Goldoni costituzione usa e razza
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Goldoni costituzione usa e razza
interventi e discussioni Costituzionalismo americano e razza. La lezione della Critical Race Theory di Marco Goldoni Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il mistero «Brown» e il costituzionalismo colorblind. - 3. Questioni di metodo. Dai cls al «sovversivismo dell’immanenza». - 4. Razze e diritto. - 5. Conclusione: i percorsi possibili. 1. La presenza della razza nel mondo giuridico europeo (e non) è direttamente proporzionale alla sua pressoché totale invisibilità agli occhi della maggioranza dei giuristi contemporanei1. Le riflessioni della corrente americana Critical Race Theory2 rappresentano, in un quadro marcato da tale assenza, una buona occasione per fare il punto della situazione sui rapporti fra costituzionalismo e razza e sui possibili sviluppi di una ricerca orientata da tale problematica. Nella prima sezione di questo scritto viene messa in luce l’importanza (e le difficoltà ad essa legate in termini di giustificazione giuridica) per la storia del costituzionalismo americano3 della nota sentenza Brown v. Board of Education. Prendendo spunto dalle critiche della crt al neutralismo liberale, si cercherà di dare conto di una lettura «attenta al colore» del costituzionalismo americano. Nella seconda sezione viene invece affrontato il problema del rapporto fra Critical Legal Studies (cls) e crt, al fine di chiarire, da un lato, l’eredità critica che i teorici della razza ricevono dai cls e, dall’altro lato, le differenze metodologiche e progettuali che distinguono i due «movimenti». Dopo aver specificato in quale modo la crt si proponga di superare sia la jurisprudence liberale4 sia quella cls, l’attenzione si concentra sul perno concettuale della Critical Race Theory: la consapevolezza della razza, ossia l’idea che la «razza conti». Infine, la conclusione viene dedicata ai possibili impatti che una teoria POLITICA DEL DIRITTO / a. XXXVII, n. 3, settembre 2006 461 critica della razza può avere su alcuni temi pressoché inediti per il costituzionalismo contemporaneo. 2. Il luogo classico da cui iniziare una riflessione sul rapporto fra razza e costituzionalismo non può che essere, nell’ambito statunitense, Brown v. Board of Education5. In effetti, Brown è la sentenza più discussa e allo stesso tempo più rispettata del Novecento (vale a dire dell’intera storia della Corte Suprema)6. L’enfasi con la quale viene solitamente trattata conferma che il nodo costituito dall’intreccio fra razza e diritto è particolarmente sentito nel mondo giuridico americano. La sorte di Brown, tuttavia, è paradossale. Da un punto di vista pratico, ossia nelle attività quotidiane dei giuristi e nella grande maggioranza dell’opinione pubblica, essa viene considerata come perfettamente giusta e legittima. Da un punto di vista teorico, invece, si tratta della sentenza sulla quale si sono concentrati gli sforzi dei costituzionalisti per trovare una giustificazione legale alla decisione della Corte. Ogni teoria costituzionale, se vuole affermarsi, deve superare la prova di resistenza di Brown, ossia deve rendere conto del significato che tale sentenza ha assunto nella storia costituzionale americana. Bruce Ackerman ha fatto, di questa pronuncia, la naturale conseguenza degli sviluppi giurisprudenziali di un emendamento (non scritto) sulla costituzionalizzazione del Welfare State nel corso degli anni ’307. La Corte Suprema, seguendo questa logica, avrebbe semplicemente preso atto della nuova volontà del popolo americano di includere le questioni sociali nel raggio di applicazione della Costituzione. Se collocare Brown all’interno di questa «architettura costituzionale» permette, da un lato, di costituzionalizzare i diritti sociali, dall’altro lato, questa teoria costringe Ackerman a giudicare corretta una decisione come Plessy8, sentenza con cui la Corte ammetteva la costituzionalità del principio separate but equal9. Robert Cover, ricorrendo ad una particolare teoria della giurisdizione, ha riconosciuto in Brown l’esercizio di un costituzionalismo redemptive10 da parte di una Corte in grado di valorizzare le risorse costituzionali a sua disposizione. Frank Michelman, sulla scia di Cover, ha a sua volta dato una interpretazione «repubblicana» della decisione della Corte, sostenendo che in Brown la Corte, adottando una posizione «profetica», «utilizzò gli accenti dell’invenzione, non quelli della 462 convenzione; essa parlò per il futuro, criticando il passato, parlò a nome della legge, creando l’autorità»11. Le prime reazioni alla sentenza, peraltro, non furono sempre positive. L’intervento più critico, quello di Herbert Wechsler, si concentrava sulla teoria dell’adjudication, affermando che questa doveva avvenire in base a principi e valori neutrali12. Wechsler sosteneva, quindi, che pur avendo letto attentamente la sentenza, anche a distanza di alcuni anni, non poteva trovare una giustificazione per Brown13. Una filosofa molto attenta al pluralismo della condizione umana come Hannah Arendt aveva espresso le proprie perplessità circa la metodologia di intervento delle Corti su un problema da lei giudicato di natura sociale e non strettamente politico o giuridico. Riflettendo sugli avvenimenti di Little Rock14, Arendt concludeva che «il problema, dunque, non è come eliminare la discriminazione, ma come tenerla dentro i confini della sfera sociale, in cui è legittima, e come evitare che trapassi nella sfera politica e in quella personale, in cui invece è distruttiva»15. Ciò che sorprende, in questa serie di analisi di Brown, è l’approccio alla sentenza: si tratta, in altri termini, di teorie che affrontano la decisione della Corte dal punto di vista della giurisdizione costituzionale e non contemplano minimamente la questione che giace al cuore della controversia, ovvero quella dei rapporti fra costituzionalismo e razza. Infatti, nessuna delle teorie summenzionate giustifica Brown a partire da una prospettiva race-conscious, ma si rifà, per lo più, a standard legati alla jurisprudence tradizionale o ad una teoria della judicial review. Certo, Brown riveste anche un valore giuridico speciale nella storia della giurisdizione costituzionale16, ma l’incapacità di produrre un’analisi centrata sulla costruzione razziale della soggettività giuridica rappresenta una falla nel ragionamento dei costituzionalisti americani. Il ruolo della razza viene, invece, direttamente evocato dalle spiegazioni che i rappresentanti di quella che qui definiremo come «prima stagione» della teoria critica della razza diedero delle ragioni di Brown. Derrick Bell, considerato da molti come il founding father dei crt17, pubblicò due saggi, Serving Two Masters18 e Brown v. Board: The Convergence Interest Dilemma19 nei quali veniva proposta una nuova interpretazione di Brown fondata sull’interesse razziale. In particolare, Bell ricorse al principio della 463 «convergenza degli interessi»: «gli interessi dei neri nell’ottenere eguaglianza razziale verranno presi in considerazione solo quando convergono con quelli dei bianchi»20. La comunità black era già ricorsa da quasi un secolo al quattordicesimo emendamento per sollevare la questione della segregazione, eppure non era riuscita ad ottenere nulla di concreto (se non una decisione con la quale si stabiliva che gli edifici scolastici dovessero essere uguali). L’improvviso mutamento di opinione21 deve essere spiegato a partire dall’interesse della comunità bianca (e in particolare della sua classe dirigente), secondo la quale, in piena guerra fredda, la credibilità e le simpatie per gli Stati Uniti avrebbero certamente tratto giovamento da una politica di desegregazione22. In tal senso, Brown sarebbe una sentenza liberatoria solo in quanto effetto indiretto dell’esercizio di una politica di interesse esercitata, anzitutto, a favore di una parte. La proposta di lettura di Bell, pur condizionata da una vena riduzionistica – riconosciuta, peraltro, dallo stesso autore – ebbe il merito di rovesciare il punto di vista con il quale si affrontava il problema razziale: non si trattava più di ancorare l’analisi costituzionale ad un milieu liberale, quanto di rigettare un costituzionalismo neutrale e quindi indifferente al colore per adottare un approccio più attento ai dati della dominazione e dei privilegi politici e sociali. Così facendo, Bell apriva la strada verso l’elaborazione di un nuovo modo di intendere il costituzionalismo: da un lato, una maggiore attenzione verso il potere produttivo delle norme giuridiche e dei metodi interpretativi nella determinazione della condizione razziale; dall’altro lato, il superamento del costituzionalismo cieco al colore23 e l’adozione di una posizione di analisi «situata», ovvero sensibile alla condizione del soggetto dominato24. Neil Gotanda, fra coloro che hanno preso le mosse da Bell, è certamente colui che ha meglio definito, da un punto di vista teoretico, i limiti del costituzionalismo «cieco al colore»25. Innanzitutto, Gotanda, attraverso l’esame della giurisprudenza costituzionale, ricostruisce le quattro accezioni del concetto di razza utilizzate dalla Corte suprema. La razza come «status» è il tradizionale indicatore dello status sociale. La nozione «formale» di razza si riferisce, invece, ad un significato fisso della condizione razziale. La terza declinazione, la razza «in senso storico», «incorpora una subordinazione razziale che ebbe luogo nel passato e che prosegue tuttora, ed è questo il significato 464 di «razza» che la Corte contempla quando applica lo scrutinio stretto (strict scrutiny) a una decisione normativa che comporti svantaggi connotati in senso razziale»26. Infine, la razza come «cultura» si riferisce al patrimonio materiale e spirituale ampiamente condiviso di una comunità. La nozione più insidiosa è certamente quella formale, in particolare nelle forme utilizzate ora dalla Corte Suprema: in effetti, «la classificazione razziale ha perso ogni connessione con la realtà sociale»27. Nessun altro concetto di razza prevede una «mancanza di connessione» con la realtà sociale (vale a dire istruzione, cultura, ricchezza, proprietà di linguaggio) così forte. Una giurisprudenza che neghi il carattere aggregato e sociale della subordinazione razziale, riducendo quest’ultima alla mera somma di preferenze individuali irrazionali contro certe caratteristiche razziali, «blocca» le possibilità del governo di poter intervenire sulle cause che generano il dominio, poiché impedisce la «comprensione del fatto che la razza ha dimensioni istituzionali o strutturali che vanno ben oltre la classificazione formale»28. Quando, poi, la pratica classificatoria che determina l’appartenenza razziale viene incardinata sulla base della cosiddetta regola dell’«ipodiscendenza»29, gli effetti perniciosi della cecità rispetto al colore si moltiplicano. L’interessante proposta di Gotanda per superare gli inconvenienti della comprensione formale (ma anche di quella di status e storica) della razza, consiste nel mutare l’atteggiamento della Corte dalla cecità nei confronti del dato razziale ad un approccio improntato all’esperienza della libertà di culto e di religione. Nelle questioni dei rapporti fra Chiesa e Stato, la Corte ha rifiutato uno standard «cieco rispetto alla religione», procedendo lungo due linee fra loro connesse: «promuovere il libero esercizio della religione e prevenire l’establishment di alcuna singola religione»30. Allo stesso modo, Gotanda sostiene che la Corte debba trattare con eguale rispetto la razza intesa nell’accezione culturale e prevenire, allo stesso tempo, la possibilità che una di tali razze si stabilisca come dominante sopra le altre. In altri termini, solo una giurisprudenza race conscious può evitare di essere razzista. A ben vedere, concetti come neutralità e cecità di fronte al colore sarebbero, per i race-crits, tutt’altro che «neutrali». Il razzismo non è «solamente una questione di pregiudizio individuale e di pratica quotidiana, ma è profondamente radicato nel linguaggio, nelle percezioni e forse anche nella «ragione» stessa»31. 465 Adottare una prospettiva neutrale negli studi giuridici significa rimuovere quel dato fondamentale in virtù del quale si è sempre collocati all’interno di un contesto raced. La razzializzazione dell’esperienza giuridica è talmente pregnante che considerare irrilevante la nozione di razza è, a sua volta, un atto razzista e totalmente razzializzato32. Uscire dalla presa neutralizzante della cecità verso il colore è esattamente quanto si propone di fare anche Kendall Thomas (il costituzionalista dei crt), interpretando Brown come un vero e proprio rovesciamento della prospettiva color-blind. A differenza della abituale lettura di Brown centrata sull’affermazione della neutralità, Thomas, analizzando il linguaggio utilizzato dalla Corte, suggerisce di considerare la nota decisione come paradigma di una giurisprudenza sensibile alla razza: occorre «mettere a fuoco i termini coi quali la Corte descrive il danno inflitto ai giovani afroamericani dalla segregazione permessa o imposta dallo Stato». Così facendo, si nota che «la Corte immagin[i] e cerch[i] di comunicare la vita psichica del potere razziale com’esso si configura agli occhi di un bimbo confuso e vulnerabile». Il tentativo della Corte di adottare il punto di vista della vittima razzializzata, insieme allo sforzo di comprensione della violenza subita a causa della segregazione scolastica, conducono Thomas a concludere che «in breve, per quanto l’opinione non la descriva in questi termini, la strategia interpretativa della Corte Suprema in Brown può legittimamente essere descritta come un caso di race consciousness»33. 3. Pur essendo fortemente critici verso una certa tradizione del liberalismo giuridico (compreso quello progressista34), in particolare quella neutralista35, il progetto portato avanti dalla teoria critica della razza non può essere ridotto ad una semplice variazione del tema inizialmente proposto dai Critical Legal Studies36. Indubbiamente, l’approccio all’ortodossia giuridica avviene con una sensibilità prossima, ovvero in modo profondamente critico. Tuttavia, alcune differenze (due, nella fattispecie) segnano il rapporto di relativa distanza fra le due scuole. Anzitutto, i crt rimproverano ai cls di non aver saputo prendere atto del problema razziale e non essere in grado, quindi, di rendere conto del fenomeno della dominazione e dell’oppressione razziale. La riflessione cls non farebbe che ripetere gli 466 stilemi negativi della tradizione liberale, aggiungendovi il rifiuto del costituzionalismo tout-court. Per i race-crits, la posizione cls su razza e diritto non è altro che un esercizio di «razzialismo» (racialism). Fondamentalmente, i cls sostengono la natura sovrastrutturale del diritto rispetto al costrutto razziale. Il valore della «bianchezza come proprietà» (su cui si possono vedere le acute riflessioni di Cheryl Harris37) viene considerato come una produzione pre-giuridica, sulla quale il diritto non ha alcun potere se non quello di ricevere (e quindi riprodurre) le disuguaglianze già formatesi in un’altra sfera. Le critiche cls finivano per assumere, agli occhi dei teorici critici della razza, la medesima forma degli argomenti proposti dalle istituzioni che essi intendevano sfidare. La conseguenza logica di questa divisione investiva direttamente i rimedi attraverso i quali cercare di ottenere un cambiamento sostanziale della situazione. Alla luce di questa consapevolezza, la seconda grande differenza riguarda il ruolo dei diritti soggettivi nell’economia di un costituzionalismo impegnato a lottare contro le subordinazioni razziali. Come è noto, per i cls i diritti rischiano di ridursi ad una semplice maschera illusoria, inefficace nel promuovere il cambiamento38. Collocandosi all’interno di un discorso vacuo e indeterminato quale quello della ragione liberale, segnato dalla «contraddizione fondamentale», il linguaggio dei diritti assorbe e priva di significato le reali esperienze, le preoccupazioni e le esigenze delle persone. Essi marginalizzano e tendono ad isolare gli individui piuttosto che dotarli di poteri e relazionarli fra loro. Il conferimento di diritti soggettivi non sarebbe altro che uno strumento di legittimazione ex post di un determinato assetto di potere. La logica del «discorso sui diritti» così tratteggiata può risultare a volte anodina, ma non per questo, secondo i crt, da rigettare tout-court. I diritti sono stati sia strumenti di de-radicalizzazione della lotta contro l’oppressione razziale, sia mezzi per la rimozione di barriere formali che hanno trasformato l’esperienza black da un punto di vista materiale e simbolico. In tal senso, la riflessione crt si colloca ancora dentro la modernità39, per sfruttarne le potenzialità di «progetto non ancora compiuto». Come afferma Kimberlé Crenshaw (in uno dei saggi più articolati e meditati dell’intera letteratura crt), «le persone possono domandare un cambiamento solo nella logica dell’istituzione che 467 stanno sfidando»40. La storia del movimento per i diritti civili illustra molto bene il tipo di ragionamento evocato da Crenshaw. Chi protestava, mentre si richiamava ai diritti soggettivi «formali», metteva in luce una serie di contraddizioni fra le promesse del costituzionalismo americano e la subordinazione razziale. Fra queste, la più eclatante era certamente quella che riguardava la cittadinanza americana e la condizione di esclusione sostanziale nella quale vivevano i gruppi di colore. Il movimento per i diritti civili scelse di «compromettersi» con la logica dei diritti e di non rifiutare tout court l’ideale della cittadinanza americana, quanto di far leva sul valore legittimante dei diritti soggettivi per ri-valorizzare la lotta per l’emancipazione41. Per Crenshaw, i cls non comprendono che «i blacks non creano il loro mondo oppressivo momento per momento, ma sono piuttosto costretti a vivere in mondi creati e conservati in essere da altri; la fonte ideologica di questa coercizione, inoltre, non è la coscienza giuridica liberale, bensì il razzismo»42. La loro critica all’ideologia liberale dell’ordinamento americano manca completamente il vero bersaglio ideologico ed egemonico, ovvero il razzismo43, proprio a causa di un’approssimativa equiparazione fra liberalismo e razzismo. Si profila, quindi, un’autonomia rispetto al progetto cls, dovuta in particolare alla valutazione più complessa delle tradizioni giuridiche moderne44. Una volta chiarita la dimensione almeno in parte moderna della proposta crt45, si può mettere in evidenza l’aspetto «interno» della critica che i teorici critici della razza muovono alle istituzioni liberali. L’idea di rispetto della situazione circostanziale all’interno della quale prende le mosse la critica – i. e. il rispetto del «potenziale di circostanza»46 – assume le forme di quel «sovversivismo dell’immanenza» proposto da un critico sociale come Michael Walzer47. Di una contrapposizione simile, ovvero fra persone disposte a non misurarsi con il dato contestuale e altri fautori di una diversa lettura degli strumenti giuridici a disposizione, si trova già una traccia completa durante le vicende precedenti la Guerra Civile e riguardanti, esattamente, i fautori dell’abolizione della peculiar institution (i.e. la schiavitù)48. Robert Cover ha scritto, sul punto, pagine illuminanti49. Distinguendo fra la posizione radicale di Garrison – nessun deal con una Costituzione che ha garantito la legalità di un’istituzione così ignobile come la schiavitù – e la posizione «situata» di Fredrick Douglass – la Costituzione ha 468 risorse tali da poter essere interpretata come contraria alla peculiar institution50 – egli ha formalizzato una coppia concettuale (quella tra costituzionalismo utopico e costituzionalismo liberatorio)51, attorno al problema razziale, in grado di rappresentare un’ottima griglia di lettura del coté progressista e di valorizzare al meglio i materiali giuridici a disposizione. Bisogna tenere in considerazione il potenziale di trasformazione che giace nel contesto di appartenenza e, facendo leva su questo, generare un cambiamento delle pratiche sociali e giuridiche52. 4. Poiché la race-consciousness rappresenta il dato saliente dell’indagine crt (in quanto ciò la distingue dagli studi giuridici di cls e Liberals), era inevitabile che le tematizzazioni dell’oggetto studiato (la razza, appunto) occupassero le attenzioni degli studiosi. Quale è lo statuto della razza nell’economia della teoria crt? Quale rapporto si può rintracciare fra razza e diritto? Due nuclei tematici si impongono come i capisaldi dell’approccio critico della razza. Il primo di questi riguarda quello che è stato definito come una sorta di «mantra»53 negli studi critici sulla razza: la razza è, anzitutto, un «costrutto sociale»54. La centralità di questa dottrina nelle elaborazioni dei crits ne fanno il presupposto concettuale sul quale maturano tutte le altre riflessioni. Da qui si evince il ruolo, centrale per la costruzione della soggettività razzializzata, svolto dal diritto. Alla luce di tale funzione creatrice del diritto e del posto da esso occupato nei processi di formazione sociale, Haney Lopez afferma chiaramente che la «categoria «razza» è, almeno parzialmente, prodotta per via giuridica»55. Il diritto non si limita, quindi, a recepire, come un mero contenitore, una realtà già data, ma è direttamente coinvolto nella produzione di quei sistemi di significato ai quali di solito ci si riferisce con il nome di razza. Per Haney Lopez, esaminare «il ruolo del diritto nella costruzione della razza significa (...) esaminare i modi possibili in cui il diritto crea differenze nell’aspetto fisico, significa studiare la misura in cui il diritto ascrive significati razzializzati a caratteristiche fisiche e all’ascendenza genealogica, significa anatomizzare le modalità con le quali il diritto transla determinate idee sulla razza nelle condizioni materiali di una società, condizioni materiali che a loro volta confermeranno e implementeranno quelle idee»56. Un esempio interessante della logica di produzione del diritto è costituito dal caso Mashpee 469 v. New Seabury Corp57. La tribù dei Mashpee in Massachussets non poté rivendicare in giudizio le terre ad essa sottratte, poiché non riuscì ad ottenere il riconoscimento giuridico da parte dell’autorità federale della propria identità di gruppo, in quanto i suoi caratteri costitutivi non si conformavano agli stereotipi e ai pregiudizi razziali con i quali venivano classificate le tribù. Il secondo dato riguarda la natura del costrutto «razza»: esso non può che essere, per definizione, plurale e tassonomico (dove la tassonomia implica una inevitabile gerarchia di valori58). Attorno a questo secondo punto emergono altri due tratti distintivi – fra loro intimamente collegati – della riflessione critica: l’antiessenzialismo e l’intersezione fra diverse identità quale luogo di concentrazione per la ri-costruzione del soggetto. «Essenzializzare una razza» significa ritenere che una particolare identità razziale abbia una certa essenza. Le Corti, ad esempio, hanno spesso considerato il problema della razza in maniera per l’appunto statica, ossia alla stregua di un dato impermeabile ad ogni altra caratteristica costitutiva della soggettività. La crt, invece, si è sempre impegnata nella formalizzazione della nozione di «intersezionalità» (intersectionality), concetto dal quale derivano due idee: 1) le identità sono il prodotto di intersezioni fra diversi elementi – vale a dire razza, genere, orientamento sessuale – e 2) la vulnerabilità alla discriminazione è una funzione della specifica intersezione fra diversi elementi che partecipano alla formazione di un’identità59. Poiché uomini e donne di colore hanno differenti identità di intersezione, la natura delle loro esperienze della discriminazione sarà probabilmente differente60. Di conseguenza, quando una Corte giudica il carattere discriminatorio di una determinata pratica non dovrebbe ipostatizzare l’elemento razza, ma valutarlo nel quadro delle sue intersezioni con altri fattori. Il passaggio rappresenta, tuttavia, uno snodo delicato, come Catharine Mackinnon ha messo in luce nell’ambito di una risposta ad una critica della sua teoria femminista da parte di Angela Harris61. Portare alle logiche conclusioni l’approccio anti-essenzialista conduce al rigetto del concetto di razza, anche quando questo venga inteso come costrutto puramente sociale62. L’adozione di un simile fondamentalismo anti-essenzialista sarebbe contrario a quanto i crt sostengono con convinzione, ossia che «la razza conti». Lo stesso costituzionalismo non cieco di fronte al colore presuppone l’adozione di una qualche nozione di razza. D’altronde, 470 l’idea dell’intersezionalità fra diversi elementi proposta dalla crt non vuole negare la capacità di rappresentare l’esperienza delle donne attraverso la lente del gender, o della razza, quanto, in realtà, si propone di mostrare gli effetti di marginalizzazione su alcuni soggetti di fronte all’articolazione rigida e non modificabile di categorie come «donna» o «razza»63. Riconoscere l’artificialità del costrutto razziale non implica il disconoscimento della sua rilevanza una volta che questo venga inserito nel contesto di un ragionamento normativo. 5. L’esclusione del tema della razza dal discorso giuridico deve probabilmente essere imputato ad una specifica metodologia in virtù della quale il diritto viene semplicemente studiato come fenomeno posteriore e esterno (o, comunque, di mera ricezione) alla realtà sociale. In un milieu di tale genere, questioni come la razza (ma anche la cultura o il genere) non trovavano, naturalmente, alcuno spazio all’interno del percorso formativo delle facoltà giuridiche americane64. Uno dei risultati maggiori conseguiti dalla crt è consistito, appunto, nel riportare all’interno dell’analisi giuridica americana un fattore preminente e pregnante per la storia costituzionale statunitense65. A dispetto dello scarso interesse europeo per il tema, la riflessione della crt fornisce un quadro complessivo (naturalmente provvisorio) degli strumenti che il giurista e il critico sociale si vedono mettere a disposizione da due decenni di elaborazioni e analisi. D’altronde, non si può che partire da questi lavori per iniziare ad indagare quelli che diverranno temi sempre più discussi e centrali per l’agenda politico-giuridica dei prossimi anni. In tal senso, uno dei meriti principali della teoria critica della razza è rappresentato dalla sua capacità di moltiplicare (secondo un processo mitotico) gli approcci e le prospettive di coloro che sono soggetti alla discriminazione razziale. Lungo questa direzione, emergono tre implicazioni teoretiche che costituiscono altrettante linee di futuro sviluppo e di grande interesse per il costituzionalismo contemporaneo. In primis, la crescente attenzione verso la stratificazione multirazziale66 e multiculturale67 nell’ambito di una medesima società dovrebbe condurre al superamento di ciò che è stato definito come il paradigma Black/White. In effetti, le discussioni sul razzismo giuridico e politico si sono spesso consolidate attorno alla dicotomia 471 bianco/nero, ignorando o marginalizzando le esperienze di persone non black68. L’impostazione binaria del problema razziale ha oscurato, a volte, la relazione fra la subordinazione di vari gruppi di minoranza. Per la nuova generazione della crt non è più possibile analizzare correttamente la situazione di un particolare gruppo senza comprendere il carattere «interrelato» dell’oppressione delle minoranze razziali. Caso emblematico di un simile atteggiamento è costituito dalla dissenting opinion del giudice Harlan in Plessy, in cui si afferma, dopo aver espresso forti perplessità sulla segregazione dei neri, la legittimità della discriminazione delle persone di discendenza cinese in quanto appartenenti «ad una razza così differente dalla nostra che non permettiamo a coloro che ne fanno parte di diventare cittadini degli Stati Uniti»69. Un secondo e fecondo sviluppo concerne l’analisi delle nuove forme di strategia di controllo governamentale basate sul dato razziale e religioso (racial e religious [ethnic] profiling) di cui si possono già intravedere le possibili applicazioni anche al di fuori del mondo giuridico americano70. Per racial profiling si intende quella pratica che viene solitamente impiegata dalla polizia nelle indagini e nei controlli di persone sospette: si tratta di un’attività orientata, per l’appunto, dalla razza (o, più recentemente, dalla religione o dall’etnia)71. Storicamente, la nozione di racial profiling era (e lo è ancora oggi) legata ad una strategia di lotta al crimine con la quale si considerano sospetti i membri di alcuni gruppi di minoranza in base all’assunto per cui, così facendo, si aumenteranno le probabilità di trovare ed arrestare criminali72. In sostanza, le indagini (in particolare i controlli sugli autoveicoli) possono essere svolte senza la presenza di alcun indizio o sospetto, ossia in base al solo profiling della razza. Oltre alle attività di polizia, anche le leggi a disciplina dell’immigrazione73 oramai sembrano destinate ad essere promulgate tenendo in specifica considerazione una policy razziale e, probabilmente, certe politiche sanitarie e assicurative sono (o saranno) a loro volta fondate sul profilo razziale74. Particolarmente insidioso si è rivelato l’utilizzo del racial profiling nei casi di emergenza. L’internamento dei cittadini americani di origine nipponica (oltre che dei giapponesi non cittadini) durante la Seconda guerra mondiale – decisione confermata dalla sentenza Korematsu75 – ha tragicamente mostrato il potenziale discriminatorio insito in questo istituto. Poiché il racial profiling è per sua natura ultra-inclusivo (ossia coinvolge inevitabilmente 472 un numero di persone di molto superiore a quello strettamente necessario), durante i periodi di contrazione delle libertà civili gli individui appartenenti a determinate categorie sono soggetti a misure draconiane e trattamenti drammaticamente discriminatori. La necessità di garantire la sicurezza rende la razza l’elemento dirimente nella segnalazione – e quindi adozione dei relativi provvedimenti – di soggetti potenzialmente pericolosi sulla sola base della loro appartenenza razziale76. La lotta al terrorismo ha riprodotto, con forme leggermente diverse, il medesimo schema discriminante. In questo caso, al centro delle attività di profiling si sono ritrovati i soggetti di origine araba. Il ricorso al principio secondo cui ciò che vale in tempi normali non è detto che valga in tempi di emergenza ha giustificato l’uso dell’istituto senza dover fornire particolari ragioni, se non quella di rassicurare la popolazione (ossia, in termini utilitaristici, la maggioranza di coloro che non sono sottoposti a tali controlli)77. Di fronte a queste problematiche la crt, per la quale, appunto, la razza «conta», si potrebbe trovare in difficoltà, in particolare davanti ad un istituto che seleziona su base razziale. In fondo, anche le politiche dell’affirmative action sono basate su una selezione basata anche sul dato razziale. I rappresentanti della crt sostengono, tuttavia, l’affirmative action in base all’idea che questa possa servire come «strumento di rimozione del privilegio bianco»78. Di conseguenza, mentre l’istituto dell’affirmative action apre uno spazio per una possibile azione liberatoria e riequilibratrice, il racial profiling e la selezione dell’immigrazione costituiscono pratiche che consolidano il trattamento preferenziale e i privilegi riservati ai bianchi, configurandosi, pertanto, come strumenti di oppressione79. Infine, una terza direzione d’indagine riguarda l’analisi microsociale nella costruzione della nozione di razza. Premessa indispensabile per intraprendere una tale ricerca è stato il riconoscimento dell’aspetto «intersezionale» degli studi sul soggetto razzializzato. Si tratta, in questo caso, di un livello di lettura trascurato dalla «prima» crt80. Mancano, in effetti, studi su come la razza operi, in quanto costrutto, sul posto di lavoro81 o analisi su come le pratiche (produttive anch’esse della razza) riflesse nelle attività quotidiane delle persone di colore nel loro tentativo di dare forma al modo in cui le altre persone (specialmente bianche) interpretano le loro identità non bianche82. Attraverso l’idea di 473 «identità performativa» (Performative Identity)83, per cui l’identità razziale di colore dipende anche dal modo in cui una persona vive e si relaziona a livello micro-sociale con la propria blackness, si può già intravedere una possibile via per futuri sviluppi della crt al di fuori dell’orizzonte, per così dire, «macro». La capacità di aprirsi in maniera interdisciplinare a differenti aree tematiche e la disseminata provenienza degli studiosi che oramai numerosi prendono parte al progetto sulla razza, pur essendo sintomo di una ricchezza di posizioni teoriche diverse, costituiscono, allo stesso tempo, un problema metodologico non indifferente per il futuro dei crt. Kimberlé Crenshaw ha definito tale situazione «approccio big-tent», in virtù della sua ospitalità verso diversi ambiti disciplinari fra loro completamente estranei per tradizione e vocazione. In parte, la ragione di tale apertura della crt (e dello spazio da questa riservata a diversi ambiti disciplinari) va ricercata, più che nella costellazione di idee proprie del movimento, nella comunità (e nella relativa piattaforma di condivisione epistemica) a partire dalla quale impegnarsi nella lotta razziale. La questione dell’appartenenza ha avuto un ruolo essenziale nella formalizzazione del programma crt, dal quale, almeno inizialmente, furono esclusi gli studiosi non di colore84. Risolto il problema dell’identità, si apre, per la crt, quello di chiarire quale potenziale trasformativo si possa generare utilizzando gli strumenti teorici da essa predisposti. D’altronde, si tratta di una questione che difficilmente il giurista (anche europeo) potrà permettersi di ignorare completamente nell’immediato futuro. Note 1 La letteratura europea ha dedicato scarsa attenzione, dopo la seconda guerra mondiale, al rapporto fra diritto e razza. Sono diverse le ragioni soggiacenti a questa omissione, legata in particolare alle «leggi razziali». Su queste non è possibile soffermarsi in questa sede. Un caso a parte rimane, invece, quello sudafricano, dove il tema della razza è stato al centro della riflessione nel momento di redazione della Costituzione; cfr., a titolo indicativo, M. Cheadle, South-African Constitutional Law: The Bill of Rights, Durban, Butterworths, 2002; F. Michelman, Reasonable Umbrage: Race and Constitutional Antidiscrimination Law in the United States and South Africa, in «Harvard Law Review», 117, 2004, pp. 1378-1419. 2 Kendall Thomas, Gianfrancesco Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Reggio Emilia, Diabasis, 2005. La silloge raccoglie e traduce per la prima volta alcuni fra gli interventi più importanti legati alla riflessione della Critical Race Theory. Cfr., inoltre, K. Crenshaw, N. Gotanda, G. Peller, K. Thomas (eds.), Critical Race Theory: The Key Writings that Formed the Movement, 474 New York, New Press, 1995; R. Delgado, J. Stefancic (eds.), Critical Race Theory: The Cutting Edge, Philadelphia, Temple University Press, 2000. 3 Il contesto di riferimento rimane quello statunitense. Ciò non toglie, tuttavia, che pur trattandosi di «una storia completamente americana», essa rivesta anche un valore e un interesse universali. 4 Riferirsi in generale alla tradizione liberale come blocco unico rappresenta certamente una semplificazione. L’obbiettivo critico della Critical Race Theory è costituito dal liberalismo «neutrale» fondato sull’individualismo metodologico. 5 347 U.S. 483 (1954). 6 Fino all’inizio del Novecento, le sentenze importanti della Corte erano ancora un numero relativamente esiguo. Per fare un esempio, praticamente nessun caso era stato deciso in base al primo emendamento, oggi fonte, insieme al quattordicesimo emendamento, della maggior parte delle decisioni. Cfr. J. Rubenfeld, Revolution by Judiciary. The Structure of American Constitutional Law, Cambridge Mass., Harvard University Press, 2005, pp. 3-4. 7 B. Ackerman, We the People. 1: Foundations, Harvard University Press, Cambridge Mass., 1991, pp. 142-150 (Brown viene interpretata come una sentenza che prende atto della rivoluzione costituzionale del New Deal). 8 Plessy v. Ferguson, 163 U.S. 537 (1896). 9 Su tale principio, e più in generale su Plessy, si rimanda all’ottimo M. Klarman, From Jim Crow to Civil Rights: The Supreme Court and the Struggle for Racial Equality, New York, Oxford University Press, 2004, pp. 8-60. 10 R. Cover, Nomos and Narrative, in «Harvard Law Review», 97, 1983, pp. 1-68; ora in M. Minow, M. Ryan, A. Sarat (ed.), Narrative, Violence, and the Law. The Essays of Robert Cover, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1996, pp. 99-174; cfr., inoltre, Id., The Origins of Judicial Activism, ivi, pp. 48-49. 11 F. Michelman, Law’s Republic, in «Yale Law Journal», 97, 1988, p. 1524 (di prossima pubblicazione nella raccolta La repubblica dei diritti, a cura di Luca Baccelli, Reggio Emilia, Diabasis). Una critica alla debolezza della posizione repubblicana rispetto alla questione razziale viene sviluppata in D. Bell, P. Bansal, The Republican Revival and Racial Politics, in «Yale Law Journal», 97, 1988, pp. 1609-1621 (gli autori si dicono scettici sulle capacità d’inclusione di una teoria repubblicana). 12 H. Wechsler, Toward Neutral Principles in Constitutional Law, in «Harvard Law Review», 73, 1958, pp. 1-60. 13 Ibidem, p. 34. La presa di posizione di Wechsler generò naturalmente una serie di reazioni, fra le quali è opportuno ricordare, per l’autorevolezza, C. Black, The Lawfulness of the Segregation Decisions, in «Yale Law Journal», 69, 1960, pp. 421-430. 14 Analizzando una nota fotografia nella quale veniva ripresa una ragazza di colore circondata da una serie di uomini bianchi pronti ad importunarla, Arendt considerava in maniera profondamente negativa il processo di integrazione forzata voluto dall’amministrazione americana nelle scuole pubbliche. Inoltre, l’autrice di On Revolution riteneva scorretto il comportamento dei genitori coinvolti nella vicenda, poiché ritenuti responsabili di aver utilizzato, per mancanza di coraggio, i propri figli come strumenti di lotta politica. Sul punto è interessante la controversia con Ralph Ellison, sulla quale si può vedere D. Allen, Law’s Necessary Forcefulness: Ralph Ellison vs. Hannah Arendt on the Battle of Little Rock, in «Oklahoma City University Law Review», 26, 2001, pp. 857-895; D. Steeele, Arendt versus Ellison on Little Rock: The Role of Language in Political Judgement, in «Constellations», 9, 2002, pp. 184-206. 15 H. Arendt, Reflections on Little Rock, in «Dissent», 54, 1959; trad. it. Riflessioni su Little Rock, in Id., Responsabilità e giudizio, Torino, Einaudi, 2004, pp. 168-183. Per una critica alla posizione tenuta dalla Arendt in questo scritto, si rimanda a M. Faillinger, Equality Versus the Right to Choose Associates: A Critique of Hannah Arendt’s View of the Supreme Court’s Dilemma, in «University of Pittsburgh Law Review», 49, 1987, pp. 143-162. 16 Non è possibile rendere conto, qui, dell’esponenziale letteratura concernente Brown. Si rinvia, a titolo esemplificativo, ad alcune delle più approfondite analisi della sentenza: R. Kluger, Simple Justice. The History of Brown v. Board of Education and 475 Black America’s Struggle for Equality, New York, Vintage, 1976; J. Patterson, Brown v. Board of Education: A Civil Rights Milestone and Its Troubled Legacy, Oxford, Oxford University Press, 2001; J. Balkin (ed.), What Brown v. Board of Education Should Have Said and the Unfulfilled Hopes for Racial Reform, Cambridge Mass., Harvard University Press, 2004 (il curatore osserva, a pagina 7, che Brown «è certamente la singola decisione più rispettata dell’intero corpus di decisioni della Corte»). 17 R. Delgado, J. Stefancic, Critical Race Theory. An Introduction, New York, New York University Press, 2001, p. 5. 18 D. Bell, Serving Two Masters: Integration Ideals and Client Interest in School Desegregation Litigation, in «Yale Law Journal», 85, 1976, pp. 470-490; in questo saggio, Bell si appoggia al John Stuart Mill di On Liberty per sostenere l’idea che le minoranze devono essere protette per il bene di una democrazia. 19 Id., La convergenza degli interessi e i diritti civili in America, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., pp. 13-24. 20 Ibidem, p. 18. 21 Come tutti i grandi mutamenti, anche Brown era stata preceduta da una serie di «segnali». Fra questi, una decisione del 1938 (Gaines v. Canada, 305 U.S. 337 [1938]), aveva stabilito che, ancora in presenza del principio separate but equal, i blacks avrebbero potuto usufruire delle stesse strutture scolastiche dei «bianchi» in assenza di alternative. Cfr. R. Kluger, Simple Justice, cit., p. 213. 22 Inizialmente isolata, la posizione critica di Bell trovò una conferma in M. Dudziak, Desegregation as a Cold War Imperative, in «Stanford Law Review», 41, 1988, pp. 61-120. 23 La questione è delicata e merita un supplemento di analisi. Gary Peller, sul punto, ha ben specificato le difficoltà, per la dottrina giuridica, di rigettare il neutralismo: «Il significato della razza è stato innestato in altre immagini centrali per una cultura del progresso in modo tale che la transizione dalla coscienza della razza alla neutralità razziale riflette il movimento dal mito all’illuminismo, dall’ignoranza alla conoscenza (...) e, ancora più importante, l’autocomprensione storica delle società liberali come rappresentazione del passaggio dallo status alla libertà individuale. L’integrazionismo, in breve, è legato ad un più ampio set di immagini liberali che connettono fra loro verità, universalismo e progresso», in G. Peller, Race Consciousness, in «Duke Law Review», 1990, p. 774. 24 Bell anticipa un tema, quello dell’analisi a partire dalla condizione delle vittime del razzismo, successivamente sviluppato e perfezionato da A. Freeman, Legitimizing Racial Discrimination Through Antidiscrimination Law: A Critical Review of Supreme Court Doctrine, in «Minnesota Law Review», 62, 1978, pp. 1049-1119. 25 N. Gotanda, «La nostra Costituzione è cieca rispetto al colore»: una critica, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., pp. 27-70. 26 Ibidem, p. 28. 27 Ibidem, p. 43. 28 Ibidem, p. 47. 29 «Ogni persona della quale sia conosciuta una traccia di origine africana è per ciò stesso black, a prescindere dal suo aspetto», ibidem, p. 29. Gotanda riprende la nozione di «ipodiscendenza» da M. Harris, Patterns of Race in the Americas, New York, Norton, 1964. 30 N. Gotanda, «La nostra Costituzione è cieca rispetto al colore»: una critica, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., p. 65. 31 A. Harris, The Jurisprudence of Reconstruction, in «California Law Review», 82, 1994, p. 743. 32 Gf. Zanetti, La retorica della razza, in «Filosofia Politica», 3, 2002, p. 444. La distinzione fra racism e racialism viene enucleata chiaramente in K.A. Appiah, Racism, in D.T. Goldberg (ed.), Anatomy of Racism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1990, pp. 4-5. 33 K. Thomas, Legge, razza e diritti: Critical Race Theory e politica del diritto negli Stati Uniti, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., pp. 195-196. 476 34 Per un’accurata ricostruzione storica di questa scuola giuridica americana nel corso della seconda metà del Novecento si rimanda a L. Kalman, The Strange Career of Legal Liberalism, New Haven, Yale University Press, 1996. 35 Le teorie liberali non sono necessariamente neutrali, come dimostra, ad esempio, il perfezionismo liberale rappresentato da J. Raz, The Morality of Freedom, Oxford, Clarendon, 1986. Una teoria liberale non neutrale e attenta al dato razziale viene proposta da A. Gutman, K.A. Appiah, Color Conscious: The Political Morality of Race, Princeton, Princeton University Press, 1996. Da ultimo, si veda K.A. Appiah, The Ethics of Identity, Princeton, Princeton University Press, 2005. 36 Per un’introduzione al movimento dei cls si rimanda a A. Carrino, Robert Unger e i Critical Legal Studies: scetticismo e diritto, in Gf. Zanetti, Filosofi del diritto contemporanei, Milano, Raffaello Cortina, 1999, pp. 155-182; vedi, inoltre, M. Kelman (ed.), A Guide to Critical Legal Studies, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1987. 37 Il riferimento va al saggio La bianchezza come proprietà, in K. Thomas, G.F. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., pp. 85-110. Il lavoro di Harris – che in questa sede non può essere analiticamente discusso – è estremamente interessante. Esso mostra in quale modo il diritto partecipi direttamente alla produzione della categoria razziale attraverso l’istituto della proprietà. L’intreccio fra razza, proprietà e schiavitù ha consolidato il privilegio della bianchezza garantendogli una tutela giuridica. Si è così «sostanzializzata» la subordinazione dei blacks. 38 Il saggio di riferimento per la critica cls ai diritti è M. Tushnet, An Essay on Rights, in «Texas Law Review», 62, 1984, pp. 1363-1403. Un quadro delle critiche cls al discorso sui diritti viene tracciato da A. di Robilant, F. Nicola, Il liberalismo alle prese con identità e redistribuzione: le critiche al Rights Discourse da parte della sinistra americana, in «Rivista critica del diritto privato», XXII, 2004, pp. 673-690. 39 Per alcune interessanti considerazioni su come la crt si collochi fra modernità e post-modernità si rimanda a A. Harris, The Jurisprudence of Reconstruction, cit., pp. 741. 40 K. Crenshaw, Legittimazione e mutamento nelle norme contro la discriminazione, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., p. 123. Una posizione simile viene espressa da Cornel West: «Nessuna visione o programma sociale intellettualmente accettabile, moralmente preferibile, realizzabile in pratica, può essere tale senza prendere il liberalismo come punto di partenza per criticarlo, rivisitarlo e riformarlo in maniera creativa»: C. West, cls and a Liberal Critic, in «Yale Law Journal», 97, 1988, p. 796. 41 Kendall Thomas precisa che la crt «riconosce che le forme del diritto e il linguaggio dei diritti soggettivi sono stati a lungo, e tuttora rimangono, il medium primario per l’azione politica». K. Thomas, Legge, razza e diritti. Critical Race Theory e politica del diritto negli Stati Uniti, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., p. 182. 42 K. Crenshaw, Legittimazione e mutamento nelle norme contro la discriminazione, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., p. 121. 43 Tale mancanza sarebbe dovuta, fra gli altri fattori, ad una lettura parziale dell’opera di Antonio Gramsci. 44 Gary Minda ha collocato i crt all’interno della ampia e ambigua costellazione dei movimenti post-moderni. Cfr. G. Minda, Post-modern Legal Movements, New York, New York University Press, 1995; trad. it. Il diritto postmoderno, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 277-307. 45 Di recente, Kimberlé Krenshaw ha precisato le ragioni soggiacenti alla scelta dell’acronimo: «fu fatta una scelta volta a significare la collocazione intellettuale specifica attraverso l’aggettivo «Critical», la concentrazione su un oggetto d’analisi «Race» e il desiderio di sviluppare un resoconto coerente della razza e della legge per mezzo del termine «Theory», in K. Crenshaw, The First Decade: Critical Reflections, or «A Foot in the Closing Door», in F. Valdes, J. McCristal, A. Harris (eds.), Crossroads, Directions, and a New Critical Race Theory, Philadelphia, Temple University Press, 2002, p. 19. 477 46 Il potenziale di circostanza rappresenta uno snodo fondamentale del ragionamento normativo; cfr. Gf. Zanetti, Introduzione al pensiero normativo, Reggio Emilia, Diabasis, 2004, pp. 43-46. 47 M. Walzer, Thick and Thin. Moral Argument at Home and Abroad, 1994; trad. it. Geografia della morale, Bari, Dedalo, 1999, p. 56. Per un’analisi approfondita di tale nozione si veda Th. Casadei, «Il sovversivismo dell’immanenza». Morale, diritto, politica nel pensiero di Michael Walzer, Firenze, Polistampa, 2006, cap. II. 48 Sulle caratteristiche particolari della schiavitù americana, rispetto a quella di altri paesi, si rimanda a S.M. Elkins, Slavery, Chicago, University of Chicago Press, 1976; K.M. Stamp, The Peculiar Institution, New York, Vintage, 1976; P. Kolchin, Unfree Labor: American Slavery and Russian Serfdom, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1987. 49 R. Cover, Justice Accused. Antislavery and the Judicial Process, New Haven, Yale University Press, 1975, pp. 150-154. Cover ha prestato molta attenzione alla ricostruzione del dibattito sulla costituzionalità della Fugitive Slave Law. Cfr., sempre su Cover e la questione della schiavitù, R. Dworkin, The Law of the Slave-Catchers, in «Times Literary Supplement», 5 dec. 1975, pp. 1437-1439; J. Resnik, Living Their Legal Commitments: Paideic Communities, Courts, and Robert Cover, in «Yale Journal of Law and the Humanities», 17, 2005, pp. 17-53. 50 Sul pensiero costituzionale di Douglass – certamente una delle figure di riferimento per la crt – si rimanda a D. Schrader, Natural Law in the Constitutional Thought of Frederick Douglass, in B. Lawson, F. Kirkland (eds.), Frederick Douglass: A Critical Reader, Oxford, Blackwell, 1999, pp. 85-99. Sull’allontanamento di Douglass da Garrison si può vedere D. Blight, Frederick Douglass’ Civil War: Keeping Faith in Jubilee, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1989, pp. 32-34. 51 Un volume essenziale sulla storia del pensiero costituzionale anti-schiavista rimane W. Wiecek, The Sources of Antislavery Constitutionalism in America, 1760-1848, Ithaca, Cornell University Press, 1977. 52 Il rispetto per le istituzioni che costituiscono l’orizzonte all’interno del quale si argomenta una posizione è contiguo alla critica alla quale le stesse istituzioni vengono sottoposte. Come sottolinea Zanetti, «l’argomento che critica è lo stesso argomento che giustifica. Chi argomenta, a un certo livello, rispetta: è intervenuta una Annerkennung», in Gf. Zanetti, Introduzione al pensiero normativo, cit., p. 42. 53 Così lo definisce R. Chang, Critiquing «Race» and Its Uses: Critical Race Theory’s Uncompleted Argument, in F. Valdes, J. McCristal, A. Harris (eds.), Crossroads, Directions, and a New Critical Race Theory, cit., p. 87. 54 La maggior parte della letteratura recente nega, oramai, il carattere naturale o biologico della nozione di razza; si è affermata, invece, l’idea che la razza sia una costruzione. Fra i lavori non ascrivibili alla crt, si rimanda, sul punto, a P.A. Taguieff, Le racisme, Paris, Flammarion, 1997; trad. it. Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Milano, Raffaello Cortina, 1999; E. Balibar, I. Wallerstein, Race, Nation, Classe, Paris, La Découverte, 1988; trad. it. Razza, nazione, classe, Roma, Edizioni Associate, 1990; M.F. Montagu, Man’s Most Dangerous Myth. The Fallacy of Race, New York, Harper & Brothers, 1952; trad. it. La razza. Analisi di un mito, Torino, Einaudi, 1996; A. Burgio, L’invenzione delle razze, Roma, ManifestoLibri, 1998. Per una ricostruzione della situazione attuale dalla prospettiva delle scienze naturali si rinvia a E. Nathaniel Gates (ed.), The Concept of «Race» in Natural and Social Science, New York, Garland, 1997. 55 I. Haney Lopez, Bianco per legge, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., p. 71. 56 Ibidem, p. 76. 57 592 F 2d 575 (1979). Cfr. Mashpee v. Secretary of the Interior, 820 F 2d 480 (1987). Sulle implicazioni di tale vicenda processuale si rimanda a M. Minow, Identities, in «Yale Journal of Law and Humanities», 3, 1991, pp. 97-120. 58 Cfr. Gf. Zanetti, La retorica della razza, cit., pp. 439-443. 59 K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory, and Antiracist Politics, in «University of Chicago Legal Forum», 1989, pp. 139-167. 478 60 Si vedano le interessanti considerazioni sulla situazione delle donne messicane avanzate da L. Baccelli, In a Plurality of Voices. Il genere dei diritti, fra universalismo e multiculturalismo, in «Ragion Pratica», 23, 2004, pp. 496-502. 61 A. Harris, Race and Essentialism in Feminist Legal Theory, in «Stanford Law Review», 42, 1990, pp. 581-616. 62 C. Mackinnon, Keeping It Real: On Anti-«Essentialism», in D. Carbado, M. Gulati (eds.), Crossroads, Directions, and a New Critical Race Theory, cit., p. 71. Per una critica a Mackinnon sull’articolazione di razza e genere si rinvia a M. Minow, Justice Engendered, in «Harvard Law Review», 101, 1986, p. 63. 63 Per una messa a punto dei problemi riguardanti l’intersezione fra teoria critica della razza e femminismo si rinvia a A.K. Wing (ed.), Critical Race Feminism, New York, New York University Press, 1997. 64 Una proposta di riforma molto interessante a sostegno dello studio culturale del diritto viene avanzata in P. Kahn, The Cultural Study of Law, Chicago, University of Chicago Press, 1999; trad. it. a cura di Th. Casadei, Lo studio culturale del diritto, Reggio Emilia, Diabasis, (in corso di pubblicazione). 65 Si tratta di una convinzione diffusa all’interno dell’accademia statunitense. Si veda, a titolo esemplificativo, il giudizio di uno degli storici del diritto più autorevoli, Lawrence Friedman, A Short History of American Law, New York, Modern Library, 2002, pp. 69-72. 66 Kendall Thomas ha ricordato che «uno degli aspetti rilevanti dell’evoluzione della crt è stato anzi proprio la capacità di autoproblematizzarsi, dando vita ad ambiti di ricerca quali gli Asian Crits, i Lat Crits fino ai Gay Crits»; K. Thomas, Legge, razza e diritti: Critical Race Theory e politca del diritto negli Stati Uniti, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., p. 25. Per un’introduzione ai Lat Crits si veda R. Delgado, J. Stefancic (ed.), The Latino/a Condition: A Critical Reader, New York, New York University Press, 1998; I. Haney Lopez, Racism on Trial. The Chicano Fight for Justice, Cambridge Mass., Harvard University Press, 2003. Sugli studi «asiatici» si veda R. Chang, Disoriented: Asian Americans, Law, and the Nation-State, New York, New York University Press, 1999; per quanto riguarda la condizione degli Indiani americani lo studio più importante è quello di R. Williams, American Indian in Western Legal Thought. The Discourses of Conquest, Oxford, Oxford University Press, 1990. Per una breve introduzione ai Queer Studies si può vedere, a titolo indicativo, A. Jagose, Queer Study. An Introduction, New York, New York University Press, 1997. 67 Per un’introduzione a questo tema si rimanda al solido studio di N. Gotanda, Multiculturalism and Racial Stratification, in A.F. Gordon, C. Newfield (ed.), Mapping Multiculturalism, Minneapolis, University of Minneapolis Press, 1996, pp. 238-252; sul tema specifico della mutilazioni genitali femminili e razzismo si può vedere, da ultimo, I. Gunning, Global Feminism at the Local Level: The Criminalization of Female Genital Surgeries, in D. Carbado, M. Gulati (ed.), Crossroads, Directions, and a New Critical Race Theory, cit., pp. 337-344. 68 J. F. Perea, The Black/White Binary Paradigm Race: The «Normal» Science of American Racial Thought, in «California Law Review», 85, 1997, pp. 1213-1258. La posizione di Perea è stata duramente criticata da P. Caldwell, The Content of Our Characterizations, in «Michigan Journal of Race & Law», 5, 1999, pp. 53-72. 69 Su tale pronuncia si rinvia alle note 8 e 9. 70 Per un’introduzione (critica) all’istituto del racial profiling si rinvia a D. Harris, Profiles in Injustice. Why Racial Profiling Cannot Work, New York, The New Press, 2002; cfr., inoltre D. Cole, No Equal Justice: Race and Class in the American Criminal Justice System, New York, New York University Press, 2005, pp. 16-62; un argomento a favore del racial profiling viene proposto da M. Risse, R. Zeckhauser, Racial Profiling, in «Philosophy and Public Affairs», 4, 2004, pp. 131-170. Oltre che di racial profiling si inizia a discutere anche di religious profiling, su cui si veda S. Legomsky, The Ethnic and Religious Profiling of Noncitizens: National Security and International Human Rights, in «Boston College Third World Law Journal», 25, 2005, pp. 161196. Per un primo inquadramento della situazione europea si possono consultare, per 479 quanto riguarda la Gran Bretagna, E. Cashmore, The Experiences of Ethnic Minorities Police Officers in Britain: Under-Recruitment and Racial Profiling in a Performance Culture, in «Ethnic and Racial Studies», 24, 2001, pp. 642-659; per l’Europa, invece, cfr. il numero monografico di «Justice Iniziative – Open Society» intitolato A Europe Without Ethnic Profiling (dove sono contenuti numerosi interventi su alcuni paesi e sulla policy dell’Unione europea in materia). 71 Nel 1999 il racial profiling è entrato nei dizionari. L’Oxford American Dictionary and Language Guide lo definisce come «la policy dichiarata della polizia di fermare e controllare veicoli guidati da persone appartenenti a determinati gruppi razziali». Il Webster’s College Dictionary fornisce una definizione leggermente diversa, ma sempre imperniata sulla relazione fra controlli nelle strade e profiling; alla voce racial profiling viene fatta corrispondere – in maniera incompleta – quella di «(d.w.b.) driving while black (usato ironicamente per riferirsi ai fermi di autisti neri da parte della polizia in base alla razza piuttosto che di ogni altra reale contravvenzione)» 72 D. Harris, Profiles in Injustice, cit., p. 11. Un’accurata analisi filosofica del profiling viene condotta in F. Schauer, Profiles, Probabilities, and Stereotypes, Cambridge Mass., Harvard University Press, 2003. 73 Le leggi sull’immigrazione sono state oggetto di pochi studi da parte della crt. Fra i più importanti contributi devono essere ricordati K. Johnson, The «Huddled Masses» Myth: Immigration and Civil Rights, Philadelphia, Temple University Press, 2004; S. Legomsky, Immigration and Refugee Law and Policy, Westbury, Foundation Press, 1997; B. Ong Hing, Making and Remaking Asian America Through Immigration Policy, Stanford, Stanford University Press, 1993. 74 G. Squires, Racial Profiling, Insurance Style: Redlining and the Uneven Development of Metropolitan Areas, in «Journal of Urban Affairs», 25, 2003, pp. 391-410. 75 Korematsu vs. United States 323 U.S. 214 (1944). A questa decisione seguì immediatamente Ex parte Endo 323 U.S. 283 (1944), con la quale si ordinava la chiusura dei campi d’internamento. Cfr. P. Gudridge, Remember Endo?, in «Harvard Law Review», 116, 2003, pp. 1933-1968. 76 In simili casi viene totalmente cancellato il legame con il comportamento individuale. Un individuo viene sottoposto a misure di repressione solo in virtù della sua razza e non della sua responsabilità. 77 Per una proposta di ricorrere al racial profiling solo in contesti d’emergenza si rinvia a S. Ellmann, Racial Profiling and Terrorism, in «New York Law School Journal of International & Comparative Law», 22, 2003, pp. 348-359. 78 Cheryl Harris, L’azione affermativa come strategia per delegittimare la bianchezza come interesse proprietario, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., p. 156. 79 Sulle politiche dell’affirmative action analizzate da una prospettiva «critica» si veda il saggio a firma di C.L. Harris, U. Narayan, L’azione affermativa e il mito del trattamento preferenziale, in K. Thomas, Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti, cit., pp. 159-178. Gli autori sostengono l’affirmative action in base a un argomento meritocratico fondato sulla nozione di razza come cultura: l’ammissione di minoranze all’interno dell’Università permette di ampliare le prospettive e i temi di una determinata area disciplinare. Per un’analisi filosofica dell’istituto si può vedere M. Rosenfeld, Affirmative Action and Justice. A Philosophical and Constitutional Inquiry, New Haven, Yale University Press. Una lettura comparata, in chiave crt, fra esperienza statunitense e realtà tedesca viene proposta da K. Thomas, The Political Economy of Recognition: Affermative Action Discorse and Constitutional Equality in Germany and the U.S.A., in «Columbia Journal of European Law», 5, 1999, pp. 329-364. 80 D. Carbado, (E)Racing the Fourth Amendment, in «Michigan Law Review», 100, 2002, pp. 946-1044 (l’autore dimostra come sia essenziale, nella formazione della nozione di razza, l’interazione fra la polizia e le persone di colore). Un tema collegato direttamente ai rapporti fra polizia e minoranze è quello del community policing. L’obbiettivo del community policing è quello di ricostruire le relazioni di fiducia fra popolazione (in particolare le minoranze che ne fanno parte) e corpo di polizia attraverso incontri e dibattiti pubblici fra le due parti. Si tratta di un istituto estremamente controverso 480 e spesso fonte di tensioni e conflitti fra minoranze e polizia; cfr. S. Wu, The Secret Ambition of Racial Profiling, in «Yale Law Journal», 115, 2005, pp. 491-492. 81 Il punto è stato messo in evidenza, innanzitutto, da D. Charny, G. Mitu Gulati, Efficiency Wages, Tournaments and Discrimination: A Theory of Employment Discrimination Law for «High-level» Jobs, in «Harvard Civil Rights and Civil Liberties Law Review», 33, 1998, pp. 68-72. Il problema della lingua (o quello dell’accento) quale fattore di determinazione della razza e di esclusione dall’educazione e dal lavoro si sta imponendo nel dibattito sul tema: si veda, ad esempio, J. Crawford, Hold Your Tongue: Bilingualism and the Politics of «English Only», New York, Addison-Wesley, 1992. 82 Per una prima e articolata esposizione di un progetto d’analisi attorno a questo nucleo problematico si veda D. Carbado, M. Gulati, Working Identity, in «Cornell Law Review», 85, 2000, pp. 1259-1308. 83 Ibidem. 84 Crenshaw, di recente, ha messo in luce la posta in gioco per il futuro della crt riguardo all’inclusione di studiosi non di colore, declinando il problema nella questione del safe-space: «Lo scopo organizzativo del safe-space serviva come giustificazione provvisoria per l’iniziale inclusione delle sole persone di colore. Si potrebbe inquadrare la questione come l’affermazione dei valori di uno spazio non razzializzato sul contenuto sostantivo: l’identità, invece dei criteri sostanziali, si guadagnò il titolo di fattore di definizione nel determinare le partecipazioni al workshop. Tuttavia, la questione potrebbe essere riformulata come una competizione attorno a prospettive sostanziali differenti: la crt era un prodotto delle persone di colore, oppure il risultato dell’attività di ogni intellettuale impegnato in una riflessione critica sulla razza? Poiché sottoscrivo l’ultima asserzione, considero l’esclusione tradizionale dei bianchi dal nostro workshop come uno sviluppo negativo»: K. Crenshaw, The First Decade: Critical Reflections, or «A Foot in the Closing Door», cit., p. 21. 481