i dubbi che
l'economia politica nutre nei riguardi di sé stessa.
Poichè Ricardo, portando a conclusione l'economia politica classica, ha formulato e svolto nel
modo più netto la determinazione del valore di scambio mediante il tempo di lavoro, su di lui si
concentra naturalmente la polemica sollevata da parte degli economisti. Prescindendo dalla forma
per lo più goffa con cui essa è stata condotta, questa polemica può riassumersi nei seguenti punti:
Primo. Il lavoro stesso ha valore di scambio, e lavori differenti hanno un valore di scambio
differente. E' un circolo vizioso fare del valore di scambio la misura del valore di scambio, poichè il
valore di scambio che misura ha a sua volta bisogno di una misura. Quest'obiezione si riduce al
problema: dato il tempo di lavoro come misura immanente del valore di scambio, si svolga su
questa base il salario. La teoria del lavoro salariato darà la risposta.
Secondo: Se il valore di scambio di un prodotto è uguale al tempo di lavoro in questo contenuto, il
valore di scambio di una giornata lavorativa sarà uguale al prodotto di essa. Oppure, il salario del
lavoro dovrà essere uguale al prodotto del lavoro. Ma si verifica l'opposto. Ergo. Quest'obiezione si
riduce al problema: come mai la produzione fondata sul valore di scambio determinato dal solo
tempo di lavoro porta al risultato che il valore di scambio del lavoro è minore del valore di scambio
del prodotto del lavoro? Questo problema lo risolveremo esaminando il capitale.
Terzo: Il prezzo di mercato delle merci diminuisce al di sotto o aumenta al di sopra del loro valore di
scambio con il variare della proporzione fra domanda e offerta. Il valore di scambio delle merci è
determinato quindi dalla proporzione fra domanda e offerta e non dal tempo di lavoro contenuto
in esse. In realtà, in questa strana deduzione viene semplicemente sollevata la questione del come
sulla base del valore di scambio si sviluppi un prezzo di mercato diverso da questo o, meglio, del
come la legge del valore di scambio si realizzi soltanto nel proprio opposto. Questo problema sarà
risolto nella teoria della concorrenza.
Quarto. Un'ultima contraddizione e apparentemente la più decisiva, a meno che non sia, come di
consueto, proposta in forma di esempi strampalati: se il valore di scambio non è null'altro che il
tempo di lavoro contenuto in una merce, com'è possibile che merci le quali non contengono lavoro
abbiano valore di scambio o, in altre parole, di dove deriverebbe il valore di scambio di semplici
forze naturali? Questo problema sarà risolto nella teoria della rendita fondiaria.
Il Manifesto del partito comunista. Giunti a questo punto,dobbiamo fare un salto indietro al
Manifesto del partito comunista, il testo chiave della rivoluzione copernicana di Marx.
"La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in
breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta
ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione
rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.
Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della
società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica
abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle
corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna
di queste classi.
La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli
antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di
oppressione, nuove forme di lotta.
La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli
antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in
due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato.
Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo
minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia.
La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un
nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli
scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al
commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò
impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.
L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che
aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale
soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni scomparve davanti
alla divisione del lavoro nella singola officina stessa.
Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più
sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria
manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i
milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.
La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta
dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione,
alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione
dell'industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione,
ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte
le classi tramandate dal medioevo.
Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di
sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico.
Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente
progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni
armate ed autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale indipendente,
talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella
monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento
principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande
industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato
rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli
affari comuni di tutta la classe borghese.
La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria.
Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali,
idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo
superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo
"pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi
dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la
dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e
onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola:
ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento
mascherato d'illusioni religiose e politiche.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e
considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della
scienza, in salariati ai suoi stipendi.
La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto
a un puro rapporto di denaro.
La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel
medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia
ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie
che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre
spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i
rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le
classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di
produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le
situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra
tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee
e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi
fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli
uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri
reciproci rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere
tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi,
dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla
produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno
nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state
distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove,
la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che
non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti
non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi
bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti
esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento
locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E
come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole
nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più
impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente
agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi
delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale
costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad
adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad
introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un
mondo a propria immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha
accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale,
strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come
ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari
dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Occidente.
La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della
popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha
concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione
politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e
dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo
interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.
Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa
molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del
passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria
e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi
continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei
secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze
produttive?
Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la
borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei
mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e
scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti
feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi
inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene.
Dovevano essere spezzate e furono spezzate.
Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il
dominio economico e politico della classe dei borghesi.
Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i
rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di
produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le
potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio
è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della
produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della
borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno
mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese.
Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma
addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che
in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovrapproduzione. La
società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una
carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria,
il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi
di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione
non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono
divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo
ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della
proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la
ricchezza da essi stessi prodotta. -Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la
distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e
con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di
crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.
A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono
contro la borghesia stessa.
Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che la porteranno alla morte; ha anche
generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari.
Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la
classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo
fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al
minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre
merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.
Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha
perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l'operaio. Egli diviene un semplice
accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un'operazione manuale semplicissima,
estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l'operaio si limitano
quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento
e per la riproduzione della specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è
uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui
aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione dell'aumento dell'uso delle macchine e
della divisione del lavoro, aumenta anche la massa del lavoro, sia attraverso l'aumento delle ore di
lavoro, sia attraverso l'aumento del lavoro che si esige in una data unità di tempo, attraverso
l'accresciuta celerità delle macchine, e così via.
L'industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella
grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono
organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell'industria, sotto la
sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi
della classe dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal
sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto
più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come fine ultimo il
guadagno.
Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa
l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne [e dei
fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e di età. Ormai ci
sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell'età e del sesso.
Quando lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto
all'operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il
padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via.
Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli
commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi
precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per
l'esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte
per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione. Così il proletariato si
recluta in tutte le classi della popolazione.
Il proletariato passa attraverso vari gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con
la sua esistenza.
Da principio singoli operai, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di una branca di lavoro in un
dato luogo lottano contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente.
Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produzione, ma contro gli
stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fan loro concorrenza, fracassano
le macchine, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistarsi la tramontata posizione del
lavoratore medievale.
In questo stadio gli operai costituiscono una massa disseminata per tutto il paese e dispersa a
causa della concorrenza. La solidarietà di maggiori masse operaie non è ancora il risultato della
loro propria unione, ma della unione della borghesia, la quale, per il raggiungimento dei propri fini
politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento può ancora farlo.
Dunque, in questo stadio i proletari combattono non i propri nemici, ma i nemici dei propri nemici,
gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli
borghesi. Così tutto il movimento della storia è concentrato nelle mani della borghesia; ogni
vittoria raggiunta in questo modo è una vittoria della borghesia.
Ma il proletariato, con lo sviluppo dell'industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse
più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. Gli interessi, le condizioni di esistenza
all'interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le macchine
cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a un livello
ugualmente basso. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne
derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido
sviluppo del perfezionamento delle macchine rende sempre più incerto il complesso della loro
esistenza; le collisioni fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere
di collisioni di due classi. Gli operai cominciano col formare coalizioni contro i borghesi, e si
riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino associazioni permanenti per
approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse.
Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle lotte non è
il successo immediato, ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre più. Essa è favorita
dall'aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono in
collegamento gli operai delle diverse località. E basta questo collegamento per centralizzare in una
lotta nazionale, in una lotta di classe, le molte lotte locali che hanno dappertutto uguale carattere.
Ma ogni lotta di classi è lotta politica. E quella unione per la quale i cittadini del medioevo con le
loro strade vicinali ebbero bisogno di secoli, i proletari moderni con le ferrovie la attuano in pochi
anni.
Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad essere spezzata
ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più
salda, più potente. Essa impone il riconoscimento in forma di legge di singoli interessi degli operai,
approfittando delle scissioni all'interno della borghesia. Così fu per la legge delle dieci ore di lavoro
in Inghilterra.
In genere, i conflitti insiti nella vecchia società promuovono in molte maniere il processo evolutivo
del proletariato. La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l'aristocrazia, più tardi contro le
parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto con il progresso dell'industria, e
sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a
fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il movimento politico.
Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione, cioè armi contro se stessa.
Inoltre, come abbiamo veduto, il progresso dell'industria precipita nel proletariato intere sezioni
della classe dominante, o per lo meno ne minaccia le condizioni di esistenza. Anch'esse arrecano al
proletariato una massa di elementi di educazione.
Infine, in tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di
disgregazione all'interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere
così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si unisce
alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l'avvenire. Quindi, come prima una parte
della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e
specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica
del movimento storico nel suo insieme.
Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe
realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il
proletariato è il suo prodotto più specifico.
Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l'artigiano, il contadino, combattono
tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi
non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare
all'indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente
passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e
abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato.
Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a
una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte le
sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie.
Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già annullate nelle condizioni di esistenza del
proletariato. Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in
comune con il rapporto familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento
moderno del capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato
di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi,
dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.
Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la posizione di vita
già acquisita, assoggettando l'intera società alle condizioni della loro acquisizione. I proletari
possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di
appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l'intero sistema di appropriazione
che c'è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere
tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui.
Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell'interesse di
minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza. Il
proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza
che salti per aria l'intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale.
La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non
sostanzialmente, certo formalmente. E` naturale che il proletariato di ciascun paese debba
anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia.
Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o
meno latente all'interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in
aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento
abbattimento della borghesia.
Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di
oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le
quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo
stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto,
lavorando sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l'operaio
moderno, invece di elevarsi man mano che l'industria progredisce, scende sempre più al disotto
delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa
anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la
borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di
imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace
di dominare, perché non è capace di garantire l'esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua
schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser
da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese,
vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società.
La condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi
della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del
capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai
tra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa
subentrare all'isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria,
risultante dall'associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai
piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce
anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili.”