Cronache della Galassia

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Cronache della Galassia
Isaac Asimov
CRONACHE
DELLA
GALASSIA
Romanzo
1951 by Isaac Asimov
Titolo originale: Foundation
Traduzione di Cesare Scaglia
PARTE PRIMA
GLI PSICOSTORICI
1
HARI SELDON... nato nell’anno 11.988
dell’Era Galattica, morto nel 12.069.
Nell’attuale calendario dell’Era della
Fondazione queste date corrispondono
agli anni meno 79 e primo.
Figlio di genitori della media borghesia di
Helicon, nella regione di Arcturus (dove
suo padre era coltivatore di tabacco nelle
piantagioni idroponiche del pianeta),
Seldon aveva rivelato, fin dalla prima
giovinezza, una spiccata attitudine alle
scienze matematiche. Gli aneddoti
riguardanti questa sua qualità sono
innumerevoli. Si dice che all’età di due
anni...
La Psicostoria fu senza dubbio la scienza
alla quale portò il maggior contributo.
Seldon ne approfondì lo studio ricavando
da una raccolta di pochi assiomi una
profonda scienza statistica...
... Il documento più importante che
possediamo sulle vicende della sua vita è
una biografia scritta da Gaal Dornick il
quale, in gioventù, aveva conosciuto il
grande matematico due anni prima che
questi morisse. La storia del loro
incontro...
ENCICLOPEDIA GALATTICA (1)
1 Tutte le note qui riportate sono tolte per gentile concessione dell’editore d a l l ’ Enciclopedia Galattica, CXVI
edizione, pubblicata nel 1020 E.F. dagli
Editori Enciclopedia Galattica, Terminus.
( N.d.A. )
Si chiamava Gaal Dornick ed era un
semplice ragazzo di campagna che non era
mai stato prima d’allora a Trantor.
Conosceva però il panorama di questa
città per averlo osservato sullo schermo
dell’ipervideo e sugli enormi trasmettitori
tridimensionali che diffondevano le
notizie dell’Incoronazione Imperiale e
dell’apertura del Consiglio Galattico.
Pur essendo vissuto sempre nel mondo di
Synnax, che ruotava intorno ad una stella
ai margini della Corrente Azzurra, il
ragazzo non era affatto tagliato fuori dalla
Civiltà. A quel tempo nessuno nella
Galassia lo era. I pianeti abitati della
Galassia erano venticinque milioni e tutti
facevano parte dell’Impero, la capitale
del quale era Trantor. Quella situazione
però sarebbe durata solo per altri
cinquant’anni.
Per Gaal, questo viaggio rappresentava la
più importante esperienza della sua vita di
studente. Altre volte aveva viaggiato nello
spazio e, di per se stessa, l’avventura
spaziale significava ben poco.
In verità prima d’allora non era mai
andato oltre l’unico satellite ruotante
intorno a Synnax per raccogliere dati sul
movimento delle meteore che gli
servivano a completare la sua tesi; ma i
viaggi spaziali si somigliavano tutti sia
che ci s’allontanasse di poche centinaia di
migliaia di chilometri, sia che il percorso
fosse di molti anni luce.
Lo emozionava un poco il Gran Salto
attraverso l’iperspazio, un fenomeno che
non si sperimentava nei normali
trasferimenti interplanetari. Il Gran Salto
era l’unico metodo pratico, e
probabilmente rimarrà sempre tale, per
superare le distanze fra stella e stella. La
normale velocità interplanetaria, secondo
una teoria scientifica che è fra le poche
leggi che ci siano state tramandate dagli
albori della storia umana, non poteva
esser maggiore di quella della luce.
Questo significava anni di viaggio anche
tra i più vicini sistemi solari abitati. Ma
attraverso l’iperspazio - l’inimmaginabile
zona che non è spazio né tempo, né
sostanza né energia, né qualcosa né nulla si poteva superare una distanza pari
all’estensione dell’intera Galassia nel
volger d’un istante.
Gaal aveva atteso la prima esperienza del
Gran Salto con un nodo allo stomaco: ma
era rimasto deluso. Tutto era finito con
una piccola scossa interna che cessò un
attimo prima che egli potesse rendersi
conto di averla avvertita. Nient’altro.
Dopo, ci fu solo l’astronave, enorme,
lucente, il perfetto risultato di dodicimila
anni di progresso imperiale; e dentro
c’era lui, con la sua laurea in matematica
da poco ottenuta e con l’invito, da parte
del grande Hari Seldon, di recarsi a
Trantor per collaborare al gigantesco, ed
in un certo senso misterioso, progetto
Seldon.
Ciò che Gaal stava aspettando, dopo la
delusione provata per il Gran Salto, era la
prima apparizione di Trantor. Andò nella
sala della cupola panoramica. Gli schermi
esterni di metallo venivano sollevati ad
intervalli di tempo stabiliti e lui stava
sempre lì ad osservare la luce abbagliante
delle stelle e l’opaca luminosità delle
costellazioni lontane che sembravano un
gigantesco sciame di lucciole fermate in
pieno volo e immobilizzate per sempre.
Ad un certo punto della traversata
apparve anche il fumo color biancoazzurro freddo di una nebulosa di gas,
distante cinque anni luce dall’astronave.
Si allargava come una macchia di latte,
inondando la cupola di un riflesso
glaciale. Scomparve due ore dopo, al
secondo Gran Salto dell’astronave.
La prima immagine del sole di Trantor fu
quella di una brillante scintilla bianca
perduta in una miriade di luci della stessa
intensità, e riconoscibile solo perché era
indicata nelle carte di rotta a disposizione
dei passeggeri. Le stelle erano più
ammassate al centro della Galassia. Ma
dopo ogni Gran Salto, il sole di Trantor
appariva più luminoso, mentre la luce
delle altre stelle si offuscava e quindi
scompariva.
Un ufficiale entrò nella stanza e comunicò:
– La cupola panoramica rimarrà chiusa
per il resto del viaggio. Preparatevi
all’atterraggio.
Gaal, che aveva seguito l’ufficiale, gli
toccò la manica dell’uniforme bianca
decorata dal simbolo imperiale. Sole ed
Astronave.
Chiese: – Potrei rimanere qui? Vorrei
vedere Trantor.
L’ufficiale gli sorrise e Gaal arrossì
leggermente. S’era accorto d’aver parlato
con un accento provinciale.
– Atterreremo su Trantor in mattinata –
rispose l’ufficiale.
– Volevo dire che mi sarebbe piaciuto
vederla dallo spazio.
– Mi dispiace, ragazzo mio. Se questa
fosse un’astronave da turismo, forse
sarebbe stato possibile. Ma ora stiamo
entrando in orbita dalla parte del sole.
Non vorrai rimanere accecato, bruciarti, e
contaminarti con le radiazioni? – Gaal
fece per allontanarsi e l’ufficiale lo
richiamò: – Ehi, ragazzo! Il pianeta ti
apparirebbe in ogni caso soltanto come
una massa grigia e offuscata. Perché non
compri il biglietto per un giro spaziale
intorno a Trantor quando atterriamo? Non
costa molto.
Gaal si voltò: – Grazie molte.
Era infantile prendersela per così poco,
ma non aveva mai visto Trantor
distendersi in tutta la sua incredibile
vastità, grande come la vita, e non si era
aspettato di dover attendere ancora.
2
L’astronave atterrò in un turbinio di
rumori diversi: il sibilo lontano
dell’atmosfera che si lacerava scivolando
ai lati dello scafo metallico, il ronzio del
condizionatore d’aria che manteneva la
temperatura interna costante malgrado il
calore sviluppato dall’attrito ed il rombo
cupo dei motori che frenavano la caduta
libera.
Poi ci fu il brusio di uomini e donne che si
accalcavano per lo sbarco ed il rumore
dei montacarichi che si spostavano lungo
tutta la nave, sollevando bagagli e posta
verso la piattaforma dalla quale sarebbero
stati poi scaricati.
Gaal avvertì il lieve sussulto che indicava
l’arresto totale. Da ore la gravità
artificiale della nave era stata annullata e
sostituita dalla forza di attrazione del
pianeta. Migliaia di passeggeri erano
rimasti pazientemente seduti nelle
piattaforme di sbarco che ondeggiavano
per orientarsi secondo la direzione della
forza gravitazionale. Ora si affrettavano
giù per le rampe ricurve per scendere a
terra.
Gaal si avvicinò a uno degli sportelli,
dove il suo bagaglio, ridottissimo, fu
rapidamente aperto, ispezionato e
richiuso. Il passaporto venne controllato e
bollato. Gaal non badò a quelle
operazioni formali.
Questa dunque era Trantor! L’aria
sembrava un po’ più densa e la gravità
leggermente maggiore che non su Synnax,
il suo pianeta natale, ma ci si sarebbe
abituato. Si chiese se si sarebbe mai
abituato anche a quella immensità.
L’edificio dell’astroporto era colossale. Il
soffitto quasi non si vedeva, e Gaal pensò
che là sotto si potevano formare le nubi.
Non si vedevano le mura perimetrali, ma
solo uomini e sportelli e piani sovrapposti
che scomparivano lontano, nella foschia.
L’uomo seduto dietro lo sportello parlò
nuovamente. La sua voce sembrava
seccata. Disse:
– Avanti, per favore Dornick. – Aveva
dovuto riaprire il documento e guardarlo
perché non ricordava il nome.
Gaal domandò: – Dove... Dove...?
L’uomo allo sportello indicò con il
pollice. Per i taxi, a destra e poi la terza a
sinistra.
Avviatosi da quella parte, Gaal vide una
scritta luminosa sospesa in alto, nel nulla,
e lesse: “Taxi per tutte le destinazioni”.
Una figura emerse dalla massa dei volti
anonimi e andò allo sportello che Gaal
aveva appena lasciato. L’impiegato levò
gli occhi e fece un gesto d’assenso. Anche
l’altro annuì e seguì il giovane emigrante.
Arrivò in tempo per udire dove si
dirigesse Gaal.
Gaal si trovò la strada sbarrata da una
ringhiera.
Un altro piccolo cartello
l’ufficio informazioni.
indicava
L’uomo cui la scritta si riferiva non
sollevò nemmeno gli occhi dal tavolo.
Disse: – Dove volete andare? – Ma Gaal
non fu pronto nella risposta e quei pochi
istanti di esitazione bastarono perché
dietro di lui si formasse una fila.
L’impiegato dell’ufficio informazioni alzò
gli occhi: – Dove volete andare?
Le risorse finanziarie di Gaal erano
piuttosto scarse, ma sarebbe stato solo per
una notte; poi avrebbe avuto un lavoro.
Cercò di sembrare naturale: – Un buon
albergo, per favore.
L’addetto
allo
sportello
rimase
indifferente: – Sono tutti ottimi. Quale
preferite?
Gaal si guardò in giro disperato. – Il più
vicino, per favore.
L’uomo schiacciò un pulsante. Una sottile
striscia luminosa si formò sul pavimento,
aggrovigliandosi ad altre di differenti
colori e gradazioni. Venne consegnato a
Gaal un tagliando. Anche questo era
luminescente.
L’impiegato disse: – Uno e dodici.
Gaal si frugò in tasca per trovare le
monete. – Da che parte devo andare?
– Seguite la luce. Il biglietto rimarrà
luminoso se manterrete la giusta
direzione.
Gaal osservò il tagliando e cominciò a
camminare. C’erano centinaia di persone
che a testa bassa attraversavano la sala,
ciascuna seguendo la propria pista,
ondeggiando e fermandosi ai punti di
intersezione.
La sua traccia cessò. Un uomo in
splendente uniforme gialla e blu di fibra
plasto-tessile antimacchia, si chinò a
raccogliere le sue valigie.
– Linea diretta per il Luxor – disse.
Lo sconosciuto che seguiva Gaal sentì
questa frase. Udì anche Gaal rispondere:
– Bene – e lo osservò mentre saliva sul
veicolo dal muso schiacciato.
Il taxi si levò in alto immediatamente.
Gaal guardò fuori dai finestrini curvi e
trasparenti, assaporando la sensazione di
volo entro quella piccola struttura chiusa
e rannicchiandosi istintivamente dietro le
spalle del guidatore. Il panorama sotto di
lui sembrò restringersi, le persone
avevano adesso l’aspetto di formiche
sparpagliate e frettolose. Rimpicciolirono
sempre di più e scivolarono via alle sue
spalle.
Di fronte a loro apparve un muro.
Cominciava in aria e si estendeva in alto a
perdita d’occhio. Era forato da gallerie
che lo attraversavano in tutta la sua
larghezza. Il taxi di Gaal diresse la prua
verso uno di questi tunnel e vi si tuffò.
Gaal non riuscì a capire come l’autista
avesse potuto riconoscere il passaggio
giusto in mezzo a tanti delle medesime
dimensioni.
Il buio era assoluto. Nessuna luce, tranne
quella intermittente di segnali luminosi,
rischiarava l’oscurità. L’aria era piena di
rumori confusi.
Gaal venne spinto in avanti da
un’improvvisa decelerazione del veicolo
che uscì dalla galleria e scese al suolo.
– Hotel Luxor – comunicò il tassista.
Aiutò Gaal a scaricare i bagagli, accettò
la mancia del dieci per cento con
espressione professionale, raccolse un
passeggero che aspettava e si levò
nuovamente in aria.
3
TRANTOR... Questa capitale raggiunse il
massimo
sviluppo
all’inizio
del
tredicesimo millennio. Centro del
Governo Imperiale per centinaia di
generazioni, situata nella regione centrale
della Galassia tra i pianeti più popolati e
progrediti del sistema, era naturalmente
destinata a diventare l’agglomerato
urbano più abitato e ricco che la razza
umana avesse mai visto.
La sua urbanizzazione, con un incremento
costante, aveva infine raggiunto il limite
massimo. L’intera superficie del pianeta,
75 milioni di miglia quadrate, era
diventata un’unica città. La popolazione
aveva raggiunto i quaranta miliardi di
abitanti.
Questa folla sterminata lavorava quasi
tutta
negli
uffici
amministrativi
dell’Impero e non era certo eccessiva per
il difficile compito da svolgere. (Si deve
ricordare
a
questo
punto
che
l’amministrazione inefficiente dell’Impero
Galattico fu un fattore determinante della
Caduta sotto la guida poco illuminata
degli ultimi Imperatori.) Ogni giorno,
flotte di decine di migliaia di astronavi
recavano i prodotti agricoli di venti
pianeti alle mense dei cittadini di
Trantor... Trantor, dato che dipendeva da
altri mondi per il rifornimento di cibo e
per tutte le altre necessità della vita
quotidiana, era estremamente vulnerabile
alla conquista per assedio.
Nell’ultimo millennio dell’Impero, le
continue rivolte resero gli Imperatori
perfettamente consci di questa debolezza,
e tutta la loro politica finì per consistere
soltanto nella protezione della delicata
vena giugulare di Trantor...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
Gaal non sapeva se fosse giorno o notte. E
si vergognava a chiederlo.
Tutto il pianeta sembrava vivere sotto il
metallo. Gli avevano detto che il pasto
appena consumato era il pranzo, ma in
molti pianeti si viveva secondo una
tabella oraria convenzionale che non
teneva affatto conto dell’alternarsi del
giorno e della notte. Il tempo di rotazione
dei pianeti era diverso uno dall’altro e lui
non conosceva quello di Trantor.
In un primo momento aveva seguito con
entusiasmo la freccia che indicava
l’ubicazione della “Stanza solare”, ma
aveva scoperto, che si trattava di un
ambiente dove venivano diffuse radiazioni
artificiali.
Indugiò nel locale per un paio di minuti,
poi ritornò nella hall dell’albergo.
Si rivolse al portiere. – Dove potrei
comperare un biglietto per un giro del
pianeta?
– Qui signore.
– Quando parte?
– Ne è appena partito uno. Ce n’è un altro
domani. Comprate ora il biglietto, così vi
prenoterò un buon posto.
Domani sarebbe stato troppo tardi.
Avrebbe dovuto trovarsi all’Università.
Chiese:
– C’è una torre d’osservazione... o
qualcosa del genere? Voglio dire: all’aria
aperta.
– Certamente! Vi posso vendere il
biglietto, se lo desiderate. Ma aspettate
che controllo se per caso stia piovendo. –
Chiuse un contatto sulla scrivania e lesse
le lettere che apparvero su uno schermo.
Gaal lesse con lui.
Il portiere disse: – Tempo ottimo. Adesso
che ci penso, dovremmo essere nella
stagione secca. – Poi aggiunse
confidenzialmente: – Non è che ci tenga
molto, io, all’esterno. Sono passati tre
anni dall’ultima volta che sono andato
all’aperto. Dopo che si è osservato il
panorama una volta, si sa già tutto e non
c’è altro da vedere.
Ma ecco il vostro biglietto. L’ascensore
speciale è nel retro. Porta il cartello “Alla
torre”. Salite pure.
L’ascensore era del nuovo tipo che
funzionava a repulsione di gravità.
Gaal entrò e altri lo seguirono.
L’operatore diede contatto. Per un
momento Gaal si sentì sospeso nell’aria,
mentre la gravità scendeva a zero, poi
sentì ritornare il peso a mano a mano che
l’ascensore accelerava verso l’alto. Seguì
la decelerazione e i suoi piedi si
sollevarono dal pavimento. Lanciò un
grido.
L’operatore si rivolse a lui: – Perché non
avete infilato i piedi sotto le sbarrette?
Non sapete leggere la scritta?
Tutti gli altri avevano seguito le
istruzioni. E sorrisero di lui che con gesti
convulsi cercava invano di ritornare al
suolo. Le loro scarpe erano premute
contro le sbarrette metalliche al suolo a
distanza di sessanta centimetri l’una
dall’altra.
Gaal le aveva notate entrando ma
distrattamente.
Poi una mano lo afferrò e lo tirò giù. Gaal
stava balbettando un ringraziamento
quando l’ascensore si fermò.
Uscirono sulla terrazza inondata dal sole.
Il riverbero gli fece male agli occhi.
L’uomo che l’aveva aiutato a scendere
dall’incomoda posizione era proprio
dietro di lui e gli rivolse gentilmente la
parola: – Ci sono molte panchine.
Gaal ansimava ancora. Quando riuscì a
dominare il respiro disse: – Sì, sì, vedo.
– Si avviò automaticamente verso i sedili,
poi si fermò.
– Se non vi dispiace – continuò – vorrei
andare alla ringhiera e guardarmi un po’
intorno.
L’uomo si congedò con un gesto
amichevole di saluto; Gaal si affacciò alla
ringhiera che gli arrivava alle spalle e si
abbandonò nella contemplazione del
panorama.
Non poteva vedere il suolo. Era
invisibile, nascosto dalle complesse
strutture create dall’uomo. All’orizzonte
non poteva osservare altro all’infuori del
metallo che si estendeva in un grigio
uniforme contro il cielo. Sapeva che era
così dappertutto sulla superficie del
pianeta. Non vedeva alcun segno di
movimento -
solo pochi aerei privati giravano
pigramente nel cielo - ma sapeva che al di
sotto della crosta metallica fremeva
ininterrotto il traffico intenso di miliardi
di uomini.
Non c’erano zone verdi; né piante, né
suolo, né altra forma di vita all’infuori di
quella umana. In qualche luogo, in quel
mondo, pensò Gaal, sorgeva il palazzo
imperiale, costruito in mezzo a centinaia
di chilometri quadrati di terreno, fra
alberi e prati cosparsi di fiori.
Era una piccola isola in mezzo ad un
oceano di metallo, ma non era visibile dal
suo posto di osservazione. Poteva anche
essere a diecimila chilometri di distanza.
Non lo sapeva.
Doveva proprio fare al più presto un giro
intorno al pianeta! Espresse i suoi
sentimenti ad alta voce. Si era reso conto
d’essere finalmente a Trantor: il pianeta
che era il centro di tutta la Galassia, il
perno vitale della razza umana. Non ne
vide le debolezze.
Non capiva quanto fragile fosse la vena
che collegava i quaranta miliardi di
abitanti di Trantor con il resto della
Galassia. Era conscio solamente del
maestoso obiettivo raggiunto dall’uomo:
l’assoluta conquista finale di un mondo.
Si allontanò con gli occhi quasi
abbagliati. L’amico dell’ascensore gli
stava indicando un sedile accanto al suo e
Gaal vi si accomodò.
L’uomo gli sorrise: – Mi chiamo Jerril. È
la prima volta che venite a Trantor?
– Sì, signore.
– L’ho immaginato. Ma chiamatemi Jerril.
Trantor è certamente affascinante per uno
che abbia sensibilità poetica. I trantoriani
non salgono mai quassù. A loro non piace.
Diventano nervosi.
– Nervosi! A proposito, io mi chiamo
Gaal. Perché dovrebbero sentirsi nervosi
uscendo all’aperto? È magnifico quassù.
– È un’opinione del tutto soggettiva, Gaal.
Se uno è nato in un cunicolo, è cresciuto
in un corridoio, lavora in una cella e va in
vacanza in una stanza affollata, al sole
artificiale, è comprensibile che gli venga
un esaurimento nervoso quando sale
all’aperto dove non c’è altro che il cielo
sopra di lui. Mandano i bambini qui sopra
una volta all’anno, dopo che hanno
compiuto cinque anni. Non so se questo
faccia loro bene. Non hanno il tempo di
abituarsi; le prime volte urlano come
isterici. Dovrebbero incominciare appena
nati e tornare una volta alla settimana.
Continuò: – Certo questo non ha poi tanta
importanza. Che cosa perderebbero se non
salissero mai alla superficie? Sono felici
là sotto e mandano avanti l’Impero.
Quanto credete sia alta questa torre?
– Ottocento metri – rispose Gaal e pensò
di aver detto una stupidaggine.
Doveva essere proprio così, perché Jerril
lo guardò sorpreso.
– No, no, è alta appena centocinquanta
metri.
– Cosa? Ma l’ascensore ha impiegato
quasi...
– Lo so. Ma è occorso molto tempo per
portarci al livello del suolo. Trantor
arriva fino a due chilometri sotto terra. È
come un iceberg. Nove decimi sono sotto
la superficie. Si estende persino per
alcuni chilometri sotto il suolo sub
oceanico, lungo le coste. Abbiamo
scavato tanto in profondità che siamo
riusciti ad utilizzare la differenza di
temperatura esistente tra i vari livelli
sotterranei per ricavare tutta l’energia di
cui abbiamo bisogno. Lo sapevate?
– No, credevo che vi serviste di
generatori atomici.
– Una volta. Ma questo sistema è molto
più economico.
– Lo credo.
– Che pensate di tutto questo? – Per un
momento il volto amichevole dell’uomo
sembrò cambiare espressione. Divenne
più attento, quasi furbesco.
Gaal esitò: – Meraviglioso – disse infine.
– Siete qui in vacanza? In viaggio di
piacere? O per affari?
– Non esattamente. Ho sempre desiderato
venire in vacanza a Trantor, ma sono qui
per ragioni di lavoro.
Gaal si sentì obbligato a dare ulteriori
spiegazioni.
– Per il progetto del dottor Seldon,
all’Università di Trantor.
– “Corvo” (2) Seldon?
2 Malgrado il traduttore abbia scelto di
usare la forma “Cassandra Seldon”,
sicuramente più poetica, si è qui scelto di
attenersi al testo originale e di usare
“Corvo” ( Raven). Tanto più che il
soprannome di Seldon lo si ritrova in
Fondazione Anno Zero, tradotto appunto
con “Corvo” da un altro traduttore. (
N.d.R. )
– No, io mi riferisco ad Hari Seldon, lo
psicostorico Seldon. Non conosco
nessuno che si chiami Corvo Seldon.
– È proprio a lui che mi riferivo, ad Hari.
Lo chiamano “Corvo”. È un soprannome:
predice sempre disastri.
– Chi, lui? – Gaal era veramente sorpreso.
– Certamente. Dovreste saperlo – Jerril
non stava sorridendo. – E così siete
venuto a lavorare per lui?
– Sì, sono un matematico. Perché predice
disastri? Che genere di disastri?
– Quali sciagure credete che predica?
– Non ne ho la minima idea. Ho letto le
riviste che il dottor Seldon ha pubblicato
insieme ai collaboratori. Trattano solo di
teorie matematiche.
– Certo, queste son le cose che pubblica...
Gaal cominciava ad essere seccato.
Disse: – Penso che ritornerò in camera,
ora.
Lieto di avervi conosciuto.
Jerril lo salutò muovendo la mano con
indifferenza.
Nella sua stanza Gaal trovò un uomo che
lo aspettava. Gaal fu sul punto di
chiedergli che cosa fosse venuto a fare lì,
ma era troppo sorpreso per riuscire a
parlare.
L’uomo si alzò. Era vecchio, quasi
completamente calvo e zoppicava
leggermente; i suoi occhi erano limpidi e
azzurri.
– Sono Hari Seldon – disse, un istante
prima che nella mente di Gaal quel volto
si associasse alle molte fotografie che
aveva visto.
4
PSICOSTORIA...
Gaal
Dornick,
servendosi di concetti non matematici, ha
definito la Psicostoria come quella branca
della matematica che studia le reazioni
d’un agglomerato umano a determinati
stimoli sociali ed economici...
È implicito in tutte queste definizioni che
l’agglomerato umano in questione deve
essere sufficientemente grande da
consentire valide elaborazioni statistiche.
Le dimensioni minime dell’agglomerato
possono essere calcolate con il primo
Teorema di Seldon che dice... Un
ulteriore assunto è che la comunità
esaminata deve essere, essa stessa,
all’oscuro
dell’analisi
psicostorica
affinché le sue reazioni siano
assolutamente istintive...
La base di ogni scienza psicostorica
valida è nello sviluppo delle Funzioni
Seldon che conferiscono proprietà
analoghe a quelle forze sia economiche
sia sociali che...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
– Buona sera, signore – disse Gaal. –
Credevo...
– Non pensavate di incontrarmi prima di
domani, vero? In condizioni normali, non
sarebbe stato necessario. Ma il fatto è che
se vogliamo servirci della vostra
collaborazione, dobbiamo agire in fretta.
Diventa sempre più difficile reclutare
personale.
– Non capisco, signore.
– Voi stavate parlando con un uomo sulla
torre di osservazione, è esatto?
– Sì. Si chiama Jerril. Non so nient’altro
di lui.
– Il suo nome non ha importanza. È un
agente della Commissione per la
Sicurezza Pubblica. Vi ha pedinato fin
dallo spazioporto.
– Ma perché? Non capisco. Temo di aver
una grande confusione in testa.
– L’uomo sulla torre vi ha per caso
parlato di me?
Gaal esitò per un attimo. – S’è riferito a
voi chiamandovi Corvo Seldon.
– Ha detto il perché?
– Sostiene che voi predite sciagure.
– È vero. Che significato ha per voi
Trantor?
Sembrava che tutti volessero conoscere la
sua opinione su Trantor.
Gaal non riuscì a trovare altra risposta e
ripeté: – È un luogo meraviglioso.
– Avete risposto senza pensare. Dove va a
finire la Psicostoria?
– Io non credevo di doverla applicare a
questa domanda.
– Prima di tutto, giovanotto, vi dovrò
insegnare ad applicare la Psicostoria ad
ogni problema che vi si presenterà. Ora
osservate. – Seldon tirò fuori un
calcolatore da una piccola borsa che
teneva appesa alla cintura. Si diceva che
lo portasse con sé dovunque e ne mettesse
persino uno sotto il cuscino per usarlo
appena desto. La lucida vernice grigia era
leggermente consumata per l’uso. Le dita
agili di Seldon, deformate ormai dall’età,
si mossero velocemente intorno all’anello
di plastica che circondava lo strumento e
sulla superficie grigia apparvero alcuni
simboli rossi luminosi.
– Questo è il quadro delle attuali
condizioni dell’Impero – affermò,
aspettando che Gaal aggiungesse
qualcosa.
– Certamente – disse infine Gaal – questa
non può essere una rappresentazione
completa.
– No, non è completa – rispose Seldon. –
Sono contento che non accettiate
ciecamente le mie affermazioni. Tuttavia,
questa approssimazione è sufficiente a
dimostrare la mia proposizione. La
accettate?
– Sì, sempre che in seguito mi sia
permesso verificare la derivata della
funzione. – Gaal era diventato cauto nel
rispondere. Non voleva cadere in
un’eventuale trappola.
– Bene. Aggiungete la probabilità di un
assassinio dell’Imperatore, la rivolta dei
viceré, la contemporanea ricorrenza di
periodi di depressione economica, il
diminuito sviluppo dell’esplorazione
planetaria, il...
Continuò. Ogni volta che elencava un
nuovo elemento, toccava con le dita
l’anello dello strumento facendo apparire
altri simboli, che si univano alla funzione
base ampliandola e modificandola.
Gaal improvvisamente lo fermò. – Non
vedo la validità di quella trasformazione
di stato.
Seldon ripeté più lentamente il calcolo.
– Ma qui – disse Gaal – avete inserito una
socio-operazione proibita.
– Bene. Vedo che siete rapido, ma non
abbastanza. Non è proibita in questa
congiuntura. Ora ve lo dimostro in un altro
modo.
Il procedimento fu molto più lungo. Alla
fine, Gaal mormorò: – Capisco, ora.
Seldon non aggiunse altre cifre. – Così
sarà Trantor fra cinque secoli. Come
interpretate queste formule?
Aspettò la reazione di Gaal.
– Distruzione totale! – esclamò Gaal
incredulo. – Ma... ma è impossibile.
Trantor non è mai stata...
Seldon era molto eccitato. La sua mente
era lucidissima. Solo il suo corpo
risentiva il peso degli anni. – Ora fate
attenzione. Avete visto con i vostri occhi
il risultato. Esprimetelo con parole.
Dimenticate per un momento il
simbolismo matematico.
– Più crescerà la specializzazione su
Trantor – disse Gaal – più il pianeta sarà
vulnerabile e sarà difficile difenderlo. –
Poi aggiunse: – Quanto più vi si
accentrerà l’amministrazione dell’Impero,
tanto maggiore sarà la sua importanza e il
suo potere. A poco a poco la successione
imperiale diventerà più incerta, la rivolta
fra
le
famiglie
dell’aristocrazia
serpeggerà
più
violenta
e
responsabilità sociale scomparirà.
la
– Basta così. E quali sono le probabilità
numeriche di una distruzione totale entro
cinquecento anni?
– Non saprei dirlo.
– Sono sicuro che siete in grado di
calcolare una differenziazione di campo.
Gaal si sentiva sotto pressione. Non gli
venne offerto il calcolatore.
Seldon lo teneva a mezzo metro dai suoi
occhi. Fece i calcoli mentalmente
sforzandosi tanto che quasi subito il
sudore gli gocciolò dalla fronte.
– All’incirca l’85% – disse infine.
– Non c’è male – annuì Seldon, sporgendo
il labbro inferiore. – Ma neanche troppo
bene. La percentuale esatta è del 92,5%.
– È per questo – disse Gaal – che siete
chiamato Corvo? Però non ne ho mai letto
niente sui giornali.
– È logico. Una notizia simile non è
pubblicabile. Pensate forse che l’Impero
voglia ammettere pubblicamente la sua
debolezza? Questa è una semplice
dimostrazione psicostorica. Ma alcuni
risultati sono trapelati tra i membri
dell’aristocrazia.
– È male.
– Non necessariamente. Tutto è stato
calcolato.
– Allora è per questo che sono stato
spiato.
– Sì. Ogni particolare del mio progetto è
sotto accurato controllo.
– E voi siete in pericolo?
– Sì, certo. C’è una probabilità dell’uno
virgola sette per cento che io venga
condannato a morte, ma la mia morte non
metterà fine al progetto. Abbiamo
calcolato anche questo. Ma lasciamo
perdere. Vi incontrerò, spero, domani
all’Università.
– Verrò di sicuro – disse Gaal.
5
COMMISSIONE PER LA SICUREZZA
PUBBLICA... La classe degli aristocratici
salì al potere dopo l’assassinio di Cleon
I, l’ultimo degli Entunus. Essa fu un fattore
di ordine durante i secoli di instabilità
dell’Impero. Rimasta generalmente sotto
il controllo delle grandi famiglie dei Chen
e dei Divart, degenerò in seguito in un
cieco strumento atto a mantenere lo status
quo... I Chen ed i Divart non vennero mai
completamente allontanati dal potere, fino
all’avvento
al
trono
dell’ultimo
Imperatore autoritario, Cleon II. Il primo
Capo Commissione...
... In un certo senso, l’inizio del declino di
potere della Commissione può essere
rintracciato nel processo contro Hari
Seldon, due anni prima che cominciasse
l’Era della Fondazione. Il processo è
descritto nella biografia di Hari Seldon,
stesa da Gaal Dornick...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
Gaal non mantenne la promessa. Fu
svegliato il mattino successivo dallo
squillo di un citofono. Rispose, e la voce
del
portiere
d’albergo,
gentile,
dispiaciuta, lo informò, nel modo più
delicato possibile, che si trovava in stato
di arresto per ordine della Commissione
per la Sicurezza Pubblica.
Gaal balzò verso la porta e scoprì
d’essere chiuso nella stanza.
L’unica cosa da fare era vestirsi ed
aspettare.
Vennero a prenderlo e lo trasferirono in
un altro luogo; ma rimase sempre in stato
d’arresto. Gli fecero alcune domande in
tono molto cortese. Tutto il procedimento
fu correttissimo. Spiegò ch’era un
provinciale venuto da Synnax; che aveva
studiato nella tale scuola ed aveva
ottenuto il diploma di laurea in
matematica il tal giorno. Che aveva fatto
domanda per essere assunto nel progetto
di Seldon ed era stato accettato. Ripeté
centinaia di volte la sua storia, con tutti i
particolari; per altrettante volte gli
chiesero perché avesse voluto partecipare
al Progetto Seldon. E come ne fosse
venuto a conoscenza; quali fossero i suoi
compiti; quali segrete istruzioni avesse
ricevuto; e infine di che cosa si trattasse.
Rispose che non lo sapeva. Che non aveva
istruzioni segrete. Che era semplicemente
uno studioso di matematica. E che non
aveva idee politiche.
Al termine dell’interrogatorio il gentile
inquisitore gli domandò: – Quando verrà
distrutta Trantor?
Gaal ebbe un sobbalzo: – Con le mie
cognizioni, non potrei dire.
– Potreste rispondere avvalendovi delle
cognizioni di qualcun altro?
– Come potrei parlare per un altro? –
Cominciava ad aver caldo.
L’inquisitore proseguì. – Nessuno vi ha
mai parlato di questa eventuale
distruzione? Stabilendo una data? – E
poiché il giovane esitava, continuò: – Voi
siete stato seguito, dottore. Ci trovavamo
allo spazioporto quando siete arrivato; ed
eravamo anche sulla torre di osservazione
mentre aspettavate l’appuntamento; e
naturalmente abbiamo ascoltato la
conversazione tra voi ed il dottor Seldon.
– Allora – rispose Gaal – voi conoscete i
suoi punti di vista in merito.
– Forse. Ma preferiremmo sentirli da voi.
– Egli è dell’opinione che Trantor verrà
distrutta entro cinquecento anni.
– L’ha provato... be’... matematicamente?
– Sì, l’ha provato – rispose risoluto.
– Devo immaginare che voi consideriate
valide queste prove... matematiche.
– Se il dottor Seldon le garantisce, sono
valide.
– In questo caso, ci rivedremo.
– Un momento. Ho il diritto di avere un
avvocato. Come cittadino dell’Impero
chiedo che questo diritto venga rispettato.
– Ve lo procureremo.
Infatti l’avvocato arrivò.
L’uomo che si presentò a lui era alto, la
sua faccia, asciutta e solcata da linee
verticali, sembrava incapace di sorridere.
Gaal alzò gli occhi. Si sentiva spaesato e
depresso. Tanti avvenimenti si erano
succeduti, eppure era arrivato a Trantor
solo 30 ore prima.
L’uomo gli parlò: – Mi chiamo Lors
Avakim. Il dottor Seldon mi ha incaricato
di rappresentarvi.
– Ah, è così? Bene, allora, statemi a
sentire.
Voglio
appellarmi
immediatamente all’Imperatore. Sono
stato arrestato senza motivazione. Sono
innocente di tutto. Di TUTTO. – Batté il
pugno nel palmo della mano. – Dovete
procurarmi un’udienza con l’Imperatore,
subito.
Avakim stava vuotando con cura il
contenuto di una borsa sul pavimento. Se
Gaal non avesse avuto i nervi a fior di
pelle avrebbe riconosciuto tra i moduli
legali Cellomet, a forma di striscioline
metalliche per poter essere inseriti in
microscopiche capsule, anche un
registratore tascabile.
Avakim, senza prestare attenzione allo
sfogo di Gaal, alzò gli occhi e disse: – La
Commissione avrà certamente disposto
raggi spia per ascoltare la nostra
conversazione. Sono strumenti illegali ma
sono sicuro che li stiano usando.
Gaal strinse i denti.
– Tuttavia – ed Avakim s’accomodò
tranquillamente su una sedia – il
registratore che ho messo sulla tavola, che
all’apparenza
è
un
registratore
perfettamente normale e come tale
funziona, possiede anche la proprietà di
neutralizzare completamente i raggi spia.
E non credo che se ne accorgeranno
presto.
– Allora posso parlare?
– Certamente.
– Voglio un’udienza con l’Imperatore.
Avakim sorrise leggermente dimostrando
che nonostante le apparenze sulla sua
faccia asciutta c’era abbastanza spazio
per un sorriso. – Venite dalla provincia,
vero? – chiese.
– Sono comunque un cittadino
dell’Impero. Ho gli stessi diritti che avete
voi e qualsiasi membro della
Commissione.
– Certo, senza dubbio. Il fatto è che non
conoscete la vita di Trantor. Non è
possibile avere udienza con l’Imperatore.
– A chi altro mi dovrei rivolgere per
appellarmi contro questa Commissione?
Esiste un’altra procedura?
– Nessun’altra. In pratica non esiste
ricorso. Legalmente, voi potete appellarvi
all’Imperatore, ma non riuscirete ad
ottenere un’udienza. L’Imperatore odierno
non è l’Imperatore della dinastia degli
Entunus, lo sapete. Trantor è nelle mani
delle famiglie aristocratiche, i cui membri
compongono la Commissione per la
Sicurezza Pubblica. Questa evoluzione è
stata
esattamente
prevista
dalla
Psicostoria.
– Ah – esclamò Gaal – è così. In questo
caso, se il dottor Seldon può predire la
storia di Trantor tra cinquecento anni...
– Le sue predizioni sul futuro arrivano a
1.500 anni.
– Che siano anche quindicimila. Perché
allora ieri non ha potuto predire gli eventi
di questa mattina ed avvertirmi... No,
scusatemi. – Gaal si lasciò cadere sulla
sedia e si prese la testa tra le mani sudate.
– So benissimo che la Psicostoria è una
scienza statistica e non potrà mai predire
con precisione il futuro di un individuo.
Dovete capirmi, sono veramente fuori di
me.
– Ma voi vi sbagliate. Il dottor Seldon era
del parere che sareste stato arrestato
stamane.
– Che cosa?!
– È spiacevole, ma vero. La Commissione
è divenuta sempre più ostile nei riguardi
del Progetto Seldon. Hanno cercato in tutti
i modi di scoraggiare l’adesione di nuovo
personale. I grafici mostrano a questo
proposito che eravamo vicini al punto di
rottura. La Commissione s’era tuttavia
dimostrata troppo lenta nelle sue
decisioni. È per questo che il dottor
Seldon è venuto a trovarvi ieri mattina:
voleva deliberatamente far precipitare gli
eventi. Non c’era altra ragione.
Gaal rimase senza fiato. – Ma con che
diritto...
– Vi prego. Era necessario. Voi non siete
stato scelto per nessuna ragione
personale. Dovete rendervi conto che i
piani del dottor Seldon, che sono stati
preparati in base ai calcoli matematici
perfezionati negli ultimi diciotto anni,
includono tutti gli eventi che hanno
probabilità di verificarsi. Questo è uno
dei casi.
Io sono stato mandato qui per rassicurarvi
che non c’è ragione di preoccuparsi.
Tutto finirà bene: per quanto riguarda il
progetto, ne abbiamo quasi la certezza;
per quanto riguarda voi, le probabilità
sono ragionevolmente alte.
– Quali sono le percentuali esatte? –
Domandò Gaal.
– Per il progetto più del 99,9%.
– E per me?
– Mi hanno detto che le probabilità a
favore sono del 77,2%.
– In tal caso ho più di una probabilità su
cinque di essere condannato al carcere o a
morte.
– Per quanto riguarda quest’ultima
eventualità le probabilità sono inferiori
all’uno per cento.
– Ah, sì. Ma i calcoli su di un individuo
non hanno alcun significato. Fatemi
parlare con il dottor Seldon.
– Sfortunatamente è impossibile. Anche il
dottor Seldon è stato arrestato.
La porta venne spalancata prima che Gaal,
che s’era alzato, potesse pronunciare una
sola parola. Una guardia entrò, s’avvicinò
al tavolo, raccolse il registratore, diede
un’occhiata in giro e se lo mise in tasca.
Avakim parlò con calma. – Avrò ancora
bisogno di quello strumento.
– Ve ne forniremo uno noi, avvocato, ma
che non emetta un campo statico.
– Il mio colloquio, in questo caso, è finito.
Gaal lo guardò uscire e rimase solo.
6
Il processo (tale almeno lo riteneva Gaal,
per quanto non ci fosse alcuna traccia
della procedura complicata di cui aveva
letto, era cominciato da appena tre giorni:
eppure Gaal non riusciva già più a
ricordarne le fasi iniziali.
Lui, personalmente, era stato chiamato in
causa abbastanza poco. Gli attacchi più
violenti erano sempre diretti contro il
dottor Seldon.
Hari
Seldon
tuttavia
rimaneva
imperturbabile e agli occhi di Gaal
appariva come il solo punto fermo di tutto
l’Universo.
L’uditorio era piccolo e scelto unicamente
tra i baroni dell’Impero.
La stampa e il pubblico erano esclusi
dall’aula e c’era da dubitare che molte
persone all’esterno fossero a conoscenza
del processo a carico del dottor Seldon.
In aula c’era una atmosfera di ostilità
assoluta nei confronti degli imputati.
Cinque membri della Commissione per la
Sicurezza Pubblica sedevano dietro al
banco della Corte. Portavano uniformi
rosse e oro, e copricapi aderenti di
plastica lucente che rappresentavano il
simbolo della loro funzione giudiziaria.
Al centro sedeva il Capo Commissario,
Linge Chen. Gaal in vita sua non aveva
mai visto da vicino un aristocratico di
pari nobiltà e lo guardava affascinato.
Durante tutto il processo Chen parlò assai
di rado lasciando capire che parlare
troppo era incompatibile con la sua
dignità.
L’avvocato della Commissione consultò i
suoi appunti e l’udienza continuò con
l’interrogatorio di Seldon.
Domanda: – Sentiamo, dottor Seldon.
Quanti uomini lavorano al progetto di cui
siete a capo?
Risposta: – Cinquanta matematici.
Domanda: – Incluso il dottor Gaal
Dornick?
Risposta: – Il dottor Dornick è il
cinquantunesimo.
Domanda: – Bene, allora sono
cinquantuno? Cercate di ricordare bene,
dottor Seldon. Forse sono cinquantadue o
cinquantatré? O di più?
Risposta: – Il dottor Dornick non è stato
ancora assunto nella mia organizzazione.
Quando entrerà a far parte del gruppo
saremo in cinquantuno. Per ora siamo in
cinquanta, come ho detto.
Domanda: – Non siete invece quasi
centomila?
Risposta: – Matematici? No.
Domanda: – Io non mi riferivo ai
matematici. Vi chiedo se sono centomila
tutti coloro che lavorano per voi nei vari
settori del progetto.
Risposta: – Calcolando tutte le attività
connesse, forse le vostre cifre sono esatte.
Domanda: – Forse? Io affermo che sono
esatte. Preciserò che gli uomini che
lavorano
al
progetto
sono
novantottomilacinquecentosettantadue.
Risposta: – Credo che stiate contando
anche le donne e i bambini.
Domanda: (alzando la voce) – Ho detto
che
sono
novantottomilacinquecentosettantadue.
Non c’è bisogno di cercare cavilli.
Risposta: –
affermazione.
Accetto
la
vostra
Domanda: (consultando i suoi appunti) –
Lasciamo da parte questo argomento per
ora e torniamo ad un altro che abbiamo
discusso già a lungo. Volete ripetere,
dottor Seldon, la vostra opinione sul
futuro di Trantor?
Risposta: – L’ho detto e lo ripeto ora:
Trantor sarà in rovina entro cinquecento
anni.
Domanda: – Non ritenete che questa
vostra affermazione sia antipatriottica?
Risposta: – No, signore. La verità
scientifica sta al di là d’ogni
considerazione patriottica.
Domanda: – Siete sicuro che la vostra
affermazione rappresenti una verità
scientifica?
Risposta: – Ne sono sicuro.
Domanda: – In base a che cosa?
Risposta: – In base ai princìpi matematici
della Psicostoria.
Domanda: – Potete provare che questi
princìpi siano validi?
Risposta: – Solo ad un altro matematico.
Domanda: (con un sorriso) – Volete dire
che la vostra verità è di natura così
complessa che sfugge alla comprensione
di un uomo normale? Mi sembra che la
verità dovrebbe essere ben più chiara,
meno misteriosa, accessibile alla mente
umana.
Risposta: – Non presenta difficoltà per
certe menti. La fisica del trasferimento
d’energia, che noi conosciamo sotto il
nome di termodinamica, è stata evidente e
vera durante tutta la storia dell’uomo fino
dall’età mitica, tuttavia esistono persone,
qui presenti, che troverebbero difficile
disegnare un motore elettrico. Anche
persone di alta intelligenza. Per esempio
dubito che i detti Commissari...
A questo punto, uno dei Commissari si
sporse verso l’avvocato dell’accusa.
Non si capirono le sue parole ma il
bisbiglio della sua voce aveva una
tonalità aspra. L’avvocato arrossì e
interruppe Seldon.
Domanda: – Non siamo qui per ascoltare
discorsi, dottor Seldon. Ammettiamo che
abbiate dimostrato la vostra tesi. Ora mi
permetto di affermare che le vostre
predizioni di disastri siano intese, per un
vostro preciso scopo, a distruggere la
fiducia popolare nei confronti del
Governo Imperiale.
Risposta: – Non è vero.
Domanda: – Voi, però, affermate che nel
periodo precedente la cosiddetta
distruzione di Trantor ci saranno
sommosse ed agitazioni.
Risposta: – È così.
Domanda:
–
Predicendo
tali
sommovimenti, voi sperate di affrettarne
l’avvento; allora voi avrete a disposizione
un esercito di centomila fedeli.
Risposta: – In primo luogo, questo non è
vero. E se anche lo fosse, con una
indagine un po’ più precisa, potreste
scoprire che nemmeno uno dei diecimila
uomini è in età militare e che nessuno di
loro viene addestrato alle armi.
Domanda: – Forse voi agite per conto di
altri?
Risposta: – Non sono al soldo di nessuno,
signor avvocato.
Domanda:
–
Agite
in
modo
completamente disinteressato? State solo
servendo la scienza?
Risposta: – Sì.
Domanda: – Ed allora provatelo. C’è
modo di cambiare il futuro, dottor
Seldon?
Risposta: – Certamente. Questa aula può
esplodere da un momento all’altro, ma
può anche non esplodere. Se un fatto del
genere accadesse il futuro cambierebbe,
anche se in piccola misura.
Domanda: – State sviando il discorso,
dottor Seldon. Può l’intera storia della
razza umana venir cambiata?
Risposta: – Sì.
Domanda: – Facilmente?
Risposta: – No. Con grande difficoltà.
Domanda: – Perché?
Risposta: – La spinta psicostorica in un
pianeta
sovrappopolato
contiene
un’enorme forza di inerzia. Per deviarne
gli effetti dobbiamo opporle un elemento
che possegga uguale potenza. È necessario
quindi lo sforzo di un gran numero di
persone, o, se il numero delle persone è
relativamente piccolo, un enorme spazio
di tempo. Mi capite?
Domanda: – Credo di capire. Trantor non
sarebbe necessariamente destinata alla
distruzione, se una moltitudine di persone
agisse in modo che l’evento non si
verificasse.
Risposta: – Esatto.
Domanda: – Sono sufficienti centomila
uomini?
Risposta: – No, signore. È un numero
troppo piccolo.
Domanda: – Siete sicuro?
Risposta: – Tenete presente che Trantor
ha una popolazione superiore ai quaranta
miliardi. E considerate inoltre che la
spinta alla rovina del pianeta non viene da
Trantor solamente ma da tutto l’Impero e
l’Impero è abitato da quasi cinque milioni
di miliardi d’esseri.
Domanda: – Capisco. Quindi centomila
uomini potrebbero cambiare il futuro se
essi ed i loro discendenti lavorassero a
questo scopo per cinquecento anni.
Risposta: – Temo di no. Cinquecento anni
è un periodo troppo breve.
Domanda: – Ah! In questo caso, dottor
Seldon, dobbiamo trarre la conclusione
che voi abbiate radunato centomila
persone per il vostro progetto ma che
costoro siano in numero insufficiente per
cambiare la storia di Trantor nei prossimi
cinquecento anni. In altre parole, non
possono in alcun modo impedire la
distruzione di Trantor.
Risposta:
ragione.
–
Sfortunatamente
avete
Domanda: – D’altra parte, le vostre
centomila persone non sono state radunate
per nessun proposito illegale.
Risposta: – Esattamente.
Domanda: (piano e con soddisfazione) –
In questo caso, dottor Seldon...
Rispondete con molta attenzione, poiché
esigiamo una risposta coerente: che
funzione hanno queste centomila persone?
La voce dell’avvocato era diventata quasi
stridula. Egli aveva fatto scattare la sua
trappola costringendo Seldon alle corde e
mettendolo
abilmente
nell’assoluta
impossibilità di rispondere.
Un brusio s’era levato dal pubblico.
Persino al banco dei giudici i Commissari
mormoravano tra loro. Le toghe rosse e
oro si agitavano qua e là. Solo il Capo era
rimasto impassibile.
Anche Hari Seldon era rimasto immobile.
Aspettava che il brusio cessasse.
Risposta: – Di minimizzare gli effetti di
questa distruzione.
Domanda: – Che cosa volete dire
esattamente con queste parole?
Risposta: – La spiegazione è semplice.
L’imminente distruzione di Trantor non è
un evento fine a se stesso, isolato dallo
sviluppo umano. Sarà il punto d’arrivo di
un dramma intricato che ha avuto inizio
secoli addietro e che procede con ritmo
sempre più accelerato. Mi riferisco,
signori, al processo di declino ed alla
caduta dell’Impero Galattico.
Il brusio si trasformò in un sordo
frastuono. L’avvocato, senza essere
ascoltato, gridò: – Voi state dichiarando
apertamente che... – Si fermò perché le
grida di «Tradimento» salite dall’uditorio
dimostravano che non c’era assolutamente
bisogno di sottolineare quel punto.
Lentamente, il Capo Commissione sollevò
il martelletto e lo lasciò cadere. Il suono
era simile a quello di un gong. Quando le
vibrazioni sonore cessarono, anche
l’uditorio era silenzioso. L’avvocato tirò
un lungo sospiro.
Domanda: (in modo teatrale) – Vi rendete
conto, dottor Seldon, che state parlando di
un Impero che dura da dodicimila anni,
attraverso tutte le vicissitudini di
generazioni, un Impero che è sostenuto
dall’amore e dalla fedeltà di quattro
milioni di miliardi di esseri umani?
Risposta: – Conosco profondamente la
attuale situazione e la storia passata
dell’Impero. E senza mancare di rispetto a
nessuno, posso affermare di averne una
conoscenza migliore di qualsiasi persona
presente in questa aula.
Domanda: – E voi ne predite la rovina?
Risposta: – È una predizione che ha basi
matematiche. Non comporta nel modo più
assoluto
alcun
giudizio
morale.
Personalmente, questa prospettiva mi
addolora.
Anche se ammettessi che l’Impero sia una
cattiva istituzione (cosa che mi guardo
bene dal pensare), lo stato di anarchia che
seguirà la sua caduta sarà certamente
peggiore. È appunto a questo stato di
anarchia che il mio progetto intende porre
rimedio. La caduta di un Impero, signori,
è un avvenimento di enormi proporzioni,
non facile certamente a combattere. È
provocata dalla crescita della burocrazia,
dall’inaridirsi dell’iniziativa umana,
dall’immobilismo
delle
caste,
dall’appiattimento degli interessi... e da
centinaia di altri fattori. Questo
movimento è cominciato centinaia di anni
fa, ed è troppo colossale e complicato
perché possa venire arrestato.
Domanda: – Non è forse noto a tutti che la
forza dell’Impero è immutata?
Risposta: – Si tratta di una forza solo
apparente. A guardare le cose in modo
superficiale si direbbe che tutto sia
normale. Tuttavia, signor avvocato, anche
il tronco marcio dell’albero, fino a
quando l’uragano non l’abbia spezzato in
due ha tutte le apparenze di solidità. Le
prime folate della tempesta fischiano
attraverso le fronde dell’Impero già
adesso. Ascoltate con le orecchie dello
storiografo, e ne udrete gli scricchiolii.
Domanda: (con voce incerta) – Noi non
siamo qui, dottor Seldon, per ascoltare...
Risposta: (con fermezza) – Svanirà
l’Impero con tutte le sue conquiste. Il
sapere che vi è stato accumulato si
inaridirà e scomparirà ogni ordine
costituito. Le guerre interstellari
continueranno senza fine; decadrà il
commercio interstellare; la popolazione
s’avvierà al declino, i mondi perderanno
contatto con il corpo principale della
Galassia... e regnerà il caos.
Domanda: (quasi un mormorio nel vasto
silenzio) – Per sempre?
Risposta: – La Psicostoria, che può
predire la caduta, può anche fare ipotesi
sui successivi periodi di oscuramento.
L’Impero, signori, come è stato appena
detto, ha resistito per dodicimila anni. Il
periodo oscuro della storia futura non
durerà dodicimila ma trentamila anni. Un
altro Impero sorgerà, ma fra esso e la
nostra civiltà ci saranno migliaia di
generazioni d’umanità sofferente. E noi
dobbiamo opporci.
Domanda: (riprendendosi in qualche
modo) – Vi state contraddicendo. Prima
avevate detto che non era possibile
impedire la distruzione di Trantor; e di
conseguenza, presumibilmente, la caduta...
La cosiddetta caduta dell’Impero.
Risposta: – Io non sostengo che
riusciremo ad impedire la caduta. Ma non
è ancora troppo tardi per accorciare
l’interregno che seguirà. È possibile,
signori, ridurre la durata dell’anarchia ad
un solo millennio, se si permette al nostro
gruppo di continuare la sua opera. Siamo
in un momento delicato della storia.
L’enorme massa degli eventi che incombe
sulla civiltà deve essere deviata. Non sarà
possibile fare molto ma forse lo sforzo
basterà ad eliminare ventinovemila anni
di miseria dalla storia dell’umanità.
Domanda: – Come pensate di riuscirci,
dottor Seldon?
Risposta: – Conservando il sapere
dell’umanità. La somma delle conoscenze
umane supera le capacità di ogni singolo
individuo; ed anche di migliaia di
individui. Con la distruzione della nostra
costruzione sociale, la scienza verrà
spezzettata in milioni di parti. Gli
individui conosceranno poco meno che un
sfaccettatura di tutto ciò che c’è da
sapere. Da soli saranno indifesi ed inutili.
Tali
frammenti
insignificanti
di
conoscenza non saranno trasmessi e si
disperderanno attraverso le generazioni.
Se però prepariamo un gigantesco
sommario di tutto il sapere, esso non
andrà mai perduto. Le generazioni
successive costruiranno sopra queste basi
senza doverle riscoprire. Un millennio
farà il lavoro di trentamila anni.
Domanda: – Tutto questo...
Risposta: – Questo è tutto il mio progetto;
i miei trentamila uomini con le loro mogli
e bambini, si sono dedicati interamente
alla preparazione di una Enciclopedia
Galattica. Non riusciranno a completarla
nel tempo concesso loro dalla vita. Non
vivranno abbastanza a lungo nemmeno per
vederla cominciata. Ma quando Trantor
cadrà, l’opera sarà completa e ne
esisteranno copie in ogni biblioteca della
Galassia.
Il Capo Commissario levò il martelletto e
batté un colpo. Hari Seldon lasciò il
banco dell’interrogatorio e si accomodò
silenzioso accanto a Gaal.
Sorrise e gli chiese: – Vi è piaciuta la
rappresentazione?
Gaal rispose: – È stato meraviglioso. Che
cosa accadrà adesso?
– Aggiorneranno il processo e
cercheranno di venire ad un accordo con
me.
– Come lo sapete?
– A dir la verità – disse Seldon – non lo
so. Dipende dal Capo della Commissione.
L’ho studiato per anni. Ho cercato di
analizzare il suo lavoro, ma sapete bene
come sia rischioso introdurre le mutevoli
caratteristiche di un individuo in una
equazione psicostorica. Eppure ho buone
speranze.
7
Avakim s’avvicinò, fece un cenno di
saluto a Gaal e si chinò per mormorare
qualcosa all’orecchio di Seldon. La
campana che annunciava l’aggiornamento
della seduta suonò e le guardie li
separarono. Gaal venne condotto via.
Il giorno successivo l’udienza fu
completamente diversa. Hari Seldon e
Gaal Dornick erano soli con i membri
della Commissione. Erano seduti tutti allo
stesso tavolo, i cinque giudici leggermente
discosti dai due accusati. Vennero persino
offerti sigari presi da una scatola di
plastica iridescente che aveva l’aspetto
dell’acqua in movimento. Gli occhi
rimanevano ingannati da questa apparenza
di moto senza fine mentre le dita potevano
toccare una sostanza dura e sconosciuta.
Seldon accese un sigaro; Gaal, invece,
non volle fumare.
– Il mio avvocato – disse Seldon – è
assente.
Un membro della Commissione replicò: –
Questo non è un processo, dottor Seldon.
Siamo qui per discutere la sicurezza dello
Stato.
Linge Chen disse: – Parlerò io. – Gli altri
membri
della
Commissione
si
appoggiarono agli schienali delle sedie
pronti ad ascoltare.
Nell’aula, quando cominciò a parlare si
fece un silenzio impressionante.
Gaal trattenne il fiato. Chen, magro e
duro, sembrava più vecchio di quanto non
fosse in realtà. Egli era l’attuale
Imperatore della Galassia. Il bambino che
deteneva il titolo era solo un simbolo
creato da lui, e nemmeno il primo, del
resto.
– Dottor Seldon – cominciò Chen – state
turbando la pace dell’Impero.
Nessuno dei quattro milioni di miliardi di
persone che popolano ora tutte le stelle
della Galassia sarà in vita tra cento anni.
Perché, allora, dovremmo preoccuparci di
avvenimenti distanti cinque secoli?
– Personalmente, non vivrò neppure altri
cinque anni – disse Seldon – eppure per
me questo problema è di fondamentale
importanza. Chiamatelo idealismo. Dite
che è la presunzione di identificare me
stesso in quella mistica generalizzazione a
cui ci riferiamo con il termine di “uomo”.
– Non voglio prendermi la briga di capire
il vostro misticismo. Sapete che potrei
liberarmi di voi e di uno scomodo, inutile
futuro, lontano cinquecento anni che non
vedrò mai, facendo eseguire questa sera
stessa la vostra condanna a morte?
– Una settimana fa – disse Seldon
sottovoce – avreste potuto agire in questo
modo e forse conservare il dieci per cento
di probabilità di rimanere vivo fino alla
fine dell’anno. Oggi quel dieci per cento è
divenuto sì e no l’uno per diecimila.
I presenti si agitarono sulle sedie
guardandosi l’un l’altro. Gaal sentì un
brivido corrergli lungo la schiena. Chen
abbassò un poco gli occhi.
– Come potete credere possibile una cosa
del genere? – disse.
– La caduta di Trantor – disse Seldon –
non può essere arrestata con nessun mezzo
disponibile. Tuttavia può essere
facilmente affrettata. La notizia del mio
processo interrotto si propagherebbe per
tutta la Galassia. L’aver fatto cadere il
mio progetto inteso a rendere meno
disastrosa la caduta dell’Impero
convincerà la gente che non esista
speranza per il loro futuro. Già ora
ricordano le generazioni dei loro padri
con invidia. Si accorgeranno che le
rivoluzioni politiche ed il ristagno degli
scambi commerciali stanno aumentando.
Per tutta la Galassia dilagherà la
convinzione che bisogna accaparrare tutto
il possibile e che conta solo quello che si
riesce a godere subito. Gli uomini
ambiziosi non aspetteranno e quelli privi
di scrupoli non si tireranno indietro. Ogni
loro azione affretterà la decadenza
dell’universo. Uccidetemi e Trantor non
finirà tra cinquecento anni ma entro
cinquanta e voi, voi stesso, cadrete nel
volger d’un anno.
– Queste parole – disse Chen –
potrebbero spaventare i bambini, non noi;
eppure la vostra morte non è la soluzione
che possa soddisfare tutti i nostri desideri.
Levò la mano sottile dal foglio sul quale
era appoggiata, in modo che solo due dita
ne toccassero leggermente la superficie.
– Ditemi ora – continuò – la vostra sola
attività
consisterà
nel
preparare
l’enciclopedia di cui avete parlato?
– Certamente.
– E questa attività deve essere svolta a
Trantor?
– Solo a Trantor, signore, esiste la
Biblioteca Imperiale; inoltre qui abbiamo
a disposizione le attrezzature scientifiche
dell’Università.
– Se voi veniste trasferito in altro luogo,
supponiamo su un pianeta dove la vita
convulsa della metropoli e le distrazioni
non interferissero con il raccoglimento
necessario allo studio, dove i vostri
uomini potrebbero dedicarsi interamente
al loro lavoro, non sarebbe per voi
vantaggioso?
– In minima parte, forse sì.
– Il pianeta è già stato scelto, allora. Là,
dottore, potrete lavorare, con calma, con i
vostri centomila uomini. La Galassia
saprà che state lottando per impedire la
Caduta. Faremo persino sapere che
riuscirete ad evitarla. – Sorrise. – Sono
tante le cose in cui io non credo e non mi
sarà difficile non credere nemmeno nella
Caduta; perciò sarò perfettamente
convinto di dire la verità al popolo. E nel
frattempo, dottore, non creerete fastidi su
Trantor e non turberete la pace
dell’Imperatore.
«L’alternativa è la morte per voi e per
quanti fra i vostri collaboratori mi parrà
opportuno giustiziare. Dimenticherò le
vostre predizioni minacciose. La
possibilità di scegliere fra la morte e
l’esilio vi è concessa per cinque minuti a
partire da questo istante.»
– Qual è il pianeta prescelto, signore? –
domandò Seldon.
– Si chiama, mi pare, Terminus – rispose
Chen giocherellando distrattamente con le
carte che giacevano sul tavolo. – È
deserto ma abitabile, e può essere
trasformato adeguatamente per ospitare i
vostri studiosi. È, in un certo senso,
isolato...
Seldon lo interruppe. – È ai confini della
Galassia, signore.
– Come stavo appunto dicendo, è piuttosto
isolato. Proprio quello che ci vuole per il
vostro bisogno di concentrazione. Vi
rimangono solo due minuti per decidere.
– Occorrerà molto tempo – disse Seldon –
per organizzare il trasferimento di tante
persone. Si tratta di oltre ventimila
famiglie.
– Vi concederemo tempo a sufficienza.
Seldon pensò per un momento e già
l’ultimo minuto stava per scadere quando
disse: – Accetto l’esilio.
Il cuore di Gaal sembrò che avesse per un
momento cessato di battere.
Fu preso da una gioia indicibile: chi non
sarebbe stato felice davanti alla certezza
di essere sfuggito alla morte? Eppure,
nella sua immensa gioia, trovò modo di
provare una punta di dispiacere al
pensiero che Seldon fosse stato sconfitto.
8
Rimasero seduti a lungo in silenzio nel
taxi che sfrecciava per centinaia di
chilometri attraverso le gallerie che
portavano all’Università. Ad un tratto
Gaal si voltò e chiese: – Era vero ciò che
avete detto alla Commissione? La vostra
condanna a morte avrebbe davvero
affrettato la Caduta?
– Non mento mai su argomenti
psicostorici. Né, d’altra parte, mi sarebbe
stato d’aiuto in questo caso. Chen sapeva
che dicevo la verità. È un uomo politico
intelligente ed i politici, per la stessa
natura del loro lavoro, devono essere
provvisti d’un istinto che li fa credere
nella Psicostoria.
– C’era bisogno allora d’accettare
l’esilio? – domandò Gaal turbato.
Seldon non rispose.
Quando finalmente giunsero davanti al
piazzale dell’Università, Gaal aveva i
muscoli irrigiditi. Dovette essere quasi
scaricato di peso dal taxi.
L’Università era inondata di luce. Gaal si
era dimenticato dell’esistenza del sole.
L’Università non era tuttavia all’aperto.
Gli edifici erano ricoperti da una
smisurata cupola vetrosa. Era costituita da
una sostanza polarizzante; Gaal poteva
vedere direttamente l’astro che splendeva
sopra. La luce non era affatto offuscata e
splendeva sugli edifici metallici a perdita
d’occhio.
Le strutture metalliche dell’Università non
avevano quel colore grigio che
caratterizzava la maggior parte delle
costruzioni di Trantor. Il loro colore
tendeva all’argento, e la luce che ne
emanava aveva una colorazione avorio.
– Sembrano soldati – disse Seldon.
– Che cosa? – Gaal volse gli occhi e vide
una sentinella.
Si fermarono di fronte all’uomo armato.
Da una porta laterale apparve un capitano.
– Dottor Seldon? – disse in tono cortese.
– Sì.
– Vi stavamo aspettando. Voi ed i vostri
uomini sarete da questo momento
sottoposti alla legge marziale. Ho ricevuto
l’ordine di informarvi che vi saranno
concessi sei mesi per prepararvi a partire
per Terminus.
– Sei mesi! – esclamò Gaal, ma le dita di
Seldon gli premettero leggermente il
braccio.
– Queste sono le istruzioni impartitemi –
ripeté il capitano.
Appena se ne fu andato, Gaal si volse a
Seldon: – Ma che cosa possiamo fare in
sei mesi? Questo significa condannarci ad
una morte lenta.
– Calmatevi. Venite con me in ufficio.
L’ufficio non era grande, ma era provvisto
di un dispositivo che annullava i raggi
spia ed era difficilmente localizzabile.
Infatti, quando questi raggi venivano
diretti nella stanza, non registravano né un
silenzio che poteva indurre alla
diffidenza, né un campo magnetico
disturbato, il che sarebbe stato ancor più
sospetto.
Registravano invece una conversazione
falsa, costruita con frasi del tutto
innocenti, pronunciate da voci diverse.
– Ebbene – disse Seldon, finalmente a suo
agio. – Sei mesi saranno sufficienti.
– Non vedo come.
– Perché, ragazzo mio, in un piano come il
nostro le azioni degli altri si piegano alla
nostra volontà. Vi avevo confidato che già
da tempo stavamo studiando Chen più di
ogni altro membro della Commissione. Il
processo poteva cominciare soltanto
quando noi avessimo scelto il momento
opportuno.
– Volete dirmi che voi vi eravate già
preparato...
– Ad essere esiliato su Terminus? E
perché no? – Premette col dito un punto
della scrivania e dietro le sue spalle una
sezione di parete scivolò da un lato. Solo
le sue dita avrebbero potuto mettere in
azione il meccanismo, poiché il pulsante
reagiva unicamente a contatto di un
determinato schema di impronte digitali.
– Troverete parecchi microfilm nascosti
là dentro: prendete, per favore, quello
segnato con la lettera T.
Gaal ubbidì, ebbe da Seldon un paio di
lenti speciali e poi attese che questi
montasse la pellicola sul proiettore.
Sistemati gli occhiali osservò le immagini
che si muovevano davanti a lui.
– Ma allora... – cominciò.
Seldon lo interruppe. – Che cos’è che vi
sorprende?
– Voi eravate pronti a partire già da due
anni?
– Due anni e mezzo. Naturalmente non
potevamo essere sicuri che Terminus
sarebbe stato il pianeta scelto per il
nostro esilio, ma lo speravamo e ci siamo
preparati per questa eventualità...
– Ma perché? Per quale ragione avete
predisposto tutto per l’esilio? Non
sarebbe stato meglio controllare gli eventi
qui su Trantor?
– Esistono ragioni che giustificano il mio
modo d’agire. Lavorando su Terminus,
noi godremo dell’aiuto imperiale senza
suscitare il timore che stiamo minando la
sicurezza dell’Impero.
– Ma voi – replicò Gaal – avete suscitato
queste paure solamente per costringere il
Consiglio ad esiliarci. Ancora non riesco
a comprendere.
– Non credo che ventimila famiglie si
sarebbero trasferite di loro spontanea
volontà all’altro capo della Galassia.
– Ma perché allora è stato necessario
spingerle ad accettare l’esilio? – Gaal
fece una pausa. – Posso conoscerne la
ragione?
– Non ancora – disse Seldon. – È
sufficiente che sappiate per il momento
che su Terminus sarà creato un rifugio
scientifico. Ed un altro rifugio verrà
costruito all’altro capo della Galassia,
potremmo dire – e sorrise – su Star’s End
(3). Per quanto riguarda il resto, io morirò
presto, e voi vedrete certo più cose di
me... No, no: risparmiatemi quella
espressione addolorata ed i vostri auguri
di guarigione. I medici mi hanno già
comunicato che non vivrò più di uno o due
anni. Ma allora, avrò compiuto ciò che
avevo stabilito di fare, e la mia morte non
potrebbe avvenire in un momento
migliore.
3 In questa revisione si sceglie di
mantenere il nome originale dato
dall’autore, evitando traduzioni fuorvianti,
visto che il suddetto nome verrà ripreso,
ed analizzato, da altri capitoli della
Fondazione.
– E dopo che sarete morto?
– Perché questa domanda? Ci saranno i
miei successori... Forse voi stesso.
Equesti miei successori saranno capaci di
condurre a termine il progetto
organizzando la rivoluzione su Anacreon
al momento e nel modo giusto. Dopo di
che la storia si svolgerà senza bisogno di
altri interventi.
– Non capisco.
– Capirete. – Sulla faccia di Seldon
apparve un’espressione stanca e nello
stesso tempo rasserenata. – Molti
partiranno per Terminus, ma alcuni
resteranno.
Sarà facile sistemare le cose. Per quanto
riguarda me – e concluse la frase con un
sussurro, così che Gaal non riuscì a udire
le parole – la mia missione è finita.
PARTE SECONDA
GLI ENCICLOPEDISTI
1
TERMINUS... La sua posizione era
piuttosto eccentrica dato il ruolo che
avrebbe dovuto sostenere nella storia
della Galassia, tuttavia, e l’affermazione è
confortata dal parere di numerosi
autorevoli studiosi, era la sola adatta allo
scopo. Posto all’estremo limite della
spirale Galattica, unico nel suo sistema
solare, Terminus, pianeta povero di
risorse naturali e di trascurabile valore
economico, non era mai stato colonizzato
nei primi cinque secoli che seguirono la
sua scoperta, fino cioè all’arrivo degli
Enciclopedisti...
Era inevitabile che con la crescita di una
nuova generazione, il pianeta diventasse
qualcosa di più di una semplice filiazione
degli psicostorici di Trantor. Con la
rivolta degli anacreoniani e la salita al
potere di Salvor Hardin, primo della
grande stirpe...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
Lewis Pirenne era occupatissimo alla sua
scrivania, disposta nell’angolo più
luminoso della stanza. Il lavoro doveva
essere coordinato, tutti gli sforzi
organizzati. Ogni filo doveva essere
tessuto nella grande tela.
Erano trascorsi cinquant’anni, tanti ce
n’erano voluti per stabilirsi e fare della
Fondazione Enciclopedica Numero Uno
un complesso efficiente. Mezzo secolo era
appena bastato a radunare la materia
grezza ed a prepararla.
Tutto questo era stato fatto. Entro cinque
anni sarebbe uscito il primo volume del
più monumentale lavoro che la Galassia
avesse mai realizzato. In seguito,
avrebbero pubblicato un volume dopo
l’altro, ad intervalli regolari di dieci anni,
con precisione cronometrica. Ed insieme
a questi sarebbero stati editi i
supplementi, articoli speciali sugli
avvenimenti di interesse generale, fino...
Quando il citofono sul lato della scrivania
fece sentire il suo ronzio irritante, Pirenne
si voltò seccato. S’era quasi dimenticato
dell’appuntamento. Premette il pulsante
che faceva aprire la porta e con la coda
dell’occhio notò la massiccia figura di
Salvor Hardin che varcava la soglia.
Pirenne non sollevò gli occhi dal tavolo.
Hardin sorrise fra sé. Aveva fretta, ma si
guardò bene dal sentirsi offeso
dall’accoglienza che Pirenne riservava a
qualunque cosa o persona avesse osato
disturbarlo nel lavoro. Si accomodò su
una poltrona al lato opposto della
scrivania ed attese paziente.
Nella stanza si udiva solo il fruscio della
penna di Pirenne su un foglio di carta.
Dopo pochi minuti, Hardin cavò di tasca
una moneta da due crediti, la lanciò in
aria e la sua superficie d’acciaio
inossidabile brillò ruotando velocemente.
L’afferrò al volo e la rilanciò ancora,
osservando il luccichio. L’acciaio
inossidabile costituiva un ottimo mezzo di
scambio in una pianeta dove tutti i metalli
dovevano essere importati.
Pirenne sollevò gli occhi sbattendo le
palpebre. – Smettetela! – disse con una
specie di gemito.
– Come?
– Di lanciare quella maledetta moneta.
Smettetela.
– Ah – Hardin ripose in tasca il dischetto
metallico. – Avvertitemi quando avrete
finito. Ho promesso di ritornare alla
riunione del Consiglio Municipale prima
che il progetto per il nuovo acquedotto sia
messo ai voti.
Pirenne sbuffò e s’alzò dalla scrivania. –
Ho finito. Spero che non siate venuto a
disturbarmi soltanto per i problemi
amministrativi della città. Occupatevene
voi, per favore. L’Enciclopedia impegna
tutto il mio tempo.
– Avete sentito le ultime notizie? –
domandò Hardin con calma.
– Quali notizie? – Quelle captate due ore
fa dal ricevitore ad ultra-onde di
Terminus. Il Governatore Reale della
Prefettura di Anacreon ha assunto il titolo
di re.
– Bene, ed allora?
– Questo significa – rispose Hardin – che
siamo tagliati fuori da tutte le regioni
interne dell’Impero. Ce lo aspettavamo,
ma non sull’ultima linea commerciale che
ancora ci collegava con Santanni, Trantor
e Vega. Da dove importeremo materie
prime, ora? Sono sei mesi che non
riceviamo rifornimenti di acciaio ed
alluminio e certamente non ne riceveremo
più da ora in poi, senza il permesso di
Sua Grazia il Re di Anacreon.
Pirenne fece un gesto di impazienza. – Ed
allora chiedetegli il permesso.
– Ma come possiamo? Ascoltatemi,
Pirenne: secondo lo statuto che governa
questa Fondazione, il Consiglio dei
Fiduciari del Comitato dell’Enciclopedia
mi ha dato pieni poteri amministrativi. Io,
come sindaco della città di Terminus, ho
abbastanza potere per soffiarmi il naso e
forse per starnutire se mi controfirmate un
ordine che me ne dia il permesso. Quindi
dipende tutto da voi e dal Consiglio. Io vi
sto chiedendo, a nome della città, la cui
prosperità dipende da un ininterrotto
commercio con il resto della Galassia, di
organizzare una riunione d’emergenza...
– Basta! Sentite, Hardin, il Consiglio dei
Fiduciari non ha impedito la costituzione
di un governo municipale a Terminus.
Comprendiamo benissimo la sua
necessità, visto lo straordinario aumento
della popolazione da quando la
Fondazione venne creata, cinquant’anni fa,
e visto l’aumento di persone occupate in
attività che non hanno niente a che vedere
con l’Enciclopedia. Ma questo non
significa che lo scopo della Fondazione
non sia più quello, e solo quello, di
pubblicare un’Enciclopedia che raccolga
tutto il sapere umano. Noi siamo
un’istituzione scientifica finanziata dallo
Stato, Hardin. Non possiamo, non
dobbiamo, e non vogliamo interferire
negli affari politici locali.
– Politica locale! Qui si tratta di vita o di
morte! Terminus, da solo, non ha i mezzi
necessari ad una civiltà industriale.
Manca di metalli. Lo sapete bene. Negli
strati superficiali non esiste traccia di
ferro, rame ed alluminio. Altri metalli
sono presenti in quantità trascurabile. Che
cosa sarà, secondo voi, dell’Enciclopedia
se questo re di Anacreon decide di venire
a conquistarci?
– Conquistare noi? Dimenticate che siamo
sotto il diretto controllo dell’Imperatore.
Non facciamo parte di nessuna prefettura,
neppure di quella di Anacreon.
Apparteniamo al demanio personale
dell’Imperatore, e nessuno può toccarci.
L’Impero può ben proteggere le sue
proprietà.
– Ed allora perché non è riuscito ad
impedire che il Governatore Reale di
Anacreon si dichiarasse indipendente? E
non si tratta solamente di Anacreon.
Almeno venti prefetture della Galassia si
sono staccate dall’Impero: praticamente
l’intera zona periferica della Galassia si
sta governando da sola. Non credo che
l’Impero sia capace di assicurarci la sua
protezione.
– Sciocchezze! Governatori, re, che
differenza fa? L’Impero ha sempre
superato questi momenti di crisi ed ha
sempre ridotto alla ragione tutti quelli che
cercavano di andarsene per conto loro. È
già accaduto altre volte che i Governatori
si siano ribellati, e perfino alcuni
Imperatori sono stati deposti e assassinati.
Ma questo non ha niente a che vedere con
l’Impero in se stesso. Noi non c’entriamo.
Noi, prima di tutto, siamo scienziati. Il
nostro dovere è di completare
l’Enciclopedia. Oh, a proposito, avevo
quasi dimenticato. Hardin, cercate di
andarci piano con quel vostro giornale. –
Il tono di voce di Pirenne era seccato.
– Il Quotidiano di Terminus? Il giornale
non è mio, comunque cosa c’è che non va?
– Da settimane sta chiedendo con
insistenza che in occasione del
cinquantenario della Fondazione vengano
indette feste e celebrazioni...
inopportune.
– L’orologio atomico segnerà l’ora della
prima apertura della Volta fra tre mesi.
Secondo me è un evento importante, non
trovate?
– Non per sciocche celebrazioni, Hardin.
L’apertura della Volta riguarda soltanto il
Consiglio dei Fiduciari. Al popolo verrà
comunicata ogni notizia d’un certo rilievo.
Queste istruzioni sono definitive. Cercate
di farlo capire chiaramente al vostro
giornale.
– Scusate, Pirenne, ma lo statuto della
città garantisce una piccola libertà,
comunemente chiamata libertà di stampa.
– Può anche essere, ma il Consiglio dei
Fiduciari non la garantisce affatto. Io sono
il rappresentante dell’Imperatore su
Terminus, Hardin, ed ho pieni poteri in
conseguenza.
Dall’espressione si capiva che Hardin
stentava a dominarsi. Poi con un sorriso
forzato, disse: – Nella vostra qualità di
rappresentante dell’Imperatore, allora,
devo comunicarvi un’altra notizia.
– Si tratta di Anacreon? – Pirenne strinse
le labbra. Era veramente seccato.
– Sì, fra due settimane verrà inviata su
Terminus da Anacreon una delegazione
speciale.
–
Delegazione
speciale?
Qui?
Da
Anacreon? E per quale ragione?
Hardin si alzò. – Lascio a voi il piacere
di indovinarlo. – E se ne andò, senza
nemmeno salutare.
2
Anselm Haut Rodric, “Haut” significa “di
sangue nobile”, sottoprefetto di Pleuma,
inviato straordinario di Sua Altezza il re
di Anacreon, più una mezza dozzina di
altri titoli, venne accolto allo spazioporto
da Salvor Hardin con tutto il rituale
imposto da una visita ufficiale.
Con un sorriso forzato ed un profondo
inchino, il sottoprefetto aveva tolto la
rivoltella dalla fondina e l’aveva
consegnata ad Hardin.
Hardin
aveva
restituito
l’onore
consegnandogli a sua volta una pistola che
si era fatto portare per l’occasione.
Amicizia e buona volontà erano così
affermate.
L’automobile sulla quale presero posto
avanzò, preceduta, affiancata e seguita, da
un conveniente stuolo di funzionari
minori, a velocità da corteo, fino alla
piazza dell’Enciclopedia, acclamata da
una folla adeguatamente entusiasta.
Il sottoprefetto Anselm accolse le
acclamazioni con la compiacente
indifferenza di un soldato e di un nobile.
Chiese ad Hardin: – Questa città è tutto il
vostro mondo?
Hardin, alzando la voce per essere udito
al disopra del clamore rispose: – Siamo
un pianeta giovane e povero. Nella nostra
breve storia abbiamo avuto ben poche
visite di personaggi di così nobile stirpe.
Da qui, il nostro entusiasmo.
Fu evidente che quell’uomo di «così
nobile stirpe» non rilevò l’ironia della
frase.
Mormorò
pensoso:
–
Fondata
cinquant’anni fa... eh... già. Esiste un bel
po’ di territorio non sfruttato su questo
pianeta, signor sindaco. Non avete mai
pensato di dividerlo in proprietà?
– Non è necessario per il momento. La
popolazione è tutta concentrata in questa
città; e così deve essere, a causa
dell’Enciclopedia. Un giorno, forse,
quando la nostra popolazione sarà
cresciuta...
– Strano mondo! Da voi non esistono
contadini?
Hardin pensò che non ci voleva poi tanta
intelligenza per capire che Sua Eccellenza
stava calcando un po’ la mano nel far
notare le sue nobili origini. E rispose con
indifferenza: – No... e nemmeno nobili.
Haut Rodric levò le sopracciglia. – Ed il
vostro capo... L’uomo che dovrò
incontrare?
– Volete dire il dottor Pirenne? È il
presidente del Consiglio dei Fiduciari, e
il
rappresentante
personale
dell’Imperatore.
– Dottore? Non ha altri titoli? Uno
studioso, insomma. E sarebbe lui la più
alta autorità civile?
– Certamente – rispose amabile Hardin. –
Siamo tutti studiosi, più o meno.
Dopo tutto, più che una vera e propria
società civile, siamo una fondazione
scientifica... sotto il diretto controllo
dell’Imperatore.
L’ultima frase, pronunciata con una certa
enfasi, sembrava avesse turbato il
sottoprefetto. Rimase pensieroso in
silenzio, per tutto il lento tragitto fino alla
piazza dell’Enciclopedia.
Anche se Hardin s’era annoiato per tutto il
pomeriggio e la sera, per lo meno aveva
avuto la soddisfazione di notare che
Pirenne e Haut Rodric si odiavano
nonostante le espressioni di stima che si
erano
cerimoniosamente
scambiati
incontrandosi.
Haut Rodric aveva assistito con
disinteresse alla conferenza che Pirenne
aveva tenuto durante la visita all’Edificio
dell’Enciclopedia.
Con un sorriso educato aveva ascoltato le
spiegazioni che il dottore forniva mentre
passavano tra enormi scaffali contenenti
rulli di pellicole, e visitavano le
numerose sale di proiezione.
Fu solo dopo essere saliti e scesi per tutto
l’edificio, un piano dopo l’altro, e dopo
aver visitato reparti tipografici, redazioni,
reparti editoriali e cinematografici, che il
sottoprefetto espresse il suo primo
giudizio.
– Tutto questo è molto interessante – disse
– ma mi sembra un’attività un po’
strana per persone adulte. A che serve?
A quella domanda, notò Hardin, Pirenne
non riuscì a dare una risposta, anche se
l’espressione della sua faccia fu
abbastanza eloquente.
La cena rispecchiò esattamente gli eventi
del pomeriggio; Haut Rodric monopolizzò
la conversazione descrivendo, con minuti
particolari e buona eloquenza, la sua
bravura come Comandante di battaglione
durante la guerra che Anacreon aveva di
recente combattuta contro la giovane
monarchia di Smyrno.
I dettagli sull’importante ruolo sostenuto
dal sottoprefetto non si esaurirono che al
termine della cena, quando tutti i
funzionari minori, ad uno ad uno, ebbero
lasciato la sala. L’ultimo brano di questa
vanagloriosa esposizione di battaglie
spaziali si concluse quando Pirenne ed
Hardin accompagnarono il sottoprefetto
sul balcone, e l’ospite si rilassò nell’aria
tiepida della notte estiva.
– Ed ora – disse, con giovialità forzata –
parliamo di cose serie.
– Era tempo – mormorò Hardin. Ed
accese un lungo sigaro di tabacco di Vega,
pensando che li aveva quasi finiti.
– Naturalmente – disse il sottoprefetto –
tutte le discussioni formali, le firme dei
documenti ed ogni altra noiosa operazione
tecnica, saranno sottoposte al...
come chiamate il vostro Consiglio?
– Consiglio dei Fiduciari – rispose
freddamente Pirenne.
– Strana denominazione! In ogni caso tutto
questo verrà discusso domani.
Sarebbe meglio tuttavia cominciare ad
eliminare alcune difficoltà preliminari,
con un colloquio aperto da uomo a uomo.
Non trovate?
– Che cosa intendete dire esattamente? –
replicò Hardin.
– Ora vi spiego. C’è stato un certo
cambiamento quaggiù alla periferia della
Galassia, e lo stato giuridico del vostro
pianeta è divenuto alquanto incerto.
Sarebbe opportuno raggiungere un
accordo che definisse meglio la vostra
posizione. Scusate, signor sindaco: non
avete per caso un altro sigaro?
Hardin gliene porse uno con riluttanza.
Anselm Haut Rodric lo ammirò ed emise
un mormorio di soddisfazione: – Tabacco
di Vega! Come lo avete avuto?
– Ne abbiamo ricevuto una partita
nell’ultimo rifornimento. Ne sono rimasti
assai pochi. E chissà quando ci sarà
possibile riceverne altri.
Pirenne scosse la testa. Non fumava, anzi
detestava l’odore del tabacco.
– Spiegatemi bene questo, Eccellenza. La
vostra missione ha una funzione puramente
esplorativa?
Haut Rodric annuì attraverso il fumo della
sua prima boccata.
– In questo caso, è presto risolta. La
situazione riguardante la Fondazione
Enciclopedica Numero Uno è quale è
sempre stata.
– E cioè?
– Molto semplice: si tratta di una
istituzione scientifica, finanziata dallo
Stato e fa parte della proprietà privata di
Sua Augusta Maestà l’Imperatore.
Il
sottoprefetto
non
sembrò
particolarmente impressionato. Soffiò
alcuni anelli di fumo. – Tutto questo è
molto giusto in teoria, dottor Pirenne.
Devo supporre che siate in possesso dei
documenti relativi con tanto di sigillo
imperiale. Ma com’è la situazione attuale?
Qual è la vostra posizione rispetto a
Smyrno? Il vostro pianeta si trova a meno
di cinquanta parsec dalla capitale di
Smyrno, vi rendete conto?
Senza poi
Datibow...
considerare
Konom
e
– Noi – disse Pirenne – non abbiamo
niente a che vedere con alcuna prefettura.
Siamo su un pianeta che è proprietà
privata dell’Imperatore...
– Non esistono più prefetture – gli ricordò
Haut Rodric. – Ora esistono soltanto
regni.
– Chiamiamoli regni, allora. Come
istituzione scientifica noi...
– All’inferno la scienza! – sbottò l’altro, e
con questa espressione militaresca
elettrizzò immediatamente l’atmosfera. –
Che cosa diavolo conta tutto questo
quando Smyrno può venirvi a conquistare
da un momento all’altro?
– Credete che l’Imperatore se ne stia
indifferente a guardare?
Haut Rodric sembrò calmarsi. – Vedete,
dottor Pirenne – disse – voi rispettate la
proprietà dell’Imperatore quanto noi di
Anacreon, ma Smyrno forse non farà
altrettanto. Ricordate che abbiamo appena
firmato un trattato con l’Imperatore, ve ne
darò in visione una copia domani quando
si radunerà il vostro Consiglio dei
Fiduciari, che ci dà pieni poteri per
mantenere l’ordine entro i confini della
prefettura di Anacreon. I nostri impegni
sono chiari, mi pare.
– Certamente. Ma Terminus non fa parte
della prefettura di Anacreon.
– E Smyrno...
– Non fa nemmeno parte della Prefettura
di Smyrno. Non fa parte di alcuna
prefettura.
– Smyrno è al corrente di questa
situazione?
– Che lo sappia o meno, non è affar mio.
– Ma a noi interessa. Abbiamo appena
finito di combattere contro Smyrno, ma la
popolazione di quel pianeta è ancora in
possesso di due sistemi solari che ci
appartengono. Terminus si trova fra le due
nazioni in una posizione strategicamente
importante.
Hardin era stanco di ascoltare quella
discussione e si sentì in dovere
d’intervenire.
– Quali sono le vostre proposte,
Eccellenza?
Il sottoprefetto si mostrò lieto di lasciare
le schermaglie e cominciare una
discussione più concreta. – Mi sembrano
evidenti – rispose. – Visto che Terminus
non è in grado di difendersi da solo,
Anacreon dovrà occuparsi della sua
difesa per salvare se stesso. Voi capite
che non intendiamo interferire nella vostra
amministrazione interna...
– Già – mormorò Hardin.
– ... ma pensiamo d’altra parte che
sarebbe di comune interesse che Anacreon
creasse una base militare sul vostro
pianeta.
– E queste sono tutte le vostre richieste:
una base militare in uno degli immensi
territori disabitati. Nient’altro?
– Be’, naturalmente, dovreste provvedere
al mantenimento delle forze di protezione.
– Ora stiamo arrivando al nocciolo della
questione – disse Hardin. – In parole
povere, Terminus dovrebbe diventare una
specie di protettorato e pagare tributi.
– Non tributi. Tasse. Noi vi difendiamo, e
voi pagate la nostra protezione.
Pirenne batté il palmo della mano sul
bracciolo della poltrona, con violenza.
– Lasciatemi parlare, Hardin. Eccellenza,
Anacreon, Smyrno, tutta la vostra politica
e le vostre stupide guerre non mi
interessano affatto. Insisto nel ripetervi
che il nostro pianeta è una istituzione
finanziata dallo Stato e di conseguenza
esente da tasse.
– Finanziata dallo Stato? Ma siamo noi lo
Stato, dottor Pirenne, e noi non abbiamo
intenzione di finanziarvi.
Pirenne perse la calma. – Eccellenza, io
sono il rappresentante diretto...
– ... di Sua Maestà l’Imperatore –
concluse Anselm Haut Rodric, acido – ed
io sono il rappresentante del Re di
Anacreon. Ed Anacreon è assai più
vicino.
– Torniamo agli affari – si intromise
Hardin. – Come pensate di riscuotere le
cosiddette tasse? Sareste disposti ad
accettare dei prodotti agricoli: grano,
patate, verdura e bestiame?
Il sottoprefetto lo guardò sorpreso. – Ma
che cosa dite? Non abbiamo bisogno di
prodotti del genere. Abbiamo già
problemi di superproduzione agricola.
Vogliamo oro, naturalmente. Cromo e
vanadio andrebbero anche meglio, se ne
avete in quantità.
Hardin scoppiò in una risata. – In
quantità! Non abbiamo nemmeno ferro.
Oro!
Ecco qui, guardate le nostre monete. – E
gliene lanciò una da due crediti.
Haut Rodric la soppesò e la osservò
stupito. – Che materiale è? Acciaio?
– Esattamente.
– Non riesco a capire.
– Terminus è un pianeta praticamente
privo di metalli. Dobbiamo importarli. Di
conseguenza, non possediamo né oro, né
altri prodotti di valore ad eccezione di
poche migliaia di quintali di patate.
– Be’... potreste fornirci macchine.
– Senza metalli? Con che cosa dovremmo
costruirli questi macchinari?
Ci fu un momento di silenzio, e Pirenne ne
approfittò per riprendere la parola.
– Questa discussione non ha senso.
Terminus non è un pianeta ma una
fondazione scientifica che sta preparando
una grande enciclopedia. Non si ha più
dunque rispetto per la scienza?
– Le enciclopedie non fanno vincere le
guerre – ribatté Haut Rodric accigliato.
– Allora, se si tratta di un mondo
completamente improduttivo, potreste
pagarci con terreni.
– Che cosa intendete dire? – domandò
Pirenne.
– Questo mondo è quasi disabitato ed il
terreno è probabilmente fertile. Ci sono su
Anacreon parecchie famiglie nobili cui
non dispiacerebbe aggiungere qualche
territorio alle loro proprietà.
– Non potete proporci un simile scambio!
– Non c’è bisogno di agitarsi tanto, dottor
Pirenne. Ce n’è abbastanza per tutti.
Se riusciamo a trovare un accordo faremo
in modo che Terminus non perda niente.
Si possono emettere titoli garantiti sui
terreni. Voi mi capite, spero.
– Grazie molte – disse Pirenne ironico.
Hardin domandò, in tono ingenuo: –
Anacreon sarebbe in grado di fornirci
plutonio in quantità adeguata per i nostri
impianti termonucleari? Siamo rimasti con
riserve che dureranno solo pochi anni.
Pirenne aprì la bocca, poi la richiuse. Ci
fu silenzio per alcuni minuti. Quando Haut
Rodric riprese la parola il suo tono di
voce era molto cambiato.
– Possedete energia atomica?
– Certamente. Che cosa c’è di
straordinario? L’energia atomica è una
scoperta che risale oramai a cinquemila
anni, credo. Perché non dovremmo usarla?
Solo che ora ci riesce difficile rifornirci
di plutonio.
– Già... già... – Il sottoprefetto fece una
pausa, poi concluse in tono imbarazzato: –
Bene,
signori,
continueremo
la
discussione domani. Vogliate scusarmi.
Pirenne lo guardò allontanarsi e mormorò
tra i denti: – Che insopportabile scimmia
stupida. Quel...
Hardin lo interruppe: – Niente affatto. È
semplicemente il prodotto di un
determinato ambiente. Riesce a capire ben
poco al di là del fatto che lui sia in
possesso di una pistola e noi no.
Pirenne lo investì esasperato: – Dove
diavolo volevate arrivare quando vi siete
messo a discorrere di basi militari e di
tributi? Siete impazzito?
– No. Gli ho solo dato corda e l’ho
lasciato parlare. Avete notato che gli sono
sfuggite le vere mire di Anacreon nei
nostri confronti? Trasformare Terminus in
una serie di feudi. Naturalmente non ho
affatto intenzione di permetterlo.
– Voi non ne avete intenzione! Ma chi
siete voi? E posso chiedervi perché avete
tirato fuori l’argomento degli impianti
termonucleari? È la ragione più
convincente per fare del nostro pianeta un
obbiettivo militare.
– Sì – sorrise Hardin – un obbiettivo
militare dal quale è bene stare lontani.
Non avete capito ancora perché ho toccato
questo argomento? Ho avuto la conferma
di un sospetto che mi sfiorava da tempo.
– E quale sarebbe?
– Che Anacreon non possieda più energia
termonucleare. Se non fosse così, il nostro
amico avrebbe saputo che il plutonio
ormai da migliaia di anni non viene più
usato per l’energia atomica. E da questo si
può dedurre che tutta la Periferia della
Galassia non conosce più l’uso
dell’energia
atomica.
Certamente
nemmeno Smyrno, altrimenti Anacreon
non avrebbe vinto la maggior parte delle
battaglie nell’ultima guerra. Interessante,
non trovate?
– Oh, piantatela! – E Pirenne se ne andò
furioso mentre Hardin sorrideva.
Questi gettò via il sigaro e guardò in alto
la Galassia lucente. – Siamo tornati di
nuovo al carbone e al petrolio, eh? –
mormorò. Tenne per sé gli altri pensieri.
3
Quando Hardin aveva negato di possedere
il giornale di Terminus aveva forse detto
la verità formalmente, ma niente di più.
Hardin era stato il sostenitore principale
della costituzione su Terminus di un
municipio autonomo, e ne era stato il
primo sindaco. Perciò non c’era da
stupirsi se, pur non possedendo nemmeno
un’azione del giornale, ne controllava
però indirettamente almeno il sessanta per
cento.
Di conseguenza, quando Hardin cominciò
a suggerire a Pirenne che gli fosse
permesso di partecipare al Consiglio dei
Fiduciari non fu solo per una coincidenza
che il quotidiano cominciò una campagna
per sostenere questa tesi. Per la prima
volta da quando la Fondazione era stata
creata, l’intera popolazione si riunì in
assemblea per chiedere che la città fosse
rappresentata nel governo “nazionale”.
Sebbene di malavoglia, Pirenne fu
costretto a cedere.
Hardin, che sedeva in fondo alla lunga
tavola, si chiedeva per quale ragione gli
scienziati fossero pessimi amministratori.
Forse dipendeva dal fatto che erano
troppo abituati alle inflessibili leggi che
regolano i fenomeni fisici e del tutto
ignari della tendenza al compromesso che
contraddistingue molti uomini.
Tomaz Sutt e Jord Fara erano alla sua
sinistra, Lundin Crast e Yate Fulman alla
sua destra; Pirenne, al centro, presiedeva
l’assemblea.
Hardin quasi si appisolò durante le
formalità iniziali, e cominciò a prestare
attenzione solo quando Pirenne, dopo aver
bevuto una sorsata dal bicchiere d’acqua
che stava davanti a lui, si schiarì la voce
per parlare.
– Sono molto lieto di informare il
Consiglio che, dopo la nostra ultima
riunione, ho ricevuto notizia che Lord
Dorwin, Cancelliere dell’Imperatore,
giungerà a Terminus tra due settimane.
Possiamo essere certi quindi che i nostri
problemi di vicinato con Anacreon
saranno risolti in modo per noi
soddisfacente non appena l’Imperatore
verrà a conoscenza degli ultimi
avvenimenti. – Sorrise, e rivolgendosi ad
Hardin aggiunse: – Informazioni in questo
senso sono già state comunicate al vostro
giornale.
Hardin trattenne un lieve sorriso. Era
evidente che il desiderio di sorprenderlo
con questa dichiarazione era stata una
delle ragioni che avevano convinto
Pirenne a farlo ammettere al “sancta
sanctorum”.
Hardin replicò con distacco: – Lasciando
da parte espressioni troppo imprecise, che
cosa vi aspettate che faccia Lord Dorwin?
Rispose Tomaz Sutt. Aveva la brutta
abitudine di rivolgersi all’interlocutore in
terza persona quando doveva esprimere
un’opinione importante.
– Mi pare evidente – osservò – che il
sindaco Hardin sia un cinico di
professione. Egli non può non ammettere
che l’Imperatore impedirà a chiunque di
infrangere i suoi poteri sovrani.
– Che cosa potrebbe fare, l’Imperatore,
nel caso che questo accadesse? –
domandò Hardin.
I convenuti lo guardarono seccati. Pirenne
commentò: – State dicendo una
sciocchezza. A parte il fatto che le vostre
parole sono praticamente sovversive.
– È questa la vostra risposta conclusiva?
– Sì! Se non avete altro da dire...
– Non saltiamo alle conclusioni. Vorrei
farvi ancora una domanda. Oltre a questa
azione diplomatica, che può avere qualche
effetto e può non averne alcuno, si è fatto
qualche passo concreto per parare
l’incombente minaccia di Anacreon?
Yate Fulman si passò una mano sui baffi
imponenti.
– Voi considerate
minaccia?
Anacreon
una
– E voi no?
– Relativa – rispose Fulman, con
indulgenza. – L’Imperatore...
– Per Giove! – Hardin cominciava a
perdere la pazienza. – Qui non si fa che
parlare di “Impero” od “Imperatore”
come se si trattasse di parole magiche.
L’Imperatore si trova a cinquantamila
parsec di distanza, e dubito che si
interessi minimamente di noi. Ed anche se
gli stesse a cuore la nostra sorte, che cosa
potrebbe fare? Quanto era rimasto della
flotta imperiale in queste regioni è ora
nelle mani dei quattro regni, ed anche
Anacreon se n’è presa una parte.
Ascoltatemi, noi dobbiamo combattere
con i cannoni, non con belle parole.
Rendetevi conto che se abbiamo avuto due
mesi di tregua, è stato perché abbiamo
lasciato credere ad Anacreon di essere in
possesso di armi nucleari.
«Bene, noi tutti sappiamo che si tratta di
una bugia bella e buona. Noi abbiamo
energia atomica solo per usi industriali,
ed assai poca anche di quella. Prima o poi
lo scopriranno, e se pensate che saranno
contenti d’essere stati giocati a questo
modo, be’, vi sbagliate.
– Mio caro signore...
– Un momento! Non ho ancora finito. –
Hardin si stava riscaldando, e ne provava
un segreto piacere. – È una gran bella
cosa difendersi dietro ai cancellieri, ma
sarebbe molto meglio se tirassimo fuori
alcuni di quei cannoni adatti a lanciare
bombe atomiche. Abbiamo già perso due
mesi, signori. Che cosa proponete?
Lundin Crast prese la parola; era talmente
agitato che gli vibravano le narici.
– Se voi state cercando di proporre la
militarizzazione della Fondazione, non
voglio sentire altro. Questo segnerebbe il
nostro definitivo ingresso nel campo della
politica. Noi, signor sindaco, siamo una
fondazione scientifica e niente più.
Sutt aggiunse: – Il signor Hardin non si
rende conto che la costituzione di un
esercito sottrarrebbe uomini, uomini di
valore, all’Enciclopedia. Non possiamo
farlo, qualunque cosa accada.
– Giustissimo – approvò Pirenne –
l’Enciclopedia prima di tutto, sempre.
Hardin scrollò la testa, sconsolato. Il
Consiglio sembrava affetto dal complesso
dell’Enciclopedia.
– Non vi è mai venuto in mente – disse
con voce tagliente – che Terminus possa
avere altri interessi al di fuori
dell’Enciclopedia?
– Non è ammissibile, Hardin, che la
Fondazione possa avere altri interessi –
ribatté Pirenne.
– Io non ho parlato della Fondazione. Io
ho detto: Terminus. Temo che voi non
comprendiate perfettamente la situazione.
Su Terminus vivono più di un milione di
persone, e solo centocinquantamila
lavorano per l’Enciclopedia. Per gli altri,
questa è la “casa”. Siamo nati qui e qui
viviamo. A confronto delle nostre fattorie,
delle nostre abitazioni, delle nostre
officine, l’Enciclopedia significa ben
poco. Noi vogliamo che le nostre cose
siano protette...
– L’Enciclopedia prima di tutto! – gridò
Crast. – Abbiamo una missione da
compiere.
– Al diavolo la missione – ribatté Hardin.
– Questa affermazione poteva essere vera
cinquant’anni fa. Ma la nostra è una nuova
generazione.
– Che cosa c’entra la nuova generazione?
– riprese Pirenne. – Noi siamo scienziati.
Hardin prese la palla al balzo. – Ma lo
siete veramente? A me sembra che la
vostra sia un’allucinazione. Tutti voi qui
intorno a me, siete la personificazione
esatta di tutti gli errori che affliggono la
Galassia da migliaia d’anni. Che genere
di scienza è mai la vostra? Rimanere
isolati per centinaia di anni a classificare
il lavoro degli scienziati dell’ultimo
millennio? Non avete mai pensato di
lavorare per il futuro, di estendere le
conoscenze umane, di cercare di
migliorarle? No! A voi basta stagnare.
«Tutta la Galassia vegeta, da chissà quanti
anni. Ecco perché la Periferia si rivolta;
ecco perché le comunicazioni si
interrompono, le guerriglie diventano
esterne, tutto l’universo a poco a poco sta
dimenticando l’energia atomica e
precipita indietro, alla tecnica barbarica
dell’energia chimica. Se volete sapere la
mia opinione – concluse gridando – la
Galassia sta andando in rovina!
Smise di parlare e si abbandonò contro lo
schienale per riprendere fiato, senza
nemmeno curarsi dei due o tre che
tentavano
di
rispondergli
contemporaneamente.
Crast prese infine la parola. – Non so
dove vogliate arrivare con le vostre
orazioni isteriche, signor sindaco. È certo
che il vostro apporto alla discussione non
è costruttivo. Propongo, signor presidente,
che le parole del sindaco vengano
cancellate dal verbale e che la
discussione riprenda dov’è stata
interrotta.
Jord Fara si alzò in piedi per la prima
volta da quando la riunione era
cominciata. Non aveva aperto bocca
nemmeno quando la discussione si era
fatta più accalorata. Ma ora la sua voce,
poderosa come la figura (Fara pesava 150
chili) risuonò con tonalità da basso.
– Non abbiamo forse dimenticato qualche
cosa, signori?
– Che cosa? – domandò Pirenne, irritato.
– Fra un mese celebreremo il nostro
cinquantesimo anniversario.
– E allora?
– In quella occasione – continuò
imperterrito Fara – sarà aperta la Volta di
Hari Seldon. Non vi siete mai domandati
che cosa possa contenere la Volta?
– Non so. Probabilmente cose di ordinaria
amministrazione. Forse discorsi di
congratulazione. Non credo che si debba
dare un particolare significato all’apertura
della Volta; anche se il nostro giornale – e
Pirenne volse gli occhi verso Hardin – ha
cercato di presentarla come un
avvenimento straordinario. Io ho creduto
bene di far cessare questa campagna.
– Ma forse vi sbagliate – disse Fara. –
Non vi colpisce – e si toccò il naso con la
punta dell’indice – il fatto che la Volta
venga aperta in un momento così delicato?
– Un momento molto inopportuno, vorrete
dire – corresse Fulman. – Abbiamo
problemi ben più seri di cui occuparci.
– Più importanti del messaggio di Hari
Seldon? Non credo. – Fara parlava con un
tono di voce sempre più grave, ed Hardin
lo osservava pensoso. Dove voleva
arrivare?
– In realtà – riprese Fara – voi tutti
sembrate dimenticare che Seldon s stato il
più grande psicostorico di tutti i tempi e
che ha creato la Fondazione. Si deve
immaginare quindi che abbia fatto uso
della sua scienza per determinare il
probabile
corso
della
storia
dell’immediato futuro. Se così è stato,
come è verosimile, avrà certamente
cercato un mezzo per avvertirci del
pericolo, e forse per indicarcene la
soluzione. L’Enciclopedia era molta cara
al suo cuore, questo lo sapete.
Un’atmosfera di dubbio sembrò pervadere
l’assemblea. Pirenne borbottò: – Ecco,
ora non saprei proprio. La Psicostoria è
certo una grande scienza, ma non credo
che al momento esistano psicostorici tra
noi. Mi sembra che attualmente ci
troviamo in una posizione poco sicura.
Fara si rivolse a Hardin: – Non avete per
caso studiato Psicostoria sotto Alurin?
Hardin, immerso nei suoi pensieri,
rispose: – Sì, non ho mai terminato i miei
studi, però. Mi sono stancato della teoria.
Volevo laurearmi in Psicostoria applicata,
ma qui non ne avevamo la possibilità.
Perciò ho scelto la materia più simile: la
politica. È praticamente la stessa cosa.
– Bene, e che cosa pensate della Volta?
Hardin rispose con precauzione: – Non
so.
Non parlò più per il resto della riunione,
sebbene avessero ripreso a discutere
della venuta del Cancelliere imperiale.
Ormai, non li ascoltava più. Lo avevano
fatto deviare su un altro ordine di
pensieri, ed alcuni elementi del mosaico
stavano andando a posto, a poco a poco.
La Psicostoria era la chiave del problema.
Ne era sicuro.
Ora Hardin tentava disperatamente di
richiamare alla memoria la teoria che
aveva studiato. Trovò in quelle poche
nozioni il punto di partenza.
Un grande psicostorico come Seldon
poteva analizzare con sufficiente esattezza
le reazioni emotive dell’uomo e poteva
prevedere
approssimativamente
la
evoluzione storica del futuro.
E ciò significava...
4
Lord Dorwin portava i capelli lunghi
ondulati artificialmente, e folte basette
bionde e morbide, che si aggiustava
continuamente con la mano.
I suoi discorsi erano un ricamo di
precisione, ma non riusciva a pronunciare
la
“r”. Inoltre fiutava continuamente tabacco.
Hardin ora non aveva tempo di scoprire le
ragioni dell’antipatia ispiratagli dal
nobile cancelliere. Lo irritavano anche il
gesto della mano con il quale Lord
Dorwin accompagnava ogni frase, e la
studiata espressione di condiscendenza
che assumeva ascoltando l’interlocutore.
Il problema che più interessava Hardin in
quel momento era di riuscire a
rintracciare Lord Dorwin. Era sparito con
Pirenne da più di mezz’ora. Gli era
passato davanti ed era scomparso.
Pirenne era stato visto nell’ala
dell’edificio dove Hardin si trovava ora.
Provò ad aprire tutte le porte. A metà del
corridoio entrò in una sala semibuia. Il
profilo della capigliatura di Lord Dorwin
si delineava inconfondibile contro lo
schermo illuminato.
Lord Dorwin alzò lo sguardo e disse: –
Oh, Havdin. Senza dubbio ci stavate
cevcando. Vevo? – Teneva in mano una
tabacchiera intarsiata, ed Hardin notò che
era di dubbio gusto. Lord Dorwin affondò
due dita nella scatola, aspirò con energia
la presa e sorrise graziosamente.
Pirenne corrugò la fronte ed Hardin lo
guardò con ostentata indifferenza.
Il breve silenzio che seguì fu rotto dallo
scatto che la tabacchiera fece nel
chiudersi. Lord Dorwin la ripose in tasca
e disse: – È vevamente un’opeva
gvandiosa, questa vostva Enciclopedia,
Havdin. Cevtamente un lavovo che può
esseve annovevato tva le più gvandi
conquiste di tutti i tempi.
– Molti di noi lo pensano, milord.
Tuttavia è un’opera non ancora completa.
– Da quel poco che ho visto e
dall’efficienza della vostva Fondazione,
sono convinto che viuscivete a
vaggiungeve il vostvo scopo. – Ed annuì
in direzione di Pirenne che rispose con un
leggero inchino.
Atmosfera idilliaca, pensò Hardin.
– Non alludevo all’eccesso di efficienza
dimostrato da Anacreon: anche se diretta
a uno scopo più distruttivo.
– Ah, sì, Anacveon. – Fece con la mano
un gesto di sufficienza. – Vengo appena
ova da quel pianeta. Sono vevamente dei
bavbavi. È inconcepibile che essevi
umani possano viveve nella pevifevia.
Mancano assolutamente le basi cultuvali:
non esiste nessuna comodità, è quasi
impossibile soddisfave le necessità più
elementavi. Vivono in uno stato tale...
Hardin lo interruppe secco: –
Sfortunatamente,
gli
anacreoniani
possiedono
tutto
il
necessario
equipaggiamento per fare la guerra e tutte
le più elementari attrezzature per
distruggere.
– È vevo, è molto giusto. – Lord Dorwin
sembrava seccato, forse perché era stato
interrotto a metà della frase. – Ma non
siamo qui pev discuteve d’affavi, adesso.
Voglio occuparmi d’altvo al momento.
Dottov Pivenne, volete mosvavmi il
secondo volume? Vi pvego.
Le luci si spensero e per un’altra
mezz’ora Hardin avrebbe benissimo
potuto trovarsi su Anacreon tanta era
l’attenzione che quei due gli prestavano. Il
libro che si proiettava sullo schermo non
lo interessava affatto e non fece alcuno
sforzo per seguirne l’argomento; ma Lord
Dorwin sembrava a volte estremamente
colpito.
Hardin notò che durante quei momenti
d’eccitazione il cancelliere pronunciava
la
“r” come chiunque altro.
Quando ritornarono le luci, Lord Dorwin
disse: – Mevaviglioso. Vevamente
mevaviglioso. Voi dottov Havdin, non
avete pev caso studiato avcheologia?
– Come? – Hardin si scosse,
improvvisamente interrotto nelle sue
riflessioni. – No, milord, non posso dire
di avere interesse in quel campo. La mia
vocazione mi spingeva verso la
Psicostoria, ma sono finito nella politica.
– Ah! Sono cevtamente studi intevessanti.
Pev quanto mi viguavda – annusò un’altra
presa di tabacco di proporzioni notevoli –
mi
sono
dedicato
moltissimo
all’avcheologia.
– Comprendo.
– Sua Signoria – interruppe Pirenne – è un
esperto in questo campo.
– Sì, in un cevto senso, cvedo pvopvio di
sì – disse Sua Signoria, compiaciuto.
– Ho lavovato molto a questa matevia. Ho
molto letto. Sopvattutto autovi come
Jawdum, Obijasi, Kvonwill. Cevtamente
anche voi ne avete sentito pavlave.
– Sì, conosco i nomi – rispose Hardin –
ma non ho mai letto nulla.
– Pvovateci un giovno, mio cavo amico.
Ne vicavevete gvande soddisfazione.
Devo dive che valeva pvopvio la pena di
fave questo viaggio pev tvovave, qui nella
pevifevia, una copia di Lameth. Ci
cvedeveste? Nella mia libvevia mi manca
pvopvio quel volume. Mi vaccomando,
dottov Pivenne, non dimenticate di
favmene aveve una copia pvima che
pavta.
– Sarà mio dovere.
– Dovete sapeve che Lameth – continuò il
cancelliere – pvesenta una teovia nuova e
intevessante sul “Pvoblema delle
Ovigini”.
– Quale problema? – domandò Hardin.
– Il “Pvoblema delle Ovigini”. Cioè la
vicevca del luogo d’ovigine della specie
umana. Cevtamente sapete che si vitiene
genevalmente che in ovigine la vazza
umana occupasse soltanto un sistema
planetavio.
– Sì, questo lo so.
– Natuvalmente nessuno sa con esattezza
quale fosse il sistema planetavio: tutto si è
pevduto nei millenni. Esistono pevò
divevse teovie. Alcuni dicono Sivio.
Altvi insistono su Alfa Centauvi, o sul
Sole, o su Cigni: tutti pevò, come vedete,
nel settore di Sivio.
– E qual è la teoria di Lameth?
– Segue una tvaccia completamente
diffevente. Egli cevca di dimostvave che i
vesti avcheologici del tevzo pianeta di
Avtuvo pvovano che l’umanità esisteva
laggiù ancora pvima che si conoscesse la
tecnica dei viaggi spaziali.
– E ciò significherebbe che si tratta del
pianeta culla della razza umana?
–
Fovse.
Devo
leggevlo
più
accuvatamente e pensavne le pvove pvima
di giudicave. Bisogna sopvattutto vedeve
se le sue ossevvazioni sono attendibili.
Hardin rimase un momento in silenzio. Poi
chiese: – Quando è stato scritto questo
libro?
– Divei civca ottocento anni fa.
Natuvalmente s’è basato molto sugli
scvitti di Gleen.
– Ed allora perché fidarsi di lui? Perché
non andare su Arturo a studiare
direttamente i resti archeologici?
Lord Dorwin levò le sopracciglia ed
aspirò una nuova presa di tabacco.
– A che scopo, mio cavo amico?
– Per raccogliere dati direttamente,
milord.
– Non ne vedo la necessità. Mi sembva un
vagabondaggio inutile e non cevto il modo
migliove pev otteneve dei visultati.
Vedete, io ho sott’occhio il lavoro di tutti
i più gvandi maestvi: tutti i più gvandi
avcheologi del passato. Li vaffronto l’uno
con l’altvo, studiandone le divevse teovie,
analizzandone
le
contvaddizioni,
decidendo quale secondo me sia più nel
giusto, e viesco a giungeve ad una
conclusione. Questo è un metodo
scientifico. Se non altvo più efficiente,
secondo il mio punto di vista. Savebbe
una cosa pviva di significato andave su
Avtuvo, o sul Sole, e compieve vicevche
che i vecchi maestvi hanno già fatto e
cevtamente più accuvatamente di quanto
non potvei fave io.
– Comprendo – mormorò educatamente
Hardin.
Proprio un bel metodo scientifico! Era
facile capire perché la Galassia stesse
andando in rovina.
– Venite, milord – disse Pirenne – penso
che sia ora di ritornare.
– Oh sì. Avete vagione!
Mentre lasciavamo la stanza, Hardin disse
improvvisamente: – Milord, posso farvi
una domanda?
Lord Dorwin sorrise condiscendente, e
fece un grazioso gesto con la mano per
invitarlo a parlare. – Cevtamente, mio
cavo amico. Se vi è utile la mia miseva
conoscenza di...
– Non ha niente a che vedere con
l’archeologia, milord.
– No?
– No. Si tratta di questo: l’anno scorso
abbiamo saputo dell’esplosione della
centrale nucleare del quarto pianeta di
Gamma Andromeda. Abbiamo ricevuto la
notizia senza particolari. Siete in grado di
fornirmi ragguagli più precisi?
Pirenne storse la bocca. – Non riesco a
capire perché vogliate annoiare Sua
Eccellenza con domande così poco
importanti.
– Niente affatto, dottov Pivenne –
intervenne il cancelliere. – È una
domanda compvensibilissima. Non c’è
pevò molto da dive su questo
avvenimento. La centvale è esplosa, ed è
stato un gvosso disastvo. Penso che sia
costata la vita ad alcuni milioni di
pevsone, e che metà del pianeta sia stato
vidotto in vovine. Il govevno sta
pvendendo sevi pvovvedimenti pev
vestvingeve
l’uso
indiscviminato
dell’enevgia atomica: le disposizioni
tuttavia non sono ancova state vese
pubbliche.
– Capisco – disse Hardin. – Ma che cosa
non ha funzionato nella centrale atomica?
– Non si sa con pvecisione – replicò Lord
Dorwin con indifferenza. – L’impianto si
eva guastato alcuni anni prima e il lavovo
di vipavazione è stato fatto in modo molto
tvascuvato. È così difficile al giovno
d’oggi tvovave uomini che compvendano
vevamente la stvuttuva di una centvale
nucleave. – E scuotendo la testa con
rammarico aspirò un pizzico di tabacco.
– Vi rendete conto – disse Hardin – che i
regni indipendenti della Periferia hanno
dimenticato l’uso dell’energia atomica?
– Davvevo? Non ne sono sovpveso. Sono
pianeti bavbari. Ma mio cavo amico, voi
non potete chiamavli indipendenti. Non lo
sono. Il tvattato che ho concluso con lovo
ne è la pvova. Viconoscono la sovvanità
dell’Impevatove. È evidente: se non fosse
così non avvei potuto concludeve il
tvattato.
– Ne sono sicuro. Certo però che hanno
una grande libertà di azione.
– Sì, lo penso anch’io. Molto
considevevole. Ma il fatto ha poca
impovtanza.
Cvedo sia meglio così, pev l’Impevo: con
la Pevifevia che si basa sulle pvopvie
visovse. Non ci sono di molta utilità.
Sono pianeti tevvibilmente bavbavi.
Vevamente poco civili.
– Ma un tempo lo erano. Anacreon era una
delle più ricche provincie esterne.
Se non sbaglio era per lo meno all’altezza
della stessa Vega.
– Oh, sì, Havdin, ma questo eva vevo
centinaia di anni fa. Non se ne può cevto
tvavve una conclusione. Le cose evano
molto divevse nei bei tempi antichi. Non
ci sono più gli uomini di una volta. Ma,
Havdin, voi siete un giovanotto testavdo.
Vi ho già detto che non desidevavo
pavlave d’affavi oggi. Il dottor Pivenne,
mi aveva avvevtito. Mi aveva detto che
voi avveste cevcato in ogni modo di
povtavmi sull’avgomento. Ma io sono
tvoppo vecchio pev lasciavmi tvascinave.
Ne pavlevemo domani.
E questo fu tutto.
5
Questa era la seconda riunione del
Consiglio a cui Hardin partecipava, se si
escludono i discorsi non ufficiali che i
membri del Consiglio avevano tenuto con
Lord Dorwin ora partito. Eppure il
sindaco aveva la netta sensazione che
perlomeno un’altra riunione c’era stata se
non due o tre. Ma non aveva mai ricevuto
l’invito a parteciparvi. Non lo avrebbero
chiamato nemmeno per quest’ultima
riunione, ne era convinto, se non fosse
stato per l’ultimatum.
Questo documento aveva tutta l’aria di un
ultimatum, anche se una lettura
superficiale del foglio visigrafato poteva
far credere che si trattasse d’un cortese
scambio di note tra due potenze. Hardin lo
stava osservando nervosamente.
Iniziava con una formula molto pomposa
di saluto («Sua Altezza, il re di Anacreon,
all’amico e fratello, dottor Pirenne,
Presidente del Consiglio dei Fiduciari
della Fondazione Enciclopedica Numero
Uno») e finiva, in un modo ancor più
involuto, con un gigantesco sigillo
multicolore formato da complicati
simboli.
Comunque era pur sempre un ultimatum.
Hardin disse: – Si è dimostrato che
avevamo poco tempo: solo tre mesi.
Pochi, ma li abbiamo sprecati inutilmente.
Questo documento ci dà una settimana di
tempo. Che cosa vogliamo fare?
Pirenne sembrava preoccupato. – Deve
esserci un errore. Non è assolutamente
possibile che vogliano spingere gli eventi
a questi estremi a dispetto delle
assicurazioni che Lord Dorwin ci ha dato
circa l’atteggiamento dell’Imperatore e
dell’Impero nei nostri confronti.
Hardin levò gli occhi, eccitato. – Avete
informato il re di Anacreon di questa
benevola attitudine dell’Imperatore?
– Certamente, dopo aver messo la
proposta ai voti ed aver ricevuto il
consenso unanime del Consiglio.
– E quando è avvenuta questa votazione?
Pirenne riprese tutta la sua dignità. – Non
credo sia mio dovere rispondervi, sindaco
Hardin.
– D’accordo. Non è molto importante,
d’altra parte. Ma sono del parere che la
vostra nota diplomatica circa il valido
contributo dato alla situazione da Lord
Dorwin – e fece un sorriso amaro – sia
stata la causa diretta di questo documento
amichevole. Avrebbero aspettato più a
lungo, altrimenti. Sono però convinto che
un ritardo non avrebbe affatto giovato a
Terminus, visto l’atteggiamento del
Consiglio.
– Ci volete spiegare, signor sindaco,
come siete giunto a questa conclusione? –
domandò Yate Fulman.
– È molto semplice. Basta servirsi di uno
strumento oggi molto trascurato: il buon
senso. Vedete, esiste una branca del
sapere umano, conosciuta sotto il nome di
logica simbolica, che può venire usata per
eliminare tutte le parole inutili che
rendono oscuro il linguaggio umano.
– Spiegatevi meglio – disse Fulman.
– Ve ne darò un esempio. Tra le altre cose
ho applicato la logica simbolica a questo
documento. Personalmente non ne avevo
bisogno poiché ne sapevo già il
significato, ma ho pensato che mi sarei
potuto spiegare meglio, visto che sto
parlando a cinque scienziati, servendomi
di formule anziché di parole. – Hardin
levò da una cartella alcuni fogli e li
sparse sul tavolo. – A proposito – disse –
queste note non sono state scritte da me.
Come potete vedere, i fogli sono firmati
da Muller Holk dell’Istituto di Logica.
Pirenne si sporse in avanti per osservare
meglio. Hardin continuò: – Il messaggio
di Anacreon era molto semplice da
analizzare, visto che chi l’ha scritto è un
uomo d’azione e non un diplomatico. Tutte
le sue affermazioni giungono ad una
conclusione molto semplice, che in
simboli può essere spiegata così come
vedete e che, tradotta in parole povere,
dice pressappoco: «Se non ci date con le
buone le cose che vogliamo entro una
settimana, verremo a prendercele con le
cattive».
Ci furono alcuni minuti di silenzio,
durante i quali i cinque membri del
Consiglio si piegarono ad analizzare i
simboli scritti sui fogli.
Intanto Pirenne si sedette al suo posto
raschiandosi la gola con imbarazzo.
– Non credo – disse Hardin – che ci sia
possibilità d’errore in questo caso.
Vero, dottor Pirenne?
– Pare di no.
– Bene – continuò Hardin e mostrò altri
fogli. – Davanti a voi ora avete una copia
del trattato concluso tra Anacreon e
l’Imperatore, trattato che, incidentalmente,
porta la firma, come rappresentante
dell’Imperatore, di questo stesso Lord
Dorwin che fu nostro ospite l’altra
settimana, e la relativa analisi simbolica.
Il trattato constava di cinque pagine fitte
di scrittura mentre l’analisi si riduceva a
non più di mezzo foglio.
– Come potete vedere, signori, circa il
novanta per cento del testo è stato scartato
dall’analisi come privo di significato, e le
conclusioni ricavate possono essere
riassunte nei seguenti due punti, veramente
interessanti. Obbligazioni di Anacreon
verso l’Impero: nessuna. Influenza
dell’Impero su Anacreon: nessuna.
Di nuovo i cinque consiglieri seguirono
ansiosamente
le
dimostrazioni,
controllando accuratamente i fogli.
Quando ebbero finito, Pirenne disse,
preoccupato: – I calcoli mi sembrano
esatti.
– Voi ammettete quindi che il trattato non
è altro che una dichiarazione
d’indipendenza totale da parte di
Anacreon ed un riconoscimento del suo
status da parte dell’Impero?
– Sembra che sia così.
– E voi non credete forse che Anacreon se
ne renda anch’esso perfettamente conto e
sia desideroso di affermare la propria
indipendenza, tanto da risentirsi per ogni
azione che possa venire interpretata come
minaccia di interferenza da parte
dell’Impero? Specialmente quando sia
evidente che l’Impero non è affatto in
grado di sostenere una tale minaccia?
– Ma allora – s’intromise Sutt – il sindaco
Hardin non tiene conto delle assicurazioni
di appoggio da parte dell’Impero che ci
ha dato Lord Dorwin.
Sembravano... – esitò – sembravano
soddisfacenti.
Hardin s’appoggiò allo schienale della
poltrona. – Questa è la parte più
interessante di tutta la nostra storia. La
prima volta che ho incontrato Lord
Dorwin l’ho considerato un perfetto
somaro. Mi sono dovuto poi convincere
che è invece il diplomatico più preparato
dell’Impero ed un uomo intelligentissimo.
Mi sono preso la libertà di registrare tutte
le sue affermazioni.
Ci fu un mormorio di indignazione, e
Pirenne aprì la bocca, scandalizzato.
– Perché vi sorprendete? – domandò
Hardin – Mi rendo conto d’avere
commesso un’azione contraria alle regole
dell’ospitalità, una cosa che nessun
gentiluomo farebbe mai. Devo anche
riconoscere che se milord se ne fosse
accorto, le conseguenze sarebbero state
spiacevoli. Ma non se n’è accorto, ed io
ho la registrazione. Questo è tutto. L’ho
fatta trascrivere e l’ho spedita ad Holk
perché la analizzasse.
Lundin Crast disse: – E dov’è il risultato
dell’analisi?
– Qui veniamo al punto più interessante –
replicò Hardin. – Quest’ultima analisi è
stata la più difficile delle tre. Quando
Holk, dopo due giorni di duro lavoro
riuscì ad eliminare ogni affermazione
priva di significato, le parole
incomprensibili, gli aggettivi inutili, in
breve tutto ciò che era irrilevante, scoprì
che non era rimasto niente. Aveva
cancellato tutto. Signori, in cinque giorni
di discussioni, Lord Dorwin non ha detto
assolutamente nulla, ed è riuscito a fare
in modo che voi non ve ne accorgeste.
Ecco tutte le assicurazioni che vi ha dato
il vostro prezioso Impero.
Se Hardin avesse piazzato una bomba
sotto la tavola avrebbe creato meno
confusione di quanta ne seguì a questa sua
ultima frase. Aspettò con pazienza che il
mormorio indignato si placasse.
– E perciò – concluse – quando avete
spedito la minaccia, perché di questo si
trattava,
di
un’eventuale
azione
dell’Impero nei riguardi di Anacreon, voi
non avete fatto altro che irritare un
monarca che sapeva bene come
comportarsi. Il suo orgoglio esigeva
un’azione immediata; ed ha inviato
l’ultimatum. Questo mi riporta alla
domanda iniziale. Abbiamo una settimana
di tempo: che cosa vogliamo fare?
– Mi sembra – disse Sutt – che non
abbiamo alternative; dobbiamo permettere
ad Anacreon di stabilire basi militari su
Terminus.
– In questo sono d’accordo – rispose
Hardin – ma che cosa faremo per
cacciarli via alla prima occasione?
I baffi di Yate Fulman sembrarono
attorcigliarsi. – Pare che voi abbiate già
deciso che si debba per forza usare
violenza contro di loro.
– La violenza – ritorse Hardin – è l’ultimo
rifugio degli incapaci. Ma non intendo
certamente dar loro il benvenuto con la
banda e stendere ai loro piedi i più bei
tappeti.
– Non mi piace il modo in cui vi
esprimete – insistette Fulman. – È
pericoloso, ancora più pericoloso in
quanto abbiamo notato ultimamente che
una buona metà della popolazione sembra
ascoltare ciecamente ogni vostro
suggerimento. E penso che sia conveniente
avvertirvi, sindaco Hardin, che il
Consiglio non è completamente all’oscuro
delle vostre attività più recenti. – Fece
una pausa e tutti gli altri annuirono.
Hardin si strinse nelle spalle. Fulman
continuò: – Se avete l’intenzione di
aizzare la città alla violenza, noi non
permetteremo questo suicidio. Tutta la
nostra politica non ha che uno scopo:
completare l’Enciclopedia. Qualunque
cosa si decida di fare o di non fare, sarà
decisa in base alla salvezza ed alla
conservazione dell’Enciclopedia.
– Allora – disse Hardin – siete
dell’opinione che si debba continuare la
nostra intesa politica del non far niente.
Pirenne disse amaramente: – Siete riuscito
a dimostrarci che l’Impero non ci può
aiutare; anche se non capisco come e
perché questo sia possibile. Se è
necessario il compromesso...
Hardin aveva la sensazione di vivere in
un incubo, dove nonostante si corra a tutta
velocità non si arriva mai in nessun posto.
– Non esiste compromesso! – esclamò. –
Non vi rendete conto che la storia delle
basi militari non è altro che una scusa?
Haut Rodric ci ha detto chiaramente quali
fossero le intenzioni di Anacreon:
annessione, imposizione di un sistema
feudale uguale al loro e creazione di
un’economia aristocratico-contadina. Ciò
che rimane del nostro bluff sulla forza
atomica li trattiene dal muoversi senza
precauzione, ma ciò non significa che non
stiano muovendosi.
S’era alzato indignato e gli altri s’erano
alzati con lui a eccezione di Jord Fara.
Fu questi a parlare per primo. – Sedetevi
per favore. Basta con gli eccessi, sindaco
Hardin, non c’è bisogno che vi infuriate:
nessuno di noi ha commesso un
tradimento.
– Dovrete darmene la prova!
Fara sorrise gentilmente. – Sapete
benissimo che non state parlando sul
serio.
Lasciatemi proseguire. – I suoi piccoli
occhi furbi erano quasi chiusi, ed il
sudore gli luccicava sul mento grasso e
liscio. – Non c’è ragione di nascondere
che il Consiglio è ormai giunto alla
conclusione che la vera soluzione del
problema di Anacreon stia in ciò che ci
verrà rivelato fra sei giorni all’apertura
della Volta.
– Questo è tutto il vostro contributo?
– Sì.
– Non dobbiamo assolutamente far niente?
Solo aspettare con serenità e sperare che
i l deus ex machina (4) salti fuori dalla
Volta? È così, forse?
4 Termine latino (letteralmente, “Dio
dalla macchina”) usato nel teatro classico.
Quando il protagonista non aveva più
possibilità di uscita da una certa
situazione, un dio scendeva dall’alto e lo
salvava. Per estensione, la frase indica
una soluzione fuori dalla logica. ( N.d.R. )
– A parte la coloratura emotiva delle
vostre espressioni, il concetto è esatto.
– Ma questo è assenteismo! Veramente,
dottor Fara, siete i geni della follia.
Una mente meno profonda della vostra
non giungerebbe a tale aberrazione.
Fara sorrise con indulgenza. – La vostra
dialettica, dottor Hardin, è piacevole, ma
fuori luogo. Ricorderete senz’altro le mie
parole di tre settimane fa sull’importanza
della Volta.
– Sì, le ricordo. E devo dire che si
trattava di un’idea stupida anche da un
punto di vista puramente logico-deduttivo.
Avete detto, interrompetemi se sbaglio,
che Hari Seldon era il più grande
psicostorico
della
Galassia;
di
conseguenza, egli ha potuto prevedere la
situazione difficile in cui ci troviamo ora,
ed ha predisposto provvidamente
l’apertura della Volta allo scopo di
indicarci la via d’uscita.
– Sì, avete afferrato il concetto essenziale.
– Ebbene, sappiate che ho passato queste
ultime settimane a studiare l’argomento.
– Ne sono lusingato. E quali sono le
vostre conclusioni?
– I risultati hanno confermato che, anche
in questo caso, basta un po’ di buon senso.
– Sarebbe a dire?
– Per esempio, se Seldon è riuscito a
prevedere il problema di Anacreon,
perché non ci ha trasferiti su un altro
pianeta, possibilmente più vicino al
centro della Galassia? Tutti lo sanno
perfettamente: fu lui a manovrare in modo
che il Consiglio di Trantor ordinasse che
la Fondazione sorgesse su Terminus. Ma
perché avrebbe dovuto comportarsi così?
Perché trasferirci quaggiù se poteva
prevedere fin da allora l’interruzione
delle comunicazioni galattiche, il nostro
conseguente isolamento, la minaccia dei
nostri vicini e la nostra impossibilità di
difenderci, data la mancanza di metalli su
Terminus? Soprattutto questo! E se poteva
prevedere ogni cosa, perché non ha
avvertito i primi fondatori di prepararsi al
peggio, invece di aspettare che avessimo
già un piede nell’abisso? E non
dimenticatevi, che se lui poteva prevedere
il problema allora, noi l’abbiamo di
fronte ai nostri occhi adesso.
D’altra parte, Seldon non era un mago.
Non esistono trucchi per uscire da un
dilemma che lui poteva vedere e noi no.
– Ma, Hardin – gli ricordò Fara – noi non
possiamo fare niente!
– Voi non avete provato. Nemmeno una
volta. Prima vi siete addirittura rifiutati di
credere che esistesse una minaccia! Poi vi
siete fidati ciecamente dell’Imperatore!
Ora scaricate la responsabilità su Hari
Seldon. Vi siete sempre affidati ad una
autorità o al passato: non avete mai
contato su voi stessi. – Stringeva le mani a
pugno, con forza. – È un atteggiamento
malato, un riflesso condizionato che
blocca ogni vostro pensiero indipendente
ogni qualvolta ci si debba opporre
all’autorità. Non vi verrà mai il dubbio
che l’Imperatore non sia più potente di
voi, né Hari Seldon più saggio. Questo
comportamento è sbagliato, non ve ne
accorgete?
Nessuno si prese la briga di rispondergli.
Hardin continuò: – Ma non si tratta di voi
solamente. La Galassia intera si comporta
nello stesso modo. Pirenne ha potuto udire
la teoria di Lord Dorwin sulla ricerca
scientifica. Lord Dorwin pensa che il
modo migliore per diventare un buon
archeologo sia quello di leggere tutti i
libri pubblicati sull’argomento; libri
scritti da uomini morti da centinaia di
anni. Pensa che per risolvere le
controversie
archeologiche
basti
contrapporre le diverse autorità in
materia. Pirenne lo ha sentito e non ha
sollevato obiezioni. Non vedete l’errore
che c’è in tutto questo?
Nessuno si curò di rispondere.
Continuò: – Noi sediamo qui,
considerando l’Enciclopedia il non plus
ultra.
Pensiamo che il massimo scopo della
scienza sia la classificazione delle
scoperte passate. È importante, lo
riconosco, ma non si può andare più in là?
Noi stiamo retrocedendo e dimenticando,
non ve ne accorgete? Nella Periferia
hanno scordato l’uso dell’energia
atomica. In Gamma Andromeda una
centrale è esplosa a causa delle
riparazioni eseguite male, ed il
Cancelliere dell’Impero si lamenta perché
i tecnici capaci sono sempre più scarsi.
Quale soluzione è stata proposta?
Addestrare nuovi tecnici? No! Mai più! Si
limita il consumo dell’energia atomica. È
un problema che s’estende a tutta la
Galassia. È l’adorazione del passato. È il
deterioramento, è la stasi!
Li guardò in faccia uno dopo l’altro ed
essi sostennero il suo sguardo.
Fara fu il primo a riprendersi. – La
filosofia mistica non ci sarà di molto
aiuto.
Cerchiamo di essere più concreti. Volete
negare forse che Hari Seldon abbia potuto
prevedere gli sviluppi futuri della storia
servendosi della tecnica psicostorica?
– No, no di certo – gridò Hardin. – Ma
non possiamo affidarci a lui per trovare
ogni soluzione. Nel migliore dei casi, egli
ci potrà indicare il problema, ma se è
necessario
risolverlo,
dobbiamo
cavarcela da soli. Non possiamo farci
sostituire da lui.
Fulman prese la parola improvvisamente.
– Che cosa significa la frase «indicare il
problema»? Noi conosciamo il problema.
Hardin si voltò verso di lui. – Credete?
Voi pensate che Anacreon fosse la
massima preoccupazione di Hari Seldon?
Non sono d’accordo! Signori, io temo che
nessuno di voi abbia la minima idea di
quanto stia accadendo.
– E voi invece lo sapete? – domandò
Pirenne con sarcasmo.
– Credo di sì! – scattò Hardin. Il suo
sguardo era freddo e duro. – Se c’è
qualcosa di cui sono sicuro, è il fatto che
tutta la situazione appare poco chiara; c’è
sotto qualcosa di ben più grande che non
gli argomenti di cui stiamo discutendo.
Provate a chiedervi perché tra la
popolazione originaria della Fondazione
non è mai stato incluso uno psicostorico
di una qualche importanza, ad eccezione
di Bor Alurin. Ed anche lui si limitò ad
insegnare agli allievi le nozioni
elementari.
Ci fu una breve pausa di silenzio, quindi
Fara disse: – D’accordo. E perché tutto
questo?
– Forse perché uno psicostorico avrebbe
scoperto da solo tutta la verità, e
probabilmente troppo presto, in contrasto
con i piani di Hari Seldon. Adesso noi
procediamo alla cieca, cogliendo barlumi
di verità e niente più. Ed è questo ciò che
voleva Hari Seldon. – Scoppiò in una
risata fragorosa. – Arrivederci, signori! –
E uscì velocemente della sala.
6
Il sindaco Hardin masticava un mozzicone
di sigaro. Era uscito per distrarsi ma non
c’era riuscito. Non aveva dormito la notte
precedente e non nutriva molte speranze
di riuscire a dormire nemmeno questa
volta. I suoi occhi erano stanchi e
cerchiati.
– Ed anche questa è fatta – disse con voce
sfinita.
– Penso anch’io – rispose Yohan Lee
massaggiandosi il mento. – Che cosa te ne
pare?
– Non c’è male. Non si poteva esitare,
non bisognava dare loro il tempo di
capire che cosa stesse succedendo. Una
volta che si è in condizioni di dare ordini,
bisogna darli come se fossimo nati per
comandare, e gli altri ubbidiranno per
forza d’abitudine. Questa è l’essenza di un
colpo di stato.
– Se il Consiglio
irrisoluto...
rimane
ancora
– Il Consiglio? Non considerarlo
nemmeno. Da domani, la sua importanza
nella vita politica di Trantor non varrà un
soldo arrugginito.
Lee annuì lentamente. – Eppure è strano
che non abbiano cercato di fermarci.
Hai detto che non erano completamente
all’oscuro.
– Fara procede a tentoni ed è superficiale;
riesce solo ad innervosirmi. Pirenne mi ha
sospettato fin da quando sono stato eletto.
Ma vedi, non hanno mai avuto la capacità
di capire ciò che stava succedendo. Tutta
la loro educazione è basata sulla fede
assoluta nell’autorità. Credono che
l’Imperatore, solo perché è l’Imperatore,
possieda ogni potere. In conseguenza sono
convinti che il Consiglio dei Fiduciari,
semplicemente per il fatto che agisce in
nome dell’Imperatore, non possa essere
esautorato. La loro incapacità di
ammettere la possibilità di una rivolta è il
nostro migliore alleato.
Si alzò, e prese dal frigorifero un
bicchiere d’acqua. – Non sono cattiva
gente, quando non si staccano dalla loro
Enciclopedia. Faremo in modo che in
futuro sia questa la loro sola occupazione.
Sono assolutamente incapaci di governare
Terminus. Ma adesso va’, e metti le cose
in moto. Voglio restare solo.
Sedette alla scrivania e rimase immobile
ad osservare il bicchiere.
Grande Spazio! Se solo fosse stato
davvero sicuro di sé come lasciava
credere agli altri! Gli anacreoniani
sarebbero atterrati fra due giorni: che
cosa possedeva lui oltre a quelle poche e
vaghe nozioni sulle previsioni di Hari
Seldon per i trascorsi cinquant’anni? Lui
non era nemmeno uno psicostorico vero e
proprio: brancolava con quei pochi dati
che conosceva per indovinare le
intenzioni della più grande mente di tutti i
tempi.
E se Fara avesse avuto ragione, se
Anacreon fosse stato il solo problema
previsto da Hari Seldon, se davvero
l’Enciclopedia fosse l’unica cosa che gli
interessasse conservare, a quale scopo
allora fare un colpo di Stato? Scosse le
spalle e bevve l’acqua gelata.
7
Nella Volta erano disposte ben più di sei
poltrone, come se fosse atteso un gruppo
assai numeroso. Hardin se ne accorse, e si
accomodò preoccupato nell’ultima fila,
tenendosi il più lontano possibile dagli
altri cinque convenuti.
I membri del Consiglio non sembrarono
dispiaciuti del fatto che il sindaco fosse
così discosto da loro. Bisbigliarono per
un po’ fra loro, poi tacquero. Di tutto il
Consiglio, il solo Jord Fara conservava
una parvenza di calma. Aveva tirato fuori
un orologio e lo stava osservando con
attenzione. Anche Hardin controllò
l’orologio e poi guardò la cabina di vetro,
assolutamente vuota, che occupava mezza
sala. La stanza aveva un aspetto normale e
non c’era nulla che indicasse il punto
dove una particella di radio si stava
consumando a poco a poco fino al
momento in cui si sarebbe chiuso un
contatto...
Le luci si abbassarono. Non si spensero
del tutto ma acquistarono un colore
giallognolo. Hardin aveva alzato gli occhi
per osservare le luci del soffitto. Quando
li riabbassò, la cabina non era più vuota.
Una figura l’occupava: un uomo seduto su
una sedia a rotelle! Per alcuni istanti non
disse niente, chiuse il libro che teneva
sulle ginocchia e cominciò a giocherellare
con la copertina. Quindi sorrise ed il suo
volto parve illuminarsi di vita.
Disse: – Sono Hari Seldon. – La sua voce
era vecchia e posata.
Hardin fu sul punto di alzarsi in piedi ma
si fermò.
La voce continuò in tono discorsivo: –
Come potete vedere, sono costretto su una
sedia e non posso alzarmi per salutarvi.
Da quando i vostri nonni sono partiti per
emigrare a Terminus soffro di una noiosa
paralisi. Non posso vedervi, quindi non
sono in grado di salutarvi adeguatamente.
Non so nemmeno in quanti siate. Se siete
in piedi, per favore accomodatevi, e se
qualcuno di voi vuole fumare faccia pure:
non mi dà fastidio. – Una breve pausa. –
Perché poi dovrebbe darmi fastidio?
In realtà io non sono qui.
Hardin cercò automaticamente un sigaro,
ma poi decise che era meglio non fumare.
Hari Seldon mise da un lato il libro, come
per appoggiarlo su un tavolo, ma quando
le sue dita lo lasciarono andare, il libro
scomparve.
Disse: – Sono già passati cinquant’anni da
quando la Fondazione è stata creata.
Cinquant’anni durante i quali i suoi
membri sono rimasti all’oscuro dello
scopo per il quale hanno lavorato. Era
necessario che non lo sapessero. Ora
questa necessità è superata. La
Fondazione Enciclopedica, tanto per
incominciare, è un inganno e lo è sempre
stato!
Si sentirono esclamazioni di sorpresa e
poi un mormorio si levò nel gruppo dei
cinque consiglieri. Hardin non vi badò.
Hari Seldon, indisturbato continuò: – È un
inganno nel senso che tanto a me che ai
miei colleghi non importa niente che
venga pubblicato o meno anche un solo
volume dell’Enciclopedia. È servita al
suo scopo, poiché ha costretto
l’Imperatore a firmare un’ordinanza,
grazie alla quale sono stati radunati i
centomila esseri umani necessari al nostro
progetto. L’Enciclopedia li ha tenuti
occupati mentre gli eventi prendevano
forma da soli; ora è troppo tardi perché
possano tornare indietro.
Per cinquant’anni voi avete lavorato ad un
progetto falso, non vedo che bisogno ci
sia di addolcire l’espressione, ed ogni via
di ritirata vi è stata tagliata. Non avete
altra scelta ora che quella di continuare
per la vostra strada nell’adempimento
d’un compito ben più importante, che era
e rimane il nostro vero progetto.
«A questo fine vi abbiamo portato su un
pianeta tale ed in un momento tale che per
cinquant’anni siete stati posti nella
situazione di mancanza assoluta di libertà.
Da ora in poi, per i secoli futuri, la strada
che seguirete sarà inevitabile. Vi troverete
ad affrontare una serie di crisi, e quella
che state fronteggiando ora è la prima. In
ogni caso la vostra libertà d’azione sarà a
senso unico. Potrete avanzare solo su una
strada. È la strada che la Psicostoria vi ha
preparato per una ragione ben precisa.
«Per secoli la civiltà Galattica ha
ristagnato e s’è avviata al declino, anche
se solo pochi uomini se ne sono resi
conto. Ora, finalmente, la Periferia si sta
separando e l’unità dell’Impero è stata
spezzata. In una data compresa nei
cinquant’anni appena trascorsi, gli storici
futuri porranno la linea di demarcazione e
diranno: «Questo avvenimento segna la
Caduta dell’Impero Galattico». Ed
avranno ragione, anche se pochi
riconosceranno la Caduta per molti altri
secoli.
Dopo la Caduta verrà inevitabile la
barbarie, un periodo che, in circostanze
normali, secondo quanto ci dicono gli
psicostorici, dovrebbe durare trentamila
anni. Noi non possiamo evitare la Caduta
e nemmeno vorremmo farlo, poiché
l’Impero ha ormai perduto la cultura, la
forza ed il valore di una volta. Ma
possiamo accorciare il periodo di
barbarie che seguirà, riducendolo a mille
anni.
Non possiamo rivelarvi il modo in cui
raggiungeremo il nostro scopo, come non
abbiamo potuto dirvi la verità circa la
Fondazione cinquanta anni fa.
«Se voi lo scopriste il nostro piano
potrebbe fallire; come sarebbe fallito se
aveste conosciuto prima l’inganno
dell’Enciclopedia; se allora aveste
saputo, il numero delle varianti
psicostoriche sarebbe aumentato in misura
tale che la nostra scienza non avrebbe
potuto più controllarle. Ora questo
pericolo non è più reale: non esistono
psicostorici su Terminus, e non ce ne sono
mai stati, ad eccezione di Alurin, che era
uno di noi. Questo però posso dirvi:
Terminus e la sua Fondazione gemella,
all’altro estremo della Galassia, sono i
semi della Rinascita da cui nasceranno i
fondatori del Secondo Impero Galattico. E
la crisi in cui vi trovate attualmente è
l’avvio all’ascesa di Terminus.
«Questa, comunque, è una crisi
elementare, molto più facile a superare
delle successive. Per ridurla alle sue
proporzioni, dovete tenere presenti questi
fatti: voi siete un pianeta improvvisamente
tagliato fuori dai mondi ancora civili del
Centro della Galassia e siete minacciati
dai vicini più forti. Siete un piccolo
mondo di scienziati circondati da un’area
di barbarie in continua estensione.
Un’isola di energia atomica in un
crescente oceano di forze primitive: ma
siete non di meno disarmati, perché siete
privi di metalli. Dovete rendervi conto,
quindi, che vi trovate a fronteggiare una
dura necessità e che dovete agire. La
natura di quest’azione, e cioè la soluzione
del vostro problema, è assolutamente
ovvia.
L’immagine della mano di Hari Seldon si
stese nell’aria ed incora una volta il libro
apparve tra le dita. Hari Seldon lo aprì, e
disse: – Qualunque sviluppo segua il
vostro futuro, ricordate sempre ai vostri
discendenti che la via è già stata tracciata,
e al termine del lungo cammino sorgerà un
nuovo e più grande Impero!
I suoi occhi si abbassarono sul libro.
Scomparve nel nulla e le luci brillarono
di nuovo.
Hardin guardò Pirenne che stava di fronte
a lui con un’espressione tragica sulla
faccia, e le labbra tremanti.
La voce del Presidente era ferma, ma
inespressiva. – Pare che aveste ragione
voi. Se vorrete, questa sera alle sei il
Consiglio vi consulterà per decidere la
prossima mossa.
Gli strinsero la mano uno dopo l’altro ed
uscirono: Hardin sorrise tra sé. A quel
punto si erano comportati perfettamente.
Da veri scienziati avevano ammesso
d’aver avuto torto, ma per loro era ormai
troppo tardi.
Guardò l’orologio. A quell’ora tutto era
finito. Gli uomini di Lee avevano il
controllo della situazione, ed il Consiglio
non avrebbe più dato ordini.
La prima nave di Anacreon sarebbe
atterrata l’indomani ma anche questo era
previsto. Entro sei mesi anche loro
avrebbero dovuto ubbidire agli ordini.
In realtà, come Hari Seldon aveva detto, e
come Salvor Hardin aveva immaginato,
fin dal giorno in cui Haut Rodric aveva
rivelato la mancanza d’energia atomica su
Anacreon, la soluzione della prima crisi
era ovvia.
Chiara e lampante come la luce del sole!
PARTE TERZA
I SINDACI
1
I QUATTRO REGNI... È il nome dato a
quelle zone della Provincia di Anacreon
che si staccarono dal corpo del Primo
Impero
all’inizio
dell’Era
della
Fondazione, formando regni indipendenti
e di breve durata. Il più grande e più
potente fu il regno di Anacreon, il cui
dominio si estendeva... Indubbiamente il
fenomeno più interessante nella storia dei
Quattro Regni fu lo sviluppo di un
particolare tipo di società sotto
l’amministrazione di Salvor Hardin...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
Una delegazione! Anche se Salvor Hardin
lo aveva previsto, non per questo il loro
arrivo fu piacevole.
Yohan Lee era per le misure drastiche: –
Non riesco a capire, Hardin – disse –
perché dobbiamo perdere tempo. Non
possono agire fino alle prossime elezioni,
legalmente almeno, e questo ci dà un anno
di tempo. Perché non li eliminiamo
subito?
Hardin scrollò la testa. – Lee, non
cambierai mai. In quarant’anni che ti
conosco, non hai mai imparato l’arte
sottile di aggirare gli ostacoli.
– Non è il mio modo di combattere –
borbottò Lee.
– Sì, lo so. Ed è forse per questa ragione
che sei l’unico uomo di cui mi fidi. –
S’interruppe e allungò una mano per
prendere un sigaro. – Siamo andati molto
lontano, Lee, da quando abbiamo
organizzato il colpo di stato contro gli
Enciclopedisti, tanto tempo fa. Sto
invecchiando. Ho sessantadue anni. Non ti
sei mai accorto di come siano volati gli
ultimi trent’anni?
– Io non mi sento affatto vecchio –
protestò Lee – eppure ho sessantasei anni.
– È vero, ma io non ho un stomaco
efficiente come il tuo. – Hardin stava
succhiando l’estremità del sigaro. Ormai
non sperava più di poter gustare tra le
labbra il sapore aromatico del tabacco di
Vega della sua giovinezza. Erano lontani i
giorni in cui il pianeta Terminus aveva
ancora contatti con il resto dell’Impero
Galattico; i sigari di Vega appartenevano
al limbo nel quale finiscono tutte le cose
dei bei tempi antichi. Ed a quel medesimo
limbo si avviava anche l’Impero
Galattico. Hardin si chiedeva chi fosse
ora il nuovo Imperatore, se esistesse
ancora un Imperatore od anche solo un
Impero.
Da trent’anni, dopo l’interruzione delle
comunicazioni fra la Periferia ed il resto
della Galassia, tutto l’universo di
Terminus era circoscritto al pianeta ed ai
quattro regni che lo circondavano.
Regni! Ai vecchi tempi erano prefetture,
divisioni cioè di una stessa provincia, che
a sua volta faceva parte di un settore; e il
settore era un elemento di un quadrante,
che era parte dell’Impero Galattico che
tutti li comprendeva. Ora l’Impero aveva
perduto il controllo dei settori estremi
della Galassia; questi piccoli gruppi di
pianeti erano diventati regni, con re e
nobili da operetta, continue guerre senza
significato, ed una vita che continuava
patetica, in mezzo alle rovine di una
civiltà morente.
Una civiltà che cadeva, l’energia atomica
era stata dimenticata. La scienza era
divenuta mitologia, fino a quando la
Fondazione non era entrata in azione.
Quella Fondazione che Hari Seldon aveva
creato su Terminus proprio a questo
scopo.
Lee si era affacciato alla finestra, e la sua
voce interruppe le riflessioni di Hardin. –
Stanno arrivando – disse – a bordo
dell’ultimo modello di auto terrestre, quei
giovincelli. – Mosse alcuni passi incerti
verso la porta poi si fermò e guardò
Hardin.
Hardin sorrise e con un gesto gli impose
di tornare indietro.
– Ho dato ordine di farli salire qui. Non
mi va di affrontare il cerimoniale di
un’udienza ufficiale. Sono troppo vecchio
per le cerimonie. A parte il fatto che un
po’ di anticonformismo non guasta quando
si deve trattare con i giovani. – Strizzò
l’occhio. – Siediti, Lee, e dammi il tuo
appoggio morale. Ne avrò bisogno per
trattare con il giovane Sermak.
– Questo Sermak – disse Lee, corrucciato
– è pericoloso. Ha molti seguaci, Hardin,
non sottovalutarlo.
– Ho mai sottovalutato qualcuno, io?
– Bene, allora fallo arrestare: lo puoi
sempre accusare di qualcosa.
Hardin ignorò questo consiglio. – Eccoli
che arrivano, Lee.
Premette col piede un pulsante sotto la
scrivania e la porta si aprì scivolando da
una parte.
I quattro che componevano la delegazione
entrarono uno dopo l’altro, e Hardin
indicò loro cortesemente le poltrone
disposte davanti alla scrivania a
semicerchio. I quattro si inchinarono e
attesero che il sindaco parlasse per primo.
Hardin aprì la scatola dei sigari ornata di
decorazioni d’argento che un tempo,
durante l’era ormai sepolta degli
Enciclopedisti, era appartenuta a Jord
Fara. Era un oggetto fabbricato a Santanni,
prodotto genuino dell’Impero, ma i sigari
che ora conteneva provenivano dalle
piantagioni locali. Uno dopo l’altro, con
gesti solenni, i quattro delegati
accettarono i sigari e li accesero.
Sef Sermak era il secondo a destra, il più
giovane del gruppo, ed anche il più
interessante, con i suoi baffetti biondi
tagliati con cura e gli occhi profondi di
colore incerto. Hardin non si curò degli
altri: i loro volti avevano una espressione
anonima. Concentrò l’attenzione su
Sermak, il giovane che, eletto per la prima
volta membro del Consiglio Municipale,
aveva spesso reso arroventata l’atmosfera
pacifica dell’assemblea. A lui Hardin
rivolse la parola.
– Ero molto ansioso di vedervi,
consigliere, dopo il vostro ultimo
intervento.
Avete condotto assai bene l’attacco contro
la politica estera del governo.
Negli occhi di Sermak si leggeva un’ira
repressa. – Il vostro interessamento mi
onora. Non so se il mio attacco fu
condotto bene o male, ma certamente era
giustificato.
– Forse! Ognuno ha le sue opinioni. Penso
però che voi siate ancora troppo giovane.
Sermak rispose in tono secco: – È un
errore nel quale incorre la maggior parte
delle persone in un determinato periodo
della vita. Quando voi siete diventato
sindaco di questa città, avevate due anni
meno di me.
Hardin sorrise dentro di sé. Il puledro non
prometteva affatto male.
Disse: – Suppongo che siate venuto qui
per discutere di politica estera. Parlate
anche a nome dei vostri colleghi o devo
ascoltarvi separatamente?
I quattro giovani si scambiarono occhiate
d’intesa.
Con un sorriso forzato Sermak disse: – Io
parlo a nome del popolo di Terminus:
popolo che non vedo interamente
rappresentato nell’assemblea d’automi
chiamata impropriamente Consiglio.
– Ah, vedo. Continuate pure!
– È presto detto, signor sindaco. Noi
siamo scontenti...
– Con quel “noi” volete dire il popolo,
vero?
Sermak lo guardò con ostilità. Intuiva che
stava per cadere in una trappola e rispose
freddamente: – Penso che la mia opinione
rispecchi i sentimenti della maggioranza
degli elettori di Terminus. È chiaro?
– Bisognerebbe provare una affermazione
del genere, ma non importa: procediamo.
Voi, dunque, siete insoddisfatto.
– Sì, sono insoddisfatto della politica che
per trent’anni ha lasciato Terminus
indifesa contro un inevitabile attacco
esterno.
– Capisco.
continuate.
Ed
allora?
Continuate,
– Ed allora abbiamo formato un nuovo
partito politico, partito che farà fronte ai
bisogni immediati di Terminus e non
s’abbandonerà a mistiche contemplazioni
di un futuro destino imperiale. Noi
cacceremo voi ed il vostro gruppo di
imbelli pacifisti dal governo della città, e
presto anche.
– A meno che? Esiste sempre una
condizione in casi del genere.
– Non sono disposto a concedere molto: a
meno che vi dimettiate ora. Non vi chiedo
di cambiare politica: non ho molto fiducia
in voi. Le vostre promesse non valgono
niente. Posso solo accettare le vostre
dimissioni immediate.
– Capisco – Hardin incrociò le gambe e
fece dondolare la poltrona. – Questo è il
vostro
ultimatum.
Vi
ringrazio
dell’avvertimento. Ma penso che lo
ignorerò.
– Non crediate che sia solo un
avvertimento, signor sindaco. È una
enunciazione di principio e di azione. Il
nuovo partito è già stato formato e
comincerà la sua attività ufficiale domani.
Non c’è possibilità né desiderio da parte
nostra di giungere ad un compromesso.
Francamente, è stato solo per riguardo ai
servizi da voi resi alla città che vi
abbiamo offerto una facile via d’uscita.
Non credo che ne saprete approfittare, ma
la nostra coscienza è a posto. Le prossime
elezioni vi costringeranno a dare le
dimissioni in un modo molto più
irresistibile. – Si alzò e fece segno agli
altri di seguirlo.
Hardin alzò un braccio. – Un momento!
Sedetevi!
Sef Sermak s’accomodò nuovamente, ma
con una fretta troppo evidente; Hardin,
senza cambiare espressione, dentro di sé
sorrise. Nonostante le parole, stava
aspettando un’offerta... Un’offerta.
– In che modo – chiese Hardin – vorreste
cambiare la politica estera? Volete che
attacchiamo
i
Quattro
Regni,
immediatamente, e tutti insieme?
– Non ho mai avanzato una simile
proposta, signor sindaco. La nostra idea è
questa: che tutti i rapporti pacifici cessino
immediatamente. Sotto la vostra
amministrazione abbiamo svolto una
politica di assistenza scientifica verso i
Quattro Regni. Avete fornito loro
l’energia atomica, avete fatto ricostruire
gli impianti sui loro territori. Avete fatto
edificare cliniche, laboratori chimici e
fabbriche.
– Quali sono le vostre obiezioni?
– Avete voluto fare tutto questo perché
non ci attaccassero. Con tale sistema
avete fatto la figura dello stupido in un
colossale gioco di ricatti, permettendo che
Terminus venisse sfruttata: il risultato è
che ora siamo alla mercé di quei barbari.
– Spiegatevi meglio.
– Avete fornito loro l’energia, dato le
armi, rimesso in funzione le loro navi da
battaglia. Ora sono infinitamente più
potenti di dieci anni fa. Le loro richieste
aumentano di giorno in giorno, e con le
nuove armi riusciranno presto a
soddisfare tutti i loro bisogni d’un colpo
solo, annettendosi Terminus con la
violenza. Non è forse questa la fine di tutti
i ricatti?
– E quali rimedi proporreste?
– Interrompere gli aiuti immediatamente,
finché siamo in tempo. Accelerare i nostri
sforzi in modo da rendere Terminus più
forte, ed attaccare per primi!
Hardin stava osservando con interesse i
baffetti biondi del giovane.
Sermak si sentiva molto sicuro di sé,
altrimenti non avrebbe parlato così
chiaro.
Senza dubbio le sue critiche riflettevano il
pensiero di una buona parte della
popolazione, un numero non indifferente.
La sua voce però non lasciò trasparire la
lieve preoccupazione che gli dava questo
pensiero. Sembrò quasi annoiato. – Avete
finito?
– Per il momento, sì.
– Bene, allora: avete notato la massima
sulla parete dietro la mia scrivania?
Leggetela ad alta voce, per favore.
Sermak storse la bocca. – Dice: «La
violenza è l’ultimo rifugio degli
incapaci».
Questa è una massima da vecchi, signor
sindaco.
– L’ho applicata quando ero ancora
giovane, signor consigliere, e con
successo.
Eravate occupato a succhiare il latte a
quei tempi, ma forse ne avete sentito
parlare a scuola.
Guardò dritto negli occhi Sermak, e
continuò in tono misurato. – Quando Hari
Seldon diede vita alla Fondazione, lo fece
con il falso scopo di pubblicare su questo
pianeta una grande Enciclopedia; per
cinquant’anni noi proseguimmo per quella
via senza conoscere i suoi veri piani.
Quando li scoprimmo era troppo tardi per
tornare indietro. Quando le comunicazioni
con le regioni centrali del vecchio Impero
vennero interrotte, ci trovammo ad essere
un piccolo mondo di scienziati concentrati
in una sola città priva d’industrie,
circondati da regni recentemente creati,
ostili e barbari. Una piccola isola
d’energia atomica, di eccezionale valore,
in un oceano di barbarie.
«Anacreon, che era allora come adesso il
più potente dei Quattro Regni, volle
stabilire, e stabilì in realtà, una base
militare su Terminus; i governanti del
tempo, gli Enciclopedisti, sapevano
perfettamente che si trattava di una mossa
preliminare per la conquista dell’intero
pianeta. Questa era la situazione quando
io... be’...
quando io assunsi il potere. Che cosa
avreste fatto al mio posto?
Sermak alzò le spalle. – Questa è una
domanda accademica. So benissimo che
cosa avete fatto voi.
– In ogni caso lo ripeterò perché forse voi
non avete afferrato bene il punto centrale
della questione. La tentazione di radunare
le forze disponibili e di combattere era
grande. È la soluzione più facile e più
soddisfacente dal punto di vista
dell’orgoglio personale, ma quasi
invariabilmente è anche la soluzione più
stupida. Voi vi sareste comportato in
questo modo seguendo la vostra teoria di
attaccare per primi. Io, invece, andai a
visitare gli altri tre regni, uno dopo
l’altro; e feci presente ad ognuno di loro
che permettendo ad Anacreon di
impadronirsi del segreto atomico si
sarebbero inevitabilmente tagliata la gola;
gentilmente suggerii di comportarsi nella
maniera più ovvia. Questo fu tutto. Un
mese dopo che le forze di Anacreon erano
atterrate sul nostro pianeta, il loro re
ricevette dai tre vicini un ultimatum
congiunto. Dopo sette giorni l’ultimo
anacreoniamo aveva lasciato Terminus.
Ora ditemi, che bisogno c’era d’usare la
violenza?
Il giovane consigliere guardò pensoso il
mozzicone di sigaro e lo pose nel
portacenere. – Non riesco a vedere
l’analogia. L’insulina guarisce un
diabetico senza il minimo bisogno d’usare
un coltello, ma l’appendicite richiede una
operazione. Non potete evitarla. Quando
gli altri sistemi falliscono che cosa rimane
se non quello che voi chiamate l’ultimo
rifugio? È il vostro errore che ci ha
portato a questo punto.
– Il mio errore? Ah sì, capisco, la politica
di aiuti. Forse voi non avete afferrato
quanto sia precaria la nostra posizione. I
nostri problemi non sono finiti con la
partenza degli anacreoniani. Anzi, sono
forse cominciati proprio allora. I Quattro
Regni costituivano più che mai una grave
minaccia: ciascuno di loro, infatti, voleva
diventare una potenza atomica, ma non
osavano attaccarci per paura degli altri
tre.
Ci trovammo in equilibrio sul filo del
rasoio ed il più piccolo spostamento
poteva essere fatale. Se, per esempio, un
regno fosse diventato troppo forte, o se
due si fossero coalizzati... Mi capite?
– Certamente. Era proprio il momento di
cominciare a prepararsi per la guerra
totale.
– Al contrario. Quello era il momento di
non pensare affatto alla guerra. Li ho
spinti uno contro l’altro. Li ho aiutati a
turno. Ho offerto loro scienza, commercio,
educazione, assistenza medica. Ho fatto in
modo che Terminus diventasse più
preziosa come centro di cultura che come
obiettivo militare. E il sistema ha
funzionato per trent’anni.
– Sì, ma avete dovuto avvolgere questi
doni scientifici nella più oltraggiosa delle
imposture. Avete fatto della scienza un
ibrido che sta a metà tra la religione e la
stregoneria. Avete istituito una gerarchia
religiosa e complicati riti senza
significato.
Hardin s’accigliò. – E con ciò? Non vedo
che cosa c’entri questo con la nostra
discussione. Mi sono comportato così
all’inizio perché i barbari considerano la
scienza come una specie di magia nera. La
gerarchia ecclesiastica s’è formata da
sola, e noi abbiamo aiutato questo
processo, solo nel senso che abbiamo
seguito la linea di minore resistenza. Ma
tutto ciò ha poca importanza.
– Questi preti hanno l’incarico di
custodire gli impianti atomici. Non è una
questione di poca importanza.
– È verissimo, ma siamo noi che li
educhiamo. Le loro nozioni sui macchinari
sono puramente empiriche; essi credono
ciecamente in tutto l’apparato di
superstizione che guida le loro azioni.
– Ma se uno di loro s’accorgesse del
trucco e avesse abbastanza cervello per
approfondire le sue nozioni empiriche,
che cosa gli impedirebbe d’imparare la
vera tecnica e di venderla al migliore
offerente? Che valore avremmo noi allora
per i Quattro Regni?
– Non credo che possa verificarsi la
vostra ipotesi, Sermak. Voi fate
considerazioni molto superficiali. I
migliori uomini dei pianeti appartenenti ai
Quattro Regni sono mandati qui ogni anno
per ricevere un’istruzione religiosa.
Quelli che più si distinguono rimangono
ad approfondire le loro cognizioni. Vi
sbagliate se pensate che costoro, senza
alcuna conoscenza dei princìpi scientifici
fondamentali e, peggio ancora, con
nozioni distorte dall’educazione religiosa
ricevuta, possano penetrare la teoria
dell’energia
atomica,
le
leggi
dell’elettronica,
e
la
struttura
dell’iperspazio. Ciò significa che voi
avete un’idea molto romantica e molto
falsa della scienza. È necessaria una
mente eccezionale con un addestramento
di decine d’anni per giungere a qualche
risultato.
Yohan Lee s’era alzato, seccato, ed era
uscito dalla stanza mentre i due ancora
parlavano. Adesso era tornato, e non
appena Hardin ebbe finito si chinò verso
di lui e gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
Hardin annuì e Lee gli consegnò un plico
sigillato. Poi, dopo un’occhiata ostile ai
membri della delegazione, Lee riprese il
suo posto.
Hardin giocherellò con la busta
osservando di sottecchi i convenuti.
Poi l’aprì rompendone i sigilli con un
gesto secco della mano. Solo Sermak
riuscì a trattenersi dal dare una rapida
occhiata al documento.
– Per concludere, signori – disse Hardin –
il governo ritiene di sapere molto bene
come deve comportarsi.
Mentre così parlava lesse il plico. Era
composto da complicati segni in codice e
da tre parole scarabocchiate a matita che
costituivano il messaggio vero e proprio.
Dopo un rapido esame, Hardin lo gettò
con noncuranza nell’inceneritore.
– Questo – disse – pone termine al nostro
colloquio. Sono lieto d’avervi conosciuto.
E vi ringrazio d’essere venuti. – Strinse
loro la mano ed i quattro uscirono in
silenzio.
Hardin aveva quasi perso l’abitudine di
ridere, ma non appena Sermak ed i suoi
silenziosi compagni furono lontani
abbastanza, scoppiò in una gran risata,
rivolgendosi a Yohan Lee.
– T’è piaciuta questa battaglia di bluff,
Lee?
Lee rispose con un grugnito insoddisfatto.
– Non sono poi tanto sicuro che fosse un
bluff. Tratta Sermak con i guanti e vedrai
che è capace di vincere le prossime
elezioni.
– È probabile, molto probabile. Se non
succede qualcosa prima.
– Fa’ in modo che questa volta non vada a
finir male, Hardin. Ti ripeto che Sermak
ha molti seguaci. Che cosa facciamo se
non aspetta fino alle prossime elezioni?
Un tempo noi due ci siamo comportati ben
diversamente, malgrado il tuo slogan sulla
non violenza.
Hardin gli strizzò l’occhio. – Sei
pessimista oggi, Lee. E molto, anche,
altrimenti non parleresti di violenza. Il
nostro piccolo colpo di Stato, se ben
ricordi, è avvenuto senza il minimo
spargimento di sangue. È stata una misura
necessaria presa al momento opportuno, e
tutto è andato liscio, senza il minimo
sforzo da parte nostra. Sermak si trova in
condizioni ben diverse. Noi due, Lee, non
siamo Enciclopedisti. Siamo sempre
all’erta. Usando le buone maniere, cerca
di tenere d’occhio quei bravi giovani,
vecchio mio. Non lasciar capire loro che
li stiamo osservando, ma tieni gli occhi
aperti!
Lee sorrise un po’ acidamente. – Sarei
proprio un buon collaboratore, se
aspettassi i tuoi ordini, Hardin. Sermak i
suoi amici sono sotto sorveglianza da un
mese.
Il sindaco lo guardò divertito. – Mi hai
preceduto, eh? D’accordo. Oh, a
proposito – aggiunse sottovoce –
l’ambasciatore Verisof è di ritorno a
Terminus.
Temporaneamente, spero.
Ci fu una pausa piuttosto tesa, poi Lee
disse, eccitato: – Che cosa diceva il
messaggio? Siamo già ai ferri corti?
– Non so. Non posso dire niente fino a che
non avrò sentito Verisof. Temo di sì, però.
Dopo tutto, deve succedere prima delle
elezioni. Ma perché ti preoccupi?
– Perché non so come ce la caveremo. Tu
sei troppo complicato, Hardin, e stai
giocando in modo pericoloso.
– Anche tu, Bruto... – mormorò Hardin.
Poi ad alta voce: – Non ti stai mettendo
per caso dalla parte di Sermak?
2
Molti sono gli epigrammi attribuiti ad
Hardin. Una buona parte sono apocrifi.
Tuttavia, si racconta che una volta disse
queste parole: «Conviene comportarsi nel
modo più semplice, specialmente quando
si ha la reputazione d’essere una persona
molto astuta».
Poly Verisof ebbe modo più di una volta
di mettere in pratica questo consiglio
grazie al doppio incarico che sosteneva
da quattordici anni su Anacreon: un
incarico che gli ricordava molto spesso, e
spiacevolmente, una danza a piedi nudi
sul ferro rovente.
Per il popolo di Anacreon egli era un alto
prelato,
un
rappresentante
della
Fondazione, considerata dai “barbari” la
fonte del mistero ed il centro della
religione che s’era andata formando, con
l’aiuto di Hardin, negli ultimi trent’anni.
In tale veste, egli riceveva un omaggio che
gli diventava ogni giorno più pesante,
dato il suo spirito completamente
contrario a tutto il cerimoniale di cui era
soggetto.
Per i re di Anacreon, il vecchio ormai
morto ed il giovane nipote che gli era
succeduto al trono, era semplicemente
l’ambasciatore di una potenza temuta e
nello stesso tempo bramata.
Nel complesso si trattava d’un lavoro
scomodo ed il suo primo viaggio verso la
Fondazione dopo tre anni di assenza,
nonostante lo spiacevole incidente che lo
aveva reso necessario, gli pareva una
vacanza. E poiché non era la prima volta
che viaggiava in assoluta segretezza,
aveva fatto anche questa volta uso
dell’epigramma di Hardin comportandosi
in modo molto semplice.
Aveva indossato abiti civili, questo era
già come sentirsi in ferie, ed aveva
prenotato un biglietto di seconda classe su
un’astronave di linea diretta alla
Fondazione. Giunto a Terminus s’era fatto
largo tra la gente che affollava lo
spazioporto e aveva composto il numero
del Municipio da un visafono pubblico.
– Mi chiamo Jan Smite – disse – ho un
appuntamento con il sindaco oggi
pomeriggio.
Parlò con voce anonima ma efficiente. La
segretaria compose un numero interno,
scambiò poche parole, poi riparlò a
Verisof con tono secco e meccanico: – Il
sindaco Hardin vi aspetta tra mezz’ora,
signore. – Lo schermo ridivenne opaco.
L’ambasciatore di Anacreon comprò
successivamente l’ultima edizione del
Quotidiano di Terminus entrò nel parco
del Municipio, si sedette su una panchina
libera, e mentre aspettava, lesse
tranquillamente la prima pagina, la pagina
sportiva, e i fumetti. Dopo mezz’ora esatta
piegò il giornale e si presentò
nell’anticamera dell’ufficio del sindaco.
Durante tutto questo tempo si comportò in
modo talmente normale che nessuno gli
badò.
Hardin alzò gli occhi e sorrise
amabilmente. – Prendete un sigaro! Come
è andato il viaggio?
Verisof
non
fece
complimenti.
–
Interessante. C’era un prete nella cabina
accanto alla mia. Veniva per seguire un
corso
sulla
preparazione
della
radioattività sintetica per la cura del
cancro.
– Ma non l’avrà chiamata radioattività
sintetica, vero?
– Lo credo bene! Per lui era il Cibo
Sacro.
Il sindaco sorrise. – Continuate.
– Mi ha trascinato in una discussione
teologica e devo dire che ha fatto del suo
meglio per staccarmi dal sordido
materialismo.
– Non ha mai riconosciuto in voi il suo
capo religioso?
– Così vestito? Senza la Toga Rossa? No,
no. E poi veniva da Smyrno. È stata
un’esperienza interessante. È sorprendente
vedere come la religione della scienza si
sia propagata. Ho scritto un trattato sul
problema ma solo per diletto personale;
non credo che convenga pubblicarlo. Ho
esaminato la questione da un punto di
vista sociologico: ho tratto la conclusione
che, da quando l’Impero ha incominciato a
corrompersi nella Periferia, la scienza
abbia abbandonato questi mondi. Per
renderla di nuovo accettabile, bisogna
presentarla sotto un’altra forma: ed è
proprio ciò che sta accadendo. La logica
simbolica
dà
una
spiegazione
soddisfacente del fenomeno.
– Interessante! – Il sindaco appoggiò la
testa allo schienale della sedia, poi disse
improvvisamente: – Parlatemi della
situazione su Anacreon.
L’ambasciatore divenne cupo e si tolse il
sigaro dalla bocca. Lo guardò con
disgusto e lo appoggiò sul portacenere. –
Va piuttosto male.
– Non sareste qui, altrimenti.
– Infatti. Questa è la situazione. L’uomo
chiave di Anacreon è il principe reggente,
Wienis, zio di re Leopoldo.
– Lo so. Ma Leopoldo dovrebbe
raggiungere la maggiore età il prossimo
anno, vero? Se non sbaglio compirà sedici
anni a febbraio.
– Sì. – Fece una pausa, poi aggiunse con
un mezzo sorriso: – Se ci arriva. Il re suo
padre è morto in circostanze molto strane.
Un proiettile avvelenato l’ha colpito in
pieno petto durante una partita di caccia.
S’è parlato d’incidente.
– Uhm! Mi ricordo vagamente di Wienis,
conosciuto durante la mia visita su
Anacreon al tempo della loro cacciata da
Terminus: tanto tempo fa, prima che voi vi
occupaste di politica. Vediamo. Se
ricordo bene, era un giovane con i capelli
scuri, la carnagione olivastra, e un difetto
all’occhio destro. Aveva anche un curioso
naso a becco.
– Sì, è lui. Il naso e l’occhio sono rimasti
uguali, però ora ha i capelli grigi. Fa il
doppio gioco. Fortunatamente, quanto ad
intelligenza non è un’aquila. Si crede
molto furbo, il che rende la sua
scempiaggine fin troppo evidente.
– Capita sempre così.
– Ritiene che il miglior sistema per
rompere un uovo sia di fargli scoppiare
sopra una bomba atomica. Un esempio
tipico è il suo tentativo di imporre le tasse
sulla proprietà del Tempio subito dopo la
morte del vecchio re. Vi ricordate?
Hardin annuì pensoso, poi sorrise. – I
preti fecero una rivoluzione.
– L’eco giunse persino su Lucreza. Dopo
quell’esperienza sembra che sia diventato
più cauto nei rapporti con la religione, ma
trova sempre il sistema di impiegare la
violenza. In un certo senso è un uomo
pericoloso per noi; possiede un’illimitata
fiducia nella propria capacità.
– Forse per compensare i suoi complessi
di inferiorità. È un difetto comune a tutti i
rampolli di case reali.
– Sì, ma le conseguenze ci sono lo stesso.
Muore dalla voglia di attaccare la
Fondazione, e non si prende nemmeno la
briga di nasconderlo. È in grado di farlo,
se si tiene conto degli armamenti. Il
vecchio re aveva ai suoi tempi costruito
una magnifica flotta da battaglia, e
Wienis, negli ultimi due anni non ha
dormito. Le tasse che voleva imporre
sulle proprietà del Tempio avrebbero
dovuto accrescere gli armamenti. Fallito
quel mezzo, ha raddoppiato l’imposta sul
reddito.
– Non ci furono proteste contro quel
provvedimento?
– Nessuna che abbia avuto peso.
L’obbedienza al potere costituito era stato
l’argomento di ogni discorso del re, per
settimane. Ma non crediate che Wienis gli
abbia mostrato alcuna gratitudine.
– Ho capito il retroscena. Adesso ditemi
che cosa è successo.
– Due settimane fa una nave mercantile
anacreoniana ha incrociato il relitto d’una
astronave da battaglia della vecchia flotta
imperiale. Probabilmente fluttuava nello
spazio da trecento anni.
Gli occhi di Hardin brillarono di
interesse. Si sistemò meglio sulla
poltrona. – Sì, ne ho sentito parlare. Il
Consiglio della Navigazione mi ha inviato
una petizione nella quale chiede che la
nave sia recuperata a scopo di studio.
Sembra che sin in ottime condizioni.
– È quasi intatta – rispose Verisof. – A
Wienis per poco non venivano le
convulsioni quando ha ricevuto la
richiesta di consegnare l’astronave alla
Fondazione.
– Non ha ancora risposto.
– Non lo farà se non con le armi, questo
almeno pensa. È venuto a farmi visita il
giorno della mia partenza da Anacreon,
per chiedere alla Fondazione di rimettere
l’astronave in efficienza e di restituirla
immediatamente alla flotta anacreoniana.
Ha avuto la faccia tosta di dire che la
vostra nota della settimana scorsa era la
prova di un piano della Fondazione volto
ad attaccare Anacreon. Ha aggiunto che un
eventuale rifiuto di riparare la nave da
battaglia avrebbe confermato i suoi
sospetti, e concludeva che in questo caso
diventa indispensabile prendere misure
per la difesa di Anacreon. Sono le sue
parole: assolutamente indispensabile! È
per questo che sono venuto.
Hardin sorrise.
Anche Verisof sorrise, e continuò: –
Naturalmente si aspetta un rifiuto che
considererebbe un ottimo pretesto per
attaccarci.
– Me ne rendo conto, Verisof. Abbiamo
almeno sei mesi per riparare la nave e
presentargliela con i nostri complimenti.
La faremo ribattezzare Wienis in segno di
stima e di affetto. – Sorrise di nuovo.
Anche questa volta Verisof accennò un
sorriso. – Immagino che sia la soluzione
più logica, Hardin. Ma sono preoccupato.
– E perché? È una nave da battaglia. E a
quei tempi sapevano come costruirle.
Ha una stazza pari all’intera flotta
anacreoniana. È armata di raggi atomici
capaci di distruggere tutto un pianeta, e
possiede una corazza protettiva che
neutralizza i raggi Q senza far aumentare
la radioattività interna. È una nave troppo
importante, Hardin...
– Sciocchezze, Verisof. Sappiamo
entrambi benissimo che l’attuale
armamento di Wienis è sufficiente a
distruggerci in un batter d’occhio molto
tempo prima che l’incrociatore sia
riparato per il nostro uso personale. Che
importanza ha, quindi, se gli diamo anche
l’incrociatore? Voi sapete che non sarà
mai usato in guerra.
– Lo spero. – L’ambasciatore alzò gli
occhi. – Ma Hardin...
– Perché vi siete interrotto? Continuate.
– Ecco, è un argomento che non mi
riguarda. Ma ho letto il giornale. – Posò il
giornale sul tavolo e ne indicò la prima
pagina. – Che cosa significa questo?
Hardin diede una scorsa al quotidiano. –
Un gruppo di Consiglieri sta costituendo
un nuovo partito politico.
– Questo è il titolo dell’articolo – disse
Verisof, imbarazzato. – Mi rendo conto
che siete informato molto meglio di me
sulla politica interna, ma vi stanno
attaccando in tutti i modi possibili. È un
partito forte?
– Fin troppo. Probabilmente alle prossime
elezioni riuscirà ad avere la maggioranza
nel Consiglio.
– Non prima? – Verisof stava guardando
il sindaco di traverso. – Ci sono altri
modi di assumere il controllo senza
attendere le elezioni.
– Mi avete preso per Wienis?
– No. Ma per riparare la nave ci vogliono
mesi; dopo, possiamo essere certi che ci
attaccheranno. La nostra politica di aiuti
sarà presa come un segno di debolezza, e
con l’incrociatore imperiale la forza
navale di Wienis sarà raddoppiata.
Attaccherà di sicuro. Perché rischiare?
Scegliete: rivelate il vostro piano al
Consiglio oppure forzate ora gli eventi su
Anacreon!
Hardin corrugò la fronte. – Forzare gli
eventi adesso? Prima che venga la crisi?
È proprio ciò che non devo fare.
Ricordate che esistono Hari Seldon ed il
Piano.
Dopo un istante di esitazione, Verisof
mormorò: – Siete sicuro che esista
davvero questo piano?
– Non c’è ragione di dubitare – fu la
secca risposta. – Ero presente all’apertura
della Volta del Tempo. Fu la stessa
registrazione di Seldon a rivelarmelo
allora.
– Non intendevo dire questo, Hardin. Il
fatto è che non riesco proprio a vedere
come si possa pianificare la storia con
migliaia d’anni di anticipo. Forse Seldon
ha sopravvalutato se stesso. – Si strinse
nelle spalle al sorriso ironico di Hardin, e
aggiunse: – Certo, io non sono uno
psicostorico.
– Esattamente. Nessuno di noi lo è. Ma io
ho studiato in gioventù le nozioni
elementari di questa scienza, so quello
che la Psicostoria può fare, anche se
personalmente non sono in grado di
applicarla. E non c’è dubbio che Seldon
si sia comportato come ha detto. La
Fondazione fu creata come un rifugio
scientifico: era il mezzo per conservare,
attraverso i secoli di imminenti barbarie,
la scienza e la cultura dell’Impero in
rovina, in modo che giungesse intatta fino
agli albori del secondo Impero.
Verisof annuì, non del tutto convinto. –
Tutti sanno che questo è ciò che dovrebbe
succedere. Ma possiamo rischiare a tal
punto? Possiamo mettere in gioco il
presente solo per la prospettiva di un
futuro nebuloso?
– Dobbiamo rischiare, perché il futuro
non è affatto nebuloso. È stato calcolato
da Seldon, e pianificato. Ogni crisi della
nostra storia è stata fissata, e ciascuna
dipende dalla felice conclusione della
precedente. Questa è soltanto la seconda
crisi e chissà quale effetto provocherebbe
alla fine una deviazione anche minima.
– Mi sembra un ragionamento arbitrario.
– No! Hari Seldon ha detto, nella Volta
del Tempo, che ad ogni crisi la nostra
libertà sarà sempre più circoscritta, fino
al punto in cui le nostre azioni potranno
dirigersi verso una sola meta.
– In modo da tenerci sulla dritta via?
– Sì, in modo che sia impossibile deviare.
Ma, d’altra parte, fino a quando esiste più
di una soluzione, la crisi non è ancora in
atto. Noi dobbiamo soltanto lasciar
scorrere gli avvenimenti senza forzarli, e,
per lo Spazio, è proprio ciò che intendo
fare.
Verisof non rispose. Si morse le labbra,
preoccupato. Hardin aveva discusso con
lui il problema appena un anno prima: il
problema vero, quello di controbilanciare
i preparativi ostili intrapresi da Anacreon.
Ed unicamente perché lui stesso, Verisof,
si era opposto ad una politica di ulteriori
aiuti.
Hardin sembrò leggere nei pensieri
dell’ambasciatore. – Sarebbe stato meglio
che non vi avessi mai detto niente.
– E perché? – domandò Verisof, sorpreso.
– Perché ora siamo già in sei, voi, io, tre
ambasciatori e Yohan Lee, ad avere
qualche idea su quanto stia per succedere,
ed ho invece la maledetta paura che
Seldon volesse tenere tutti all’oscuro.
– Per quale motivo?
– Perché anche la Psicostoria
estremamente perfezionata di Seldon
aveva dei limiti. Non poteva applicare la
sua scienza all’individuo allo stesso modo
come è possibile applicare la teoria
cinetica dei gas alle singole molecole. La
sua scienza sociale ha valore solo se si
prende in considerazione una massa, la
popolazione di un intero pianeta, ed a
condizione che la popolazione non
conosca le conseguenze delle sue azioni.
– Non riesco a capire.
– Non posso esprimermi meglio. Non
sono abbastanza esperto di Psicostoria
per darvi una spiegazione scientifica.
Come sapete, non possediamo testi di
scienza psicostorica. Evidentemente
Seldon non voleva che sul pianeta
qualcuno fosse in grado di prevedere il
futuro. Seldon ha stabilito che
procedessimo alla cieca, e di conseguenza
nel modo giusto, seguendo la legge della
Psicostoria di massa. Come una volta vi
ho detto, non ho mai saputo quale strada
avremmo intrapreso dopo la cacciata
degli Anacreoniani. La mia idea era di
bilanciare la forza delle varie potenze,
niente di più. Solo più tardi mi parve di
intravvedere uno schema negli eventi
successivi, ma ho fatto del mio meglio per
agire come se li ignorassi, per non
compromettere il Piano.
Verisof annuì pensoso. – Ho ascoltato
discussioni quasi altrettanto complicate al
Tempio di Anacreon. Come credete di
poter individuare il momento giusto per
agire?
– L’ho già individuato. Voi ammettete che
quando avremo riparato l’astronave da
guerra più nulla tratterrà Wienis
dall’attaccarci. In questo caso non ci sarà
alcuna alternativa.
– È vero.
– Benissimo. Questo vale per i rapporti
esterni. Allo stesso modo dovrete
ammettere che dalle prossime elezioni
uscirà un Consiglio ostile che imporrà
un’azione di forza contro Anacreon. E
neppure qui esisterà alternativa.
– Anche questo è vero.
– Non appena scompariranno tutte le
alternative, ecco che scoppierà la crisi.
Tutto ciò è scontato ma io me ne
preoccupo.
Tacque un istante, mentre Verisof
aspettava ansioso. E piano, quasi con
riluttanza. Hardin continuò: – Sempre più
mi convinco che la pressione interna ed
esterna siano state progettate in modo da
raggiungere il punto di rottura nello stesso
momento. Come stanno le cose ora,
sembra invece che ci sia una differenza di
qualche mese.
Wienis probabilmente attaccherà prima
che incominci la primavera, mentre manca
ancora un anno alle elezioni.
– Non mi sembra poi molto importante.
– Io non ne sono tanto sicuro. Può darsi
che la colpa sia soltanto di inevitabili
errori di calcolo, oppure lo si può
attribuire al fatto che sapevo troppe cose.
Ho sempre cercato di non lasciare
influenzare le mie azioni dalle previsioni,
ma come posso esserne certo? E quale
effetto avrà questa discordanza? Ad ogni
modo – e Hardin sollevò lo sguardo – io
ho preso una decisione.
– Quale?
– Quando la crisi sarà al culmine, io
andrò su Anacreon. Voglio essere al
centro del temporale... E con questo basta,
Verisof. Si sta facendo tardi.
Andiamocene.
Voi dovrete riposare.
– Lasciatemi riposare qui – disse Verisof
– non voglio essere riconosciuto.
Altrimenti sapete che cosa si direbbe di
me nel nuovo partito che i vostri cari
consiglieri stanno costituendo. Fate
portare da bere.
3
Nei tempi antichi, quando l’Impero
abbracciava l’intera Galassia ed
Anacreon era diventata la più ricca delle
prefetture periferiche, più di un Impero
era venuto in visita ufficiale al palazzo
del viceré. E nessuno era partito senza
aver dato almeno una volta prova della
sua abilità nella caccia ad una specie di
uccello di proporzioni smisurate chiamato
nyak: caccia che veniva condotta su aerei
armati di fucili ad arpione.
Dei fasti di Anacreon non era rimasto
niente dopo gli anni della decadenza. Il
palazzo del viceré era un mucchio di
rovine, tranne quell’ala che i lavoratori
della Fondazione avevano restaurato. Da
duecento anni non si era più visto su
Anacreon un Imperatore. Ma la caccia al
nyak era ancora lo sport reale per
eccellenza; la prima qualità che i
monarchi di Anacreon dovevano
possedere era una buona mira nell’uso del
fucile lancia arpioni.
Leopoldo Primo, re di Anacreon e (titolo
che veniva invariabilmente aggiunto al
suo nome anche se del tutto pleonastico)
Signore dei Domini Esterni, non aveva
ancora sedici anni e già più volte aveva
dato prova della sua bravura. Aveva
abbattuto il suo primo nyak quando non
aveva ancora tredici anni ed era arrivato
al decimo trofeo la settimana seguente alla
sua ascesa al trono. Ora se ne tornava alla
reggia
dopo
aver
colto
il
quarantaseiesimo trionfo.
– Arriverò a cinquanta prima di diventare
maggiorenne – aveva gridato esultante. –
Chi vuole scommettere?
Ma i cortigiani non fanno scommesse
sull’abilità di un re. C’è il pericolo
mortale di vincerle. E così nessuno
accolse la proposta, e il re andò a
cambiarsi d’abito, col morale alle stelle.
– Leopoldo!
Nell’udire l’unica voce che poteva
indurlo ad arrestarsi, il re si fermò.
Wienis era ritto, accanto all’ingresso del
suo appartamento, pronto a fare una
sfuriata al giovane nipote.
– Mandali via – disse, impaziente.
Il re annuì, infastidito, ed i due
ciambellani, fatto l’inchino, sparirono per
le scale. Leopoldo entrò nella stanza dello
zio. Wienis scrutò l’abito da caccia del
re.
– Tra non molto – disse – dovrai
occuparti di qualcosa di più importante
della caccia al nyak.
Gli volse la schiena e sedette
pesantemente alla scrivania. Da quando
era divenuto troppo vecchio per
sopportare le correnti d’aria e per
affrontare i pericolosi tuffi al di sotto dei
colpi d’ala del nyak ed il rullio
dell’aeroplano nelle sue vertiginose
salite, aveva cominciato ad odiare quello
sport.
Leopoldo era divertito dall’atteggiamento
disgustato dello zio, e con malizia
cominciò a raccontare: – Avresti dovuto
venire con noi, zio. Ne abbiamo
incrociato uno enorme nelle regioni
selvagge di Samia. Non ne avevo mai
visto di simili.
L’abbiamo inseguito per almeno due ore,
percorrendo cento chilometri. Poi mi sono
spostato in direzione del sole – e
gesticolava, eccitato, come se si trovasse
ancora sull’aereo – lanciandomi in
picchiata. Risalendo l’ho colpito proprio
sotto l’ala sinistra. Sembrava impazzito e
urlava, volando a destra e a sinistra. Mi
sono piazzato sulla sinistra aspettando che
venisse giù. È precipitato in vite ed è
passato vicinissimo e allora...
– Leopoldo!
– Be’... l’ho preso.
– Ne sono convinto. Ora mi starai a
sentire?
Il re alzò le spalle e sedette all’estremità
del tavolo dove afferrò una noce di Lera e
cominciò a morderla in modo tutt’altro
che regale.
Non osava guardare negli occhi lo zio.
Wienis, per entrare in argomento, disse: –
Sono stato alla nave oggi.
– Quale nave?
– Esiste una sola nave. Quella che la
Fondazione sta riparando per la nostra
flotta. Il vecchio incrociatore imperiale.
– Ah, quella. Te lo dicevo che la
Fondazione l’avrebbe riparata se glielo
avessimo chiesto. Non erano affatto vere
tutte quelle storie sul loro proposito di
attaccarci. Perché se questa era la loro
intenzione, ci avrebbero riparato
l’astronave?
– Leopoldo, tu sei un ingenuo!
Il re, che aveva finito di mangiare la
prima noce di Lera e ne stava sgusciando
un’altra, arrossì.
– Stammi a sentire tu ora – rispose, con
tono d’ira che rese più acuta la sua voce
in falsetto – non credo che ti sia lecito
rivolgermi la parola in questo modo.
Stai dimenticando che tra due mesi sarò
maggiorenne.
– Sì, e sarai proprio in grado d’assumere
le responsabilità di un regno! Se solo ti
interessassi di politica per metà del tempo
che passi a cacciare il nyak, io potrei
abbandonare il governo con la coscienza
tranquilla.
– Questo non ha niente a che vedere con
quanto volevo dire. Anche se sei mio zio
e sei il reggente, io sono sempre il re e tu
mio suddito. E non puoi chiamarmi
ingenuo, né sedere in mia presenza. Devi
chiedermene il permesso. E dovresti stare
attento, altrimenti, presto, potrei prendere
dei provvedimenti.
Gli occhi di Wienis erano gelidi. – Devo
chiamarti “Vostra Maestà”?
– Sì.
– Ottimamente! Vostra Maestà, siete un
ingenuo!
Gli occhi scuri del reggente luccicavano
sotto le sopracciglia brizzolate. Per un
momento Wienis sembrò sorridere
ironicamente della propria battuta, ma
l’espressione gli svanì presto dalla faccia.
Le labbra grosse si piegarono in un
sorriso conciliante ed appoggiò la mano
sulla spalla del re.
– Scusami, Leopoldo. Non avrei dovuto
parlarti così rudemente. Ma qualche volta
è difficile comportarsi secondo il
protocollo, quando gli eventi ti mettono in
un tale stato... Tu capisci? – Le parole
erano amichevoli, ma negli occhi aveva
ancora una luce cattiva.
– Sì – rispose Leopoldo, incerto. – Gli
affari di Stato sono estremamente
complicati. Capisco. – Si chiese, con
apprensione, se lo zio fosse sul punto di
annoiarlo con l’elenco dei più minuti
particolari sul commercio con Smyrno o
con le ultime novità sull’eterna disputa
dei pianeti sparsi nel Corridoio Rosso.
Wienis riprese: – Ragazzo mio, avevo
pensato di parlare con te di questo
argomento tanto tempo fa, e forse avrei
dovuto farlo, ma so bene come allo spirito
impaziente d’un giovane riescono gravosi
gli aridi problemi della politica.
Leopoldo annuì. – Sì, d’accordo, ma...
Lo zio lo interruppe bruscamente. –
Tuttavia diventerai maggiorenne tra due
mesi. E dovrai assumere piena ed attiva
responsabilità proprio in tempi difficili.
Da quel giorno in poi, Leopoldo, tu sarai
re.
Leopoldo annui nuovamente, ma la sua
espressione era annoiata.
– Ci sarà la guerra, Leopoldo.
– La guerra! Ma se abbiamo appena
concluso un trattato con Smyrno...
– Non contro Smyrno. Contro la
Fondazione.
– Ma, zio, hanno accettato di ripararci la
nave! Tu hai detto... – s’interruppe
notando l’espressione sdegnata dello zio.
– Leopoldo! – Il tono amichevole era
scomparso. – Devo parlarti da uomo a
uomo. Dobbiamo fare guerra alla
Fondazione anche se ci riparano
l’astronave, ed al più presto possibile,
non appena i lavori saranno completati.
La Fondazione è la fonte del potere e
della grandezza. La forza di Anacreon,
tutte le sue navi, le città, la gente ed il
commercio dipendono dalle briciole che
la Fondazione ci ha dato contro voglia. Io
mi rammento i tempi in cui le case di
Anacreon erano riscaldate da bruciatori a
petrolio o carbone. Ma lasciamo perdere,
tu non te ne ricordi.
– Mi sembra – suggerì il re timidamente –
che dovremmo essere riconoscenti.
– Riconoscenti? – scattò Wienis. –
Riconoscenti per averci concesso le
briciole, mentre tengono per sé chissà
quali scoperte al solo scopo di riuscire un
giorno a conquistare la Galassia?
Leopoldo, tu sei il re di Anacreon. I tuoi
figli ed i figli dei tuoi figli un giorno
potranno essere padroni dell’universo se
conquisti il potere che la Fondazione ci
nasconde!
– C’è qualcosa di buono nel tuo
ragionamento. – Gli occhi di Leopoldo
luccicarono di gioia mentre gonfiava il
torace. – Dopo tutto che diritto hanno di
tenere tutto per sé? Non è giusto. Anche
Anacreon ha la sua importanza!
– Cominci a capire. Ed ora, ragazzo mio,
che cosa succederebbe se Smyrno
decidesse di attaccare la Fondazione per
conto proprio impadronendosi di tutto il
potere? In quanto tempo credi che ci
farebbe suoi vassalli? Per quanto tempo
sederesti ancora sul trono?
Leopoldo s’eccitava sempre più. – Per il
grande Spirito, sì. Hai ragione.
Dobbiamo colpire per primi. Si tratta di
autodifesa.
Wienis sorrise. – Per di più, un tempo,
agli inizi del regno di tuo padre – riprese
– Anacreon aveva stabilito una base
militare su Terminus, il pianeta della
Fondazione. Era una base d’importanza
vitale per la nostra difesa. Fummo
costretti ad abbandonarla per le basse
macchinazioni del capo della Fondazione,
un viscido codardo, uno studioso senza
una goccia di sangue nobile nelle vene.
Capisci, Leopoldo? Tuo nonno venne
umiliato da questo plebeo Lo ricordo
quando venne su Anacreon con il suo
diabolico sorriso, la sua mente infernale,
ed alle spalle la potenza di tre regni uniti
da una vile alleanza contro la grandezza di
Anacreon.
Le guance di Leopoldo s’infiammarono
mentre gli occhi mandavano lampi d’ira. –
Per Seldon! Se fossi stato mio nonno,
avrei combattuto anche in quelle
condizioni.
– No, Leopoldo. Decidemmo di aspettare
il momento opportuno per cancellare
l’insulto. È stata l’aspirazione costante di
tuo padre, prima della sua morte così
immatura... – Wienis girò la faccia per un
momento. Poi come reprimendo le sue
emozioni aggiunse: – Era mio fratello. Se
suo figlio fosse...
– Sì, zio, non mancherò al mio compito.
Ho deciso. È giusto che Anacreon spazzi
via questo nido di discordie. Dobbiamo
farlo immediatamente.
– No, non subito. Prima aspetteremo che
riparino l’incrociatore da guerra. Il solo
fatto che abbiano accettato di rimettere in
efficienza l’astronave prova che hanno
paura di noi. Quegli sciocchi tentano di
lusingarci, ma noi non ci lasceremo
distrarre dal nostro piano, vero?
– No, finché io sarò re di Anacreon! –
rispose Leopoldo.
Le labbra di Wienis si piegarono in un
sorriso ironico.
– Ed inoltre dobbiamo aspettare la visita
di Salvor Hardin.
– Salvor Hardin! – il re spalancò gli occhi
sorpreso, e i suoi lineamenti giovanili
persero l’espressione dura che aveva
contratto la sua faccia fino a quel
momento.
– Sì, Leopoldo, il capo della Fondazione
verrà personalmente per festeggiare il tuo
compleanno: probabilmente cercherà di
adularci con parole mielate. Ma questa
volta non cederemo.
– Salvor Hardin! – mormorò il giovane.
Wienis s’accigliò. – Hai paura di questo
nome? È lo stesso Salvor Hardin che
quando venne qui la prima volta ci
schiacciò la faccia nella polvere. Stai
dimenticando l’insulto che la nostra casata
dovette subire? E da un plebeo per giunta,
dalla feccia della società!
– No. Hai ragione. Mi vendicherò... ma...
ho paura.
Il reggente si alzò. – Paura? E di che
cosa? Di che cosa, piccolo... – e non
terminò la frase.
– Sarebbe come... be’... una specie di
sacrilegio. Attaccare la Fondazione.
Voglio dire... – Si interruppe.
– Continua.
Leopoldo riprese confuso. – Volevo dire,
se esiste davvero lo Spirito Galattico, a
lui... be’... forse a lui non piacerebbe. Non
credi?
– No, non lo credo – fu la dura risposta.
Wienis sedette nuovamente, e con uno
strano sorriso aggiunse: – E così ti sei
riempito la testa con questo Spirito
Galattico, vero? Ecco che cosa succede a
lasciarti crescere come un selvaggio.
Scommetto che hai ascoltato spesso quel
Verisof.
– Sì, mi ha spiegato molte cose.
– Sullo Spirito Galattico?
– Sì.
– Lattante che non sei altro! Verisof crede
meno di me alle menzogne che racconta!
Quante volte ti ho detto che non bisogna
stare a sentire quelle sciocchezze?
– Sì, lo so. Ma Verisof dice...
– Al diavolo Verisof. Sono tutte
stupidaggini.
Leopoldo rimase in silenzio, seccato. Poi
disse: – Però tutti ci credono. Voglio dire
alle storie del Profeta Hari Seldon. Di
come abbia incaricato la Fondazione di
tramandare i suoi comandamenti affinché
un giorno ritorni il Paradiso Terrestre; e
di come ogni uomo che disobbedisca a
questi precetti venga distrutto per
l’eternità.
Ci credono. Ho partecipato a molte feste
religiose e ne sono sicuro.
– Sì, loro ci credono, ma noi no. Puoi
ringraziare il Cielo che sia così, perché
secondo le storie che raccontano, tu sei re
per diritto divino, e perciò sei un semidio.
E questo ci torna comodo. Elimina ogni
possibilità di rivolta ed assicura
l’assoluta ubbidienza dei sudditi. Ecco
perché, Leopoldo, tu devi partecipare
attivamente ai preparativi ed alla guerra
contro la Fondazione. Io sono soltanto un
reggente e perciò appena un uomo: ma tu
sei il re, un semidio, per loro.
– Ma io non mi sento un semidio –
mormorò il re, pensoso.
– No, infatti non è vero – fu la risposta
ironica. – Ma sei un semidio per tutti gli
altri tranne che per il popolo della
Fondazione. Capito? Tutti, tranne il
popolo della Fondazione. Una volta che li
avremo eliminati nessuno negherà la tua
origine divina. Pensaci!
– E quando questo succederà saremo in
grado di adoperare da soli le centrali
atomiche del Tempio, le navi che volano
senza uomini, il santo cibo che cura il
cancro e tutto il resto? Verisof dice che
solo i benedetti dallo Spirito Galattico...
– Verisof dice! Verisof, dopo Salvor
Hardin, è il nostro più grande nemico. Da’
retta a me, Leopoldo, e non ti preoccupare
di loro. Noi ricostruiremo insieme un
Impero, non solamente il regno di
Anacreon ma un dominio che
comprenderà tutti i miliardi di soli della
Galassia. Non trovi che sia meglio di un
“Paradiso Terrestre” promesso solo a
parole?
– S...sì.
– Verisof può prometterti di più?
– No.
– Bene – disse Wienis, e la sua voce si
fece decisa. – Possiamo considerare
chiuso l’argomento. – Non aspettò la
risposta. – Vai pure adesso, ti raggiungerò
più tardi. Ah, un’altra cosa, Leopoldo.
Il giovane re si girò dalla soglia.
Wienis sorrideva. – Stai attento con
queste cacce al nyak, ragazzo mio. Dopo
lo sfortunato incidente di tuo padre, mi
vengono brutti presentimenti. Nella
confusione, con tanti arpioni che volano
da ogni parte, non si può mai sapere.
Farai attenzione, spero! E ti comporterai
come t’ho detto con la Fondazione, vero?
Leopoldo spalancò gli occhi poi li
abbassò.
– Sì... certamente.
– Bene! – Wienis osservò il nipote che
usciva e ritornò alla sua scrivania.
I pensieri di Leopoldo, mentre lasciava la
stanza, erano cupi e non privi di timori.
Forse sarebbe stato un bene sconfiggere la
Fondazione e conquistare il potere di cui
Wienis parlava. Ma dopo, una volta finita
la guerra, quando sarebbe stato sicuro sul
trono... Si rese improvvisamente conto
che Wienis ed i suoi due figli arroganti
erano, al momento, secondi nella linea di
successione.
Ma adesso il re era lui. Ed i re possono
far giustiziare sudditi.
Anche i cugini e gli zii.
4
Insieme a Sermak, Lewis Bort era il più
attivo nel guidare gli elementi dissidenti
che s’erano riuniti nel Partito AntiImmobilista.
Eppure non aveva fatto parte della
delegazione ricevuta da Salvor Hardin
quasi sei mesi prima. Questo non era
dovuto alla sua posizione poco
importante, piuttosto il contrario. Era
assente per la semplice ragione che a quel
tempo si trovava nella capitale di
Anacreon.
Era andato a visitarla come privato
cittadino. Non aveva incontrato nessun
funzionario e non aveva fatto niente di
importante. Si era limitato ad osservare la
vita del pianeta ed a ficcare il naso in
ogni buco polveroso.
Era arrivato a casa all’imbrunire di una
breve giornata d’inverno cominciata con
il cielo coperto e conclusa con una
nevicata. Un’ora dopo Bort era seduto al
tavolo ottagonale in casa di Sermak.
Le sue prime parole non miravano
certamente a sollevare il morale dei
convenuti già molto depresso dalla
giornata grigia e nevosa.
– La nostra posizione – disse – può essere
definita, se vogliamo usare un termine
melodrammatico, come una “causa
perduta”.
– Credi? – intervenne Sermak cupo.
– Non c’è scampo, Sermak.
– Gli armamenti... – cominciò Dokor
Walto, ma Bort lo interruppe.
– Quella è una vecchia storia. – Guardò
ad uno ad uno i convenuti. – Mi riferisco
al popolo. Ammetto di essere stato io a
proporre l’idea di organizzare una rivolta
di palazzo e nominare un re favorevole
alla Fondazione. Era un’ottima idea e
penso che lo sia ancora. L’unico guaio è
che non è realizzabile. Il grande Salvor
Hardin ha previsto anche questo.
– Bort, se ti spiegassi meglio! – esclamò
Sermak seccato.
– Non è semplice come credi. Su
Anacreon
esiste
una
situazione
incredibile: la religione che la
Fondazione vi ha creato funziona!
– E allora?
– Devi vedere come funziona, per
rendertene conto. Tutto quello che
vediamo qui sono le enormi scuole dove
vengono istruiti i preti. Ed inoltre ci
capita, una volta ogni tanto, in qualche
oscuro angolo della città, di assistere a
una cerimonia celebrata a beneficio dei
pellegrini; niente di più. Tutta questa
messa in scena non ci tocca direttamente.
Ma su Anacreon...
Lem Tarki si lisciò con le dita il pizzo. –
Di che tipo di religione si tratta? –
domandò.
– Hardin ha sempre sostenuto che fosse un
semplice espediente per costringere ad
accettare la scienza. Te ne ricordi,
Sermak, ce l’ha detto quel giorno...
– Le spiegazioni di Hardin – ribatté
Sermak – qualche volta significano ben
poco. Ma che religione è, Bort?
Bort rimase un attimo pensieroso. –
Eticamente, non è male. Si distacca poco
dalle varie filosofie del Vecchio Impero.
L’insegnamento morale è profondo. Non
c’è nulla da ridire sotto questo punto di
vista, e in tal senso svolge una grande
funzione...
– Questo lo sappiamo già – lo interruppe
impaziente Sermak. – Vieni al nocciolo
della questione.
– Eccolo. – Bort era leggermente seccato,
ma non lo dimostrò. – La religione, la
stessa che la Fondazione ha creato e
incoraggiato, è costruita su princìpi
autoritari. I sacerdoti hanno il controllo
diretto di tutti gli strumenti scientifici che
noi abbiamo dato ad Anacreon, ma li
sanno usare in modo empirico. Credono
ciecamente in questa religione, e nel
valore spirituale del potere che
esercitano.
Per esempio, due mesi fa un pazzo ha
messo le mani nell’impianto atomico del
Tempio Tesselekiano: uno dei più grandi.
Naturalmente ha fatto saltare in aria
cinque isolati della città. L’episodio
venne considerato da tutti, clero
compreso, come una vendetta divina.
– Me ne ricordo. I giornali ne hanno dato
una strana versione. Ma non vedo dove tu
voglia arrivare.
– Allora ascolta – riprese Bort,
infastidito. – La gerarchia del clero è a
piramide; al culmine sta il re, il quale è
considerato una specie di semidio. Egli è
monarca assoluto, per diritto divino. Il
popolo lo crede, ciecamente, e lo credono
i preti. È materialmente impossibile
detronizzare un re. Hai capito adesso?
– Un momento – intervenne Walto – che
cosa volevi dire quando ci hai comunicato
che tutto questo è opera di Hardin? Che
c’entra lui?
Bort lo guardò di traverso. – La
Fondazione ha creato l’inganno. Tutti i
nostri aiuti scientifici sono stati offerti con
questa messa in scena. In ogni cerimonia
pubblica il re presiede circondato da un
alone luminoso di raggi radioattivi.
Chiunque osi toccarlo viene bruciato. Può
spostarsi da un luogo all’altro attraverso
l’aria nei momenti più solenni, e la gente
crede che sia per ispirazione del divino
spirito. Con un gesto riempie i templi di
luce. La nostra scienza può fornire
migliaia di trucchi come questi. Ma il
fatto è che i preti credono nel valore
spirituale di questi fenomeni che loro
stessi preparano.
– Male, male! – commentò Sermak,
mordendosi le labbra.
– Mi viene voglia di piangere – continuò
Bort amareggiato – se penso all’occasione
che abbiamo perso. Considerate la
situazione trent’anni fa, quando Hardin ha
salvato la Fondazione dalla minaccia di
Anacreon. A quei tempi il popolo di
Anacreon non aveva capito che l’Impero
stava morendo. Avevano continuato ad
andare avanti in qualche modo anche dopo
la rivolta di Zonia, e neppure quando le
comunicazioni erano state interrotte e quel
pirata del nonno di Leopoldo si era
nominato re, si resero perfettamente conto
che l’Impero era crollato. Se l’Imperatore
avesse avuto il coraggio di tentare,
avrebbe potuto riconquistare tutta la
Periferia con due soli incrociatori, e
naturalmente con l’aiuto della rivolta
interna che non avrebbe tardato a
scoppiare. Anche noi avremmo potuto fare
lo stesso! E invece no, Hardin ha
instaurato la venerazione dei monarchi.
Personalmente non riesco a capire.
Perché? Perché l’ha fatto?
– Che cosa fa Verisof? – domandò Jaim
Orsy, improvvisamente – Un tempo anche
lui era un convinto anti-immobilista Che
cosa fa laggiù? Anche lui è cieco?
– Non so – rispose Bort brevemente. –
Per gli abitanti è un alto prelato. Per
quanto ne so io, non fa nient’altro che il
sovraintendente del clero per i dettagli
tecnici. Un burattino, nient’altro che un
burattino!
Si fece silenzio e tutti si girarono verso
Sermak. Il giovane capo stava mordendosi
un’unghia, nervosamente; poi disse ad alta
voce: – No, non credo. Qui c’è sotto
qualcosa. Che ne dici, Bort? – Si guardò
intorno ed aggiunse più energicamente: –
Possibile che Hardin sia tanto stupido?
– A quanto pare sì – disse Bort alzando le
spalle.
– Impossibile! C’è qualcosa che non
quadra. Non può essere stupido al punto
di spingerci alla rovina totale. Neppure se
fosse pazzo, e nego che lo sia, avrebbe
voluto la nostra rovina. Da un lato ha
creato la religione in modo da eliminare
ogni possibilità di rivolta interna.
Dall’altro lato ha armato Anacreon.
– Devo ammettere che la situazione non è
del tutto chiara – disse Bort – ma i fatti
sono fatti. Che altro si può pensare?
– Tradimento! – esclamò Walto. – È al
loro servizio.
Sermak scosse la testa, impaziente. – No,
non credo neanche a questo.
Mi pare tutta una follia senza senso. Ma
dimmi, Bort, non hai sentito parlare di
un’astronave da guerra che la Fondazione
avrebbe rimesso in efficienza per la flotta
di Anacreon?
– Un’astronave?
– Sì, un’astronave della flotta imperiale.
– No, non ne ho sentito parlare. Ma penso
che non si tratti di una cosa molto
importante. Lo spazioporto militare è un
santuario religioso inviolabile e non è
aperto al pubblico. Nessuno sa niente
della flotta.
– Eppure, se ne parlava in giro. Qualcuno
del Partito ne ha persino riferito in
Consiglio. Hardin non ha mai smentito. I
suoi portavoce hanno detto che erano
pettegolezzi ed hanno lasciato cadere
l’argomento. Potrebbe esserci qualcosa di
vero.
– Si inquadra perfettamente nell’intero
mosaico – disse Bort. – Se è vero, è una
pazzia.
– Forse – osservò Orsy – Hardin ha in
mano un’arma segreta. Può darsi...
Sermak lo interruppe, ironico. – Sì, una
scatola a sorpresa che scatterà nel
momento psicologicamente adatto e farà
tremare di paura Wienis. È meglio che la
Fondazione si autodistrugga evitando
l’agonia, piuttosto che aspettare l’arma
segreta!
– Bene – disse Orsy, cambiando
all’improvviso argomento. – Il problema
è questo: quanto tempo ci rimane?
– D’accordo. Il problema è questo. Ma
non contate su di me: non lo so. La stampa
di Anacreon non parla affatto della
Fondazione. Per ora è solo piena di
notizie sulla prossima incoronazione.
Leopoldo sarà re la prossima settimana.
– Allora abbiamo alcuni mesi di tempo –
disse Walto, sorridendo per la prima
volta nella serata. – Abbiamo tempo
fino...
– Ma che dici! – scattò Bort, seccato. –
Ricordati che il re è un dio! Non ha
bisogno di accusarci di aggressione per
suscitare nel popolo la necessaria carica
emotiva. Al momento di combattere,
Leopoldo darà l’ordine, ed il popolo
correrà alle armi, non c’è dubbio. È il
sistema di quella maledetta società. Non
si chiedono spiegazioni ad un dio. Per
quanto ne so, potrebbe anche dare
l’ordine domani.
Ora tutti volevano parlare insieme, e
Sermak fu costretto a battere un pugno sul
tavolo per ottenere silenzio. In quel
momento la porta si aprì, e Levi Norast
irruppe nella stanza, con il cappotto sulle
spalle coperto di neve.
– Leggete qui – gridò, gettando sul tavolo
un giornale. – In città non si parla d’altro.
Il giornale venne aperto, ed i cinque si
curvarono a guardarlo.
– Per lo Spazio! – esclamò Sermak con
voce strozzata. – Andrà su Anacreon.
Su Anacreon...
– Ma questo è tradimento! – gridò Tarki –
Ha ragione Walto. Ci ha venduti tutti ed
adesso va a ritirare i soldi.
Sermak s’era alzato. – Non abbiamo
scelta adesso. Domani chiederò al
Consiglio che Hardin venga destituito. E
se anche questa mossa dovesse fallire...
5
Non nevicava più, ma per terra c’era uno
spesso strato di neve e l’autoslitta
avanzava a fatica nelle strade deserte. La
luce grigia dell’alba era gelida. Sebbene
il momento politico fosse grave nessun
abitante di Terminus, sia del Partito AntiImmobilista, sia sostenitore di Hardin,
aveva sufficiente spirito battagliero per
scendere in strada così presto.
Yohan Lee era di cattivo umore, e
manifestava le sue preoccupazioni ad alta
voce. – Farà una cattiva impressione,
Hardin. Diranno che hai tentato di fuggire.
– Lasciali dire. Devo andare su Anacreon,
non posso farne a meno. Ma ora basta, per
favore, Lee.
Hardin s’appoggiò rabbrividendo allo
schienale del sedile. Faceva caldo
all’interno della slitta, ma Hardin si
innervosiva osservando dal finestrino il
panorama coperto di neve.
– Un giorno – disse – condizioneremo il
clima di Terminus. Non è affatto una cosa
impossibile.
– A me – rispose Lee – piacerebbe prima
mettere a posto altre cose. Che ne diresti,
per esempio, di condizionare il clima di
Sermak? Una bella, comoda cella con
temperatura a venticinque gradi per tutto
l’anno.
– Poi dovrei rafforzare la mia guardia del
corpo – continuò Hardin. – Quei due non
basterebbero più – indicò gli agenti che
sedevano accanto all’autista con
espressioni risolute tenendo la mano sui
disintegratori atomici e controllando
attentamente le strade deserte.
– Faresti scoppiare una guerra civile.
– Oramai la miccia è accesa. Il mio
intervento non modificherebbe la
situazione, te lo assicuro. – Poi, contando
sulle dita disse: – Primo: Sermak ieri ha
sollevato un tumulto al Consiglio ed ha
fatto mettere ai voti una mozione di
sfiducia contro di te...
– Era nel suo pieno diritto – rispose
Hardin. – Però la mozione è stata bocciata
con 206 voti contro 184.
– Oh, certo. Una maggioranza di ventidue
voti quando noi ci aspettavamo un
margine di almeno sessanta. Non puoi
negarlo, ci contavi anche tu.
– È andata bene per un soffio – ammise
Hardin.
– D’accordo. Secondo: subito dopo il
voto i cinquantadue membri del Partito
Anti-Immobilista hanno abbandonato il
Consiglio.
Hardin non rispose, e Lee continuò: –
Terzo: lasciando la sala, Sermak ha
gridato all’assemblea che eri un traditore
e che andavi ad Anacreon a ritirare il
compenso del tradimento, che i membri
dell’assemblea contrari alla mozione
erano anche loro traditori, e che il suo
partito non era stato costituito per niente.
Che significa tutto questo?
– Che siamo nei guai.
– Ed ora fuggi come se ti sentissi in colpa.
Devi affrontarli, Hardin... E se proprio è
necessario, ordina la legge marziale, per
lo Spazio!
– La violenza è l’ultimo rifugio...
– ...degli incapaci. Al diavolo!
– Aspetta e vedrai. Ora ascolta, Lee.
Trent’anni fa, nel cinquantesimo
anniversario della Fondazione, è stata
aperta la Volta del Tempo, e la
registrazione di Hari Seldon ci ha
spiegato ciò che stava succedendo.
– Me ne ricordo bene – disse Lee con un
mezzo sorriso. – Fu il giorno del nostro
colpo di stato.
– Esattamente. Quella data coincise con la
prima crisi. Ci troviamo ora in difficoltà
per la seconda volta, e fra tre settimane
cadrà l’ottantesimo anniversario della
Fondazione. Non ti suggerisce niente
questo fatto?
– Vuoi dire che Seldon comparirà di
nuovo?
– Non ho ancora finito. Seldon non ha mai
detto che sarebbe ritornato ma anche ciò
fa parte del suo piano. Lui ha sempre fatto
del suo meglio per tenerci all’oscuro. Non
c’è modo di sapere se il sigillo
radioattivo sia regolato in modo da
consentire altre aperture. A meno di
smontare la Volta... ma forse esiste un
meccanismo auto- distruttore, contro
questi tentativi. Da quando si aprì la
prima volta, mi ci sono recato ad ogni
anniversario. Seldon non è mai più
apparso, ma è solo in questo momento che
abbiamo di fronte una crisi vera e propria.
– Allora comparirà.
– Forse. Non lo so. Alla riunione del
Consiglio di oggi, dopo aver annunciato la
mia partenza per Anacreon, tu
comunicherai ufficialmente che il 14
marzo Seldon comparirà nella Volta per
trasmetterci un messaggio d’estrema
importanza
riguardante
la
felice
conclusione della crisi. È molto
importante, Lee. Non aggiungere altro,
anche se ti tempestano di domande.
Lee spalancò gli occhi. – Ci crederanno?
– Non ha importanza. Rimarranno confusi,
ed è ciò che voglio. Sia che non ci
credano, sia che non capiscano il
significato delle tue parole, decideranno
comunque di aspettare fino al 14 marzo. Io
allora sarò già tornato da un pezzo.
Lee lo guardò incerto. – Ma l’accenno
alla “felice conclusione” è un trucco!
– Un trucco che servirà a confonderli. Ma
eccoci allo spazioporto.
Nella foschia apparve la sagoma
dell’astronave in attesa. Hardin,
arrancando nella neve, aprì il portello
stagno. Poi si girò tendendo la mano.
– Arrivederci, Lee. Mi dispiace lasciarti
nei guai in questo modo, ma sei l’unico di
cui mi possa fidare. E stai lontano dal
fuoco.
– Non ti preoccupare. Seguirò
scrupolosamente gli ordini. – Fece un
passo indietro ed il portello si chiuse.
6
Salvor Hardin non andò direttamente sul
pianeta Anacreon dal quale il regno
prendeva nome. Vi arrivò alla vigilia
dell’incoronazione. Prima visitò otto
sistemi
solari
della
monarchia,
fermandosi su ognuno per conferire con i
rappresentanti locali della Fondazione.
Durante il viaggio si rese conto con
stupore della vastità del regno.
Eppure non era che un granello di sabbia,
paragonato all’Impero Galattico del quale
una volta era stato parte integrante. Il
pianeta al centro, Anacreon, era il più
popolato: tutti gli altri sistemi solari si
uniformavano ai suoi usi e costumi.
Seguendo i confini dell’antica prefettura
di Anacreon, il regno abbracciava
venticinque sistemi solari, sei dei quali
possedevano più d’un mondo abitato. La
popolazione, diciannove miliardi di
persone, benché non avesse ancora
raggiunto la densità degli anni imperiali,
era in rapido aumento in virtù degli aiuti
scientifici ricevuti dalla Fondazione.
Solo ora Hardin comprendeva appieno la
grandezza del suo compito. In trent’anni
solo il pianeta centrale era stato dotato
per intero d’energia atomica.
Nelle altre provincie c’erano territori
vastissimi in cui gli impianti nucleari non
erano ancora stati ricostruiti. Ed inoltre
quei pochi progressi fatti erano in buona
parte dovuti al razionale impiego dei resti
della civiltà imperiale.
Quando Hardin giunse alla capitale scoprì
che tutte le attività del pianeta s’erano
fermate. Su Anacreon l’intera popolazione
partecipava attivamente a riti paganoreligiosi
che
annunciavano
l’incoronazione del re-dio Leopoldo.
Hardin era riuscito a parlare con
l’indaffarato Verisof solo per mezz’ora.
Poi l’ambasciatore se n’era andato per
presenziare ad un ennesimo rito religioso
nel Tempio. Ma quella mezz’ora fu
sufficiente, ed Hardin si preparò con più
serenità ad assistere ai fuochi artificiali in
programma per la sera.
Si comportò, in tutto e per tutto, come
semplice osservatore; non si sentiva di
assumere la parte che gli sarebbe toccata
nei riti religiosi se la sua identità fosse
stata resa pubblica. Per questa ragione,
quando il salone del palazzo reale si
riempì dei personaggi più illustri e nobili
convenuti in onore del re, si tenne in
disparte, poco notato od addirittura
ignorato.
Lo avevano presentato a Leopoldo
insieme ad altre centinaia di ospiti: a
distanza di sicurezza, dato che il re se ne
stava solitario, circondato da un mortale
alone radioattivo che rendeva maestosa la
sua persona. Tra meno di un’ora si
sarebbe assiso sul trono di platino e radio
incastonato di gioielli. Il trono doveva
quindi sollevarsi lentamente fino al
balcone, in modo che il popolo radunato
di fronte al palazzo potesse applaudire il
suo re e gridarne il nome in una scena di
isterismo collettivo. Il trono era così
grande e massiccio perché dentro c’era
nascosto un motore atomico.
Erano le undici passate. Hardin si sentiva
agitato. Si alzò sulla punta dei piedi per
vedere meglio, dominando l’impulso di
salire su una sedia. In quel momento vide
Wienis che gli si avvicinava facendosi
largo tra la folla. Allora si rilassò.
Wienis avanzava lentamente. Ad ogni
passo doveva scambiare cortesi frasi di
convenienza
con qualche
nobile
personaggio.
Finalmente si liberò dell’ultimo ospite e
raggiunse Hardin. Gli sorrise cordiale.
Sotto le ciglia folte i suoi occhi
splendevano di orgoglio.
– Carissimo Hardin! – disse a bassa voce.
– Forse temevate di annoiarvi, e per
questo avete rifiutato di farvi annunciare?
–
Non mi
sto
affatto
annoiando,
Eccellenza. Tutta la cerimonia è
estremamente interessante. Su Terminus,
non abbiamo nessuna celebrazione
paragonabile a questa.
– Non ne dubito. Ma vi dispiacerebbe
seguirmi nei miei appartamenti privati?
Potremo parlare più a lungo e più
tranquillamente.
– Certo.
A braccetto, i due scesero le scale, e più
d’una nobile zitella si mise l’occhialino
per osservare sorpresa quel personaggio
vestito in modo insignificante che
riceveva tanto onore dal principe
reggente.
Negli appartamenti di Wienis, Hardin si
rilassò del tutto ed accettò con un
mormorio di gratitudine il bicchiere di
vino che il reggente stesso gli versò.
– Vino di Locris, Hardin – spiegò Wienis
– delle cantine reali.
Duecento anni di invecchiamento. È stato
imbottigliato dieci anni prima della
rivolta Zeoniana.
– Davvero una bevanda reale – disse
cortese Hardin e levò il bicchiere. – A
Leopoldo Primo, re di Anacreon.
Bevvero, poi Wienis aggiunse: – E
chissà? Al futuro Imperatore della
Periferia, se non di più. Un giorno la
Galassia sarà di nuovo riunita.
– Senza dubbio. Ma per opera di
Anacreon?
– E perché no? Con l’aiuto della
Fondazione la nostra superiorità
scientifica sul resto della Galassia sarà
indiscutibile.
Hardin posò il bicchiere vuoto. – Sì, ma
bisogna ricordare che la Fondazione deve
aiutare ogni nazione che richieda
assistenza scientifica. La missione ideale
del nostro governo e la via morale
indicataci dal nostro fondatore, Hari
Seldon, ci proibiscono i favoritismi. Non
possiamo
comportarci
altrimenti,
Eccellenza.
Wienis sorrise compiaciuto. – Lo Spirito
Galattico, per usare un detto popolare,
aiuta coloro che si aiutano. Mi rendo
conto perfettamente che la Fondazione,
lasciata a se stessa, non vorrà mai
collaborare.
– Non direi. Vi abbiamo riparato
l’astronave imperiale, benché il nostro
ministero della navigazione l’avesse
richiesta per scopi scientifici.
Il reggente fece eco con tono ironico: –
Scopi scientifici! Già! Eppure non credo
che l’avreste riparata se non avessimo
minacciato di farvi guerra.
Hardin allargò le braccia. – Non lo so.
– Invece io penso di sì! E la minaccia è
sempre valida.
– Anche adesso?
– Ora forse è troppo tardi per parlare di
minacce – rispose Wienis dando una
rapida occhiata all’orologio della
scrivania. – Hardin, voi siete stato su
Anacreon un’altra volta. A quel tempo
eravate giovane, eravamo giovani
entrambi. Eppure già allora i nostri punti
di vista differivano. Voi siete un uomo di
pace, vero?
– Penso di sì. O meglio, considero la
violenza un sistema antieconomico per
raggiungere qualsiasi fine. Penso che
esistano soluzioni migliori, anche se meno
dirette.
– Esattamente. Anch’io conosco il vostro
detto famoso: «La violenza è l’ultimo
rifugio degli incapaci». Eppure – il
reggente si interruppe per grattarsi in
modo lezioso un orecchio – io non credo
di essere proprio un inetto.
Hardin annuì e non rispose.
– Nonostante ciò – continuò Wienis – ho
fiducia nelle azioni dirette. Vado diritto
allo scopo, io. Con questo sistema ho
ottenuto ottimi risultati, e migliori ancora
spero di ottenerne in futuro.
– Capisco – lo interruppe Hardin. – Devo
immaginare che il vostro scopo attuale sia
di impadronirvi del trono per voi e per i
vostri discendenti, considerata la
sfortunata e immatura morte dell’altro re,
vostro fratello maggiore, ed il precario
stato di salute dell’attuale sovrano. Non è
così?
La frecciata colpì nel segno, e la voce di
Wienis si fece dura. – Hardin, dovreste
capire che è più prudente evitare questi
argomenti. Forse, come sindaco di
Terminus, vi credete in diritto di fare...
diciamo osservazioni non troppo
giudiziose. Ma in questo caso è meglio
che cambiate idea. Non che le vostre
parole mi spaventino. Ho sempre
sostenuto che le difficoltà della vita
svaniscono se le si affronta a viso aperto.
Non ho mai rinnegato questa dottrina.
– Non ne dubito. Quale difficoltà vi
preoccupa, al momento?
– La difficoltà di indurre la Fondazione a
collaborare, Hardin. La politica di pace
vi ha spinto a commettere molti errori
gravissimi sottovalutando l’audacia del
vostro avversario. Non tutti hanno paura
delle azioni dirette.
– Per esempio? – domandò Hardin.
– Per esempio, voi siete venuto su
Anacreon da solo e mi avete
accompagnato, sempre da solo, nei miei
appartamenti.
Hardin si guardò attorno. – E che cosa c’è
di sbagliato?
– Niente – disse il reggente. – Però, fuori
da questa stanza, ci sono cinque guardie
armate pronte a sparare. Non vi conviene
cercare di uscire, Hardin.
Il sindaco aggrottò la fronte. – Non ho un
desiderio così immediato di uscire. E non
vedo perché dovrei spaventarmi.
– Non c’è nulla da temere, infatti.
– E allora? – disse Hardin indifferente.
– Con il tempo, cambierete opinione.
Avete poi commesso un altro errore,
Hardin, e ben più grave. Si dice che il
pianeta Terminus sia del tutto indifeso.
– Naturalmente. Non abbiamo nulla da
temere. Non serviamo interessi particolari
e ci comportiamo con tutti allo stesso
modo.
– E restando inermi – continuò Wienis –
ci avete gentilmente aiutati ad armarci,
curando in modo particolare l’efficienza
della nostra flotta. Una flotta che, dopo il
dono dell’astronave imperiale, è del tutto
invincibile.
– Eccellenza, state perdendo tempo. –
Hardin fece il gesto di alzarsi. – Se volete
dichiararci guerra, e me lo state
annunciando, voglio sperare che mi
permettiate di darne comunicazione
immediata al mio governo.
– Sedetevi, Hardin. Io non vi sto
dichiarando guerra, e voi non farete
nessuna comunicazione al vostro governo.
Quando la guerra sarà combattuta, Hardin,
non dichiarata, la Fondazione ne verrà
informata al momento giusto dai colpi
delle batterie atomiche della flotta
Anacreoniana guidata da mio figlio. Egli è
a bordo della nave ammiraglia “Wienis”,
quella che un tempo apparteneva alla
flotta imperiale.
Hardin s’oscurò in volto. – E questo
quando accadrà?
– Se proprio vi interessa, la flotta di
Anacreon ha lasciato la base cinquanta
minuti fa, alle undici; il primo colpo verrà
sparato appena le navi saranno in vista di
Terminus, domani verso mezzogiorno. Voi
potete considerarvi prigioniero di guerra.
– È esattamente quello che mi considero,
Eccellenza – disse Hardin ancora
accigliato. – Tuttavia sono sorpreso.
Wienis accennò un sorriso di disprezzo. –
Tutto qui?
– Sì. Avevo pensato che il momento
dell’incoronazione, mezzanotte, fosse il
più indicato per far partire la flotta.
Evidentemente avete voluto incominciare
la guerra nella vostra qualità di reggente.
Più tardi sarebbe stato più drammatico.
Il reggente spalancò gli occhi. – Che
sciocchezze state dicendo?
– Non capite? – chiese Hardin con calma.
– Avevo già preparato la mia contromossa
per mezzanotte.
Wienis si alzò. – Il vostro è un bluff! Non
ci sono contromisure. Se contate sull’aiuto
degli altri regni, vi sbagliate. Le loro
flotte messe insieme non hanno la potenza
della nostra.
– Lo so. Io non ho intenzione di sparare un
solo colpo. Già da una settimana s’è
sparsa la voce che il pianeta, oggi a
mezzanotte, sarà posto in interdizione.
– Interdizione?
– Sì. Se non avete capito, ve lo chiarirò.
A mezzanotte ogni sacerdote entrerà in
sciopero, a meno che io non dia un
contrordine. E questo mi è impossibile
visto che sono tenuto prigioniero. Non che
io abbia intenzione di farlo d’altra parte!
– Si chinò in avanti e poi, animandosi
improvvisamente aggiunse: – Non vi siete
reso conto, Eccellenza, che attaccare la
Fondazione è un sacrilegio gravissimo?
Wienis stava cercando di dominarsi. –
Non venite a raccontare sciocchezze,
Hardin. Tenetele in serbo per le masse.
– Mio caro Wienis, per chi credete che le
tenga in serbo? Credo che già da
mezz’ora, in ogni tempio di Anacreon ci
sia un prete che arringa la folla. Non c’è
uomo né donna sul pianeta che non sappia
che il governo ha lanciato un indegno
attacco, non provocato, contro il centro
della loro religione. Mancano pochi
minuti a mezzanotte, ora. È meglio che
scendiate nelle sale ad osservare gli
eventi. Io, con cinque guardie fuori della
porta, starò al sicuro. – Si appoggiò allo
schienale della poltrona, si versò un altro
bicchiere di vino e guardò il soffitto con
la massima indifferenza.
Wienis lanciò una bestemmia e si
precipitò fuori.
Nel salone si era fatto silenzio assoluto,
mentre i convenuti si spostavano per
lasciar passare il trono. Leopoldo vi si
accomodò con le mani solidamente
aggrappate ai braccioli, la testa alta, e la
faccia impassibile. Gli enormi candelabri
erano stati quasi spenti, mentre il soffitto
si accendeva di multicolori lampadine
luminose: l’alone di luce splendeva
intorno al sovrano e formava sul suo capo
un’aureola scintillante.
Wienis si fermò sulla scalinata. Nessuno
lo vide; tutti gli occhi erano fissi sul
trono. Strinse i pugni e rimase dov’era.
Hardin non lo avrebbe spinto ad azioni
inconsulte.
Quindi il trono cominciò a sollevarsi.
Senza rumore, salì, ondeggiando. Si
staccò dal piedestallo, scese i gradini, poi
orizzontalmente, a quindici centimetri dal
suolo, si portò di fronte alla vetrata del
balcone.
Una campana suonò la mezzanotte con
rintocchi cupi. Il trono si fermò di fronte
alla finestra, e l’aureola si spense.
Per un istante il re non si mosse e si vide
sulla sua faccia una maschera di sorpresa;
senza più aureola, aveva un’espressione
del tutto umana. Poi il trono sobbalzò e
scese a terra con gran frastuono.
Esattamente in quel momento le luci si
spensero.
Tra le grida e la confusione, echeggiò
l’urlo di Wienis: – Prendete le torce!
Prendete le torce!
Attraversò a fatica la sala e raggiunse la
porta. Le guardie del palazzo erano
sparite nel buio.
Finalmente le torce vennero portate nel
salone. Erano state preparate per la
processione nelle vie della città dopo
l’incoronazione.
Le guardie con le torce invasero la sala di
luci verdi, rosse, blu, illuminando i volti
spaventati e confusi dei presenti.
– Non è successo nulla – gridò Wienis. –
Rimanete calmi. L’energia ritornerà fra
poco.
Si rivolse al capitano delle guardie che
stava rigido sull’attenti. – Che cosa
succede, capitano?
– Eccellenza – rispose l’ufficiale – il
palazzo è circondato dal popolo.
– Che cosa vogliono? – domandò Wienis.
– C’è un prete che li guida, un alto
prelato:
Poly Verisof. Chiedono
l’immediato rilascio del sindaco Salvor
Hardin e la cessazione della guerra contro
la Fondazione. – Aveva pronunciato
queste parole in tono freddamente
ufficiale, ma i suoi occhi mostravano un
grande imbarazzo.
Wienis urlò: – Se qualcuno di quei
miserabili tenta di superare i cancelli,
uccidetelo. Per ora non ci sono altri
ordini. Lasciateli urlare! Ne riparleremo
domani.
Nel frattempo erano state distribuite le
torce ed il salone era nuovamente
illuminato. Wienis accorse presso il
trono, ancora accanto alla finestra, ed
aiutò Leopoldo, pallido e tremante, ad
alzarsi.
– Vieni con me. – Diede un’occhiata alla
finestra. La città intera era al buio.
Dal basso salivano le grida rauche e
confuse della folla.
Sulla destra splendevano le luci del
Tempio Argolid.
Wienis tornò nella stanza dove aveva
lasciato Hardin seguito dalle guardie e dal
pallido Leopoldo che non riusciva a
pronunciare una parola.
– Hardin – disse Wienis con voce rauca –
state scherzando con il fuoco.
Il sindaco lo ignorò. Al chiarore della
torcia atomica tascabile che aveva
disposto accanto a sé, se ne stava
tranquillamente seduto con un sorriso
ironico sulle labbra.
– Buongiorno, maestà – disse a Leopoldo.
– Congratulazioni per la vostra
incoronazione.
– Hardin – gridò nuovamente Wienis –
ordinate ai vostri preti di ritornare al
lavoro.
Hardin lo guardò freddamente. – Date voi
l’ordine, Wienis, e vedrete chi di noi due
sta scherzando col fuoco. In questo
momento, su Anacreon, non c’è ruota che
giri. Non c’è luce accesa a eccezione di
quelle dei templi. Non c’è goccia d’acqua
che scorra tranne che nei templi.
Nell’emisfero invernale del pianeta non
esiste una caloria per il riscaldamento, se
non nei templi. Gli ospedali non accettano
pazienti.
Gli impianti nucleari sono chiusi. Se non
vi piace, Wienis, ordinate voi stesso ai
preti di ritornare al lavoro. Io non ne ho
alcuna intenzione.
– Per lo Spazio, Hardin, lo farò! Se dovrò
dare una dimostrazione di forza ve la
darò. Vedremo se i preti riusciranno a
resistere ai soldati. Questa notte stessa
ogni tempio del pianeta sarà occupato
dall’esercito.
– Benissimo, ma come farete a dare gli
ordini? Tutte le linee di comunicazione
del pianeta sono interrotte. Scoprirete che
la radio non funziona, la televisione
nemmeno, ed anche le ultraonde sono
inutilizzabili. L’unico mezzo ancora
efficiente sull’intero pianeta, al di fuori
dei templi, naturalmente, è il televisore di
questa stanza. L’ho adattato in modo che
possa soltanto ricevere.
Wienis si fece rosso in faccia e Hardin
continuò: – Se volete, potete dare ordine
alle guardie di entrare nel Tempio
Argolid, a pochi passi dal palazzo; là
potrebbero usare l’apparecchio ultraonde
per mettersi in contatto con il resto di
Anacreon. Ma se avete intenzione di fare
questa mossa temo che i vostri soldati
saranno fatti a pezzi dalla folla che
circonda la reggia. E, poi, chi proteggerà
il palazzo? E le vostre vite, Wienis?
– Resisteremo! – esclamò Wienis con
voce rauca. – Potremo resistere per tutto
un giorno. Lasceremo che la gente gridi e
rimarremo senza energia. Ma quando
arriveranno notizie dalla Fondazione, il
popolo s’accorgerà che la religione era
basata sul nulla; abbandoneranno i preti e
si rivolgeranno nuovamente a noi. Vi do
tempo fino a domani a mezzogiorno,
Hardin, perché voi potete bloccare
l’energia su Anacreon ma non potete
fermare la mia flotta. – La sua voce si
fece esultante. – Sono in viaggio, Hardin,
e in testa c’è l’astronave che voi avete
riparato.
Hardin lo guardò indifferente. – Sì,
l’astronave che io stesso ho ordinato di
riparare, ma a modo mio. Ditemi, Wienis,
non avete mai sentito parlare di comandi a
ultraonde? No? Dunque non sapete cosa
siano. Bene, fra due minuti vedrete come
funzionano.
Alle sue ultime parole il televisore si
accese. Hardin si corresse: – Anzi, fra
due secondi. Sedetevi, Wienis, e
ascoltate.
7
Theo Aporat apparteneva all’alto clero di
Anacreon. Data la sua carica era stato
nominato cappellano capo sulla nave
ammiraglia “Wienis”.
Ma la sua nomina non era solo dovuta ad
una questione di rango: Theo Aporat
infatti sapeva come funzionava la nave.
Aveva lavorato direttamente agli ordini
dei saggi della Fondazione che l’avevano
riparata. Aveva studiato ogni parte dei
motori sotto i loro ordini.
Aveva
riattivato
i
sistemi
di
comunicazione, rifatto lo scudo esterno
dello scafo danneggiato, rimesso in
efficienza i raggi. Gli era stato permesso
di aiutare gli uomini sapienti della
Fondazione persino quando avevano
installato uno strumento così sacro che
non era mai stato collocato su alcuna altra
astronave: l’impianto dei comandi ad
ultraonde.
Non c’era da meravigliarsi dunque se
avesse sentito le viscere torcersi non
appena aveva conosciuto lo scopo a cui
era stata destinata la nave. Non aveva
quasi voluto credere a Verisof quando gli
aveva detto che essa sarebbe divenuta uno
strumento diabolico, che le sue batterie
sarebbero state rivolte contro la
Fondazione, contro il luogo dove lui era
stato educato da giovane e dal quale
proveniva ogni bene.
Ora non c’erano più dubbi, dopo le
dichiarazioni dell’ammiraglio.
Come avrebbe potuto il re, benedetto
dalla divinità, permettere un atto così
sacrilego? Ma era poi stato veramente il
re? Probabilmente si trattava di un piano
del maledetto reggente, Wienis, mentre il
monarca doveva essere all’oscuro di tutto.
Era stato proprio il figlio di Wienis,
l’ammiraglio, che cinque minuti prima gli
aveva detto: – Badate alle vostre anime e
alle vostre benedizioni, prete. Io
m’occuperò della mia nave.
Aporat sorrise minaccioso. Si sarebbe
occupato delle anime e delle benedizioni,
ma avrebbe lanciato anche il suo anatema:
il principe Lefkin avrebbe pianto presto.
Entrò nella stanza delle comunicazioni. Il
suo assistente lo precedeva e i due
ufficiali di guardia non lo fermarono,
perché cappellano e chierico avevano il
diritto di entrare in qualunque parte della
nave. – Chiudi la porta – ordinò Aporat,
osservando il cronometro. Mancavano
pochi minuti alla mezzanotte. Era l’ora.
Con gesti esperti, Aporat spostò gli
interruttori inserendo gli altoparlanti così
che in ogni sala dell’astronave, lunga più
di tre chilometri, si potesse ascoltare la
sua voce e vedere la sua immagine.
– Soldati della nave ammiraglia
“Wienis”, attenzione! È il vostro
cappellano che vi parla! – Le sue parole,
ne era sicuro, rimbombavano dalla sala
macchine di poppa fino alla cabina di
pilotaggio a prua.
– La vostra nave – gridò – è in viaggio
per una missione sacrilega. Senza saperlo,
state per compiere un atto che condannerà
la vostra anima all’eterno freddo dello
spazio! Ascoltate: Il vostro Comandante
vuole portare la nave contro la
Fondazione: vuole bombardare il luogo da
cui viene ogni bene, per sottometterlo alla
sua anima peccatrice. E poiché queste
sono le sue intenzioni io, in nome dello
Spirito Galattico, toglierò dalle sue mani
il comando. Si deve negare il potere a
colui che è stato abbandonato dallo
Spirito Galattico. Nemmeno il divino re
può conservare lo scettro senza il
consenso dello Spirito. – La sua voce
divenne austera e profonda. L’assistente
ascoltava con venerazione, e gli ufficiali
di guardia impallidirono di paura. –
Siccome la nave è diretta a una missione
così sacrilega, la benedizione dello
Spirito l’abbandonerà.
Levò le mani solennemente e sui mille
schermi televisivi sparsi per tutta
l’astronave la sua immagine ieratica
apparve ai soldati sconvolti.
– In nome dello Spirito Galattico, e del
suo profeta Hari Seldon, e dei suoi
interpreti, i saggi uomini della
Fondazione, io maledico la nave. Possano
i suoi televisori che ne sono gli occhi,
diventare ciechi. Possano le sue ancore,
che ne sono le braccia, essere paralizzate.
Possano i raggi atomici, che ne sono i
pugni, perdere il loro vigore. Possano i
motori, che ne sono il cuore, cessare di
battere. Le radio, che ne sono la voce,
diventino mute. I ventilatori, che ne sono
il respiro, si fermino. Possano le luci, che
ne sono l’anima, spegnersi. In nome dello
Spirito Galattico, io maledico la nave.
A quest’ultima parola, allo scoccare della
mezzanotte, una mano, distante molti anniluce, nel Tempio Argolid, spostò un
comando; alla velocità istantanea delle
ultraonde, un altro meccanismo scattò
sulla nave ammiraglia “Wienis”. E
l’astronave cessò di vivere! Aporat vide
la nave piombare nell’oscurità; tacque
anche il leggero ronzio dei motori
nucleari. Esultò, e dalla tasca dell’abito
tirò fuori una torcia che illuminò la stanza
di una luce perlacea.
Guardò i due soldati che s’erano
inginocchiati tremando, pieni di terrore. –
Salvate la nostra anima, reverendo. Siamo
poveri uomini che ignorano i crimini dei
capi! – supplicò uno di loro.
– Seguitemi – ordinò Aporat. – La vostra
anima non è ancora perduta.
Non un lume splendeva sulla nave e la
paura serpeggiava tra l’equipaggio come
una realtà palpabile. I soldati
s’affollavano attorno ad Aporat che
passava cinto da un alone fosforescente, e
toccavano la sua veste implorando
misericordia.
A tutti lui rispondeva: – Seguitemi! Trovò
il principe Lefkin che arrancava al buio,
imprecando,
nel
quadrato-ufficiali.
L’ammiraglio osservò il cappellano con
occhi pieni d’odio.
– Eccovi qua! – Lefkin aveva ereditato gli
occhi azzurri dalla madre, ma aveva il
naso adunco, ed un difetto all’occhio
sinistro
lo
facevano
somigliare
terribilmente a suo padre, Wienis. – Che
cosa significa questo tradimento? Fate
tornare immediatamente l’energia alla
nave. Sono io il Comandante.
– Non più – rispose calmo Aporat.
Lefkin si guardò in giro al colmo
dell’esasperazione.
–
Arrestate
quell’uomo.
Arrestatelo, vi dico, od altrimenti ogni
uomo che non ubbidisce verrà cacciato
fuori dall’astronave, nello spazio. – Fece
una pausa, poi aggiunse, con voce acuta: –
È l’ammiraglio che ve lo ordina.
Arrestatelo!
Poi perse completamente la testa. – Voi
permettete che questo saltimbanco, questo
arlecchino, si prenda gioco di voi! – urlò.
– Tremate di fronte ad una religione fatta
di nuvole e raggi di luna? Costui è un
impostore e lo Spirito Galattico di cui vi
parla è una frode e un trucco per...
Aporat lo interruppe. – Afferrate il
blasfemo! Ascoltandolo rischiate la
salvezza della vostra anima.
Prontamente, l’ammiraglio venne afferrato
dalle mani robuste di un gruppo di soldati.
– Venite con me.
Aporat si girò, e seguito dagli uomini che
trascinavano Lefkin attraversò i corridoi
pieni di soldati, e tornò alla sala delle
trasmissioni. Qui ordinò di far sedere
l’ex-comandante di fronte al televisore
ancora in funzione.
– Ordinate al resto della flotta di virare e
di fare ritorno su Anacreon.
Lefkin, sanguinante per i colpi ricevuti e
ancora inebetito, obbedì.
– Ed ora – continuò Aporat, con un
sorriso spietato – siamo in contatto con la
stazione ricevente di Anacreon. Dite
quello che vi suggerirò.
Lefkin tentò di ribellarsi, ma la folla dei
soldati, nella stanza e nel corridoio, urlò
minacciosa.
– Parlate – disse Aporat. – Cominciate:
La flotta Anacreoniana...
Lefkin obbedì.
8
C’era silenzio assoluto negli appartamenti
di Wienis quando l’immagine del principe
Lefkin apparve sul teleschermo. Il
reggente aveva sussultato nel vedere il
figlio con l’uniforme lacera e gli occhi
dilatati dal terrore. Poi era crollato su una
poltrona, con la faccia contratta.
Hardin restò impassibile, con le mani
abbandonate in grembo. Re Leopoldo,
appena incoronato, sedeva in un angolo
buio della stanza, mordendo nervosamente
una manica del suo abito intessuto d’oro.
Anche i soldati avevano perso il loro
aspetto impassibile.
Lefkin parlava riluttante, con voce stanca,
facendo delle pause a intervalli regolari,
riprendendo quando veniva spinto senza
tanti complimenti a proseguire.
– La flotta Anacreoniana... conosciuta la
natura della sua missione... e rifiutando di
prendere
parte
alla
tremenda
profanazione... sta ritornando su
Anacreon... con il seguente ultimatum
rivolto ai sacrileghi... che volevano usare
la forza contro la Fondazione... fonte di
ogni bene... e contro lo Spirito Galattico.
Cessi immediatamente la guerra alla vera
religione... e si diano garanzie ai membri
dell’equipaggio...
rappresentati
dal
cappellano Theo Aporat... che una tale
guerra non verrà ripresa nemmeno nel
futuro... Si disponga affinché... – e qui la
pausa fu lunga – l’ex principe reggente,
Wienis, sia imprigionato... e processato
davanti ad una corte ecclesiastica... per i
suoi crimini. In caso contrario la flotta
reale...
ritornando su Anacreon... distruggerà il
palazzo del governo... e prenderà le
misure necessarie... ad annientare nel nido
dei peccatori... i diabolici corruttori
dell’anima umana... che hanno voluto
questa infamia.
Il discorso si concluse con una specie di
singhiozzo e lo schermo tornò opaco.
Hardin toccò con le dita la sua torcia
atomica e la luce si abbassò fin quasi a
scomparire. Nel lieve chiarore il
reggente, il re, e le guardie apparivano
opachi, e per la prima volta si poteva
notare un sottile alone luminoso intorno ad
Hardin.
Non era la luce sfolgorante, prerogativa
dei re, ma non era meno suggestiva né
meno impressionante, anzi era più
efficace e certamente più utile. Con voce
calma e venata d’ironia Hardin parlò a
Wienis, che nemmeno un’ora prima lo
aveva dichiarato prigioniero di guerra ed
aveva creduto Terminus prossima alla
distruzione. Ora il reggente era l’ombra di
se stesso, prostrato e silenzioso.
– C’è una vecchia favola – disse Hardin –
vecchia forse quanto l’umanità, poiché i
documenti più antichi che la riportano non
sono che copie di testi ancora più antichi,
che troverete interessante, Wienis. La
storia è pressappoco questa. Un cavallo
che aveva per nemico un lupo pericoloso
e feroce viveva continuamente nel terrore.
Ridotto alla disperazione, decise di
procurarsi un forte alleato. Incontrò un
uomo e gli propose un patto facendogli
notare come il lupo fosse, in fondo, anche
un suo nemico. L’uomo acconsentì e si
offrì di uccidere immediatamente il lupo
perché il suo nuovo amico accettasse di
collaborare mettendogli a disposizione la
sua grande velocità. Il cavallo, contento,
si lasciò mettere le briglie e la sella.
L’uomo gli balzò in groppa, diede la
caccia al lupo e lo uccise. Il cavallo,
finalmente liberato dall’incubo, ringraziò
l’alleato e disse: «Ora che il nostro
nemico è morto toglimi le briglie e
rendimi la libertà». L’uomo rise di cuore
e replicò: «Ma che cosa stai dicendo?
Hop! hop!» e diede un colpo di speroni.
Nella stanza il silenzio era assoluto.
Wienis, che sembrava un fantasma, non si
mosse.
Hardin continuò con calma: – Avete
afferrato l’analogia, spero. Nella fretta di
ottenere la devozione assoluta dei loro
popoli, i re dei Quattro Regni accettarono
la religione della scienza che li rendeva
simili a divinità: quella stessa religione fu
la loro briglia e la loro sella, poiché
affidò la linfa vitale della loro civiltà,
l’energia atomica, nelle mani del clero, il
quale prende gli ordini da noi, ricordatelo
bene, non da voi. Avete ucciso il lupo, ma
non siete riuscito a liberarvi dell’uomo...
Wienis scattò in piedi, e nell’ombra i suoi
occhi brillavano di una luce di follia.
La sua voce era rauca e le parole
incoerenti. – Vi prenderò. Non riuscirete a
scappare. Morirete. Lasciamo pure che ci
facciano saltare in aria. Lasciamo che
tutto salti in aria. Ma voi morirete! Vi
avrò! Guardie! – gridò isterico. – Sparate!
Disintegratelo! Uccidetelo!
Hardin si girò verso i soldati e li guardò
sorridendo. Uno di loro puntò il
disintegratore, poi abbassò l’arma. Gli
altri non si mossero.
Salvor Hardin, sindaco di Terminus,
circondato da quel lieve alone di luce,
sorrideva in modo sereno. Hardin, di
fronte al quale si era umiliata tutta la
potenza di Anacreon, nonostante gli ordini
urlati dal reggente pazzo, era intoccabile.
Wienis s’avvicinò a una guardia, gli
strappò dalle mani un disintegratore
atomico, lo puntò su Hardin, che non si
mosse, e premette il grilletto.
Il raggio colpì il campo di forza che
circondava il sindaco di Terminus, e
venne neutralizzato. Wienis continuò a
schiacciare il grilletto. Aveva le lacrime
agli occhi e rideva.
Hardin rimase fermo e sereno e il suo
campo di forza divenne un poco più
luminoso mentre assorbiva l’energia del
disintegratore atomico.
Nel suo angolo Leopoldo s’era coperto il
volto e gemeva.
Con un grido disperato Wienis rivolse
l’arma contro di sé e sparò di nuovo.
Cadde al suolo, con la testa disintegrata.
Hardin rabbrividì, e mormorò: – Ecco un
uomo che ha preferito la violenza fino alla
fine. L’ultimo rifugio!
9
La Volta del Tempo era gremita. Tutti i
sedili erano occupati e gli uomini rimasti
in piedi si erano allineati lungo le pareti.
Salvor Hardin paragonò fra sé questa
larga affluenza alle poche persone che
avevano assistito alla prima apparizione
di Hari Seldon, trent’anni addietro. Allora
erano solo in sei: i cinque Enciclopedisti,
tutti morti ormai, e lui, giovane sindaco
senza alcuna importanza. Era stato in quel
giorno che, con l’aiuto di Yohan Lee,
aveva costituito il nuovo governo.
Adesso la situazione era diversa sotto
ogni punto di vista. Ora tutti i membri del
Consiglio Cittadino aspettarono che Hari
Seldon apparisse, e lui, Hardin, sebbene
fosse ancora soltanto sindaco, aveva in
mano quasi tutti i poteri. Dopo la
soluzione della crisi con Anacreon la sua
popolarità
si
era
enormemente
accresciuta. Quando era tornato da
Anacreon con la notizia della morte di
Wienis e con il nuovo trattato firmato dal
tremante re Leopoldo, l’assemblea aveva
approvato all’unanimità la politica del
governo. Al primo trattato erano seguiti in
rapida successione accordi analoghi
firmati da ognuno dei tre regni: patti che
davano alla Fondazione poteri tali che un
attacco come quello di Anacreon d’ora in
poi sarebbe stato impossibile.
Su Terminus furono organizzate fiaccolate
in ogni strada.
Nemmeno il nome di Hari Seldon era mai
stato tanto acclamato.
Hardin storse la bocca. Anche dopo la
soluzione della prima crisi era stato
ugualmente popolare.
All’altro lato della stanza, Sermak e Bort
stavano discutendo animatamente. I
recenti avvenimenti non li avevano affatto
messi fuori causa. Anche loro avevano
votato a favore della mozione di fiducia;
avevano tenuto comizi pubblici nei quali
avevano ammesso d’essersi sbagliati, e si
erano scusati per le frasi pronunciate nei
dibattiti precedenti. Si erano giustificati
dicendo che avevano semplicemente
seguito i dettami della loro coscienza. Ed
immediatamente avevano lanciato una
nuova campagna anti-immobilista.
Yohan Lee toccò leggermente la manica di
Hardin, e con un gesto nervoso indicò il
suo orologio.
Hardin alzò lo sguardo. – Salve, Lee.
Sempre preoccupato? Cosa c’è che non
va?
– Deve apparire fra cinque minuti, vero?
– Penso di sì. L’altra volta è apparso a
mezzogiorno.
– E se non si fa vivo?
– Non è il caso di angosciarsi troppo! Se
non viene, non viene.
Lee s’accigliò e scosse la testa. – Se va a
monte, siamo di nuovo nei guai. Se Seldon
non appoggia la tua linea politica, Sermak
sarà libero di ricominciare da capo.
Vuole l’immediata annessione dei Quattro
Regni, e vuole che la Fondazione si
espanda con la forza, se necessario. Ha
già dato inizio alla sua campagna.
– Lo so. Un mangiatore di fuoco sarà
sempre un mangiatore di fuoco, anche se il
fuoco se lo deve accendere da solo. E tu,
Lee, non farai che preoccuparti a costo di
ucciderti pur di avere qualche problema
di cui preoccuparti.
Lee avrebbe risposto, ma rimase senza
fiato perché, proprio in quel momento le
luci s’abbassarono. Alzò la mano per
indicare la nicchia di vetro che dominava
il centro della stanza e poi, con un gran
sospiro, si sprofondò nella poltrona.
Anche Hardin sussultò all’apparire
dell’uomo sulla sedia a rotelle.
Lui solo, fra tutti i presenti, poteva
ricordarsi del giorno in cui, decine d’anni
prima, quell’immagine si era mostrata per
la prima volta. A quei tempi era giovane,
e l’uomo che gli era apparso, vecchio. Ma
l’immagine non era invecchiata di un
giorno, e lui, al contrario, era diventato
molto più anziano.
La figura guardava dritto davanti a sé, e le
mani tenevano un libro chiuso sulle
ginocchia.
– Mi chiamo Hari Seldon – disse, e la sua
voce era antica e serena.
Nella sala tutti trattenevano il respiro.
Hari Seldon continuò in tono quasi
familiare: – Questa è la seconda volta che
vengo qui. Naturalmente non posso sapere
se qualcuno di voi fosse presente l’altra
volta. A dire il vero, non ho modo di
percepire con i sensi se ci siano
ascoltatori, ma ciò non ha importanza. Se
la seconda crisi è stata superata
felicemente, dovreste trovarvi qui; non c’è
via di scampo. Se non ci siete vuol dire
che la seconda crisi è stata per voi
insuperabile.
Ma ne dubito – aggiunse sorridendo –
perché i miei calcoli danno una
probabilità del novantotto e quattro per
cento che non si verifichino deviazioni nei
primi ottant’anni del Piano.
«Secondo i miei calcoli, voi ora avete
raggiunto il predominio sui regni
confinanti con la Fondazione. Nella prima
crisi li avete tenuti a bada con l’equilibrio
dei poteri, nella seconda, avete vinto
servendovi del potere spirituale contro
quello temporale. Tuttavia vorrei
consigliarvi contro gli eccessi di fiducia.
In queste registrazioni non voglio darvi
indicazioni per il futuro, ma dovete sapere
che ciò che avete raggiunto ora è
semplicemente un nuovo tipo d’equilibrio:
anche se la vostra posizione è
considerevolmente migliore. Il potere
spirituale, mentre è sufficiente per
rigettare gli attacchi di quello temporale,
non è sufficiente per contrattaccare. A
causa dell’inevitabile crescita delle forze
contrarie conosciute come Regionalismo o
Nazionalismo, il Potere Spirituale non
sarà in grado di prevalere. Non vi sto
dicendo niente di nuovo, sono certo.
«Dovete perdonarmi se parlo in maniera
così vaga. I termini che sto usando sono
solo approssimativi, ma nessuno di voi è
qualificato per capire i veri simboli della
Psicostoria, e così io devo cercare di
farmi comprendere alla meglio. In questo
caso, la Fondazione è solamente
all’imbocco della strada che la porterà al
Nuovo Impero. I regni vicini, per
popolazione e risorse economiche, sono
molto più potenti di voi. Oltre questi
confini è la giungla della barbarie in
continua espansione. In mezzo al cerchio
stanno ancora i resti del Vecchio Impero
Galattico, il quale, pur debole e corrotto,
è ancora incomparabilmente potente. – A
questo punto, Hari Seldon aprì il libro. La
sua faccia si fece solenne. – Non
dimenticate che esiste un’altra fondazione
all’altro capo della Galassia, su “Estrema
Stella”.
Ricordatevene. Signori, novecentoventi
anni del nostro Piano vi stanno di fronte.
Il problema è vostro. Affrontatelo!
Abbassò lo sguardo sul libro e
scomparve, mentre le luci ritornavano a
brillare.
Nel brusio che seguì, Lee si piegò su
Hardin e gli disse all’orecchio: – Non ha
detto quando tornerà.
Hardin rispose: – Lo so, ma penso che
quando lui tornerà di nuovo noi saremo
finalmente sereni e in pace sotto terra.
PARTE QUARTA
I MERCANTI
1
I MERCANTI... Nell’egemonia politica
della Fondazione acquistarono sempre più
peso i Mercanti, i quali, viaggiando per le
incalcolabili distanze della Periferia
mantenevano contatti con i vari pianeti.
Mesi ed anni passano prima che le loro
astronavi ritornassero su Terminus; navi
che molto spesso non erano che rottami
riparati alla meno peggio.
L’onestà non era certamente la loro
qualità migliore, la loro audacia...
Nonostante tutto riuscirono a costituire un
Impero ben più duraturo che non il
dispotismo pseudo-religioso dei Quattro
Regni...
Racconti senza fine ci sono stati
tramandati su questi uomini energici che, a
volte seriamente, a volte meno, avevano
adottato come motto uno degli epigrammi
di Hari Seldon: «Non permettere mai che
la morale ti impedisca di fare ciò che è
giusto!». È difficile ora stabilire quali tra
questi racconti siano veri e quali apocrifi.
Non ne esiste forse neppure uno che non
sia stato almeno un poco esagerato...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
Quando suonò il telefono, Limmar Ponyets
stava facendo la doccia: la misteriosa
relazione che intercorre tra il bagno e il
telefono è valida anche se colui che fa il
bagno è un viandante degli oscuri spazi
della Periferia Galattica.
Per fortuna le astronavi mercantili non
hanno cabine spaziose. La doccia è
generalmente sistemata in un cubicolo di
un metro e mezzo per due, a non più di tre
metri dal quadro dei comandi. Ponyets udì
distintamente il trillo che si ripeteva ad
intervalli regolari.
Gocciolando ed ancora insaponato lanciò
un’imprecazione ed afferrò il ricevitore.
Tre ore dopo, una seconda astronave
s’accostava alla sua ed un giovane
sorridente, passando lungo il tubo a tenuta
stagna, entrò nella cabina di Ponyets.
Questi gli porse una sedia, e s’accomodò
nella poltroncina dei comandi.
– Come va, Gorm? – domandò di
malumore. – Mi state inseguendo fin dalla
Fondazione?
Les Gorm tirò fuori una sigaretta, e scosse
il capo. – No, non dalla Fondazione.
Ho avuto la disgrazia di atterrare su
Glyptal Quarto il giorno dopo l’arrivo
della posta. Allora mi hanno mandato a
cercarvi per consegnarvi questo. – Porse
a Limar una piccola sfera di metallo, poi
aggiunse: – È un messaggio confidenziale.
Segretissimo.
Non
poteva
essere
comunicato a mezzo radio. Od almeno,
così immagino. È una Capsula Personale,
e nessun altro la può aprire.
Ponyes guardò la capsula storcendo la
bocca. – Vedo. E non ne ho mai ricevuta
una che non contenesse cattive notizie.
L’aprì ed il rotolo di microfilm
trasparente si svolse. Ponyets lesse il
messaggio senza staccare gli occhi dalla
pellicola. Lesse rapidamente, perché il
microfilm si anneriva e bruciava man
mano che veniva svolto. In meno di un
minuto e mezzo tutto il messaggio era
incenerito.
Ponyets, contrariato, esclamò: – Per la
Galassia!
Les Gorm non si scompose. – Posso
esservi d’aiuto? O è troppo segreto?
– A voi posso dirlo, visto che siete della
Corporazione. Devo andare ad Askone.
– Laggiù? E perché?
– Hanno imprigionato un mercante. Ma
tenetelo per voi.
Gorm s’oscurò in volto. – Imprigionato?
Ma è contro la Convenzione!
– Ma è contro la Convenzione anche
interferire nella politica locale.
– Ora capisco! Come si chiama il
mercante? È uno che conosco?
– No! – rispose secco Ponyets. Gorm non
fece altre domande. Ponyets si alzò e si
mise a guardare fuori dalla capsula
panoramica. Mormorò qualche parola
mentre osservava gli ammassi stellari che
riempivano quella parte della Galassia,
poi sbottò in un’esclamazione. –
Maledizione! Proprio ora che sono in
arretrato con le vendite.
– Siete sfortunato, amico – disse Gorm. –
Tra l’altro Askone è un mercato chiuso.
– Lo so. Su Askone non è possibile
vendere nemmeno un temperino. Non
comperano utensili atomici di nessuna
specie. Andare laggiù con i pochi affari
che sono riuscito a combinare finora,
sarebbe un suicidio.
– Non potete rifiutarvi?
Ponyets scosse la testa con aria assente. –
Quel tale che s’è cacciato nei guai è un
amico. Non me la sento di abbandonarlo.
Vada come vada. Sono nelle mani dello
Spirito Galattico e seguirò la via che mi
ha indicato.
– Umm... – mormorò Gorm.
Ponyets alzò lo sguardo, e sorrise. –
Dimenticavo. Voi non avete mai letto Il
Libro dello Spirito, vero?
– Non ne ho mai sentito parlare – rispose
brevemente Gorm.
– Lo conoscereste se aveste ricevuto
un’educazione religiosa.
– Voi avete avuto un’educazione
religiosa? – Gorm era profondamente
stupito.
– Sì, confesso con vergogna il mio
segreto. Però i reverendi padri non ce
l’hanno fatta a tenermi. Mi hanno espulso,
e ho terminato i miei studi in una scuola
laica della Fondazione Bene, è ora che mi
metta in viaggio. Come vanno i vostri
affari quest’anno?
Gorm gettò via la sigaretta e s’aggiustò il
casco. – Ho imbarcato ora l’ultimo
carico. Ho raggiunto la mia quota.
– Fortunato voi – disse Ponyets.
Dopo che Les Gorm se ne fu andato
Ponyets rimase a lungo seduto a pensare.
Dunque Eskel Gorov era su Askone, ed in
prigione per giunta! Brutto affare!
Peggiore di quanto non sembrasse a prima
vista. Al giovane che gli aveva portato il
messaggio aveva accennato una versione
molto blanda dell’incidente. In realtà, si
trattava di ben altro.
Limmar Ponyets era l’unico che
conoscesse personalmente il Capo dei
Mercanti Eskel Gorov, il quale era
tutt’altro che un commerciante di
professione: era un agente segreto della
Fondazione!
2
Due settimane erano passate! Quattordici
giorni sprecati. Ponyets aveva impiegato
una settimana per raggiungere Askone. E
già prima di essere entrato nell’orbita era
stato localizzato e scortato da numerose
navi spaziali che pattugliavano la zona.
Qualunque fosse il loro sistema
d’avvistamento, era efficiente.
Ponyets avrebbe potuto liberarsene
facilmente. Si trattava infatti di vecchie
astronavi da turismo dello scomparso
Impero Galattico e non avevano
armamento atomico. Avevano un aspetto
quasi frivolo e per niente minaccioso. Ma
Eskel Gorov era prigioniero su Askone, e
non era un ostaggio da perdere. Sembrava
che gli Askoniani lo sapessero
perfettamente.
Aveva impiegato un’altra settimana per
passare attraverso le innumerevoli schiere
di funzionari minori che costituivano una
barriera fra il Gran Maestro ed il mondo
esterno. Con ognuno di questi burocrati si
doveva trattare con tatto e circospezione.
A ciascuno bisognava strappare, usando
tutta la diplomazia possibile, la firma su
un documento che permettesse di conferire
con il funzionario di grado superiore.
Ora, finalmente, il Gran Maestro era a
pochi passi da lui, appena al di là della
porta dorata sorvegliata da due guardie
armate. Erano trascorse due settimane.
Gorov era ancora prigioniero, e il carico
di Ponyets si deteriorava nelle stive della
nave.
Il Gran Maestro era un uomo minuto,
calvo, con la faccia piena di rughe. Un
alto colletto di pelo gli stringeva la gola e
sembrava immobilizzargli tutto il corpo.
Mosse le mani a destra e a sinistra, e la
fila di armati si spostò al suo cenno
formando uno stretto passaggio attraverso
il quale Ponyets poté giungere fino ai
piedi del trono.
– Non parlate – ingiunse il Gran Maestro.
Ponyets chiuse le labbra. – Così va bene.
– Il governatore di Askone sembrò
sollevato. – Non posso sopportare
chiacchiere inutili. Voi non potete
minacciare ed io non accetto l’adulazione.
E non vedo come voi potreste espormi
delle lagnanze. Non so quante volte ho
avvisato voi vagabondi che le vostre
diaboliche macchine non ci interessano,
qui su Askone.
– Signore – disse Ponyets con calma – non
sto assolutamente cercando di giustificare
il mercante in questione. Non è nelle
abitudini di noi mercanti andare dove non
si è desiderati. Ma la Galassia è grande,
ed è accaduto altre volte che un confine
sia stato valicato involontariamente. È
stato un deplorevole errore.
– Deplorevole, di certo – disse il Gran
Maestro con la sua voce acuta – ma fu un
errore? La vostra gente su Glyptal Quarto
ha incominciato a bombardarmi con
petizioni appena due ore dopo la cattura
di quel criminale sacrilego; più volte sono
stato avvertito del vostro arrivo. Sembra
un’operazione di salvataggio organizzata
su grande scala. Troppo ben organizzata
perché si tratti di errore, per deplorevole
che sia. – Gli occhi del Gran Maestro
mandavano lampi d’ira. – E voi mercanti
– continuò – che volate da un mondo
all’altro come farfalle impazzite, vorreste
sostenere di essere finiti per sbaglio sul
pianeta centrale del sistema solare di
Askone? Non raccontatemi storie di
questo genere!
Ponyets era in difficoltà, ma non si perse
d’animo. – Se il tentativo di venire a
commerciare – disse in tono conciliante –
fu deliberato, venerabile signore, è stata
certamente un’azione poco giudiziosa e
contraria alle regole del nostro
commercio.
– Molto poco giudiziosa, è vero – ribatté
l’askoniano – e per questo il vostro amico
perderà la vita.
Ponyets sentì un groppo allo stomaco. –
La morte, venerabile signore – ribatté – è
una condanna assoluta ed irrevocabile
Non c’è una soluzione diversa?
Trascorse qualche istante prima che il
vecchio desse una risposta guardinga. –
Ho sentito dire che la Fondazione è ricca.
– Ricca? Certamente. Ma le nostre
ricchezze sono proprio quelle che voi
rifiutate di comperare. I nostri macchinari
atomici...
– Non ci servono perché non sono
benedetti dalla nostra religione. Sono
apparecchiature diaboliche, proibite dalla
nostra fede. – Pareva che stesse recitando
una formula. Abbassò le palpebre, poi
riprese: – Non avete nient’altro che abbia
valore?
Il mercante non sapeva cosa rispondere. –
Non comprendo. Che cosa volete, con
esattezza?
L’askoniano allargò le braccia. – Mi
proponete uno scambio e volete anche
sapere da me quali siano i miei desideri.
Questo è troppo. Temo che il vostro
collega sarà giustiziato, secondo la legge
di Askone. Camera a gas. Noi siamo un
popolo giusto. Al più povero dei
contadini, per un delitto simile, non
daremmo una pena maggiore. Ed io stesso
non ne avrei una minore.
Ponyets cercò disperatamente un appiglio.
– Venerabile signore, potreste concedermi
di parlare con il prigioniero?
– La legge askoniana – disse il Gran
Maestro, freddamente – non consente ai
prigionieri di ricevere visite.
Ponyets tentò con un altro sistema. –
Venerabile signore, vi chiedo di aver
pietà dell’anima di un pover’uomo che sta
per affrontare la morte. È stato lontano
dalla consolazione spirituale tutto questo
tempo, mentre la sua vita era in pericolo.
E ora ha la prospettiva di giungere
impreparato in seno allo Spirito che tutto
vede e domina.
– Voi siete forse un consolatore di anime?
– chiese sospettoso il Gran Maestro.
Ponyets abbassò il capo umilmente – Così
sono stato educato. Negli immensi spazi
interstellari, i mercanti vagabondi hanno
bisogno di uomini che curino l’aspetto
spirituale della loro vita così dedicata al
commercio ed ai beni terreni.
L’askoniano si morse pensoso il labbro
inferiore. – Ogni uomo ha il diritto di
prepararsi al viaggio che lo condurrà in
seno agli spiriti ancestrali. Eppure non
avrei mai immaginato che voi mercanti
aveste una fede.
3
Eskel Gorov si rivoltò sul letto ed aprì un
occhio mentre Limmar Ponyets entrava
dalla porta blindata. L’uscio si chiuse alle
sue spalle con uno scatto. Gorov spalancò
gli occhi e balzo in piedi.
– Ponyets! Ti hanno mandato da me?
– Pura coincidenza – rispose Ponyets
amaro – o lo zampino del mio demone
maligno. Primo: ti vai a cacciare nei guai
su Askone. Secondo: il mio itinerario,
come è noto all’Unione dei Mercanti,
passa a soli cinquanta parsec di distanza
da Askone proprio nel momento in cui tu
ti cacci nei guai. Terzo: l’Unione sa bene
che abbiamo già lavorato insieme e trova
logico spedirmi da te. Simpatici, vero?
Adesso capisci perché mi trovo qui.
– Fai attenzione – disse Gorov, sottovoce.
– Forse c’è qualcuno che ascolta. Hai
portato con te un annullatore del campo
magnetico?
Ponyets indicò un braccialetto che aveva
al polso, e rassicuro Gorov.
Si guardò attorno. La cella era nuda ma
sufficientemente ampia e bene illuminata.
– Non c’è male – disse. – Ti trattano con i
guanti.
Gorov non badò all’osservazione
sarcastica. – Ma come hai fatto ad
arrivare fin qui? Sono stato messo in
isolamento da più di due settimane.
– E cioè dal giorno del mio arrivo, eh?
Bene, sembra che il vecchio che comanda
qui abbia un punto debole. Mi ha fatto
tanti discorsi sulla religione, che ho
pensato di convincerlo toccando anch’io
quel tasto. Sono qui sotto le vesti di
assistente spirituale. Strana gente, questi
uomini pii. È capacissimo di farti tagliare
la gola, se gli fa comodo, ma esita a
mettere in pericolo la salvezza della tua
anima.
Basta semplicemente un po’ di psicologia
empirica. Un mercante deve conoscere
anche questo.
Gorov sorrise soddisfatto. – Tra l’altro, tu
sei stato in una scuola teologica. Hai
ragione, Ponyets. Sono contento che
abbiano mandato te. Ma il Gran Maestro
non si interessa solo della mia anima. Non
ti ha parlato di riscatto?
– Sì, ma solo vagamente – rispose il
mercante. – Ed ha anche minacciato di
mandarti alla camera a gas. Io sono stato
sulle difensive: poteva anche avermi tesa
una trappola. E così, si tratta di
estorsione? Ma che cosa vuole?
– Oro.
– Oro? – chiese sorpreso Ponyets. –
Metallo non lavorato? Ma a cosa gli
serve?
– È il loro mezzo di scambio.
– Davvero? E dove trovo l’oro, io?
– Dove puoi. Ascoltami, è importante.
Non mi succederà nulla fino a quando il
Gran Maestro sentirà odore di oro.
Prometti di portargliene quanto ne vuole.
Poi torna alla Fondazione, se è
necessario, e raccogline quanto puoi.
Quando sarò libero ci scorteranno fino ai
confini, e lì ci divideremo.
Ponyets lo guardò scrollando la testa. – E
poi tu tornerai qui, e ci proverai ancora.
– Fa parte della mia missione. Devo
cercare di vendere macchinari atomici ad
Askone.
– Ti riacchiapperanno prima che tu abbia
percorso un solo parsec. Questo lo sai,
spero.
– Anche se fosse così, la situazione non
muterebbe.
– La prossima volta ti uccideranno.
Gorov si strinse nelle spalle.
– Se devo andare a trattare ancora con il
Gran Maestro voglio sapere la verità –
riprese Ponyets. – Finora ho brancolato
nel buio. Durante il primo colloquio, per
quelle poche cose che ho detto, c’è
mancato poco che il venerabile Signore
perdesse il lume della ragione.
– La verità è abbastanza semplice – disse
Gorov. – L’unico modo di salvaguardare
la sicurezza della Fondazione qui alla
Periferia è di formare un impero
commerciale controllato dalla religione.
Siamo ancora troppo deboli per imporre
un controllo politico. È il solo sistema per
tenere a bada i Quattro Regni.
Ponyets annuì. – Questo lo capisco. Ma un
governo che non accetti i nostri
macchinari atomici non potrà mai essere
messo sotto controllo religioso...
– E di conseguenza diventa un focolaio di
indipendenza e di ribellione.
– D’accordo – disse Ponyets. – In teoria,
questo è tutto vero. Ma ora spiegami che
cosa impedisca il commercio. La
religione, forse? Il Gran Maestro mi ha
lasciato intendere che si tratta di questo.
– È una forma di venerazione degli
antenati. La loro tradizione parla di un
passato peccaminoso. Furono salvati da
eroi semplici e virtuosi delle precedenti
generazioni. È una interpretazione distorta
del periodo d’anarchia che sopraggiunse
un centinaio d’anni fa, quando le truppe
imperiali vennero cacciate e si formò un
governo indipendente. Le scoperte
scientifiche, ed in modo particolare
l’energia atomica, sono state identificate
con il vecchio regime imperiale che qui è
ricordato con orrore.
– Ah, è così? Eppure posseggono piccole
astronavi che mi hanno localizzato
facilmente alla distanza di due parsec.
Secondo me è evidente che hanno a bordo
strumenti atomici.
Gorov si strinse nelle spalle. – Senza
dubbio le navi sono quelle rimaste dopo
la cacciata dell’Impero. Essi conservano
nel medesimo stato le cose che
posseggono.
Il guaio è che non vogliono mutamenti, ed
il loro sistema economico nel complesso
non conosce l’energia atomica. È proprio
questo che dobbiamo cambiare.
– Ma in che modo?
– Rompendo la loro resistenza. In parole
povere, se riuscissimo a vendere un
temperino provvisto di una lama a campo
di forza ad uno dei nobili, diverrebbe suo
interesse far votare una legge che gli
permetta di usarlo. Ti sembrerà una
sciocchezza,
ma
psicologicamente
funziona. Una vendita strategica, al
momento giusto, può costituire una fazione
in favore dell’energia atomica.
– E ti hanno mandato qui con questo
compito? Io dovrei semplicemente pagare
il riscatto ed andarmene, mentre tu tenti di
nuovo? Non ti pare un controsenso?
– Perché? – chiese Gorov, guardingo.
– Ascolta. – Ponyets perse la pazienza. –
Tu sei un diplomatico, non un mercante, e
non basta che ti attribuisca questo nome
per diventarlo. La missione deve essere
compiuta da uno che sappia vendere. Io
mi trovo qui con le stive piene di merce, e
non so come fare a raggiungere la mia
quota di vendite.
– Vuoi dire che rischieresti la vita per una
faccenda che non è affar tuo? – Gorov
sorrise.
– E tu ritieni – rispose Ponyets – che
questo sia un lavoro patriottico e che i
commercianti non siano patrioti?
– Notoriamente, no. I pionieri non lo sono
mai stati.
– D’accordo. Ammettiamo che sia così. Io
non vado in giro nello spazio per salvare
la Fondazione o per altri ideali. Viaggio
per far soldi, e qui vedo le possibilità di
farne. Se poi in questo modo aiuto la
Fondazione, tanto meglio. Ho rischiato la
vita con probabilità molto inferiori.
– Che cosa hai intenzione di fare? –
chiese Gorov.
Il mercante sorrise. – Gorov, non lo so, o
almeno, non lo so ancora. Ma se il
problema si riduce al successo di una
vendita, è evidente che sono l’uomo
adatto.
A me non piacciono le vanterie, ma c’è
una cosa di cui vado molto fiero: non ho
mai finito l’anno senza aver raggiunto la
mia quota.
La porta della cella si aprì non appena
Ponyets ebbe bussato, e le due guardie si
spostarono per lasciarlo uscire.
4
– Una dimostrazione! – esclamò il Gran
Maestro facendo una smorfia.
S’aggiustò la pelliccia, e con una mano
afferrò la bacchetta di ferro che usava
come canna da passeggio.
– Dimostrazione ed oro, venerabile
signore.
– Ed oro – fece eco il Gran Maestro con
l’aria indifferente.
Ponyets pose la scatola sul pavimento e
l’aprì cercando di sorridere fiducioso
malgrado la paura gli irrigidisse i
muscoli. Si sentiva solo di fronte ad una
platea decisamente ostile: la stessa
sensazione provata la prima volta che
aveva affrontato da solo gli spazi
interstellari. Barbuti funzionari lo
attorniavano guardandolo con disprezzo.
Tra di loro c’era Pherl, il favorito del
Gran Maestro. Gli sedeva accanto con la
faccia atteggiata a profondo disgusto.
Ponyets lo aveva già incontrato prima ed
aveva capito che era l’uomo più
pericoloso; di conseguenza aveva deciso
di farne la sua prima vittima.
Fuori, nel corridoio, un piccolo esercito
aspettava gli eventi.
Ponyets diede gli ultimi tocchi al
complicato aggeggio che gli era costato
una settimana di lavoro, e pregò ancora
una volta che il giunto di quarzo resistesse
allo sforzo.
– Che cos’è? – domandò il Gran Maestro.
– Questo – disse Ponyets, facendo un
passo indietro – è un piccolo macchinario
che ho costruito da solo.
– Mi pare evidente, ma non è ciò che
volevo sapere. Non è per caso uno degli
strumenti infernali di magia nera usati sul
vostro pianeta?
– Funziona ad energia atomica – ammise
Ponyets serio – ma non c’è bisogno che
nessuno di voi lo tocchi o si avvicini. Lo
manovrerò io, e se esiste sacrilegio, la
vendetta cadrà su di me.
Il Gran Maestro levò il bastone di ferro
contro l’apparecchio con un gesto di
minaccia, e le sue labbra mormorarono
silenziosamente
una
invocazione
purificatrice. Il consigliere dalla faccia
magra che sedeva alla sua destra si chinò
e disse qualcosa all’orecchio del Gran
Maestro. Il vecchio askoniano si scostò
seccato.
– Non vedo che relazione ci sia tra questo
strumento del demonio e l’oro che
dovrebbe salvare la vita del vostro
compatriota – disse al mercante.
– Questa macchina – cominciò Ponyets,
carezzando leggermente la superficie
levigata della scatola – è capace di
mutare i rottami di ferro in oro della
migliore qualità. È l’unico strumento,
conosciuto dall’uomo, che possa
trasformare il ferro, il vile metallo che
sostiene la vostra sedia, venerabile
signore, e le mura di questo edificio, nel
metallo nobile, giallo e lucente.
Ponyets si sentiva la bocca asciutta. Era
solito decantare le qualità dei suoi
prodotti, e le sue parole erano facili e
convincenti. Ma per fortuna, in questo
caso, il Gran Maestro sembrava più
interessato al contenuto che alla forma
delle espressioni.
– Dunque si tratta di trasformazione? Altri
avevano proclamato di essere capaci.
Hanno pagato caro il loro sacrilegio.
– Sono riusciti nel loro intento?
– No. – Il Gran Maestro sembrava quasi
divertito. – L’azione di produrre oro è
criminosa in sé, ma nel successo finale
trova il suo perdono. Se il tentativo
fallisce la punizione è inevitabile. Ecco,
vediamo che cosa riuscite a fare con la
mia canna.
– Puntò il bastone verso di lui.
– Venerabile signore, vi prego di
scusarmi, ma il mio modello di macchina
è piccolo, preparato a mano, e la vostra
canna è troppo lunga.
Il Gran Maestro girò gli occhi attorno, poi
disse: – Rendel, le fibbie delle vostre
scarpe. Coraggio, datemele; se sarà
necessario, ve ne farò avere un paio di
nuove.
Le fibbie passarono di mano in mano. Il
Gran Maestro le soppesò, quindi le gettò
per terra.
– Ecco! – disse.
Ponyets le raccolse. Dovette spingere con
forza per aprire il cilindro, strinse i denti
e si concentrò al massimo per fare aderire
le fibbie al centro dello schermo
dell’anodo. Dopo sarebbe stato più facile,
ma non poteva assolutamente fallire al
primo tentativo.
Il tramutatore a mano scoppiettò per
almeno dieci minuti spargendo per la sala
odore di
ozono. I consiglieri
indietreggiarono di un passo, e
nuovamente Pherl bisbigliò qualcosa
all’orecchio del sovrano. Il Gran Maestro
osservava la scena attonito, ma non si
mosse.
Le fibbie diventarono d’oro.
Ponyets le porse al Gran Maestro
mormorando: – Esaminatele, venerabile
signore.
Il vecchio respinse con un gesto della
mano l’offerta. Osservò con sguardo
stupito il trasmutatore.
– Signori – disse Ponyets rapidamente –
questo è oro. Oro puro ed autentico.
Potete sottoporlo a qualsiasi analisi
chimica o fisica, se volete la prova
definitiva.
Non è possibile distinguerlo dall’oro
naturale. Ogni materiale ferroso può
essere lavorato in questa maniera. La
ruggine non interferisce nel trattamento, e
nemmeno la presenza, in quantità
moderata, di leghe metalliche...
Ponyets parlava solamente per riempire il
silenzio della sala.
Continuò a tenere le fibbie nella mano
tesa: era l’oro che parlava per lui.
Il Gran Maestro infine tese lentamente la
mano: Pherl si alzò a parlare. –
Venerabile signore, quest’oro ha
un’origine maligna.
– Una rosa – ribatté Ponyets – può anche
crescere nel fango, venerabile signore.
Quando voi trattate con i vostri vicini,
comprate materiali di ogni genere senza
chiedere come li abbiano ricavati: con
una macchina ortodossa benedetta dai
vostri antenati oppure con una macchina
diabolica. Io non vi sto offrendo la
macchina, vi sto offrendo oro.
– Voi non siete responsabile dei peccati
degli stranieri che lavorano senza il
vostro consenso e certo a vostra insaputa
– riprese Pherl, rivolto al Gran Maestro. –
Ma accettare questa specie di oro,
ricavato in vostra presenza e col vostro
consenso dal ferro, è un affronto agli
eterni spiriti dei nostri antenati.
– Eppure l’oro è oro – disse il Gran
Maestro dubbioso – ed è solo un mezzo di
scambio per salvare la vita di un
criminale condannato. Pherl, mi sembra
che siate troppo rigido nelle vostre
critiche. – Ma ritirò la mano.
– Venerabile signore – insistette Ponyets –
voi siete la saggezza in persona.
Consideriamo il problema sotto questo
punto di vista: se voi rinunciate al riscatto
non potete offrire niente ai vostri antenati,
invece, con l’oro ricavato, potrete
adornare i loro templi. E sicuramente, se
anche l’oro contiene in sé il male,
ammesso che ciò sia possibile, questo
male si allontanerà immediatamente dal
metallo allorquando venga usato per scopi
religiosi e pii.
– Per le ossa dei miei antenati! – esclamò
il Gran Maestro con sorprendente
veemenza, sbottando in una gran risata –
Pherl, che dite delle parole di questo
giovane? Il suo ragionamento mi sembra
valido. Valido, in verità, come le parole
dei miei antenati.
– Sembra così – disse Pherl scuro in
volto. – Sempre che poi non si venga a
scoprire che è stato un trucco dello
Spirito Maligno.
– Vi farò una proposta migliore – disse
Ponyets improvvisamente – Tenete l’oro.
Mettetelo sull’altare dei vostri antenati
come offerta e trattenetemi per trenta
giorni. Se, al termine di questo periodo,
non c’è nessun segno di dispiacere divino,
non accadono cioè sciagure, sarà provato
che l’offerta è stata accettata. Che cosa
potrei offrirvi di più?
Il Gran Maestro si alzò per controllare se
qualcuno disapprovasse, ma poté
constatare che tutti i consiglieri davano il
loro assenso.
Persino Pherl annuì, masticando nervoso
l’estremità dei suoi baffi.
Ponyets sorrise e meditò sull’utilità di
aver ricevuto una educazione religiosa.
5
Un’altra settimana trascorse prima che
Ponyets potesse organizzare un incontro
con Pherl. Ponyets sentiva la tensione
nell’aria, ma ormai si stava abituando a
questa sensazione di impotenza fisica.
Aveva lasciato la città sotto scorta
armata, e, sempre sorvegliato da due
guardie, era trattenuto nella villa di Pherl,
fuori città.
Non c’era altro da fare.
Pherl era alto ed era il più giovane del
circolo degli Anziani. Nei suoi abiti
normali, non aveva affatto l’aspetto di un
Anziano.
– Voi siete un curioso individuo – disse
senza preamboli, socchiudendo gli occhi.
– Per tutta la settimana, ed in particolar
modo in queste ultime due ore, non avete
fatto altro che tentare di convincermi che
io abbia bisogno di oro. Mi sembra una
fatica inutile, visto che non ne ho affatto
bisogno. Perché non mettete le carte in
tavola?
– Non si tratta semplicemente di oro –
disse Ponyets, guardingo – ma di ciò che
sta dietro l’oro.
– Che cosa c’è dietro l’oro? – domandò
Pherl con un mezzo sorriso. – Spero che
non abbiate intenzione di darmi un’altra
dimostrazione da baraccone.
– Da baraccone? – Ponyets inarcò le
sopracciglia.
– Ma certo – disse Pherl incrociando le
mani sotto il mento. – Tutta quella messa
in scena è stata fatta con uno scopo, senza
dubbio. Avrei avvertito il nostro
venerabile signore, se fossi stato al
corrente dello scopo. Al vostro posto, io
avrei prodotto l’oro a bordo della nave e
lo avrei offerto così. La dimostrazione che
ci avete dato ha suscitato intorno a voi
un’atmosfera ostile che potevate evitare.
– È vero – ammise Ponyets – ma poiché
era in gioco solo la mia persona ho
accettato questo rischio per attirare la
vostra attenzione.
– Tutto qui? Unicamente a questo scopo?
– Pherl non fece alcuno sforzo per
modificare la sua espressione divertita. –
Ed immagino che abbiate concesso i trenta
giorni per la purificazione dell’oro per
potervi occupare di cose più concrete.
Ma che cosa succederà se l’oro si
dimostrerà impuro?
– Non succederà – ribatté Ponyets. – La
perizia non è stata forse affidata a persone
che non hanno alcun interesse a
dimostrare che l’oro sia impuro?
Pherl, stringendo le palpebre guardò fisso
negli occhi il mercante.
Sembrava sorpreso e allo stesso tempo
soddisfatto.
– Una risposta veramente sensata. Ora
ditemi: perché volevate attirare la mia
attenzione?
– Ecco. Nel breve tempo che sono stato
qui, ho fatto alcune utili osservazioni che
si riferiscono a voi ed interessano me. Per
esempio, voi siete giovane, molto
giovane, per far parte del Consiglio. E
inoltre provenite da una famiglia
relativamente giovane.
– State forse criticando la mia famiglia?
– Niente affatto. I vostri antenati sono
grandi e santi; tutti lo ammettono. Ma
qualcuno afferma che voi non siate
membro di una delle Cinquecento Tribù!
Pherl s’appoggiò allo schienale. – Con
tutto il rispetto dovuto – ribatté, senza
nascondere il suo disappunto – le Cinque
Tribù hanno talmente impoverito il loro
sangue che i loro membri ancora in vita
non sono più di cinquanta.
– Eppure si dice che il popolo non
accetterebbe come Gran Maestro nessuno
che non appartenga ad una delle Tribù –
disse Ponyets. – E si dice anche che voi,
così giovane e così di recente entrato
nelle grazie del Gran Maestro, potreste
suscitare le invidie di nemici potenti. Il
venerabile signore sta diventando
vecchio, e la sua protezione non
continuerà dopo la morte, quando i nemici
interpreteranno le parole dello Spirito a
modo loro.
Pherl crollò il capo. – Per essere uno
straniero, avete un udito fine. Orecchie
come le vostre meritano d’essere tagliate.
– A questo si può pensare in seguito.
– Permettetemi di precedervi nelle
conclusioni. – Pherl s’agitava nervoso. –
Voi volete offrirmi ricchezza e potere per
mezzo delle diaboliche macchine che
riempiono le stive della vostra nave. È
così?
– Supponiamo che sia così. Quali sono le
vostre obiezioni? Nient’altro che le vostre
idee sul bene e sul male?
– Ascoltatemi, mio caro straniero: la
concezione che avete di noi, nel suo
agnosticismo pagano, è quella che è. Ma
non crediate che io sia uno schiavo
assoluto della natura mitologica, anche se
sembro tale. Sono un uomo educato ed
anche illuminato, spero. I nostri costumi
religiosi, in senso ritualistico più che
etico, sono rivolti alle masse.
– Quali sono le obiezioni, allora? –
domandò Ponyets gentilmente.
– Le masse. Io sarei disposto a trattare
con voi, ma le vostre macchine devono
essere usate per essere utili. A che mi
servirebbero queste ricchezze? Mettiamo
che voi mi vendiate, immaginiamo, un
rasoio. Io sarò costretto ad usarlo di
nascosto, col timore d’essere scoperto. Ed
anche se il mio mento sarà perfettamente
sbarbato, in che modo potrei arricchire?
Ed in che modo potrei evitare la camera a
gas se fossi scoperto?
Ponyets si strinse nelle spalle. – Avete
ragione. C’è un rimedio, però: educare la
vostra gente all’uso dell’energia atomica
a loro vantaggio e con profitto per voi.
Sarebbe un lavoro di proporzioni
colossali, ma il risultato sarebbe ancora
più notevole. Ma questo è un problema
vostro e non mio. Poiché io non vi offro
rasoi o temperini, né
meccanismo speciale.
alcun altro
– Che cosa mi offrite?
– Oro. Unicamente oro. Voi potete avere
la macchina di cui mi sono servito per la
dimostrazione di ieri.
Pherl s’era irrigidito e tutta la pelle della
faccia sembrava che vibrasse. – Il
trasmutatore?
– Esattamente. Avrete tanto oro quanto è il
ferro a vostra disposizione. Una tale
riserva, immagino, è sufficiente per tutti i
bisogni. Vi basterà per diventare Gran
Maestro a dispetto della giovane età e dei
nemici. E non ci sarà alcun pericolo.
– Come sarebbe a dire?
– Potete usare la macchina segretamente;
la potete sotterrare nella più profonda
cantina della più inespugnabile fortezza
d’una vostra remotissima tenuta:
l’apparecchio non cesserà di procurarvi
ricchezza. Voi state comprando l’oro, non
la macchina. Quest’oro non avrà un
aspetto diverso da quello ricavato con i
soliti sistemi.
– E chi farà funzionare la macchina?
– Voi stesso. Non occorrono più di cinque
minuti per imparare a manovrarla.
Posso insegnarvelo quando volete.
– E che cosa chiedete in cambio?
– Be’ – e Ponyets si fece più cauto – vi
chiederò un prezzo alto. Questo è il mio
mestiere. Voglio, visto che si tratta di una
macchina di valore, l’equivalente di
mezzo metro cubo d’oro in ferro lavorato.
Pherl scoppiò in una gran risata, e Ponyets
arrossì. – Vi faccio notare, signore –
aggiunse – che potrete ripagarvi in meno
di due ore.
– Verissimo, e magari dopo un’ora voi
sarete sparito e la mia macchina si
rivelerà completamente inutile. Ho
bisogno di una garanzia.
– Avete la mia parola.
– Ottimamente. – E Pherl si inchinò. – Ma
penso che la vostra presenza sia una
garanzia migliore. Io vi do la mia parola
d’onore che pagherò l’apparecchio una
settimana dopo averlo ricevuto in ordine
ed efficiente.
– Impossibile!
– Impossibile? Vi rendete conto che avete
già commesso un reato punibile con la
morte solo per aver tentato di vendermi
qualcosa? L’unica alternativa è accettare
la mia parola. Altrimenti verrete
condannato a morte domani stesso.
La faccia di Ponyets era fredda e
inespressiva. Disse: – Vi prendete un
vantaggio sproporzionato. Mi volete
mettere la promessa per iscritto?
– Ed in tal modo rischiare la condanna a
morte? No signore! – Pherl sorrise,
soddisfatto. – No, signore! Solamente uno
di noi due può passare per stupido.
– Allora siamo d’accordo – disse il
mercante piano.
6
Gorov fu rilasciato dopo trenta giorni, in
cambio di duecentocinquanta chili d’oro
giallo e purissimo. Gli venne anche
restituita la nave che era stata posta in
quarantena e dichiarata intoccabile.
Le pattuglie askoniane scortarono le due
piccole astronavi fino all’uscita dei
confini, come già avevano fatto al loro
arrivo.
Ponyets osservava la piccola scintilla
luminosa che era la nave di Gorov mentre
questi gli parlava via radio, su una
lunghezza d’onda speciale e non
intercettabile da estranei.
– Non era così – diceva Gorov – che
volevo farti concludere la vendita,
Ponyets. Un trasmutatore non servirà a
niente. Ma dimmi: dove sei riuscito a
scovarlo?
– Non l’ho trovato in nessun posto –
replicò Ponyets paziente. – L’ho ricavato
da una camera per l’irradiazione del cibo.
In realtà non serve a niente. Su larga scala
il consumo d’energia è proibitivo. Se non
fosse così la Fondazione userebbe questo
sistema invece di farci andare da un
pianeta all’altro alla ricerca di metalli
pesanti. È uno dei soliti trucchi che i
commercianti usano. Io non avevo mai
visto prima fare una mutazione ferro-oro.
Ma è impressionante, e funziona...
temporaneamente.
– D’accordo, però il trucchetto non serve.
– Ti ha cavato dai pasticci.
– Non è questo il punto. Specialmente se
dovrò ritornare indietro una volta che ci
saremo liberati della nostra scorta.
– E perché?
– Tu stesso l’hai spiegato al tuo amico
consigliere – Gorov stava alzando la
voce. – Per venderlo gli hai fatto notare
che il trasmutatore era un mezzo per uno
scopo ben determinato: lui comperava
l’oro, non la macchina. Psicologicamente
era un argomento ottimo, visto che ha
funzionato, ma...
– Ma che cosa? – chiese Ponyets senza
capire.
La voce dal microfono si fece più acuta. –
Ma noi vogliamo vendere macchine che
abbiano valore di per sé, macchine da
usare apertamente, qualcosa che li spinga
a interessarsi dell’energia atomica.
– Capisco perfettamente – rispose Ponyets
– me lo hai già spiegato una volta.
Ma considera l’uomo a cui l’ho venduto.
Finché il trasmutatore durerà, Pherl
fabbricherà oro; e gli durerà abbastanza
per comperarsi i voti alle nuove elezioni.
L’attuale Gran Maestro non vivrà a lungo.
– Conti forse sulla gratitudine? – domandò
Gorov con voce fredda.
– No, conto su un intelligente tornaconto
personale. Con il trasmutatore comprerà i
voti: gli altri macchinari...
– La tua premessa è sbagliata. Non sarà il
trasmutatore che ne avrà il credito, ma
sarà l’oro, il vecchio oro. È questo che
sto cercando di spiegarti.
Ponyets sorrise e si mise a sedere più
comodamente. Aveva preso in giro
abbastanza l’interlocutore. Gorov oramai
era al colmo dell’esasperazione, ed era
venuto il momento di spiegare bene tutta
la faccenda.
– Calmati, Gorov – disse il mercante. –
Non saltare alle conclusioni. Non ho
ancora finito di parlare. Ho venduto anche
altri macchinari.
Dopo alcuni istanti di silenzio, Gorov
parlò con accento più calmo. – Quali
macchinari?
– Vedi le navi che ci scortano? – chiese
Ponyets.
– Vedo – rispose Gorov seccamente. –
Ma parlami dei macchinari.
– Un momento, stammi a sentire. È la
flotta privata di Pherl che ci sta
scortando: onore speciale del Gran
Maestro. Sono stato io ad ottenerlo.
– E allora?
– Dove credi che ci stiano portando? Ci
portano nei possedimenti minerari di
Pherl, ai confini di Askone. Ascolta! –
Ponyets era fiero di sé. – Ti avevo detto
che mi occupavo di questo affare per
guadagnare soldi, e non per salvare la
patria. È stato così. Ho venduto il
trasmutatore per niente. Niente all’infuori
del rischio di finire nella camera a gas,
ma questo non serve a farmi raggiungere
la mia quota di vendite.
– Torniamo alla storia dei possedimenti
minerari, Ponyets. Cosa c’entrano?
– Stiamo andando a caricare stagno,
Gorov. Tanto da riempire ogni scomparto
di questa barcaccia, ed anche qualcuno
della tua. Vado giù con Pherl a caricare,
vecchio mio, e sarà bene che tu mi copra
dall’alto con tutti i cannoni carichi e
puntati, nel caso Pherl dimostri di non
saper perdere. Lo stagno è il mio
guadagno in questo affare.
– In cambio del trasmutatore?
– No, in cambio del mio intero carico di
prodotti atomici. E a doppio prezzo, più il
premio. – Alzò le spalle quasi come per
scusarsi. – Ammetto di averlo giocato ma,
d’altra parte, ho raggiunto la mia quota.
Gorov non riusciva a capire. – Non
potresti spiegarti meglio? – disse, con
voce quasi impercettibile.
– Non vedo che cosa ci sia da spiegare. È
semplicissimo, Gorov. Il furbo credeva di
avermi chiuso in trappola perché la sua
parola avrebbe avuto certamente più
valore della mia davanti al Gran Maestro.
Aveva accettato il trasmutatore, ed una
cosa del genere è un delitto su Askone.
Ma avrebbe potuto sempre affermare di
avermi preparato una trappola per puro
scopo patriottico: per denunciarmi come
venditore di cose proibite.
– È chiaro.
– Certo, ma il fatto è che non era in gioco
soltanto la mia parola contro la sua.
Vedi, Pherl non sapeva che esistessero
registratori a microfilm.
Gorov scoppiò a ridere.
– Proprio così – disse Ponyets. – Lui
aveva le redini in mano, ed io le mani
legate. Ma quando ho preparato il
trasmutatore vi ho incorporato il
registratore, e l’ho tolto solo il giorno
dopo averlo ceduto a Pherl. Così ho avuto
una registrazione filmata perfetta, nella
quale si vedeva il povero Pherl che
metteva in funzione i meccanismi e
fabbricava l’oro, mandando al diavolo
tutte le teorie religiose.
– Gli hai fatto vedere i risultati?
– Solo due giorni più tardi. Il poverino
non aveva mai visto in vita sua un film a
tre dimensioni. Sostiene di non essere
superstizioso, ma, parola mia, non ho mai
visto un uomo più spaventato. Quando poi
gli ho detto che avevo piazzato uno
schermo nella piazza principale della città
e che un meccanismo a orologeria sarebbe
scattato a mezzogiorno in modo che
milioni di suoi concittadini avrebbero
potuto assistere allo spettacolo, s’è
ridotto a uno straccio. In mezzo secondo
l’ho messo in ginocchio. Era disposto a
concludere qualsiasi affare.
– Veramente? – Gorov non riusciva a
trattenere le risa. – Gli avevi piazzato sul
serio uno schermo sulla piazza della città?
– No, ma che importanza ha? Lui ha
concluso l’affare. Ha comperato i miei
macchinari ed anche i tuoi, in cambio di
tutto lo stagno che potevamo caricare. In
quel momento mi credeva capace di
qualsiasi azione. Abbiamo messo per
iscritto l’accordo, e tu ne terrai una copia
mentre io scendo insieme con lui. Per
precauzione.
– Ma in questo modo l’hai ferito nel suo
orgoglio replicò Gorov. – Credi che userà
i nostri macchinari?
– E perché no? È l’unico modo di
recuperare la perdita, e se ne ricaverà
soldi, sta pur certo che la ferita
all’orgoglio guarirà presto. Sarà il
prossimo Gran Maestro e un sicuro
alleato per noi.
– Sì – disse Gorov – hai fatto un ottimo
affare. Anche se la tua tecnica non è stata
delle più ortodosse. Ora mi spiego perché
ti hanno cacciato via dal seminario.
Non hai proprio alcun senso morale!
– Che importanza ha? – disse Ponyets
indifferente. – Tu sai cos’ha detto Salvor
Hardin a proposito della morale.
PARTE QUINTA
I PRINCIPI MERCANTI
1
I MERCANTI... Secondo le inevitabili
previsioni psicostoriche, la Fondazione
acquistò il controllo economico di spazi
sempre più vasti. I mercanti si
arricchirono e con la ricchezza crebbe la
loro potenza...
Qualche volta ci si dimentica che Hober
Mallow iniziò la carriera come semplice
commerciante. Nessuno dimentica che finì
la sua vita come il primo dei Principi
Mercanti...
ENCICLOPEDIA GALATTICA
Jorane Sutt giunse le mani facendo aderire
i polpastrelli delle dita ben curate e disse:
– A volte non so proprio cosa pensare.
Forse, detto in tutta confidenza, potrebbe
essere un’altra delle crisi di Hari Seldon.
L’uomo che gli sedeva di fronte cercò una
sigaretta delle tasche della sua giacca
smyrniana. – Non ne sono tanto convinto,
Sutt.
Generalmente
voi
politici
immaginate una “Crisi Seldon” ogni volta
che ci sono le elezioni.
Sutt sorrise. – Io non partecipo alla
campagna elettorale, Mallow. Qui
abbiamo di fronte armi atomiche, e non
sappiamo da dove vengano.
Hober Mallow di Smyrno, Capo dei
Mercanti, fumava tranquillo, quasi con
indifferenza. – Continuate. Se avete
qualcosa da dire, ditelo. – Non
commetteva mai l’errore di mostrarsi
troppo gentile con un uomo della
Fondazione. Era uno straniero, ma non per
questo si sentiva meno libero.
Sutt indicò sulla tavola la carta stellare
tridimensionale. Regolò i comandi, ed una
costellazione di una dozzina di sistemi
solari si illuminò di luce rossa.
– Questa – disse con calma – è la
Repubblica di Korell.
Il mercante annuì. – Ci sono stato. Un
postaccio! La chiamano repubblica ma è
sempre un membro della famiglia Argo
che viene eletto ogni volta Commodoro. E
se qualcuno si oppone, gli capitano strane
avventure. – Storse la bocca e ripeté: –
Sono stato laggiù.
– Ma siete anche tornato, e questo non
accade sempre. Tre astronavi mercantili,
protette dalla Convenzione, sono sparite
in questo ultimo anno nei confini del
territorio della repubblica. Ed erano navi
armate di batterie nucleari e difese da
campi di forza.
– Quali sono state le ultime notizie che
avete ricevuto da bordo?
– Comunicazioni di servizio. Niente di
più.
– E cosa vi ha risposto Korell?
Sutt sorrise, ironico. – Non possiamo
chiedere spiegazioni a Korell. La forza
della Fondazione è nella fama di inciviltà
di cui gode in tutta la Periferia. Credete
che possiamo perdere tre navi e poi
chiedere cosa ne sia avvenuto?
– Bene. E adesso vi spiace dirmi che cosa
volete da me?
Jorame Sutt non perse la calma. Come
segretario del sindaco, aveva il compito
di
ascoltare
i
consiglieri
dell’opposizione, la gente che veniva alla
ricerca di un posto, altri che gli
sottoponevano piani di riforma, e persino
pazzi che giuravano di aver previsto per
intero il corso della storia futura,
esattamente come l’aveva immaginato
Seldon.
Con un tale allenamento, ci voleva ben
altro per fargli perdere il controllo di sé.
– Abbiate pazienza un attimo – disse. –
Dovete capire che tre navi perdute nello
stesso settore in un anno sono troppe
perché la scomparsa possa essere
attribuita ad incidenti. Ora, un armamento
nucleare può essere sconfitto solo da un
altro armamento atomico. La domanda che
sorge è semplice: se Korell possiede armi
atomiche, dove le ha trovate?
– E qual è la risposta?
– O Korrell le ha costruite da sé...
– D’accordo. Allora l’unica altra ipotesi è
che tra noi esista un traditore.
– Pensate questo? – la voce di Mallow
era fredda.
– Non è impossibile. Da quando i Quattro
Regni hanno accettato la Convenzione, la
Fondazione ha dovuto fronteggiare gruppi
considerevoli di dissidenti in tutti gli
Stati. Ogni ex-regno ha pretendenti al
trono e le ex-classi aristocratiche non
manifestano certo amore per la
Fondazione.
Alcuni
gruppi,
probabilmente, si sono organizzati.
Mallow si fece insistente e preciso. –
Capisco. Ma che cosa volete dire a me in
particolare? Ricordatevi che io sono
smyrniano.
– Lo so. Voi siete uno smyrniano, nato su
Smyrno, uno degli ex-regni. Siete un uomo
della Fondazione solo per educazione. Per
nascita, siete uno straniero.
Certamente vostro padre era un barone
durante la guerra tra Anacreon e Locris, e
ha subìto la confisca dei beni quando Sef
Sermak ha messo in atto la riforma
agraria.
– Per lo Spazio, questo non è vero! Mio
padre era figlio di un operaio che morì di
fame in una miniera di carbone prima
della venuta della Fondazione, per la
miserabile paga che riceveva! Io non devo
niente al passato regime. Però, sono nato
su Smyrno e, per la Galassia, non me ne
vergogno affatto. Le vostre sottili
allusioni non mi fanno effetto. Ed ora, o
mi date ordini o mi mettete sotto accusa.
Quello che preferite.
– Mio caro Mallow, a me non importa
sapere se vostro padre fosse il re di
Smyrno od il più povero dei contadini. Ho
accennato ai vostri antenati solo per
dimostrarvi quanto poco mi interessi di
loro. Evidentemente, non mi avete capito.
Ma torniamo alla questione. Voi siete uno
straniero, e perciò conoscete bene gli
stranieri. Siete anche un commerciante e a
dire il vero uno dei migliori. Siete stato su
Korell e conoscete i korelliani. Dovete
ritornare su Korell.
– Come spia?
– No. Come mercante, ma con gli occhi
aperti. Se riuscite a scoprire da dove
ricevono l’energia atomica... Ma dal
momento che siete uno smyrniano, sarà
meglio che vi dica che due navi
scomparse avevano a bordo equipaggi di
Smyrno.
– Quando devo partire?
– Quando sarà pronta la vostra nave?
– Fra sei giorni.
– Allora partirete fra sei giorni.
L’Ammiraglio vi darà le informazioni
necessarie.
– D’accordo. – Il mercante si alzò, strinse
la mano di Sutt con energia ed uscì.
Sutt rimase seduto per un po’ a
massaggiarsi le dita indolenzite dalla
stretta, poi entrò nell’ufficio del sindaco.
Il sindaco chiuse lo schermo visivo e si
appoggiò allo schienale della sedia. – Che
ne dici, Sutt?
– Potrebbe essere un ottimo attore –
rispose Sutt e non aggiunse altro.
2
Quella sera stessa, nell’appartamento
dove Jorane Sutt viveva solo al
ventitreesimo piano del grattacielo Harin,
Publis Manlio sorseggiava lentamente un
bicchiere di vino.
Magro e non giovane, deteneva due
importanti cariche nel governo della
Fondazione. Era Ministro degli Esteri ed
inoltre, per i vari sistemi solari al di fuori
della Fondazione, era Primate della
Chiesa,
Maestro
dei
Templi,
Sovraintendente al Sacro Cibo, ed
un’infinità di altre cose con definizioni
risonanti.
– Eppure – disse Publis – s’è trovato
d’accordo con te circa l’invio di quel
commerciante. Io penso che sia
importante.
– Importante sì – disse Sutt – ma senza
conseguenze. Tutta la faccenda è un
misero stratagemma, perché non c’è modo
di prevedere come andrà a finire. È come
calare un’esca sperando che qualcosa
abbocchi.
– Vero. E questo Mallow sembra un uomo
capace. Che cosa succede se non si presta
allo stratagemma?
– È un rischio che bisogna correre. Se c’è
stato tradimento vi debbono essere
implicati uomini capaci. Se non c’è
tradimento, ci occorre un uomo capace
per scoprire la verità, Mallow comunque
sarà controllato... Ma il tuo bicchiere è
vuoto.
– No, grazie. Ho bevuto abbastanza.
Sutt riempì il proprio bicchiere e attese
pazientemente che l’interlocutore gli
rivelasse i suoi pensieri. L’attesa fu
breve. Dopo pochi istanti di silenzio, il
primate sbottò: – Sutt, che cosa stai
macchinando?
– Te lo dirò, Manlio. Siamo al centro di
una Crisi Seldon.
Manlio lo guardò, poi rispose con calma:
– Come lo sai? Hari Seldon è apparso di
nuovo nella Volta?
– No, non siamo ancora a questo punto.
Ma ragiona un po’. Da quando l’Impero
Galattico si è ritirato dalla Periferia e ci
ha abbandonato a noi stessi, non ci siamo
mai trovati di fronte ad un rivale in
possesso di energia atomica. Accade ora
per la prima volta. Questa semplice
constatazione è già di per sé significativa.
Inoltre, per la prima volta dopo
settant’anni, abbiamo anche una grave
crisi interna.
Per me non ci sono dubbi, visto che le due
crisi si verificano simultaneamente.
Manlio socchiuse gli occhi. – Se questo è
tutto, non giustifica le tue conclusioni. Ci
sono state finora già due Crisi Seldon. Ed
in ciascuna di esse la Fondazione ha corso
il pericolo di venire completamente
distrutta. Non credo siamo a questo punto.
Sutt dava segni di impazienza. – Il
pericolo non è ancora arrivato ma è
vicino.
Anche uno stupido si accorge di una crisi
imminente. Il vero statista lo scopre
quando è ancora in embrione. Ascolta,
Manlio, noi stiamo procedendo lungo un
cammino storico pianificato. Sappiamo
che Hari Seldon ha previsto ogni evento
possibile del nostro futuro. Sappiamo di
essere destinati a ricostruire l’Impero
Galattico.
«Sappiamo inoltre che ci vorranno circa
mille anni e sappiamo che dovremo
affrontare alcune crisi. La prima crisi si è
verificata cinquant’anni dopo la nascita
della Fondazione. La seconda, trent’anni
più tardi. Adesso sono passati settant’anni
dall’ultima. Sento che ormai ci siamo,
Manlio.
Manlio non sembrava del tutto convinto. –
Hai fatto piani per affrontare la crisi?
Sutt annuì.
– Ed io – continuò Manlio – che parte
avrò nel tuo piano?
– Prima di controbattere la minaccia delle
armi atomiche straniere dobbiamo
risolvere i problemi interni. Questi
mercanti...
– Ah! – Il primate si fece più attento.
– Esatto. Proprio questi mercanti. Sono
utili, ma troppo forti, e troppo poco
controllati. Sono stranieri che non hanno
avuto un’educazione religiosa. Diamo
loro un’istruzione, ma eliminiamo il
vincolo che dovrebbe tenerli legati a noi.
– Se si riuscisse a provare che ci sia stato
un tradimento..
– Certo, in questo caso un’azione diretta
sarebbe semplice e sufficiente. Ma ha
poca importanza. Anche se non ci fossero
traditori fra loro, essi costituirebbero pur
sempre un elemento equivoco nella nostra
società. Non sono legati a noi dal
patriottismo né da una discendenza
comune, e quindi nemmeno da vincoli
religiosi.
Sotto il loro potere laico, le provincie
esterne, che dai tempi di Hardin ci
considerano il Pianeta Sacro, potrebbero
distaccarsi.
– Capisco benissimo, ma il rimedio...
– Il rimedio dobbiamo trovarlo subito,
prima che la Crisi Seldon si faccia acuta.
Se abbiamo armi atomiche all’esterno e
malcontento all’interno la partita potrebbe
diventare pericolosa. – Sutt posò il
bicchiere col quale aveva giocherellato
fino a quel momento. – Questo è un lavoro
per te.
– Per me?
– Io non posso farlo. La mia carica non è
elettiva e manca quindi dell’appoggio
consiliare.
– Il sindaco...
– Impossibile. La sua personalità è
assolutamente negativa. È energico solo
quando si tratta di evitare responsabilità.
Ma se si crea un nuovo partito che possa
mettere in pericolo la sua rielezione, forse
permetterà che lo si guidi.
– Ma, Sutt, io non ho alcuna attitudine
all’azione politica!
– Lascia fare a me. Dai tempi di Salvor
Hardin il potere religioso e quello civile
non sono mai stati nelle mani di una sola
persona. Può succedere adesso, se tu
riesci a compiere un buon lavoro.
3
All’estremo opposto della città, Hober
Mallow stava incontrando un altro
personaggio. L’aveva ascoltato a lungo,
ed ora rispondeva con precauzione.
– Sì, ho saputo della vostra campagna per
dare ai mercanti una rappresentanza
diretta nel Consiglio. Ma perché avete
scelto me, Twer?
Jaim Twer, anche lui straniero, era stato
tra i primi che avevano ricevuto una
educazione laica alla Fondazione. Ne era
molto fiero e non mancava mai di farlo
notare.
– So benissimo quello che sto facendo –
disse. – Vi ricordate quando vi ho
incontrato per la prima volta, l’anno
scorso?
– Al Congresso dei Mercanti.
– Esattamente. Eravate voi a dirigere la
riunione. Ho visto come avete messo a
tacere quella banda di asini e come li
avete tirati tutti dalla vostra parte. Siete
popolare anche tra le masse della
Fondazione. Avete fascino, o per lo meno
hanno fascino le vostre avventure, che è la
stessa cosa.
– Va bene – disse Mallow. – Ma perché
proprio adesso?
– Perché questo è il nostro momento.
Sapete che il Ministro dell’Educazione ha
rassegnato le dimissioni? La notizia non è
stata ancora resa pubblica ma non passerà
molto tempo.
– E come lo sapete voi?
– Non me lo chiedete – disse con un gesto
disgustato della mano. – Lo so e basta. Il
vecchio Partito Anti-Immobilista è diviso
in diverse fazioni, e noi possiamo dargli il
colpo di grazia adesso, mettendo sul
tavolo la questione dei diritti dei
mercanti: in sostanza, si tratta di dividere
il gruppo democratico da quello antidemocratico.
Mallow s’appoggiò allo schienale della
sedia, e si guardò le grosse mani. –
Scusatemi, Twer. Fra una settimana parto
per affari. Dovete trovare un altro.
Twer lo guardò sorpreso. – Affari? Di che
genere?
– Segreto di Stato. Ho parlato col
segretario del sindaco.
– Guardatevi da Sutt: è un serpente. –
Jaim Twer si stava eccitando. –
Dev’essere un trucco. Vuole liberarsi di
voi, Mallow...
– Calmatevi! Non prendete subito fuoco.
Se si tratta di un trucco, ritornerò un
giorno per fare i conti. Se invece non è
così, Sutt, il vostro serpente, si sarà
messo in trappola da solo. C’è una Crisi
Seldon in vista...
Mallow attese invano una reazione. Twer
si limitò a chiedergli: – Che cos’è una
Crisi Seldon?
– Per la Galassia! – sbottò Mallow. – Ma
che cosa avete studiato quando eravate a
scuola? Come si può fare una domanda
così assurda?
L’uomo più anziano s’accigliò. – Se vi
spiegaste meglio...
Ci fu una lunga pausa. – Vi spiegherò –
disse Mallow alla fine. – Quando
l’Impero Galattico ha incominciato a
decadere e la Periferia della Galassia se
ne è staccata precipitando nella barbarie,
Hari Seldon ed il suo gruppo di
psicostorici istituirono una colonia, la
Fondazione, quaggiù in mezzo alle nazioni
barbare, affinché noi conservando l’arte,
la scienza, e la tecnologia, formassimo il
nucleo del Secondo Impero.
– Sì, sì...
– Non ho ancora finito – continuò il
mercante in tono freddo. – Il futuro della
Fondazione fu pianificato secondo la
scienza della Psicostoria, a quei tempi in
pieno sviluppo. Vennero create inoltre
determinate condizioni in modo da
spingerci più rapidamente sulla strada del
futuro Impero. Ogni crisi, chiamata
“Crisi Seldon”, segna un’epoca della
nostra storia. Stiamo avvicinandoci ora
alla terza.
– Già – disse Twer scrollando la testa. –
Avrei dovuto ricordarmene. Ma ho
lasciato la scuola da tanto tempo: voi
siete più fresco di studi.
– Me ne rendo conto. L’importante, però,
è che io vengo mandato via proprio nel
pieno sviluppo di questa crisi. Non c’è
bisogno di dire che cosa otterrò al ritorno.
Ci sono le elezioni una volta all’anno.
– Avete qualche progetto preciso?
– No.
– Avete almeno un piano di massima?
– No.
– Allora...
– Allora, niente. Hardin una volta disse:
«Per riuscire, non basta avere un piano.
Bisogna anche saper improvvisare».
Ebbene, io improvviserò.
Twer non rispose. Rimasero a guardarsi
l’un l’altro.
– Sentite un po’ – riprese Mallow dopo un
lungo silenzio. – Che ne direste di venire
con me? Non mi guardate così. Una volta
anche voi facevate il mercante, prima di
accorgervi che la politica era più
eccitante. Almeno, così ho sentito dire.
– Dove andate? Ditemi almeno questo.
– In direzione dell’Abisso di Whassalian.
Non posso dirvi di più finché non saremo
nello spazio. Che ne pensate?
– Può darsi che Sutt voglia tenervi
sott’occhio.
– Non mi sembra probabile. Se proprio
intende liberarsi di me, non vedo perché
debba volere voi tra i piedi. A parte il
fatto che nessun mercante si metterebbe in
viaggio se non potesse scegliere
l’equipaggio. Io porto chi mi pare.
Il vecchio esitò un attimo. – D’accordo.
Vengo – disse infine tendendo la mano.
– Sarà il mio primo viaggio dopo tre anni.
Mallow gli strinse con vigore la mano. –
Bene. Tutto è a posto! Ed ora devo
radunare i ragazzi. Sapete da dove parte
la “Far Star”, vero? Allora fatevi vivo
domani. Arrivederci.
4
A Korell si ripete un fenomeno comune
nella storia: è una repubblica il cui capo
ha tutti gli attributi del monarca assoluto
tranne il nome. Di conseguenza il
dispotismo non è regolato dalle due forze
moderatrici, la dignità regale e l’etichetta
di corte, che caratterizzano la monarchia
legittima.
La cosiddetta repubblica economicamente
era povera. Dopo la scomparsa
dell’Impero Galattico, a testimoniare la
passata grandezza non restavano che
edifici in rovina. La civiltà della
Fondazione non era ancora arrivata. La
fiera opposizione del suo capo, il
Commodoro Asper Argo, che aveva
imposto severissime limitazioni ai
mercanti e aveva proibito nel modo più
assoluto la costituzione di missioni,
impediva alla Fondazione di portare la
sua influenza civilizzatrice anche in quelle
regioni.
Persino lo spazioporto era decrepito ed in
decadenza, e tra l’equipaggio della
“Far Star” serpeggiava il nervosismo.
Negli hangar abbandonati cresceva ogni
sorta di vegetazione, ed il paesaggio
circostante rendeva ancora più triste
l’atmosfera. Jaim Twer cercava di
calmare il proprio nervosismo con
interminabili solitari.
Hober Mallow guardava il paesaggio
dalla cupola panoramica. Stava pensando
che quel luogo avrebbe potuto essere un
ottimo mercato. Di Korell non si poteva
dire molto di più. Il viaggio era stato
tranquillo. Lo squadrone inviato a
intercettare la “Far Star” era composto di
poche astronavi in cattivo stato: relitti
della gloriosa flotta imperiale. Si erano
mantenute a rispettosa distanza, e per una
settimana
avevano
continuato
a
controllare l’astronave senza avvicinarsi.
Mallow aveva chiesto di essere ricevuto
dal governo locale, ma ancora non gli
avevano risposto.
– Un ottimo mercato, potenzialmente –
ripeté ad alta voce Mallow. – È ancora un
territorio vergine.
Jaim Twer alzò lo sguardo e gettò le carte
da un lato. – Che cosa pensate di fare,
Mallow? L’equipaggio protesta, gli
ufficiali sono nervosi, ed io sono
preoccupato...
– Preoccupato? E perché?
– Per la situazione, ed anche per voi. Che
cosa si fa?
– Aspettiamo.
Il vecchio mercante si fece rosso in
faccia. – Ma siete cieco, Mallow? –
protestò. – Il campo è circondato da
guardie armate, e dall’alto siamo
costantemente sotto il tiro delle navi di
pattuglia.
Che
succederebbe
se
decidessero di farci saltare in aria?
– Hanno avuto una settimana di tempo per
farlo.
– Forse aspettano rinforzi. – Twer stava
alzando la voce.
– Sì, ci ho pensato – rispose Mallow. –
Ma vedete, in fondo siamo arrivati qui
senza noie. Forse non significa niente:
tuttavia solo tre navi su trecento sono
scomparse, in questo ultimo anno. La
percentuale è piuttosto bassa. Ma può
anche darsi che essi abbiano poche
astronavi con armamento atomico e non
osino esporle inutilmente finché non ne
abbiano in numero sufficiente. D’altra
parte, può anche significare che non
possiedano affatto armi nucleari. O forse
le hanno ma le tengono nascoste per paura
che le scopriamo. Dopo tutto, una cosa è
commettere atti di pirateria contro
astronavi mercantili con armamento
leggero, un’altra è attaccare un inviato
ufficiale della Fondazione quando la sua
presenza può significare che la
Fondazione abbia dei sospetti. Mettete
tutti questi argomenti insieme...
– Fermatevi, Mallow, fermatevi. – Twer
aveva alzato la mano. – Queste sono solo
teorie, in sostanza dove volete arrivare?
Lasciate stare i preamboli.
– Devo cominciare con la premessa,
Twer, altrimenti non mi potete capire.
Tanto loro che noi stiamo aspettando.
Loro non sanno che cosa io sia venuto a
fare, e io non so che cosa troverò qui. Ma
noi siamo in condizioni di inferiorità,
perché io sono solo contro un intero
mondo munito forse di energia atomica.
Non posso cedere per primo. Certo è un
gioco pericoloso. Potrebbero anche farci
saltare in aria. Ma questo la sapevamo fin
da prima. Che altro possiamo fare?
– Non so... Ma che cosa sta succedendo?
Mallow si girò di scatto e sintonizzò il
ricevitore. Sullo schermo televisivo
apparve la faccia dura del sergente di
guardia.
– Parlate, sergente.
– Scusatemi, signore – disse il sergente. –
L’equipaggio ha accolto a bordo un
missionario della Fondazione.
– Che cosa? – Mallow impallidì.
– Un missionario, signore. Ha bisogno
d’essere ricoverato in infermeria...
– Tra poco ci sarà più d’uno che avrà
bisogno dell’infermeria. Ordinate agli
uomini di mettersi ai posti di
combattimento.
La sala di soggiorno dell’equipaggio era
quasi vuota. Cinque minuti dopo l’ordine,
anche gli uomini del turno di riposo erano
pronti dietro ai loro cannoni.
La velocità era la principale virtù per chi
s’avventurava negli spazi interstellari
della Periferia ed in modo particolare era
un
indispensabile
attributo
dell’equipaggio di un capo mercante.
Mallow entrò, e guardò il missionario con
attenzione. Lanciò anche un’occhiata al
tenente Tinter, il quale, a disagio, si
rivolse al sergente di guardia Demen, che
gli stava a fianco con la faccia scura.
Il Capo Mercante fissò infine Twer e gli
disse: – Radunate qui tutti gli ufficiali a
eccezione degli addetti al tiro. Gli uomini
rimangano ai pezzi in attesa di ulteriori
istruzioni.
Passarono cinque minuti durante i quali
Mallow spalancò a calci le porte dei
servizi, ispezionò tutti gli angoli della
sala-mensa, guardò dietro ogni tenda che
copriva gli spessi oblò. Poi tornò nella
stanza parlando tra sé.
Gli uomini sfilarono uno alla volta.
Quando l’ultimo fu entrato, Twer chiuse la
porta ed aspettò in silenzio.
Mallow parlò con voce calma. – Primo:
chi ha fatto entrare quest’uomo senza mio
ordine?
Il sergente di guardia fece un passo avanti
e tutti gli occhi si puntarono su di lui.
– Scusatemi, signore. Non c’è stato un
responsabile particolare. Si è trattato di
una specie di accordo collettivo. Se
volete, potete dire che è stato uno
qualsiasi di noi, e questi stranieri...
Mallow lo interruppe secco. – Capisco i
vostri sentimenti, sergente. Quegli uomini
erano ai vostri ordini?
– Sì, signore.
– Quando il pericolo sarà cessato,
consegnateli per una settimana. Per lo
stesso periodo voi sarete privato del
comando. È chiaro?
– Sissignore. – L’espressione della faccia
del sergente non mutò.
– Ora potete andare. Tornate al vostro
posto di combattimento.
Appena la porta fu richiusa, si levarono le
proteste.
Cominciò Twer. – Perché questa
punizione, Mallow? Voi sapete che i
korelliani uccidono i missionari catturati.
– Ogni azione che contravvenga ai miei
ordini è di per sé punibile. Non mi
interessano le ragioni che l’hanno
determinata. Nessuno doveva uscire o
entrare nella nave senza il mio permesso.
Poi fu la volta del tenente Tinter. – Sette
giorni d’inattività. Non è il sistema giusto
per mantenere la disciplina.
Mallor gli rispose freddamente – Per me è
giusto. In circostanze normali la disciplina
non è un merito. Io la voglio nelle
situazioni pericolose, altrimenti è inutile.
Dov’è il missionario? Portatemelo qui.
Il mercante sedette, mentre un ufficiale gli
conduceva davanti l’uomo dalla tonaca
scarlatta.
L’uomo
s’avvicinò
a
Mallow,
camminando rigido. Aveva gli occhi
spalancati ed una ferita alla fronte. Fino a
quel momento non aveva ancora detto una
parola.
– Il vostro nome? – domandò Mallow.
Il missionario sembrò tornare in vita.
Allargò le braccia verso i presenti: –
Figli miei – disse – possa lo Spirito
Galattico proteggervi sempre.
Twer gli si avvicinò, preoccupato. –
Quest’uomo è malato. Qualcuno lo porti a
letto. Mallow, ordinate che sia ricoverato.
È ferito gravemente.
Mallow spinse indietro Twer con uno
spintone. – Non interferite, Twer,
altrimenti vi faccio cacciare dalla stanza.
Il vostro nome, reverendo?
Il missionario congiunse le mani in gesto
di supplica. – Voi uomini illuminati,
salvatemi da questi pagani. – Parlava
stentatamente. – Salvatemi da questi bruti,
da questi barbari che mi perseguitano e
che affliggerebbero lo Spirito Galattico
con i loro delitti. Mi chiamo Jord Parma,
di Anacreon. Sono stato educato dalla
Fondazione. Sono un sacerdote dello
Spirito, iniziato a tutti i misteri, e spinto
quassù da una voce interiore. –
Singhiozzò. – Ho sofferto per mano di
costoro che non conoscono la luce. Voi
che siete figli dello Spirito, nel nome
dello Spirito proteggetemi.
Una voce ruppe il silenzio che seguì. Poi
la sirena d’allarme risuonò nella nave.
– Unità nemiche in vista! Dateci
istruzioni!
Tutti
gli
sguardi
all’altoparlante.
si
volsero
Mallow lanciò un’imprecazione. Aprì il
microfono e gridò: – Rimanete all’erta!
Non ci sono altri ordini! – e chiuse la
comunicazione.
S’avvicinò ai pesanti tendaggi che
coprivano l’oblò; tirò una cordicella e li
aprì di scatto. Guardò fuori.
Altro che unità nemiche! Erano diverse
migliaia di persone radunate allo
spazioporto, ed il fascio luminoso dei
riflettori al magnesio illuminava i gruppi
più vicini.
– Tinter! – Il mercante parlò senza
voltarsi. – Andate all’altoparlante e
chiedete che cosa vogliano. Informatevi se
ci sia fra loro un rappresentante della
legge. Non fate promesse né minacce,
altrimenti vi uccido.
Tinter uscì.
Mallow sentì una mano posarglisi sulla
spalla. Si giro di scatto. Era Twer, il
quale gli sussurrò all’orecchio queste
parole: – Dovete proteggerlo, Mallow. È
il solo modo di salvare la decenza e
l’onore. È uno della Fondazione, ed
inoltre è anche un prete. Questi selvaggi
fuori... Mi state ascoltando?
– Vi ascolto, Twer. – La voce di Mallow
era dura. – Ho incarichi ben più
importanti che quello di proteggere
missionari. Qui faccio ciò che mi piace e,
per Seldon e tutta la Galassia, se cercate
di fermarmi, vi leverò il vizio di parlare a
vanvera. Non mi intralciate, Twer, o sarà
la vostra fine. – S’avvicinò al prete. –
Parma, sapete che in base ad un trattato
nessun missionario della Fondazione può
entrare in territorio korelliano?
Il missionario tremava. – Io vado nei
luoghi dove lo Spirito mi guida, figliolo.
Se i barbari rifiutano la luce, non è forse
segno che hanno più bisogno di verità?
– Non è questo il punto, reverendo. Voi
siete qui contro le leggi di Korell e della
Fondazione. Non posso, sotto nessuna
legge, accordarvi la nostra protezione.
Il missionario levò le braccia. La sua
faccia aveva mutato espressione. Di fuori
si sentiva il rauco suono dell’altoparlante,
e le grida confuse della folla adirata.
Quei suoni lo avevano terrorizzato.
Fuori la voce dell’altoparlante cessò e il
tenente Tinter ritornò, preoccupato.
– Parlate! – ordinò Mallow secco.
– Signore, chiedono che sia consegnato
Jord Parma.
– Altrimenti?
– Le minacce sono molte e confuse,
signore. È difficile capire qualcosa. Sono
in tanti e sembrano impazziti. Ce n’è uno
che dice di essere il governatore del
distretto e di avere i poteri di polizia, ma
è evidente che non è padrone di sé.
– In sé o fuori di sé – disse Mallow –
rappresenta la legge. Rispondete che se
costui, governatore o poliziotto che sia,
s’avvicina alla nave da solo, avrà in
consegna Jord Parma. – Poi estrasse di
scatto il disintegratore dalla fondina, ed
aggiunse. – Non so che cosa sia
l’insubordinazione. Non ho mai dovuto
sperimentarla. Ma se c’è qualcuno che
vuole suggerirmi come mi devo
comportare gli farò vedere quali siano le
mie contromisure.
Spostò la pistola lentamente e la puntò
contro Twer. Con uno sforzo, il vecchio
mercante si controllò ed abbassò le mani
lungo i fianchi.
Ansimava.
Tinter uscì e dopo cinque minuti una
piccola figura si staccò dalla folla
radunata fuori. S’avvicinò lentamente e
con esitazione, pieno di paura. Due volte
tentò di tornare indietro e due volte venne
spinto in avanti dalla massa che lo
incalzava.
– Va bene – disse Mallow gesticolando
con il disintegratore ancora in mano. –
Grun e Upshur portatelo fuori.
Il missionario lanciò un urlo. Alzò le mani
mostrando le palme mentre le maniche
della sua toga scivolavano giù scoprendo
le braccia magre solcate da vene azzurre.
Seguì un attimo di smarrimento, poi
Mallow fece un altro gesto imperioso.
Il missionario gridò ancora mentre i due
lo afferravano per la braccia. – Maledetto
sia il traditore che abbandona il suo
compagno al male e alla morte!
Sorde diventino le orecchie che non hanno
ascoltato le invocazioni di un infelice,
ciechi gli occhi che non hanno saputo
vedere l’innocenza. Nera per sempre
diventi l’anima di colui che s’allea con le
tenebre...
Twer si turò le orecchie con le mani.
Mallow ripose la pistola. – Riprendete i
vostri posti – ordinò. – Mantenete lo stato
d’allarme fino a sei ore dopo la
dispersione della folla. Raddoppiate le
sentinelle per le successive quarantotto
ore. Più tardi vi darò altre istruzioni.
Twer, venite con me.
Adesso erano soli negli alloggiamenti di
Mallow. Mallow indicò una poltroncina,
e Twer vi s’accomodò. Il suo corpo
robusto sembrava rimpicciolito.
Mallow lo guardò bieco. – Twer – disse –
sono veramente scontento di voi. Tre anni
di politica vi hanno fatto dimenticare le
abitudini dei mercanti. Ricordatevi: forse
io sono un democratico quando mi trovo
alla Fondazione, ma per far funzionare a
dovere una nave non c’è niente che possa
sostituire la tirannia. Non ho mai dovuto
tirare fuori la pistola di fronte ai miei
uomini e neanche questa volta l’avrei fatto
se non mi aveste costretto voi. Twer, voi
non avete alcuna posizione ufficiale su
questa nave; ci siete solo perché vi ho
invitato io, e da me sarete trattato
cortesemente, ma in privato. D’ora in poi,
in presenza dei miei ufficiali, mi
chiamerete “signore” e non “Mallow”. E
quando io darò un ordine, dovete scattare
più in fretta di un mozzo. Altrimenti vi
faccio mettere ai ferri senza esitare.
Capito?
Il vecchio inghiottì saliva. Poi disse con
riluttanza: – Vi prego di accettare le mie
scuse.
– Accettate! Ed ora datemi la mano.
I due si strinsero la mano. – I miei motivi
erano giusti – disse Twer.
– È duro mandare un uomo al linciaggio.
Quella specie di governatore non lo
risparmierà. È un assassinio! Non posso
farci niente. E francamente per me questo
incidente puzzava molto. Non avete notato
niente di strano?
– Strano?
– Questo spazioporto si trova in mezzo ad
una regione selvaggia. E improvvisamente
un missionario scappa. Ma da dove? E
viene a finire qui.
Coincidenza? Una folla enorme si raduna.
Da dove? La città più vicina deve trovarsi
almeno a trecento chilometri. Eppure sono
arrivati in meno di mezz’ora.
Come hanno fatto?
– Già, come? – fece eco Twer.
– Che ne direste se il missionario fosse
stato portato fin qui e poi rilasciato come
esca? Il nostro amico, il reverendo Parma,
era notevolmente confuso. Non sembrava
nel pieno delle sue facoltà.
– Forse i maltrattamenti... – mormorò
Twer amareggiato.
– Forse! O forse lo scopo era di farci
diventare tutti generosi e cavallereschi
difensori di una vita umana. Ma
quest’uomo era qui contro le leggi di
Korell e della Fondazione. Se l’avessi
trattenuto, avrei commesso un atto di
guerra contro Korell. E in questo modo la
Fondazione non avrebbe avuto alcun
diritto di difenderci.
– È un’ipotesi piuttosto fantasiosa.
Il microfono interno ronzò e Mallow
staccò il ricevitore. – Signore, abbiamo
ricevuto una comunicazione ufficiale.
– Mandatemela immediatamente! Un
cilindro metallico arrivò nel tubo a lato
della scrivania e rotolò sul ripiano.
Mallow l’aprì e ne trasse un foglio
stampato in lettere d’argento. Ne tastò la
superficie, e disse: – Viene dalla capitale.
Su carta intestata del Commodoro.
Lesse la comunicazione e sorrise. – E così
le mie supposizioni erano fantasiose,
vero? – Porse il foglio a Twer, ed
aggiunse: – Mezz’ora dopo aver rilasciato
il missionario, riceviamo un gentile invito
a presentarci all’augusta presenza del
Commodoro. E da sette giorni eravamo in
attesa. Credo che abbiamo superato un
esame.
5
Il Commodoro Asper era un uomo del
popolo e ci teneva a farlo sapere.
I radi capelli grigi gli cadevano sulle
spalle e la camicia aveva bisogno di una
buona lavata. Parlava con forte accento
nasale.
– Qui, come vedete, non c’è ostentazione,
Mercante Mallow – disse. – Nessuna
falsa messa in scena. In me, voi vedete
semplicemente il primo cittadino dello
Stato. Questo è il significato della parola
Commodoro, il mio unico titolo. – Pareva
soddisfatto di sé. – In effetti – riprese –
considero questo uno dei legami più forti
che unisca Korell alla Fondazione. Per
quanto ne so, anche il vostro popolo gode
d’un governo repubblicano.
– È vero, Commodoro – disse Mallow
serio, guardandosi bene dall’esprimere ad
alta voce quello che veramente pensava in
proposito. – È un elemento che non può
non favorire la pace e l’amicizia tra i
nostri due governi.
– Pace! – La faccia del Commodoro
assunse un’espressione commossa nel
pronunciare quella parola. – Qui alla
Periferia sono pochi coloro ai quali stia a
cuore questo ideale di pace. Posso
sinceramente affermare che, da quando
sono succeduto a mio padre nella guida
dello Stato, la pace non è stata mai
interrotta.
Forse non dovrei dirlo io – e tossì
educatamente – ma mi hanno riferito che il
mio popolo, i miei concittadini anzi,
invece di chiamarmi Asper, preferiscono
riferirsi a me con l’appellativo di Ben
Amato.
Mallow diede un’occhiata fuori, nel
giardino coltivato con cura. Forse gli
uomini che portavano strane armi ed erano
appostati ad ogni angolo erano solo una
precauzione dovuta alla sua presenza.
Questo era comprensibile, in fondo. Ma le
spesse mura rafforzate da speroni di ferro,
che circondavano il palazzo, erano state
restaurate di recente.
Quelle mura non armonizzavano davvero
con le parole del Ben Amato Asper.
– È una fortuna, allora – disse – trattare
con voi, Commodoro. I despoti ed i
monarchi dei mondi circostanti, che non
esercitano il potere in modo illuminato,
spesso mancano delle qualità che rendono
benvoluto un governante.
– Che qualità? – chiese il Commodoro
facendosi più cauto.
– Per esempio, l’interesse per un migliore
livello di vita del proprio popolo. Voi
invece siete in grado di capire questa
necessità.
Il Commodoro teneva gli occhi bassi sul
sentiero che stavano percorrendo, con le
mani incrociate dietro la schiena.
Mallow continuò, insinuante: – Finora il
commercio tra le nostre due nazioni ha
sofferto molto, per le restrizioni imposte
dal vostro governo. Certamente non potete
negare che un commercio illimitato...
– Un commercio libero!
– D’accordo. Un libero commercio
sarebbe di vantaggio a tutti. Voi possedete
cose che noi vorremmo, e noi abbiamo
prodotti che vorreste voi. L’unico fine è la
comune prosperità. Una guida illuminata
come voi, un amico del popolo,
permettetemi anzi di dire un membro del
popolo, non ha bisogno di ulteriori
spiegazioni. Farei torto alla vostra
intelligenza se continuassi.
– Vero! – disse Asper. – Comprendo
benissimo. Ma come vi comportereste voi
della Fondazione? Il vostro popolo si è
sempre mostrato così irragionevole. Io
sono favorevole a tutto il commercio che
la nostra economia possa sostenere, ma
non seguendo i vostri metodi. Io non sono
un sovrano assoluto. – Alzò la voce. –
Sono solamente l’interprete dell’opinione
pubblica. Il mio popolo non potrebbe
accettare un commercio vestito di
paramenti sacerdotali.
Mallow sollevò il capo. – Parlate della
religione obbligatoria?
– Questo è ciò che accade nella realtà.
Sicuramente ricorderete quanto è
avvenuto su Askone vent’anni fa. Avete
cominciato col vendere alcuni macchinari,
poi il vostro popolo ha chiesto che
fossero create missioni in modo che quei
macchinari venissero usati nel modo
migliore. Così fu costruito il Tempio della
Salute. Seguirono le scuole religiose, i
diritti d’autonomia del clero. E con quale
risultato? Askone fa ora parte del sistema
della Fondazione, ed il Gran Maestro non
può considerare suoi nemmeno gli
indumenti intimi. No! La dignità di un
popolo indipendente non può sopportare
questo oltraggio.
– Io ho altre proposte da farvi – ribatté
Mallow.
– Davvero?
– Sì. Sono un Capo Mercante. Il denaro è
la mia religione. Tutto il misticismo e le
fandonie dei missionari mi annoiano, anzi
sono lieto che anche voi le rifiutiate.
Mi riesce più facile trattare.
Il Commodoro scoppiò in una gran risata.
– Ben detto! La Fondazione avrebbe
dovuto affidare da tempo i suoi interessi a
uomini come voi. – Appoggiò
amichevolmente una mano sulle larghe
spalle del mercante. – Caro amico –
aggiunse – mi avete esposto solo metà
della questione. Mi avete spiegato quello
che non volete propormi. Ora ditemi la
vostra proposta.
– Eccola. Voi, Commodoro, sarete
ricoperto di ricchezze.
– Davvero? – disse Asper. – Ma a che mi
servono le ricchezze? La vera ricchezza
sta nell’amore del proprio popolo. Io ho
già questo amore.
– Ma potete avere entrambe le cose. È
possibile raccogliere oro con una mano ed
amore con l’altra.
– Certo, giovanotto, sarebbe una
realizzazione interessante. Ma come
pensate di riuscirci?
– In molti modi. L’unico problema è la
scelta. Vediamo. Articoli voluttuari, per
esempio. Questo oggetto...
Mallow levò delicatamente dalla tasca
interna una catena piatta di metallo
lucente. – Questo, per cominciare.
– Che cos’è?
– Devo darvene la dimostrazione. Potete
trovarmi una ragazza carina? Ed uno
specchio?
– Uhm-mm. Entriamo.
Il Commodoro chiamava casa la sua
residenza: la popolazione senza dubbio la
chiamava palazzo. Per Mallow aveva tutto
l’aspetto di una fortezza. Era costruita su
una collina che dominava l’intera città. Le
mura erano spesse e rinforzate. Tutte le
entrate erano sorvegliate da sentinelle e
l’architettura era adatta alla difesa.
Proprio il tipo di residenza che ci voleva
per Asper, il Ben Amato.
Una giovane donna entrò nella stanza.
S’inchinò profondamente al Commodoro,
e lui la presentò: – Questa è una delle
ragazze che lavorano nella mia residenza.
Va bene?
– Alla perfezione!
Il Commodoro osservò Mallow che
allacciava la catena intorno alla vita della
ragazza. Poi Mallow fece un passo
indietro.
Il Commodoro sospirò deluso. – È tutto
qui?
– Volete chiudere le tende, per favore? –
disse Mallow. Ed alla ragazza: – C’è un
piccolo interruttore vicino al fermaglio,
giratelo. Coraggio, non vi accadrà nulla di
male.
La ragazza ubbidì, trattenne il respiro e si
guardò allo specchio. Le uscì spontanea
una esclamazione di meraviglia.
Dai suoi fianchi partiva un raggio
luminoso di colori iridescenti che si
innalzavano fino a formarle sul capo un
diadema di fuoco. Era come se qualcuno
fosse riuscito a strappare l’aurora boreale
dal cielo ed a farne un ornamento.
La ragazza s’avvicinò di più allo specchio
guardandosi ammirata.
– Tenete anche questo. – E Mallow le
porse una collana di ciottoli opachi. –
Mettetela attorno al collo.
Ogni ciottolo, entrando nel campo
luminescente, divenne una fiamma che
sprizzava luce color oro e rubino.
– Che ne dite? – domandò Mallow. La
ragazza non rispose ma nei suoi occhi
c’era un lampo di adorazione. Il
Commodoro fece un gesto e la giovane
chiuse
dispiaciuta
l’interruttore.
L’arcobaleno di colori cessò. La ragazza
usci portando con sé il ricordo
meraviglioso.
– È vostro, Commodoro – disse Mallow,
– è per la Commodora. Accettatelo come
un piccolo regalo della Fondazione.
– Uhm-mm. – Il Commodoro girò la
cintura e la collana in tutti i sensi
soppesandola con la mano. – Com’è fatta?
Mallow scosse il capo. – Questo è un
problema che risolvono i nostri tecnici.
Ma funzionerà per voi senza l’aiuto dei
preti.
– Be’, dopo tutto non è che un pezzo di
gioielleria femminile. Che cosa ne
facciamo noi? Non vedo come potremmo
ricavarne soldi.
– Voi organizzate ricevimenti, banchetti,
balli, non è vero?
– Oh, sì.
– Vi rendete conto del prezzo che una
donna sarebbe disposta a pagare per un
gioiello del genere? Almeno diecimila
crediti.
Il Commodoro
sorpreso.
spalancò
la
bocca,
– E poiché la batteria di questo oggetto
non dura più di sei mesi, sarà necessario
sostituirla spesso. Ora, noi possiamo
vendervene quanti ne volete per
l’equivalente di mille crediti in ferro
lavorato. Potete fare un guadagno netto del
novecento per cento.
Il Commodoro si lisciava la barba
facendo mentalmente rapidi calcoli.
– Per la Galassia! Immaginate come tutte
quelle ricche vedove si batterebbero per
ottenerne uno! Ne terrei in quantità
limitata ed i prezzi andrebbero alle stelle.
Naturalmente, non mi converrà far sapere
che sono io a vendere...
– In questo caso – disse Mallow –
potremmo vendere tutta la serie dei nostri
piccoli macchinari. Abbiamo cucine
smontabili, capaci di arrostire la carne
più dura in due minuti. Coltelli che non
hanno bisogno di essere affilati. Lavatrici
e stiratrici automatiche che possono
essere scomposte e riposte in un cassetto.
Lavapiatti, lucidatrici, spolveratrici,
aspirapolveri, lampadari... ogni sorta di
oggetti. Pensate alla popolarità che
acquisterete mettendo tutti questi prodotti
a disposizione del pubblico. Pensate a
quanto potreste ricavare se i guadagni del
novecento per cento venissero interamente
accaparrati dal governo. Il valore per chi
compra sarà immenso, e nessuno
conoscerà il prezzo reale pagato da voi. E
mi permetto di rammentarvi che queste
macchine non richiedono supervisione da
parte del clero per funzionare. Così tutti
saranno contenti.
– E cosa guadagnerete voi?
– Semplicemente ciò che ogni mercante
riceve per legge dalla Fondazione. Io ed i
miei uomini avremo metà del profitto
ottenuto. Se voi comprerete tutto ciò che
voglio vendervi, entrambi ne ricaveremo
un buon guadagno.
Il Commodoro sembrava soddisfatto. –
Con che cosa volete essere pagato?
Ferro?
– Ferro, carbone, bauxite. Anche tabacco,
pepe, magnesio, legname. Tutti prodotti
che avete in abbondanza.
– Mi sembra senz’altro un buon affare.
– Pare anche a me. E ancora una cosa,
Commodoro. Potrei aiutarvi a rendere più
efficienti le vostre fabbriche.
– In che modo?
– Prendiamo per esempio le acciaierie.
Posso vendervi macchine e dispositivi
particolari che lavorano l’acciaio in modo
tale da ridurre il costo di produzione del
novantanove
per
cento:
potreste
assicurarvi metà del profitto e lasciare
ugualmente un notevole margine di utile ai
proprietari.
Potrei
darvene
la
dimostrazione, se mi permetteste di
visitare una fabbrica. C’è un’acciaieria in
questa città? Mi basterà pochissimo
tempo.
– Una visita può essere certamente
organizzata, Mercante Mallow. Ma
domani, domani. Rimanete a cena con noi
questa sera?
– I miei uomini... – cominciò Mallow.
– Fateli venire tutti – disse il
Commodoro, espansivo. – Una simbolica,
fraterna unione delle due nazioni. Avremo
modo di scambiare discorsi amichevoli.
Una raccomandazione, però – aggiunse,
diventando improvvisamente serio. –
Lasciate da parte la vostra religione. Non
pensate che dopo il nostro incontro io
abbia aperto la porta alle missioni.
– Commodoro – ribatté Mallow – vi do la
mia parola d’onore. Sappiate che la
religione si prenderebbe una buona parte
dei miei guadagni.
– Allora siamo d’accordo. Vi farò
scortare fino alla nave.
6
La moglie del Commodoro era molto più
giovane del marito. Aveva la faccia
pallida e fredda; portava lunghi capelli
neri e lisci raccolti sulla nuca.
– Hai finito – disse con voce acida – mio
nobile marito? Credi che possa entrare nel
giardino, ora?
– Non c’è bisogno di farne un dramma,
Licia cara – rispose il Commodoro
conciliante. – Il giovanotto verrà a cena
da noi questa sera, e tu potrai parlare con
lui quanto vorrai, ed ascoltare tutto quello
che dirà. Bisogna far posto, qui nel
palazzo, anche ai suoi uomini. Non
saranno in molti.
–
Certamente
s’ingozzeranno
come
tacchini, mangeranno quarti d’animale, e
berranno litri di vino. E tu brontolerai per
giorni e giorni, quando verrà il conto
delle spese.
– No, una volta tanto forse non sarà così.
Nonostante la tua opinione desidero che il
pranzo sia veramente luculliano.
– Capisco – rispose lei, guardandolo
sospettosa. – Sei in rapporti amichevoli
con questi barbari. Per questo non mi hai
lasciato partecipare alle conversazioni.
Forse la tua mente contorta
complottando contro mio padre.
sta
– Niente affatto!
– Ed io dovrei crederti sulla parola. Se
c’è una donna che è stata sacrificata alla
politica e costretta a sposare un uomo
contro la sua volontà, questa sono io.
Avrei potuto scegliere meglio fra tutti i
disgraziati che vivono nel mio povero
paese.
– Stammi bene a sentire, mia cara Licia.
Forse dovresti ritornare tra la tua gente. E
dal canto mio, per conservare un buon
ricordo di quella parte di te con la quale
sono più a contatto ogni giorno, ti farei
tagliare la lingua. E per dare un tocco
finale alla tua bellezza – disse
guardandola con la testa piegata da un lato
– ti farei tagliare anche le orecchie e la
punta del naso.
– Te ne mancherebbe il coraggio, piccolo
vermiciattolo. Mio padre polverizzerebbe
la tua nazione-giocattolo in un batter
d’occhio. Lo farebbe anche adesso, se gli
dicessi che stai trattando con quei barbari.
– Uhm-m-m. Non c’è bisogno che tu
minacci. Sarai libera di far domande al
mercante, questa sera. Nel frattempo, tieni
la lingua a posto.
– Obbedisco.
– Ecco qui, tieni questo, e stai zitta.
Le allacciò la cintura intorno alla vita e la
collana al collo. Girò l’interruttore e fece
un passo indietro.
Licia rimase senza fiato. Per un attimo non
si mosse, poi accarezzò la collana e restò
ammirata a guardare.
Il Commodoro si fregava le mani
contento.
– Puoi indossarla stanotte. E questo non è
che il primo regalo. Ce ne saranno altri.
Ma stai zitta.
La moglie del Commodoro ubbidì.
7
Jaim Twer era agitato e non riusciva a
stare fermo. – Perché fate quella smorfia?
– chiese.
Hober Mallow scrollò le spalle. – È del
tutto involontaria.
– Deve essere accaduto qualcosa ieri.
Non parlo della festa soltanto – poi,
guardandolo serio in faccia: – Mallow,
siamo nei guai, vero?
– Guai? No. Al contrario. Mi sembra di
aver dato una spallata a una porta per poi
scoprire che era solo accostata. Ci
lasciano visitare l’acciaieria con troppa
facilità.
– Temete che sia una trappola?
– Per Seldon, non cominciate con le
vostre previsioni pessimistiche! – Mallow
si calmò e poi aggiunse con tono normale:
– Il fatto è che se ci fanno entrare così
facilmente, vuol dire che non c’è nulla da
nascondere.
– Pensate all’energia atomica, vero? –
disse Twer pensoso. – Sinceramente, qui
su Korell non ce n’è la minima traccia.
Sarebbe troppo difficile mascherare i
cambiamenti di struttura tecnologica tipici
di una economia che si fondi sull’energia
atomica.
– Ma non nel caso in cui questa economia
fosse agli inizi, e qui la applicassero
unicamente all’armamento. Le prove si
potrebbero trovare nei cantieri per
astronavi e nelle fabbriche militari.
– E se non scopriamo niente?
– Allora vuol dire che non ne hanno o che
non ce lo vogliono far sapere. A voi
indovinare.
Twer scosse la testa. – Avrei proprio
voluto venire con voi ieri sera.
– Anch’io ne avrei avuto piacere – disse
Mallow. – Non sono affatto contrario al
vostro sostegno morale. Sfortunatamente è
stato il Commodoro a fare gli inviti, non
io. Quella cosa là fuori dovrebbe essere
la vettura reale che ci porterà alla
fonderia. Avete preparato i macchinari?
– Sì, è tutto pronto.
8
La fonderia era grande, e mostrava
evidenti i segni d’una decadenza che
nemmeno le riparazioni superficiali
potevano nascondere. Era vuota,
silenziosa ed inattiva.
Mallow aveva sollevato con noncuranza
una lastra di metallo e l’aveva deposta su
due cavalletti di legno. Aveva preso lo
strumento portogli da Twer, e tenendolo
per il manico di cuoio l’aveva sfilato
dalla custodia di pelle.
– Questo strumento – disse – è molto
pericoloso, ma certamente non più di una
normale sega circolare. È sufficiente tener
lontano le dita.
Mentre parlava appoggiò la punta dello
strumento, facendolo scorrere su tutta la
lunghezza della lastra. Istantaneamente la
lastra si divise in due.
I convenuti fecero un balzo all’indietro, e
Mallow sorrise. – Si può regolare la
lunghezza del taglio fino a un decimo di
millimetro, e si può tagliare con la stessa
facilità anche una lastra spessa cinque
centimetri. Se si conosce l’esatto spessore
del metallo, lo si può lavorare su un
tavolo tagliandolo senza scalfire la
superficie del legno.
Mentre parlava faceva funzionare la sega
atomica, ed i pezzi di metallo volavano
per la stanza.
– Questo – disse – per quanto riguarda il
taglio dell’acciaio. – Posò lo strumento. –
Abbiamo anche pialle atomiche. Volete
per esempio diminuire lo spessore di una
lastra metallica, eliminare le irregolarità,
gli strati corrosi?
Osservate attentamente.
Posò uno strumento su un’altra lastra
metallica, e dal lato opposto se ne staccò
un sottilissimo foglio, trasparente.
– Oppure trapani? Tutti questi strumenti si
basano sul medesimo principio.
Il gruppo era stretto intorno a lui.
Seguivano attentamente i suoi movimenti,
come se assistessero ad esperimenti di
magia.
Il
Commodoro
stava
giocherellando con pezzetti di metallo.
Alti funzionari governativi s’accalcavano
nel locale parlottando sottovoce, mentre
Mallow, appoggiata appena la punta del
suo trapano atomico, faceva buchi larghi e
perfetti in barre di acciaio temperato
dello spessore di tre centimetri.
– Un’ultima dimostrazione. Qualcuno mi
porti due frammenti di tubo.
Un distintissimo Ciambellano, preso
dall’eccitazione generale, si affrettò ad
ubbidire, e si sporcò le mani come un
comune operaio.
Mallow mise i frammenti in posizione
verticale, ne ripulì le estremità con un
solo colpo del suo strumento quindi le
fece aderire. I due frammenti si fusero
perfettamente. Era impossibile vedere la
saldatura. E tutto era avvenuto in un
istante.
Mallow alzò lo sguardo per osservare i
presenti. Stava per ricominciare a parlare,
ma si fermò bruscamente, preso
dall’eccitazione, con un nodo allo
stomaco.
Un soldato della guardia del corpo del
Commodoro, nella confusione, era passato
in prima fila, e Mallow, per la prima
volta, si trovò abbastanza vicino per poter
osservare in ogni particolare la strana
arma che portava.
Si trattava di un’arma atomica! Non c’era
possibilità d’errore; non poteva trattarsi
di un’arma a proiettile esplosivo, con una
canna come quella. Ma non era solamente
questo particolare che l’aveva colpito.
Sul calcio della pistola era impressa una
placca dorata con lo stemma del Sole e
dell’Astronave! Il medesimo stemma che
appariva in ognuno dei grandi volumi
dell’Enciclopedia che la Fondazione
aveva iniziato e mai finito: lo stesso Sole
ed Astronave ch’erano stati l’emblema
dell’Impero Galattico per millenni.
Mallow riprese a parlare sebbene i suoi
pensieri fossero assai lontani. – Provate
questo tubo! Oramai è un pezzo solo. Non
è perfetto perché non si sarebbe dovuto
saldare a mano, ma guardate, e provatene
la solidità.
Mallow aveva finito: ormai non gli
occorreva altro. Era riuscito a sapere ciò
che voleva. Ora aveva solamente un’idea
fissa in mente.
Il globo dorato circondato dai raggi ed il
profilo oblungo di una nave spaziale.
Il Sole e l’Astronave dell’Impero!
L’Impero! La parola lo affascinava. Era
trascorso un secolo e mezzo, eppure in
qualche luogo, in fondo alla Galassia,
esisteva ancora l’Impero, ed ecco che ora
riemergeva lì alla Periferia.
Mallow sorrise.
9
La “Far Star” da due giorni navigava
nello spazio. Hober Mallow chiamò
l’ufficiale in seconda, tenente Drawt,
nella sua cabina e gli consegnò una busta,
un rotolino di pellicola, ed uno sferoide
d’argento.
– Tra un’ora, tenente, prenderete il
comando di questa astronave: fino al mio
ritorno, o forse per sempre.
Drawt stava per scattare sull’attenti, ma
Mallow lo invitò a rimanere seduto.
– State comodo. La busta contiene l’esatta
ubicazione del pianeta sul quale dovete
atterrare. Là mi aspetterete per due mesi.
Se, prima della scadenza, la Fondazione
entrerà in contatto con voi, il microfilm è
il mio rapporto di viaggio.
Tuttavia – e la sua faccia si fece più seria
– se io non ritornerò allo scadere di due
mesi, e voi non sarete venuti in contatto
con nessuna nave della Fondazione,
ritornate su Terminus, e consegnate questa
capsula come rapporto. Avete capito?
– Sì, signore.
– In nessun caso dovete modificare il mio
rapporto ufficiale.
– E se mi faranno delle domande?
– Affermerete che non sapete nulla.
– Sì, signore.
Qui finì il colloquio. Quindici minuti più
tardi una piccola astronave da salvataggio
si staccò silenziosamente dalla “Far Star”.
10
Onum Barr era vecchio, troppo vecchio
per avere ancora paura. Dopo l’ultimo
sommovimento politico, s’era ritirato ai
margini della civiltà con i libri che era
riuscito a salvare dalle rovine. Niente
poteva intimorirlo perché non aveva nulla
da perdere. Non attribuiva nessun valore
alla vita. Perciò guardò senza scomporsi
lo straniero che entrò nella sua casa.
– La porta era aperta – spiegò lo
straniero.
La sua voce era secca e rude, e Barr notò
subito la pistola in acciaio che gli
pendeva da un fianco. Nella penombra
della piccola stanza vide che l’uomo era
circondato da un campo di forza.
– Non c’è ragione di tenerla chiusa –
disse con calma. – Volete qualcosa da
me?
– Sì. – Lo straniero era in piedi in mezzo
alla stanza e la sua figura era solida e
vigorosa. – Questa è la sola casa della
zona.
– È un posto molto isolato – confermò
Barr. – Ma c’è un villaggio verso est. Vi
posso indicare la strada.
– Tra poco. Posso sedermi?
– Se la sedia riuscirà a sostenervi – disse
il vecchio con tono grave. – Sono molto
vecchio. Sono i resti di una gioventù
migliore.
– Mi chiamo Hober Mallow – disse lo
straniero. – Vengo da una provincia molto
lontana.
Barr annuì sorridendo. – Il vostro accento
me lo ha rivelato da tempo. Io sono Onum
Barr di Siwenna, un tempo Patrizio
dell’Impero.
– Allora questa è Siwenna. Avevo solo
vecchie carte che mi indicassero la via.
– Dovevano davvero essere molto
vecchie, se davano posizioni sbagliate
alle stelle.
Barr sedeva immobile mentre l’altro si
guardava intorno. Notò che aveva chiuso
il campo di forza e si rese conto che
evidentemente la sua persona non doveva
apparirgli pericolosa.
– La mia casa – disse – è povera: poche
sono le mie provviste. Potete dividere con
me quello che possiedo, se il vostro
stomaco riesce a digerire pane nero e
semi di grano.
Mallow scosse il capo. – Grazie, ho già
mangiato e non posso fermarmi a lungo.
Ho bisogno solo che mi indichiate la via
per la capitale di questo pianeta.
– Quale capitale intendete dire? Quella
del pianeta o quella del settore imperiale?
Il giovane parve sorpreso. – Non è forse
la stessa cosa? Non ci troviamo su
Siwenna?
Il vecchio patrizio annuì. – Sì, Siwenna.
Ma Siwenna non è più la capitale del
settore normannico. La carta vi ha dato
indicazioni sbagliate. Le stelle non
cambiano di molto il loro corso, ma i
confini politici sono meno stabili.
– Male, molto male. È molto lontana la
nuova capitale?
– Si trova su Orsha Secondo. A venti
parsec da qui. A quando risale la vostra
carta?
– Centocinquant’anni.
– Troppo vecchia – disse l’uomo. – Da
allora molte cose sono cambiate.
Conoscete la storia di questi pianeti?
Mallow scosse il capo.
– Siete un uomo fortunato – continuò il
vecchio. – Sono stati tempi terribili
questi, per tutte le province, tranne
durante il regno di Stannel Sesto, morto
ormai da cinquant’anni. Da allora non ci
son state che rivolte e rovine, rovine e
rivolte. – Barr temeva di apparire noioso.
Era tanto tempo che viveva solo, di rado
aveva occasione di parlare con qualcuno.
–
Rovine?
–
chiese
Mallow
improvvisamente. – Sembra che queste
province si siano impoverite.
– Se si giudica in assoluto, no. Le risorse
di venticinque pianeti ricchi non si
consumano in breve tempo. Ma se
facciamo un paragone con il benessere di
cento anni fa, allora ci accorgiamo di aver
disceso la china di parecchio: e non ci
sono segni di miglioramento. Ma perché
vi interessano queste notizie, straniero?
Siete giovane e i vostri occhi sono pieni
di vitalità!
Il mercante fu quasi sul punto d’arrossire
e abbassò gli occhi sorridendo.
– Ascoltatemi – disse. – Io sono un
mercante. Vengo da un pianeta ai confini
della Galassia. Ho trovato alcune carte
stellari e sono venuto fin qui per aprire
nuovi mercati. Naturalmente mi rattrista
sapere che queste province siano povere
di risorse. È difficile guadagnar soldi, là
dove non ce ne sono. Quali sono le risorse
economiche di Siwenna per esempio?
Il vecchio si chinò verso di lui. – Non
saprei. Forse è ancora possibile
commerciare. Ma voi siete davvero un
mercante? Sembrate più un uomo
d’azione.
Tenete la mano sempre vicina alla pistola
ed avete una cicatrice su una guancia.
Mallow scosse il capo. – Nel luogo donde
vengo io non esiste una vera e propria
legge. La capacità di lottare e le cicatrici
fanno parte del bagaglio di ogni mercante.
Ma la lotta è utile solamente quando alla
fine c’è da far soldi; se la si può evitare,
tanto meglio. Ora, ditemi: esistono
possibilità tali di guadagno che valga la
pena combattere? Io non sono certo il tipo
che rinuncia alla mischia.
– Non lo metto in dubbio – disse Barr. –
Potreste allearvi con Wiscard, il quale
governa ciò che rimane delle Stelle
Rosse. Io non so se voi, con la parola
“mischia” intendiate le azioni di pirateria.
Potreste mettervi d’accordo con il nostro
attuale nobile viceré, nobile in virtù di
assassinii, saccheggi e rapine, fatti in
nome dell’Imperatore bambino già da
tempo giustamente assassinato. – Il
patrizio s’era fatto rosso in faccia, e i suoi
occhi brillavano per l’eccitazione.
– Non mi sembra che voi siate in buoni
rapporti con il viceré, mio nobile Barr –
disse Mallow. – E se io fossi una delle
sue spie?
– Che importanza avrebbe? – rispose il
vecchio amaramente. – Che cosa potrebbe
portarmi via? – Ed indicò con un ampio
gesto la sua povera casa.
– La vita.
– La perderei senza rimpianto. Ho vissuto
già cinque anni di troppo. Ma voi non
siete un uomo del viceré. Se lo foste, il
mio istinto di conservazione mi avrebbe
chiuso la bocca.
– Come lo sapete?
Il vecchio sorrise. – Vi siete mostrato
sospettoso. Temete che io voglia
denunciarvi al governatore. No, no,
oramai sono al di fuori della politica.
– Al di fuori della politica? Può un uomo
staccarsene? Le parole che avete usato
per descrivere il viceré non sono forse
espressione di un’idea politica?
Assassinio, saccheggio. C’è una
contraddizione. Non sembra affatto che vi
siate allontanato dalla politica.
Il vecchio rispose: – I ricordi sono ancora
troppo dolorosi. Ma ascoltatemi!
Giudicate voi! Quando Siwenna era
ancora capitale di questa provincia, ero
un patrizio membro del senato. La mia
famiglia era nobile ed il mio nome
onorato.
Uno dei miei antenati un tempo era stato...
No, lasciamo stare. Le glorie passate non
servono.
– Capisco – disse Mallow. – Ci fu una
guerra civile od una rivoluzione.
Barr si fece scuro in faccia. – Le guerre
civili sono la malattia cronica di questi
giorni, ma Siwenna era riuscita ad
evitarla. Sotto Stannel Sesto, si era quasi
raggiunto il benessere dei nostri padri.
«Ma sul trono si succedevano Imperatori
deboli, ed un Imperatore debole significa
un viceré forte. L’ultimo nostro viceré,
quello stesso Wiscard che ancora governa
sulle Stelle Rosse, voleva la porpora
imperiale. Non era il primo ad avere
questa aspirazione. E, se ci fosse riuscito,
non sarebbe stato neanche l’ultimo. Ma
fallì nel suo intento. Quando l’Ammiraglio
dell’Imperatore s’avvicinò con la flotta,
Siwenna si ribellò al viceré. – Il vecchio
cessò di parlare.
Mallow ascoltava attentissimo, seduto sul
bordo della sedia. – Continuate, signore.
– Grazie – disse Barr. – Ad un vecchio
come me fa piacere parlare a qualcuno.
Si ribellarono, o, dovrei dire meglio, ci
ribellammo, poiché io ero uno dei capi.
Wiscard fuggì; Siwenna e le province
fedeli all’Imperatore rimasero aperte
all’invasione
della
flotta
dell’Ammiraglio. Perché ci comportammo
così, non saprei dire. Forse ci sentivamo
legati più al simbolo che non
all’Imperatore: un crudele bambino
malato. Forse tememmo l’orrore di un
saccheggio.
– E allora? – incalzò Mallow gentilmente.
– Questo – disse il vecchio, con una
smorfia – non piacque all’Ammiraglio.
Voleva conquistare la gloria domando con
le armi le province ribelli, e i suoi uomini
volevano le spoglie di un saccheggio.
Così, mentre la gente si radunava nelle
città per festeggiare l’Imperatore ed il suo
Ammiraglio, questi occupò tutti i centri ed
ordinò che la popolazione venisse passata
per le armi.
– Con quale pretesto?
– Col pretesto che la ribellione contro il
viceré era stata un atto di violenza contro
l’Imperatore. Così l’Ammiraglio divenne
il nuovo viceré, dopo aver massacrato,
saccheggiato e diffuso il terrore. Avevo
sei figli. Cinque morirono, in vari modi.
Avevo una figlia, e spero che anche lei sia
morta. Io sono scampato alla strage
perché ero troppo vecchio. Mi ritirai qui,
e data l’età il viceré non si preoccupò di
me. – Chinò la testa. – Non mi hanno
lasciato nulla, accusandomi di aver
collaborato a cacciare il governatore
ribelle e d’aver privato l’Ammiraglio
della gloria che gli spettava.
Mallow tacque aspettando che il vecchio
continuasse il racconto. Poi domandò,
esitante: – Che cosa è successo del vostro
sesto figlio?
Barr sorrise. – È salvo, è soldato
nell’armata dell’Ammiraglio sotto falso
nome.
È un cannoniere della sua flotta personale.
Oh, no, non è così come pensate. Non è un
figlio snaturato. Ogni tanto viene a
trovarmi e mi porta ciò che può. È lui che
mi mantiene in vita. E se un giorno il
nostro glorioso viceré troverà la morte,
sarà per mano di mio figlio.
– E voi rivelate queste cose ad uno
straniero? State mettendo in pericolo la
vita di vostro figlio.
– No. Lo sto aiutando, perché gli indico
un nuovo nemico. Se io fossi amico del
viceré tanto come sono suo nemico, gli
direi di allineare le sue navi ai confini.
– Perché? Non esistono navi al confine?
– Ne avete incontrate? Avete incrociato
pattuglie che vi abbiano fatto domande?
Con le poche navi che possediamo e le
continue rivolte interne non siamo certo in
grado di proteggerci da un eventuale
attacco esterno. No, i pianeti della
Periferia non hanno mai costituito una
minaccia per noi, fino ad oggi quando
siete apparso voi.
– Io? Ma io solo non posso costituire un
pericolo.
– Altri vi seguiranno.
Mallow scrollò la testa lentamente, poi
soggiunse: – Non credo di capirvi.
– Ascoltate! – Il vecchio sembrava
eccitato. – Mi è stato tutto chiaro non
appena siete entrato. Avevate un campo di
forza attorno al corpo.
– Sì, è vero – rispose Mallow incerto.
– Ho ancora qualche nozione scientifica,
anche se in questi tempi di decadenza
sembra assurdo occuparsi degli studi. La
storia non può fermarsi e chi non è capace
di battersi con un disintegratore tra le
mani è destinato a essere spazzato via,
come me. Un tempo ero uno studioso e
sapevo che nella storia dell’energia
atomica non era mai stato inventato un
campo di forza portatile. Noi siamo in
grado di creare scudi protettivi enormi,
capaci di coprire un’intera città o
un’astronave, ma non un uomo.
– Capisco – disse Mallow. – Che cosa ne
deducete?
– Le voci che corrono da un pianeta
all’altro giungono svisate e deformate, ma
quando io ero giovane atterrò quaggiù una
piccola nave con strani passeggeri che
non conoscevano i nostri costumi e non
sapevano dire da dove provenissero.
Parlarono di una pianeta di maghi ai
confini della Galassia; maghi che
brillavano al buio, che volavano nell’aria
e che nessuna arma poteva colpire. Noi
ridemmo di queste storie, anch’io ne risi.
Me n’ero dimenticato fino ad ora. Ma voi
brillate nell’oscurità e non credo che il
mio disintegratore, se ne possedessi uno,
riuscirebbe a colpirvi. Ditemi, riuscite
anche a sollevarvi nell’aria?
Mallow rispose con calma. – Non sono
certo in grado di farlo.
Barr sorrise. – Mi basta questa risposta.
Non è mia abitudine sottoporre gli ospiti a
domande indiscrete. Ma se esistono maghi
e voi siete uno di loro un giorno ne
atterreranno molti. Forse sarà un bene.
Abbiamo bisogno di sangue nuovo. –
Parlava sottovoce come se si rivolgesse a
se stesso. – Ed ora il nuovo viceré ha le
stesse mire del vecchio Wiscard.
– Anche lui vuole la corona d’Imperatore?
Barr annuì. – Sono dicerie che mio figlio
ha sentito. Vive a contatto con gli uomini
del governatore e mi racconta tutti i
pettegolezzi. Il nostro viceré non
rifiuterebbe di certo la corona di
Imperatore, ma vuole coprirsi la ritirata.
Si dice che stia manovrando in modo che
se non riuscirà a sedere sul trono
imperiale, fonderà un altro Impero nei
pianeti barbari. Alcuni affermano, ma non
ne sono così sicuro, che egli abbia già
dato in moglie la propria figlia al re di un
sistema solare della Periferia.
– Se si dovesse dar retta a queste storie...
– Lo so. Se ne raccontano tante. Io sono
vecchio e forse sto parlando troppo.
Ma ditemi voi quello che pensate.
Il mercante, dopo un attimo di esitazione,
cominciò: – Non ho nulla da dire, ma mi
piacerebbe farvi qualche domanda.
Siwenna possiede ancora l’energia
atomica?
Un
momento,
aspettate
prima
di
rispondere. So bene che non avete perso
la conoscenza dell’energia atomica.
Desidero sapere se i generatori nucleari
siano ancora intatti o se siano stati
distrutti durante il saccheggio.
– Distrutti? Oh no. Il pianeta sarebbe stato
ridotto in rovine anche se fosse stato
manomesso soltanto il più piccolo
generatore. Sono insostituibili, e
costituiscono la fonte d’energia della
flotta. – Aggiunse poi con orgoglio: – I
nostri impianti sono i più grandi dopo
quelli della stessa Trantor.
– Che cosa dovrei fare per poter visitare
gli impianti?
– Impossibile! – rispose Barr senza
esitazione. – Non potete avvicinarvi alle
centrali. Verreste ucciso all’istante.
Nessuno può farlo. A Siwenna vige
ancora la legge marziale.
– Volete dire che tutti gli impianti nucleari
sono occupati dall’esercito?
– No. Esistono le piccole centrali
cittadine, quelle che forniscono energia
per il calore, l’illuminazione, il
rifornimento dei veicoli ed altri usi civili.
Ma anche queste sono inavvicinabili.
Sono sorvegliate da tecnici.
– E chi sono questi tecnici?
– Un gruppo di persone specializzate nella
supervisione degli impianti. È una carica
ereditaria, i giovani sono educati come
apprendisti. Alto senso del dovere, onore,
sono le loro virtù. Nessuno all’infuori di
un tecnico potrebbe entrare nella centrale.
– Capisco.
– Non dico però – aggiunse Barr – che
non si siano verificati casi di corruzione
anche fra i tecnici. In un’epoca in cui si
sono succeduti nove Imperatori in cinque
anni e sette sono stati assassinati, quando
anche un comandante d’astronave aspira
alla carica di viceré ed ogni viceré aspira
a diventare Imperatore, anche un tecnico
cede se gli viene offerto del denaro. Ma
ce ne vorrebbe parecchio ed io non ne ho.
Voi ne possedete?
– Denaro? No. Ma la gente non si
corrompe solo con i soldi.
– Con che altro allora?
– Ci sono molte cose che i soldi non
possono comperare. Ed ora vi sarò grato
se mi indicherete la più vicina città con
una centrale nucleare.
– Aspettate! – Barr levò la mano. – Non
voglio farvi domande. Ma in città, dove
gli abitanti sono ancora chiamati ribelli,
sareste fermato dal primo soldato che
incontrate. I vostri abiti ed il vostro
accento vi tradirebbero.
Si alzò e da un cassetto tirò fuori un
libricino. – È il mio passaporto falso.
Sono fuggito con questo.
Lo consegnò a Mallow. – La descrizione
non corrisponde esattamente, ma c’è caso
che non stiano a guardare troppo per il
sottile.
– Ma voi? Voi rimanete senza.
Il vecchio, alzò le spalle. – Che importa?
Pensate invece a controllarvi quando
parlate. Il vostro accento è barbaro, ed
ogni tanto vi esprimete con parole
arcaiche.
Meno parlerete e meno attirerete
l’attenzione. Ora vi spiegherò come
arrivare in città.
Cinque minuti più tardi Mallow era
partito.
Tuttavia, poco dopo, tornò indietro e si
fermò per un istante davanti alla casa del
patrizio. Quando il mattino successivo
Onum Barr uscì nel giardino, vi trovò una
scatola. Conteneva alimenti sintetici come
se ne possono trovare a bordo delle
astronavi, di vari gusti e preparazione.
Erano ottimi e duravano a lungo.
11
Il tecnico era di statura bassa e dal
colorito delle guance sembrava ben
nutrito.
Aveva i capelli tagliati come un frate,
disposti a corona intorno al cranio calvo.
Gli anelli che portava alle dita erano
spessi e pesanti ed i suoi vestiti erano
profumati.
Era il primo uomo di questo pianeta fra i
molti incontrati da Mallow, che
all’apparenza non sembrasse affamato.
Il tecnico fece una smorfia seccato. –
Ditemi subito che cosa volete. Devo
occuparmi di molte cose importanti. Voi
sembrate uno straniero...
– Aveva capito che Mallow non era un
abitante di Siwenna e lo guardava con
sospetto.
– Non sono di queste zone – disse Mallow
con calma – ma mi sembra un fatto poco
importante. Mi sono permesso di spedirvi
un piccolo regalo, ieri...
Il tecnico lo guardò. – L’ho ricevuto. Un
ninnolo interessante. Potrei servirmene in
qualche occasione.
– Ho con me doni molto più interessanti.
Il tecnico rimase pensoso per un momento,
poi parlò con tono seccato.
– Ho capito benissimo dove volete
arrivare. Non è la prima volta che mi
succede. Mi offrite doni, denaro o qualche
gioiello di seconda mano; oggetti che a
vostro giudizio sono sufficienti a
corrompermi. – Continuò alzando la voce.
– So che cosa chiedete in cambio. Molti
hanno la vostra medesima idea fissa.
Volete essere ammesso nel nostro gruppo.
Volete che vi riveliamo i misteri
dell’energia atomica e v’insegniamo il
funzionamento dei macchinari. Voi, cani
rognosi di Siwenna, pensate di sfuggire
alla condanna come traditori entrando a
far parte della nostra corporazione.
Mallow stava per rispondere ma il
tecnico non lo lasciò parlare e proseguì
sempre più adirato: – Ed ora andatevene
prima che vi consegni al Protettore della
città. Pensate che voglia tradire la fiducia
di cui godo? Un traditore siwenniano
l’avrebbe fatto, non io! State trattando con
un uomo di razza diversa, ora. Non so che
cosa mi trattenga dall’uccidervi con le
mie stesse mani.
Mallow sorrise tra sé. Il discorso aveva
l’aria di non essere genuino e
l’indignazione simulata era degenerata in
una farsa.
Si sforzò di non sorridere osservando le
mani grassocce del tecnico che avrebbero
dovuto trasformarsi in strumenti di morte
per lui.
– Eccellentissimo signore, voi sbagliate
sotto tutti i punti di vista. Primo: io non
sono una spia del viceré mandata qui per
mettere alla prova la vostra fedeltà.
Secondo: il mio dono è qualcosa che
nemmeno l’Imperatore in persona
possiede, né possederà mai. Terzo: ciò
che voglio in cambio è così poco che non
vi costerà alcuna fatica.
– È così allora! – Il tecnico voleva essere
sarcastico. – Che cosa sarebbe questo
dono degno dell’Imperatore che i vostri
poteri magici hanno preparato per me? Un
oggetto che l’Imperatore non possiede,
vero? – E scoppiò in una risata.
Mallow si alzò e spinse la sedia di lato. –
Ho aspettato tre giorni per essere
ricevuto, eccellentissimo signore, ma per
dimostrarvi che le mie parole sono vere
mi occorreranno meno di tre secondi. Se
volete tirar fuori il disintegratore il cui
calcio è così vicino alla vostra mano...
– Che cosa?
–... e spararmi, vi sarò molto grato.
– Cosa?
– Se mi uccidete potrete dire alla polizia
che ho tentato di corrompervi per scoprire
i segreti della Corporazione. In tal caso
riceverete un premio. Se invece non
morirò potrete avere il mio scudo
protettivo.
In quel momento, il tecnico parve rendersi
conto della leggera luminescenza che
circondava il corpo dello straniero, quasi
fosse immerso in un bagno di madreperla.
Tolse il disintegratore dalla fondina, lo
puntò guardando Mallow e con
espressione sorpresa e sospettosa chiuse
il contatto.
I raggi atomici incendiarono le molecole
d’aria, una sottile luce luminosa, partendo
dalla canna, arrivò a pochi centimetri dal
cuore di Mallow e s’allargò formando una
coroncina di scintille.
L’espressione paziente del mercante non
cambiò; l’energia atomica che avrebbe
potuto disintegrarlo urtò contro il sottile
scudo fluorescente perdendo tutta la
potenza.
Il tecnico lasciò cadere a terra il
disintegratore.
– Credete che l’Imperatore possegga uno
scudo atomico personale? Voi potrete
averne uno – disse Mallow.
– Anche voi siete un tecnico? – chiese
l’uomo che non s’era ancora ripreso dallo
stupore.
– No.
– Ed allora dove l’avete trovato?
– Non ha importanza. – Mallow lo
guardava con aria di superiorità. – Lo
volete? – Si tolse una cintura sottile e la
depositò sulla scrivania. – Eccolo qui.
Il tecnico afferrò la cintura osservandola
attentamente. – Non manca niente?
– Niente.
– Da dove viene l’energia? Mallow
indicò una piccola scatola racchiusa in
una custodia di metallo.
Il tecnico alzò lo sguardo e, rosso in
faccia, disse: – Signore, io sono un
tecnico specializzato! Sono vent’anni che
sono addetto alla custodia degli impianti.
Ho studiato sotto la guida del grande Bler
dell’Università di Trantor. Se avete la
spudoratezza di venirmi a raccontare che
questa scatola, grande come una noce,
contiene un generatore atomico, vi farò
arrestare.
– Allora spiegatemi voi come funziona. Io
dico che non manca niente.
Il tecnico arrossì mentre s’allacciava la
cintura ai fianchi. Mallow gli indicò
l’interruttore. Intorno all’uomo s’accese
l’alone fosforescente. Raccolse
disintegratore, lo regolò al minimo.
il
Poi chiudendo gli occhi se lo puntò sulla
mano e premette il grilletto. La mano
rimase intatta.
– E che cosa accadrebbe se io vi sparassi,
adesso?
– Provate! – disse Mallow. – Non
crediate che abbia solo quello scudo. –
Immediatamente fu circondato da una
cortina luminosa.
Il tecnico sorrise, nervoso. Posò il
disintegratore sulla scrivania. – Quale
sarebbe il piccolo favore che mi chiedete
in cambio?
– Voglio vedere i generatori.
– Non sapete che è proibito? Saremmo
condannati a morte tutti e due.
– Non voglio toccarli o manometterli.
Voglio soltanto vederli, anche a distanza.
– E se io non accettassi?
– In questo caso, voi potete tenervi lo
scudo ed io potrei ricorrere ad altri mezzi.
Per esempio un disintegratore capace di
forare questo scudo.
– Uhm-m-m. – Il tecnico pensò un istante
poi disse: – Seguitemi.
12
La casa del tecnico era un edificio
piccolo, a due piani, unito da un lato ad
una enorme costruzione cubica senza
finestre, che dominava il centro della
città.
Mallow entrò nella centrale attraverso un
passaggio sotterraneo. Subito si trovò in
uno stanzone silenzioso dove l’atmosfera
era impregnata d’ozono.
Per quindici minuti seguì la guida senza
parlare. Ma i suoi occhi osservavano
attentamente ogni cosa. Non toccò nulla.
Ad un certo punto il tecnico gli rivolse la
parola.
– Avete visto abbastanza? Non posso
fidarmi molto dei miei subalterni.
– Davvero? – domandò Mallow ironico. –
Comunque basta così.
Tornarono all’ufficio e Mallow disse
pensoso: – Tutti quei macchinari sono
nelle vostre mani?
– Sì, tutti – rispose il tecnico con un tono
di compiacimento.
– Voi li mantenete in funzione?
– Esatto.
– E se si dovessero guastare?
Il tecnico scosse la testa indignato. – Non
si guastano. Non si guastano mai.
Sono stati costruiti per durare in eterno.
– L’eternità è tanto lunga. Immaginate...
– È irrazionale immaginare una cosa
impossibile.
– D’accordo. Ma immaginiamo allora che
io saboti una parte vitale degli impianti.
Non credo che possano resistere ad una
forza atomica. Se si fondesse un contatto
importante? Od una valvola D al quarzo?
– Ebbene – gridò l’uomo furioso – in
questo caso verreste ucciso.
– Sì, questo lo so. – Anche Mallow alzò
la voce. – Ma che cosa sarebbe dei
generatori? Voi sareste in grado di
ripararli?
– Signore! – Il tecnico cercò di frenare la
collera. – Avete avuto quello che
volevate. Ho pagato il mio debito. Ora
andatevene! Non vi devo più niente.
Mallow si inchinò rispettosamente ed
uscì.
Due giorni dopo era di ritorno alla “Far
Star” che lo aspettava per partire verso
Terminus.
E due giorni dopo lo scudo protettivo
regalato al tecnico si spense, e nonostante
le imprecazioni non si accese più.
13
Mallow si riposò per la prima volta dopo
sei mesi di tensione. Era sdraiato nella
stanza solare di casa sua, a torso nudo.
L’uomo che gli era seduto accanto gli
infilò un sigaro tra i denti e glielo accese.
– Forse ti sei stancato troppo. Hai bisogno
di riposo.
– Hai ragione, Jael, ma mi piacerebbe
riposarmi sulla poltrona del sindaco.
Perché, t’avverto, io ho tutte le intenzioni
di ottenere quella poltrona, e tu mi
aiuterai.
Ankor Jael corrugò la fronte. – Che cosa
c’entro io? – chiese.
– C’entri e come. Primo: in politica sei
una vecchia volpe. Secondo: sei stato
soppiantato nella carica da Jorane Sutt, la
medesima persona che preferirebbe
perdere un occhio piuttosto che vedermi
sindaco. Ma nemmeno tu sembri molto
convinto che riesca a farcela, vero?
– Per la verità, non molto – ammise l’ex
Ministro dell’Educazione. – Sei uno
smyrniano.
– Non c’è alcun impedimento legale... Io
ho ricevuto una educazione laica.
– Suvvia, sai bene che non c’è legge che
tenga contro i pregiudizi. Ma dimmi,
dov’è finito il tuo uomo, quel Jaim Twer?
Che cosa ne pensa lui?
– Voleva propormi come candidato al
Consiglio un anno fa – rispose Mallow –
ma non è un uomo abbastanza capace. Non
avrebbe potuto aiutarmi. Non è
sufficientemente preparato. Parla molto,
ma anche questo è un segno della sua
incapacità. Ho bisogno di qualcuno che
sappia come comportarsi. E tu sei l’uomo
adatto.
– Jorane Sutt è uno dei più abili politici
del pianeta e lo avrai contro di te. Non so
se avrò la forza di combatterlo. È un tipo
che non bada al sottile.
– Ma io ho soldi.
– È un punto in tuo favore. Ma ne
occorrono molti per combattere i
pregiudizi.
Tu sei uno “sporco smyrniano”.
– Ne userò molti.
– Bene, ci penserò. Ma non dire in giro
che sono stato io ad incoraggiarti. Chi è
quello?
Mallow si girò. – Jorane Sutt in persona –
disse. – È venuto troppo presto. È un mese
che lo evito... Jael, vai nella stanza
accanto ed apri il microfono. Voglio che
tu ascolti.
Indicò la porta al consigliere e si infilò
una vestaglia di seta.
Quindi spense la luce solare artificiale ed
accese quella normale.
Il segretario del sindaco entrò rigido,
mentre il solenne maggiordomo chiudeva
silenziosamente la porta dietro le sue
spalle.
Mallow s’allacciò
Accomodatevi, Sutt.
la
cintura.
–
Sutt sorrise gelido. Si sistemò su una
sedia non si distese. – Se vogliamo
parlare subito di affari, è meglio.
– Quali affari?
– Va bene, comincerò io. Allora, ditemi,
che cosa avete fatto su Korell? Il vostro
rapporto era incompleto.
– Ve l’ho consegnato mesi fa. Allora
eravate rimasto soddisfatto.
– Sì – confermò Sutt strofinandosi
pensoso la fronte con un dito. – Ma da
allora le vostre attività si sono
intensificate. Sappiamo bene che cosa
state facendo, Mallow. Sappiamo
esattamente quante fabbriche state
costruendo, e con quale fretta; sappiamo
quanto vi costa. E poi c’è questo palazzo
che vi siete comperato.
Vi deve essere costato ben di più del mio
guadagno di un anno. Sappiamo anche
quanti soldi state spendendo per
acquistare influenza nella società della
Fondazione.
– E con questo? Avete dimostrato che le
vostre spie sono efficienti, ma nient’altro.
– Tutto ciò prova che avete molto più
denaro dello scorso anno. E che, per
esempio, lo state ricavando da Korell
senza che noi sappiamo niente. Dove
trovate tutti quei soldi?
– Mio caro Sutt, non vi aspetterete, spero,
che vi risponda?
– No di certo.
– Lo immaginavo. Eppure ve lo voglio
dire ugualmente. I miei soldi vengono
direttamente dal tesoro di Stato del
Commodoro di Korell.
Sutt sussultò.
Mallow sorrise e continuò: –
Sfortunatamente per voi, la provenienza di
questo denaro è legittima. Sono un Capo
Mercante e i miei guadagni son frutto di
una grossa partita di ferro grezzo e di
cromo ricevuto in cambio di alcuni oggetti
che sono riuscito a vendere. Il cinquanta
per cento del ricavo è mio per legge.
L’altra metà va al governo, alla fine
dell’anno, quando tutti i cittadini
coscienziosi pagano le tasse.
– Nel vostro rapporto non si parlava di
alcun accordo commerciale.
– Non credo che ci fosse scritto nemmeno
quello che avevo mangiato a colazione
quel giorno né il nome della mia ultima
amante, od altri particolari di poca
importanza. – Mallow continuava a
sorridere. – Sono stato mandato laggiù,
per dirlo con parole vostre, perché tenessi
gli occhi aperti. Non li ho mai chiusi.
Volevate sapere che cosa fosse accaduto
alle astronavi della Fondazione catturate.
Non le ho mai viste e neanche ne ho
sentito parlare. Volevate sapere se Korell
fosse in possesso di energia atomica. Il
mio rapporto precisava che avevo notato
disintegratori atomici in dotazione alle
guardie personali del Commodoro. Altro
non ho visto. Queste armi erano relitti del
Vecchio Impero e, per quanto ne sappia,
potevano anche non funzionare. Ho
ubbidito agli ordini, ma per il resto ero e
rimango un libero agente. Secondo la
legge della Fondazione, un Capo
Mercante può aprire tutti i mercati che
vuole e ricavarne di conseguenza metà dei
profitti.
Che cosa mi si può obiettare?
Sutt abbassò le palpebre cercando di
controllarsi. – È d’uso presso tutti i
mercanti di introdurre oltre alle merci la
religione.
– Io mi baso sulla legge, non sui costumi.
– In certi casi i costumi hanno valore di
legge.
– Allora ricorrete al tribunale.
Sutt perse la pazienza. – Dopo tutto, siete
uno smyrniano. Non vi è bastato vivere tra
noi e ricevere la nostra educazione per
diventare una persona civile.
Cercate di ascoltarmi e di capirmi. È un
discorso che non ha alcuna relazione con i
soldi o con i mercati. Il Grande Hari
Seldon ci ha detto che il nostro compito è
costruire un nuovo Impero galattico e noi
non possiamo mancare alla missione. La
nostra religione è uno dei mezzi più
importanti per raggiungere questo fine.
«Con tale sistema abbiamo potuto
prendere il controllo dei Quattro Regni,
persino quando stavano per invaderci. È il
mezzo riconosciuto come il più efficace
per dominare gli uomini ed i mondi. Lo
scopo che ci ha spinti a sviluppare il
commercio e gli scambi è stato questo:
favorire l’introduzione della religione. La
religione, insieme alle nostre possibilità
di sviluppo tecnico ed economico, ci ha
permesso di assumere il controllo politico
assoluto.
Fece una pausa per riprendere fiato e
Mallow ne approfittò per dire: – Conosco
questa teoria e la comprendo
perfettamente.
– Davvero? Non me lo aspettavo. Dunque
vi rendete conto che commerciare a vostro
esclusivo vantaggio, produrre in massa
oggetti senza alcuna utilità pratica, che
possono influire solo superficialmente
sull’economia di un pianeta, pervertire la
nostra politica interstellare solo a scopo
speculativo, separare l’energia atomica
dalla religione, può solamente portare alla
negazione della nostra politica dopo che
l’abbiamo sperimentata con successo per
un secolo?
– Troppo a lungo – ribatté Mallow con
indifferenza. – Questa politica è ormai
superata, pericolosa e impossibile. Anche
se si è dimostrata efficace nei confronti
dei Quattro Regni, non è riuscita ad
imporsi in alcun altro mondo della
Periferia.
Quando riuscimmo ad assumere il
controllo dei Regni, moltissimi furono gli
esiliati. Essi sparsero per la Galassia la
voce che Salvor Hardin si fosse servito
della religione e della superstizione per
rovesciare monarchie indipendenti. E se
questo non fosse bastato, il caso di
Askone, vent’anni fa, fu sufficiente a far
comprendere alla gente la verità. Non
esiste un governante, in tutta la periferia,
che non preferisca, adesso, farsi tagliare
la gola piuttosto che permettere ad un
prete della Fondazione di entrare nel suo
territorio. Non si può forzare Korell, né
alcun altro mondo ad accettare quello che
non vuole. No, Sutt. L’energia atomica li
rende pericolosi, ma una sincera amicizia
attraverso il commercio dà risultati
migliori che non un potere instabile basato
sull’odiata supremazia di un sistema
religioso in mano allo straniero. Quando
questo potere spirituale si indebolisce può
solo cadere del tutto senza lasciare altra
eredità che odio e paura imperituri.
– È un discorso veramente interessante –
disse Sutt con sarcasmo. – Ma ora, per
ritornare in argomento, quali sono le
vostre intenzioni? Che cosa chiedete se vi
propongo lo scambio delle mie idee con
le vostre?
– Credete forse che le mie convinzioni
siano in vendita?
– E perché no? – rispose gelido Sutt. – Il
vostro mestiere non consiste nel comprare
e vendere?
– Solo se ne ricavo un guadagno – replicò
Mallow senza offendersi. – Potete
offrirmi più di quanto stia guadagnando
adesso?
– Potreste avere tre quarti del profitto
invece della metà.
Mallow sorrise. – L’offerta è ottima. Solo
che commerciando alla vostra maniera
perderei nove decimi degli incassi.
Fatemi una proposta migliore.
– Potreste avere la carica di consigliere.
– La otterrei sempre, in ogni caso, con o
senza il vostro aiuto.
Sutt ebbe uno scatto improvviso. –
Potreste anche evitare la galera se vi
adattaste al mio punto di vista. Almeno
vent’anni di prigione in meno. Anche
questo dovete mettere sulla bilancia.
– Non è un guadagno, a meno che non
possiate mettere in atto la vostra
minaccia.
– Si tratta di un processo per assassinio.
– Assassinio di chi? – domandò Mallow
perfettamente calmo.
Sutt ora parlava in tono aspro pur senza
alzare la voce.
– L’assassinio di un prete anacreoniano,
al servizio della Fondazione.
– Ah è così? E con quali prove?
Il segretario del sindaco si sporse in
avanti. – Mallow, non sto barando. Tutti i
preliminari sono compiuti. Dovrei
soltanto apporre la mia firma ed il
processo della Fondazione contro Hober
Mallow, Capo Mercante, avrebbe inizio.
Avete abbandonato un suddito della
Fondazione alla tortura ed alla morte nelle
mani di una folla inferocita. Vi concedo
appena due secondi per evitare la
punizione.
Personalmente preferirei che affrontaste il
processo. Sareste meno pericoloso come
nemico distrutto che non come amico
convertito.
– Il vostro desiderio è realizzato – disse
Mallow solennemente.
– Bene! esclamò il segretario con un
sorriso di vittoria. – È stato il sindaco a
propormi di cercare la via del
compromesso con voi, non io. Avete
notato che non ho fatto troppi sforzi.
Aprì la porta ed uscì.
Mallow sollevò gli occhi mentre Ankor
Jael tornava nella stanza.
– Hai sentito? – chiese.
Il politico si sistemò su una poltrona. – Da
quando conosco quel serpente non l’ho
mai sentito più infuriato.
– D’accordo. E che ne dici?
– Sarò sincero. La sua idea fissa sembra
la politica estera condotta mediante il
potere spirituale. Ma non credo che, nei
suoi veri scopi, ci sia niente di spirituale.
Sono stato esonerato dalla mia carica
proprio per aver discusso questo
problema.
Lo sai bene, del resto.
– Sì, lo so. E qual è il suo vero scopo,
secondo te?
Jael si fece serio. – Ebbene, non è uno
stupido e si rende certamente conto del
completo fallimento d’una politica che
negli ultimi settant’anni non ha ottenuto
quasi nessun successo. Evidentemente la
sta usando per un suo disegno personale.
«Ogni dogma, principalmente se basato
sulla fede e sulle emozioni, è un’arma
pericolosa da usare contro gli altri: è
quasi impossibile garantire che la stessa
arma non venga ritorta contro di te. Da
cento anni continuiamo ad incoraggiare un
cerimoniale ed una mitologia che
divengono ogni giorno più venerati,
tradizionali ed inamovibili. In un certo
senso la religione non è più sotto il nostro
controllo.
– In che senso? – domandò Mallow. –
Non fermarti. Vorrei sentire la tua
opinione.
– Bene, supponi che un uomo, un uomo
ambizioso, voglia usare la forza della
religione contro di noi, invece che in
nostro favore.
– Intendi dire Sutt?
– Esattamente, Sutt. Ascoltami, ora. Se
egli potesse mobilitare, in nome
dell’ortodossia, le varie gerarchie
religiose dei pianeti soggetti contro la
Fondazione, non avremmo nessuna
possibilità di resistergli. Alla testa di un
movimento religioso, egli potrebbe
combattere l’eresia, rappresentata per
esempio da te, e persino nominarsi re.
Dopo tutto, fu proprio Hardin che disse:
«Un disintegratore è un’ottima arma, ma
può essere rivolta anche contro di te».
Mallow batté il pugno contro il palmo
della mano. – D’accordo, Jael, fammi
entrare nel Consiglio ed io batterò Sutt.
Jael, dopo un momento di silenzio, disse:
– Non lo so. Ma che cos’è la storia del
prete linciato? È una fandonia, vero?
– No, no, è verissima – rispose Mallow
senza scomporsi.
Jael fece un fischio. – Ha delle prove in
mano?
– Penso di sì. – Mallow esitò, poi
aggiunse: – Jaim Twer ha lavorato per lui
fin dall’inizio, benché nessuno dei due
sapesse che me ne ero accorto. E Jaim
Twer può testimoniare contro di me.
– Uh-mm. Male, molto male – disse Jael
scuotendo la testa.
– Male? Che c’è di male? Quel prete si
trovava sul pianeta abusivamente, contro
le stesse leggi della Fondazione. Era stato
adoperato dal governo di Korell come
esca, anche se involontaria. Per agire con
buon senso avevo una sola scelta e la mia
azione è stata perfettamente legale. Se mi
porta davanti ad un tribunale farà solo la
figura dello stupido.
Jael scosse la testa di nuovo. – No,
Mallow, ti sbagli. Ti avevo avvertito che
si sarebbe comportato da vigliacco. Non
ha affatto intenzione di farti condannare; si
rende perfettamente conto che non può.
Cerca solo di scuotere la tua popolarità
fra la gente. Hai sentito ciò che ha detto.
Le usanze, qualche volta, acquistano il
valore di leggi. Probabilmente uscirai
assolto dal processo, ma quando si saprà
che hai abbandonato un prete a un
linciaggio, la tua popolarità sarà finita.
Ammetteranno che ti sei comportato in
modo legale e forse anche intelligente. Ma
tu rimarrai sempre ai loro occhi un
codardo, un bruto senza cuore, un mostro
insensibile. E non sarai più eletto nel
Consiglio. Perderai forse anche la
qualifica di Capo Mercante se
decideranno di toglierti la cittadinanza.
Non sei nato qui, Mallow.
Questo lo sai. E che cosa potrebbe
sperare di più il nostro Sutt?
Mallow scosse il capo, testardo. – E con
ciò?
– Mio caro ragazzo – disse Jael – io starò
accanto a te ma non posso aiutarti.
Tocca a te affrontare i tuoi guai.
14
La camera del Consiglio era piena di
gente fino all’inverosimile, il quarto
giorno del processo contro Hober
Mallow, Capo Mercante. L’unico
consigliere assente aveva dovuto restare a
casa per un incidente e non sapeva
darsene pace. Le gallerie erano affollate
da quanti per mezzo di conoscenze,
denaro o costanza erano riusciti ad
ottenere un posto nel settore riservato al
pubblico. Gli altri si accalcavano nella
piazza davanti all’edificio, dove schermi
tridimensionali trasmettevano l’udienza.
Ankor Jael riuscì ad aprirsi un varco nella
calca esterna con l’aiuto di un poliziotto,
ed attraversata la folla nell’ombra, si
sedette accanto a Mallow.
Mallow sospirò di sollievo. – Per Seldon,
ce l’hai fatta. L’hai con te?
– Sì – disse Jael. – Ho portato tutto quello
che mi avevi chiesto.
– Bene. Come va fuori?
– Sembrano impazziti – rispose Jael
imbarazzato. – Non avresti mai dovuto
permettere che ti facessero un processo
pubblico. Lo si sarebbe potuto evitare
facilmente.
– Non volevo affatto impedirlo.
– Parlano di linciarti. E ci sono gli uomini
di Publis Manlio sugli altri pianeti che...
– Volevo proprio chiedertelo, Jael. Sta
sollevando il clero contro di me, vero?
– E che cosa ti aspettavi? Ha preparato
proprio un bello spettacolo. Come
Ministro degli Esteri è il rappresentante
dell’accusa in un processo di diritto
interstellare. Come alto prelato e Primate
della Chiesa solleva le orde dei fanatici...
– Non ti preoccupare. Ti ricordi quel
detto di Hardin che mi hai citato il mese
scorso? Gli dimostreremo che un
disintegratore atomico è un’arma a doppio
taglio.
Il sindaco era entrato in sala e tutti i
consiglieri si erano alzati.
Mallow bisbigliò: – Oggi tocca a me.
Siediti qui e goditi lo spettacolo.
La seduta cominciò e quindici minuti più
tardi, Hober Mallow, tra il mormorio
ostile dei consiglieri, s’alzò ed avanzò
fino al centro della sala, di fronte alla
sedia del sindaco. Un fascio di luce lo
illuminava interamente: sugli schermi
pubblici della città e sulle miriadi di
televisori privati del pianeta, apparve la
sua figura.
Cominciò a parlare con calma e senza
incertezze. – Per risparmiare tempo,
accetterò come vere tutte le accuse portate
contro di me in questo processo. La
versione della pubblica accusa del
linciaggio del prete è esatta in ogni
particolare.
Ci fu un bisbiglio nella sala e dalla
galleria venne un boato di indignazione.
Mallow aspettò pazientemente
ritornasse il silenzio.
che
– Tuttavia, il quadro che vi è stato
presentato non è affatto completo. Chiedo
il permesso di colmare le lacune a modo
mio. In un primo tempo vi sembreranno
dettagli irrilevanti: vogliate scusarmi e
ascoltate con pazienza.
Mallow non si curò di consultare gli
appunti.
Riprese: – Comincerò dal medesimo
punto donde è partita l’accusa: il giorno
dell’incontro con Jorane Sutt e Jaim
Twer. Sapete già che cosa sia avvenuto
durante quel colloquio. La conversazione
è stata riferita accuratamente ed io non ho
altro da aggiungere, ad eccezione delle
mie considerazioni personali su quella
giornata. Erano sospetti, perché gli
avvenimenti presentavano qualcosa di
strano.
Due persone, che io conoscevo appena,
mi fecero proposte straordinarie ed in un
certo senso quasi incredibili. La prima, il
segretario del sindaco, mi chiese di
diventare un agente segreto per un
importante affare di governo: la natura e
l’importanza dell’incarico vi sono già
state descritte.
«L’altra, il capo di un partito politico, mi
invitò a partecipare come candidato alle
elezioni per il Consiglio. Naturalmente
cercai di scoprirne le vere intenzioni.
Quelle di Sutt mi parvero evidenti. Non si
fidava di me. Forse credeva che io
vendessi armi atomiche al nemico e stessi
organizzando una rivolta. E forse, quindi,
voleva forzare i tempi. In tal caso aveva
bisogno di un uomo che mi stesse vicino
durante la missione, per potermi spiare.
Quest’ultimo pensiero però non mi venne
in mente finché non entrò in scena Jaim
Twer.
Aggiungiamo
qualche
considerazione: Twer mi si presentò come
un mercante a riposo che si era dato alla
politica. Eppure non avevo mai sentito
parlare di lui, come commerciante, benché
la mia conoscenza in questo campo non
avesse limiti. C’è di più: sebbene
dichiarasse di aver ricevuto una
educazione laica, Twer non aveva mai
sentito parlare di una Crisi Seldon.
Hober Mallow aspettò che il brusio
s’acquetasse di nuovo, e fu premiato con
un silenzio assolutamente insolito: l’intero
uditorio trattenne il fiato. Aveva
sottolineato quest’ultimo elemento solo a
beneficio degli abitanti di Terminus. Gli
uomini degli altri pianeti avrebbero
conosciuto solo la versione censurata dal
clero.
Non avrebbero sentito alcun accenno alla
Crisi Seldon. Ma ci sarebbero stati altri
particolari che nemmeno gli stranieri
avrebbero perso.
Mallow continuò: – Chi di voi può
sostenere in buona fede che un uomo che
ha ricevuto un’educazione laica possa
ignorare che cosa sia una Crisi Seldon?
Esiste un solo tipo di educazione che
esclude ogni menzione della storia
pianificata di Seldon e conosce l’uomo
solo attraverso una configurazione mitica.
Seppi così, immediatamente, che Jaim
Twer non era stato mai un commerciante.
Mi resi conto subito che egli apparteneva
ad un ordine religioso, e, senza dubbio, in
quei tre anni che diceva di aver speso per
formare un partito politico dei mercanti,
era stato al servizio di Jorane Sutt. Al
primo momento giocai al buio. Ignoravo
le intenzioni di Sutt nei miei riguardi, ma
poiché mi dava corda, cercai di
comportarmi in conformità. Sapevo che
Twer doveva viaggiare con me come un
guardiano in incognito per conto di Jorane
Sutt. Ebbene, se il piano non fosse
riuscito, ero certo che sarebbe stato
escogitato un altro sistema del quale,
forse, non mi sarei accorto in tempo. Un
nemico noto è relativamente innocuo.
«Invitai Twer a venire con me, e lui
accettò. Questo, signori del Consiglio,
spiega due cose. Primo, vi dimostra che
Twer non è affatto un amico che
testimonia contro di me a malincuore e
solo per dovere di coscienza, come
l’accusa vorrebbe far credere. È una spia,
pagata per il suo lavoro. Inoltre, spiega
anche il mio comportamento in occasione
della prima comparsa del prete che mi si
accusa di avere assassinato. Di quel
comportamento non si è ancora fatta
menzione perché è praticamente ignorato.
In aula c’era di nuovo rumore e Mallow,
accompagnandosi con un gesto teatrale, si
schiarì la voce.
– Mi dispiace descrivere quali furono i
miei sentimenti quando seppi che un prete
s’era rifugiato sulla nostra nave. Odio
ricordare quei momenti. Soprattutto,
rimasi incerto. Gli eventi mi sembrarono
preparati da Sutt e non rientravano nei
miei calcoli. Ero completamente in alto
mare. Mi liberai di Twer per cinque
minuti mandandolo a chiamare gli
ufficiali. Durante la sua assenza, misi in
azione un registratore visivo, affinché,
qualunque cosa fosse successa, potessi in
seguito conservare il film per studiarmelo.
Lo feci nella speranza, vaghissima d’altra
parte, che col tempo sarei riuscito a
vederci più chiaro. Ho rivisto la pellicola
forse cinquanta volte. L’ho qui con me,
ora, e la rivedrò davanti a voi per la
cinquantunesima.
Il sindaco batté il martelletto
ripetutamente per riportare la calma, visto
che l’aula era in subbuglio e che in
galleria non si riusciva più a ristabilire
l’ordine. Nei cinque milioni di case di
Terminus, gli spettatori eccitati si
accalcavano più attenti che mai ai
televisori. Sul banco dell’accusa, Jorane
Sutt fece un cenno rigido col capo verso
un alto prelato che lo osservava nervoso e
tenne lo sguardo fisso su Mallow. Il
centro dell’aula venne sgombrato e si
attenuarono le luci. Ankor Jael, dalla sua
panca, sulla sinistra, dirigeva i
preparativi. Dopo uno scatto sonoro,
cominciò la proiezione del film, in tre
dimensioni, a colori, preciso in ogni
particolare.
Comparve il missionario confuso e
malconcio, in piedi tra il tenente ed il
sergente. Poi si vide Mallow, che sedeva
in silenzio aspettando che gli uomini
sfilassero nella stanza. Twer, sullo
sfondo, stava chiudendo la porta.
Seguì la conversazione, parola per parola.
Il sergente fu punito ed il missionario
interrogato. Si videro inquadrature della
folla radunata attorno alla nave e se ne
udirono le grida, mentre Jord Parma dava
segni di nervosismo. Si vide Mallow tirar
fuori la pistola, ed il missionario portato
via. Mentre si allontanava, il prete levò
come impazzito le braccia lanciando una
maledizione finale, un lieve luccichio
comparve e subito svanì.
La scena terminò con l’inquadratura degli
ufficiali irrigiditi dall’orrore; si vide
infine Twer con le mani sulle orecchie per
non sentire e Mallow, calmo, che
rimetteva a posto la pistola.
– L’incidente, come avete visto, è stato
descritto dall’accusa in modo fedele ma
superficialmente. Cercherò di spiegarmi
in breve. Il comportamento di Jaim Twer
nel susseguirsi degli avvenimenti,
dimostrò chiaramente la sua educazione
religiosa. Quello stesso giorno io gli feci
notare alcune incongruenze dell’episodio.
Gli chiesi da dove il missionario potesse
essere venuto, visto che ci trovavamo al
centro di una regione disabitata. Gli
domandai anche da dove, secondo lui,
poteva essersi radunata quella folla, dal
momento che il villaggio più vicino era a
più di trecento chilometri. L’accusa non
ha messo in luce questi particolari. Ma ve
ne sono altri. Per esempio, l’evidente
atteggiamento sospetto del reverendo Jord
Parma. Un missionario che va su Korell, a
rischio della vita, contro le leggi sia della
Fondazione che di Korell, ci si è
presentato davanti vestito da prete.
Qualcosa non andava. A quel tempo
pensai che fosse un involontario complice
del Commodoro, usato in modo da
costringerci a compiere un atto
d’aggressione che avrebbe giustificato di
conseguenza la distruzione dell’astronave
con l’equipaggio a bordo. L’accusa ha
anticipato questa mia interpretazione. Si
aspettava infatti che io spiegassi che la
salvezza della nave e dell’equipaggio e la
riuscita della missione erano in gioco, e
non potevano essere sacrificate per un
uomo, il quale, in ogni caso, sarebbe stato
ucciso, con noi o senza di noi.
«L’accusa risponde che l’onore della
Fondazione e la nostra dignità dovevano
essere salvaguardati per conservare
intatto il nostro ascendente sugli altri
popoli.
Per una strana ragione, tuttavia, l’accusa
ha dimenticato di parlare di Jord Parma.
Sono stati taciuti parecchi dettagli sulla
sua vita, non si fa cenno al luogo di
nascita, né si dice dove fosse stato
educato. La spiegazione di questo è la
stessa che spiega le incongruenze che ho
potuto notare nel film appena proiettato.
Le due cose sono strettamente legate.
L’accusa non ha fornito particolari
riguardanti Jord Parma perché non lo può
fare. Le sequenze a cui voi avete assistito
sono false, perché era falso anche Jord
Parma. Tutto questo processo è la più
grande farsa che sia mai stata messa in
scena su una accusa assolutamente
inesistente!
Ancora una volta dovette interrompersi e
aspettare che ritornasse il silenzio.
Quindi continuò: – Vi mostrerò
l’ingrandimento di un particolare di una
fotografia del film. Non ci sarà bisogno di
dare spiegazioni. Jael, per favore, le luci.
L’aula s’oscurò e l’aria si riempì di
nuovo di quelle immagini immobili. Gli
ufficiali della “Far Star” erano rigidi in un
atteggiamento innaturale. Mallow stava
puntando la pistola. Alla sua sinistra il
reverendo Jord Parma, teneva le mani
alzate, mentre le maniche della tonaca
lasciavano vedere le braccia scarne.
Dalle mani del missionario veniva un
luccichìo che nella proiezione precedente
era apparso come un lampo fugace. Ora
era costante.
– Osservate bene quel luccichio sulle
mani – gridò Mallow dall’ombra. – Jael,
per
favore,
metti
in funzione
l’ingrandimento.
L’inquadratura cambiò immediatamente.
Gli altri personaggi scomparvero mentre
il missionario si portava pian piano al
centro dello schermo e la sua figura
ingigantiva. Poi apparve solo una mano ed
un braccio, quindi una mano sola che
occupava l’intero spazio, immensa e
immobile.
Il luccichio sul palmo della mano s’era
trasformato in tre lettere luminose: K.S.P.
– Quello che vedete – gridò Mallow – è
un esempio di tatuaggio, signori. Con luci
ordinarie è assolutamente invisibile, ma
sotto l’azione dei raggi ultravioletti, con i
quali avevo riempito la stanza per mettere
in azione il registratore visivo, risalta in
modo perfetto. Ammetto che si tratti di
uno strano metodo di identificazione, ma
su Korell funziona, dato che i raggi
ultravioletti sono impiegati molto di rado.
Anche sulla nostra astronave vennero
usati per caso. Forse qualcuno di voi ha
già capito il significato di quelle iniziali
K.S.P. Jord Parma conosceva il modo di
esprimersi del clero e sostenne la sua
parte alla perfezione. Dove l’avesse
imparato e come, non posso certo dirlo.
Comunque è la sigla di identificazione
della Polizia Segreta di Korell.
Al di sopra del tumulto scoppiato in sala,
Mallow urlò per farsi sentire. – Ho
documenti che provano la mia
affermazione e li presenterò alla corte
quando ne sarò richiesto. Ed ora ditemi:
in base a quali imputazioni mi si sta
processando? Mi hanno accusato e
riaccusato perché ho rinunciato a
combattere per non mettere in pericolo il
mio equipaggio e la mia astronave e per
non sacrificare la missione in difesa
dell’onore della Fondazione. Ma avrei
dovuto comportarmi così solo per
difendere un impostore? Avrei dovuto
lasciarmi ingannare da un agente della
polizia segreta di Korell? Avrei dovuto
permettere che Jorane Sutt e Publis
Manlio mi facessero cadere in una stupida
trappola?
La voce gli si era fatta rauca e fu tosto
sommersa dalle urla del pubblico. Fu
sollevato sulle spalle e portato di peso
sulla sedia del sindaco. Dalle finestre si
vedeva gente accorrere da tutte le
direzioni per aggiungersi alle migliaia già
radunate in piazza.
Mallow guardò attorno per trovare Ankor
Jael, ma non gli fu possibile riconoscere
nessuno in mezzo a quella massa urlante.
Lentamente si rese conto che il ritmico,
continuo urlo, che a poco a poco si
ingigantiva ripetuto da mille voci,
consisteva di due parole: – Viva
Mallow... Viva Mallow... Viva Mallow...
Viva Mallow!
15
Ankor Jael, nonostante la stanchezza,
trovò la forza di strizzare l’occhio a
Mallow. Gli ultimi due giorni erano stati
una pazzia insonne.
– Hai organizzato un ottimo spettacolo,
Mallow, ma non guastarlo ora spingendoti
troppo in alto. Non puoi aspirare alla
carica di sindaco. L’entusiasmo della
folla è una grande forza, ma tutti sanno
quanto duri poco.
– Precisamente! – rispose Mallow con un
sorriso. – Perciò dobbiamo alimentarlo ed
il miglior sistema è continuare lo
spettacolo.
– Che intenzioni hai?
– Devi fare in modo che Publis Manlio e
Jorane Sutt vengano arrestati...
– Cosa?
– Hai capito benissimo. Convinci il
sindaco a mandarli in prigione. Non mi
importa sapere come ci riuscirai. Io per
ora controllo la folla. Il sindaco non oserà
affrontarla.
– Ma in base a quale accusa può
arrestarli?
– La più ovvia. Hanno incitato il clero dei
pianeti esterni a prendere posizione in una
disputa interna della Fondazione. Per
Seldon, è una azione illegale! Hanno
messo in pericolo la sicurezza dello Stato.
Non ha importanza per me che l’accusa
sia o meno fondata. Toglimeli di torno
finché non sarò eletto sindaco.
– Non è molto! – Mallow s’era alzato in
piedi ed aveva afferrato saldamente Jael
per un braccio.
– Ascoltami. Se sarà necessario assumerò
il potere con la forza, proprio come fece
Salvor Hardin cento anni fa. La Crisi
Seldon non è ancora in atto; quando verrà,
io dovrò essere allo stesso tempo sindaco
e primo sacerdote. Tutte e due le cose!
Jael s’accigliò. – Cosa accadrà? Anche
Korell sarà nostro nemico?
– Ma mancano ancora sei mesi alle
elezioni.
Mallow annuì. – Naturalmente. Ci
dichiareranno guerra, probabilmente,
anche se ci vorranno almeno tre anni.
– Con astronavi ad armamento atomico?
– Che cosa credi? Le tre astronavi
mercantili scomparse non sono state certo
distrutte con pistole ad aria compressa.
Jael, ricevono le armi direttamente
dall’Impero! E non fare quella faccia. Ho
detto proprio l’Impero. Esiste ancora. È
scomparso qui alla Periferia, ma al centro
della Galassia è ancora in vita. Se
facciamo un movimento falso possiamo
benissimo ritrovarcelo fra capo e collo.
Ecco perché io devo assolutamente essere
eletto sindaco e primo sacerdote. Sono il
solo uomo che sappia come combattere
questa crisi.
Jael inghiottì. – Che cosa farai per
combatterla?
– Niente.
Jael sorrise incerto. – Bene! Tutto qui?
– Quando sarò a capo della Fondazione –
rispose secco Mallow – non farò
assolutamente nulla. Proprio nulla: è il
segreto per risolvere la crisi.
16
Asper Argo, il Ben Amato Commodoro
della repubblica di Korell, accolse la
moglie con gli occhi d’un cane fedele.
Certamente a lei non si addiceva
l’appellativo di Bene Amata: anche lui se
ne rendeva perfettamente conto.
– Mio caro e grazioso signore – esordì la
donna con voce tagliente – ho saputo che
finalmente ti sei deciso ad abbandonare i
tuoi amici della Fondazione.
– Davvero? – disse il Commodoro
ironico. – E che cosa altro hanno saputo le
tue preziosissime orecchie?
– Abbastanza, mio nobile marito. So che
hai radunato il Consiglio per conferire
con i tuoi ministri. Veramente ottimi
consiglieri – aggiunse con ira malcelata. –
Un branco di idioti ciechi e tremanti,
attaccati al denaro, disperazione e scorno
di mio padre.
– E qual è stata, mia cara – disse il
Commodoro con gentilezza – la fonte così
sicura delle tue informazioni?
Licia sorrise. – Se te lo dicessi, il mio
informatore diventerebbe presto un
cadavere.
– D’accordo, a modo tuo, come sempre. –
Il Commodoro alzò le spalle e fece per
allontanarsi. – E per quanto riguarda tuo
padre, temo sinceramente che sfoghi la
sua ira negandomi altre astronavi.
– Ancora astronavi! – replicò la moglie
improvvisamente adirata. – Ma non ne hai
già cinque? Non negare. So bene che ne
hai cinque e che te ne è stata promessa una
sesta.
– È un anno che l’aspetto.
– Ma una, una sola, basta a mandare in
briciole la Fondazione. È sufficiente a far
saltare in aria tutte le sue navi giocattolo.
– Non potremmo attaccare quel pianeta
nemmeno se avessimo dodici astronavi.
– E credi che il loro pianeta resista a
lungo quando si accorgeranno che tutto il
loro commercio è distrutto e non
possiedono più navi mercantili, cariche di
cianfrusaglie e di immondizia?
– Sono cianfrusaglie che significano soldi
– replicò – e molti, anche.
– Ma se tu riuscissi ad impadronirti della
Fondazione, con tutto ciò che contiene? E
se di riflesso ti guadagnassi il rispetto e la
gratitudine di mio padre, non otterresti
forse più di quanto ti abbia offerto finora
la Fondazione? Sono passati già tre anni
dal giorno in cui atterrarono quei barbari
con le loro magiche macchinette. È
passato già troppo tempo.
– Mia cara! – e il Commodoro si voltò
guardandola in faccia. – Sto diventando
vecchio e debole. Non mi riesce più di
sopportare a lungo le tue chiacchiere. Dici
di sapere che mi sono deciso. Ebbene hai
ragione. Mi sono deciso: ci sarà la guerra
tra Korell e la Fondazione.
– Bene! – Licia allargò le braccia ed i
suoi occhi brillarono di gioia. –
Finalmente sei diventato saggio, anche se
in età avanzata. Quando sarai padrone di
questo settore della Galassia, acquisterai
sufficiente
autorità
nei
confronti
dell’Impero. Per prima cosa, potremo
lasciare questo pianeta barbaro e
trasferirci alla corte del viceré. Il che non
è affatto impossibile.
Uscì sorridente, con le mani sui fianchi. I
suoi capelli erano pieni di luce.
17
Il tenente navigatore della “Dark Nebula”
guardò
spaventato
dalla
cupola
panoramica.
– Per Seldon e la Galassia! – Avrebbe
voluto urlare queste parole, ma riuscì
appena a pronunciarle con un filo di voce.
– Che roba è?
Si trattava di un’astronave, ma era una
balena paragonata alle dimensioni
minuscole della “Dark Nebula”. Su un
fianco si vedevano le insegne
dell’Impero.
Tutti i segnali d’allarme suonarono
contemporaneamente.
Seguirono ordini secchi e la “Dark
Nebula” si preparò a fuggire se possibile,
e ad accettare la battaglia se fosse stata
costretta. Dalla sala radio si lanciavano
disperati messaggi alla Fondazione:
appelli d’aiuto e rapporti sul pericolo
incombente.
18
Hober Mallow era nervoso mentre
leggeva i rapporti. Da due anni in carica
come sindaco, era diventato più
casalingo, più molle, anche più paziente;
ma non si era ancora abituato ai messaggi
scritti in linguaggio burocratico.
– Quante astronavi sono riusciti a mettere
fuori combattimento? – domandò Jael.
– Quattro sono state catturate a terra. Due
sono disperse. Tutte le altre sono ritornate
felicemente alla base. Poteva andare
anche meglio, ma i danni non sono
rilevanti – brontolò Mallow.
Jael non rispose e Mallow alzò gli occhi.
– Che cosa ti preoccupa?
– Vorrei proprio che Sutt arrivasse.
– Ah, sì. Immagino che ora mi dovrò
sorbire una conferenza sui problemi
politici interni.
– No – disse Jael – te la risparmierò. Può
darsi che tu abbia studiato in tutti i
particolari la politica estera, ma non ti sei
mai curato abbastanza di ciò che accade
sul pianeta.
– Ma quello è affar tuo. A che scopo
allora ti avrei nominato Ministro
dell’Educazione e della Propaganda?
– Evidentemente per mandarmi più presto
alla tomba, negandomi
la tua
collaborazione. Da un anno non faccio che
avvisarti del pericolo costituito da Sutt e
dai suoi Religionisti. A che serve il tuo
piano se Sutt ti può far perdere il potere
da un momento all’altro obbligandoci ad
indire nuove elezioni?
– A niente, me ne rendo conto benissimo.
– E con il tuo discorso di ieri sera hai
messo nelle mani di Sutt l’elezione del
sindaco. Un sorriso e un colpetto alle
spalle. Era proprio necessario essere così
franchi?
– Ho voluto semplicemente anticipare
l’attacco di Sutt.
– No – ribatté Jael con irruenza – non era
il modo giusto. Tu pretendi di avere
previsto tutto ma non hai spiegato perché
da tre anni hai commerciato con Korell a
loro esclusivo vantaggio. Il tuo piano di
battaglia è di ritirarsi senza combattere.
Stai rompendo tutti i rapporti commerciali
con i pianeti confinanti con Korell. Hai
apertamente annunciato la tua politica di
immobilismo. Ed hai promesso che anche
nel futuro non ci saranno offensive. Per la
Galassia, Mallow, che cosa credi possa
fare in una situazione del genere?
– Vuoi dire che la mia politica manca di
fascino?
– Certo non ha alcuna presa sui sentimenti
delle masse.
– È la medesima cosa.
– Mallow, svegliati. Hai due alternative.
O ti presenti al popolo con una politica
estera dinamica, indipendentemente dai
tuoi piani personali o ti adatti ad un
compromesso con Sutt.
– D’accordo – rispose Mallow. – Visto
che non sono riuscito nella prima
alternativa, tentiamo la seconda. Sutt è
appena arrivato.
Sutt e Mallow non si erano incontrati dal
giorno del processo, due anni prima.
Nessuno dei due trovò cambiata la
fisionomia dell’altro; era solo mutata
l’atmosfera. Ora le posizioni di capo e
suddito si erano invertite.
Sutt sedette senza stringere la mano a
nessuno.
Mallow gli offrì un sigaro e aggiunse: –
Vi dispiace se rimane qui Jael? È stato lui
a consigliarmi un compromesso. Può far
da mediatore se la discussione si scalda
troppo.
Sutt si strinse nelle spalle. – Un
compromesso vi farebbe comodo. In
un’altra occasione fui io se non sbaglio a
chiedervi di porre le vostre condizioni.
Ora tocca a voi accettare le mie.
– Esatto.
– Allora le mie condizioni sono queste:
dovete abbandonare l’attuale cieca
politica economica del commercio
macchinari, per ritornare alla politica
estera sperimentata così validamente dai
nostri padri.
– Volete dire la conquista mediante i
missionari?
– Esattamente.
– Non vedo dove sia il compromesso.
– Infatti non c’è.
– Uh-m-m. – Mallow s’accese lentamente
il sigaro e ne aspirò una boccata. – Ai
tempi di Hardin, quando la conquista resa
possibile dall’espansione della religione
era una politica nuova e radicale, uomini
come voi l’avrebbero ostacolata.
Ora che è vecchia, provata e non ha più
ragione di continuare, Jorane Sutt la trova
buona. Ma ditemi, che cosa proponete per
uscire dalla situazione attuale?
– Siete voi il responsabile di questa
situazione caotica, non io.
– Immaginate di trovarvi al mio posto.
– Sarei favorevole ad una offensiva.
L’immobilismo, che vi sembra così sicuro
e soddisfacente, ci sarà fatale. È come
confessare la nostra debolezza a tutti i
mondi della Periferia, dove invece è
importante conservare prestigio. Sono tutti
avvoltoi che aspettano il momento
opportuno per saltarci addosso. Dovreste
saperlo. Siete di Smyrno voi, vero?
Mallow non rilevò l’allusione. – E se
riusciste a sconfiggere Korell – disse –
come credete che reagirebbe il vecchio
Impero? È quello il nostro vero nemico.
Sutt sorrise storcendo la bocca. – Oh, no.
Il rapporto della vostra visita a Siwenna
era esauriente. Il viceré del settore
normannico è interessato a creare il caos
nella Periferia a suo vantaggio, ma non è
il suo scopo principale. Non può
abbandonare tutto per una spedizione ai
confini della Galassia, quando ha vicino
cinquanta pianeti ostili ed un Imperatore a
cui si vuole ribellare. Sto ripetendo le
vostre parole.
– Forse si deciderebbe ad attaccarci, Sutt,
se ritenesse che siamo tanto forti da
costituire un pericolo. Gli verrà di certo
quest’idea se distruggiamo Korell con un
attacco frontale. Dobbiamo agire con più
astuzia.
– Per esempio come?
Mallow s’appoggiò allo schienale della
sedia. – Sutt, voglio darvi una possibilità.
Non ho bisogno di voi, ma vi posso
sempre utilizzare. Voglio svelarvi il mio
piano: dopo di che potrete decidere se vi
convenga seguirmi e avere una carica nel
governo, oppure far la parte del martire
ed andare a marcire in prigione.
– Già una volta avete provato a
mandarmici.
– Non avevo provato con tutta la mia
volontà, Sutt. Il momento giusto è arrivato
ora. Ma ascoltatemi. – Mallow socchiuse
gli occhi.
– La prima volta che sono atterrato su
Korell – incominciò – ho convinto il
Commodoro ad acquistare i macchinari
che solitamente costituiscono il carico di
ogni commerciante. All’inizio cercavo
solo il modo di entrare in una loro
fonderia.
Non avevo altri piani in mente e riuscii
nel mio intento. Però, dopo aver visitato
l’Impero, scoprii per la prima volta quale
arma avrebbe potuto diventare il mio
commercio. Questa che dobbiamo
affrontare è una Crisi Seldon, Sutt, e le
Crisi Seldon non vengono risolte da
individui ma da forze storiche.
«Quando Hari Seldon ha pianificato il
corso della nostra storia futura, non ha
contato su eroi brillanti, ma s’è basato su
movimenti economici e sociali. La
soluzione delle varie crisi deve essere
cercata nelle forze che agiscono nei vari
periodi storici. In questo caso, il
commercio!
Sutt inarcò le sopracciglia scettico e
s’avvantaggiò della pausa che Mallow
s’era concesso. – Non credo di avere
un’intelligenza inferiore al normale, ma i
fatti che mi avete appena esposto non mi
aiutano a capire.
– Capirete in seguito – rispose Mallow. –
Considerate che finora il potere del
commercio è stato sottovalutato. Si è
sempre pensato che occorresse il
controllo del clero per trasformarlo in
un’arma efficace. Non è assolutamente
vero; questo è il contributo che sto dando
alla storia della Galassia. Commercio
senza clero!
Solamente commercio! È un’arma
abbastanza potente. Facciamo un esempio
semplice e specifico. Korell è ora in
guerra con noi. Di conseguenza il nostro
commercio con questo mondo è cessato.
Ma notate che vi sto rendendo il problema
semplice come una addizione. Negli
ultimi tre anni Korell ha basato sempre di
più la sua economia sulla energia atomica
che noi abbiamo introdotto e che ora
abbiamo cessato di fornire. Che cosa
accadrà quando i piccoli generatori
esauriranno la loro carica e i macchinari
uno dopo l’altro cesseranno di
funzionare?
I piccoli apparecchi di uso domestico si
fermeranno per primi. Dopo sei mesi di
quell’immobilismo che voi tanto aborrite,
le donne scopriranno che i coltelli atomici
non funzionano più. Il forno non riscalderà
più. La lavatrice non sciacquerà più la
biancheria.
L’aria
condizionata
scomparirà dalle abitazioni in un giorno
caldo d’estate. Che cosa succederà?
Fece di nuovo una pausa e l’interlocutore
gli rispose: – Niente. In tempo di guerra la
gente sopporta ben altri inconvenienti.
– Verissimo. Mandano i loro figli ad una
morte orribile nello spazio. Si rifugiano
nei sotterranei durante i bombardamenti, e
vivono a pane duro ed acqua per mesi, in
caverne profonde un chilometro Ma
quando la guerra non è alimentata da un
forte spirito patriottico, e non incombe la
minaccia d’un imminente pericolo ad
unire gli animi, allora anche i piccoli
disagi diventano insopportabili. Si tratterà
di una guerra non combattuta. Non ci
saranno morti, né bombardamenti, né
battaglie.
«Le uniche preoccupazioni saranno il
coltello che non taglia, un forno che non
cuoce, una casa fredda durante l’inverno.
Sarà una situazione scomoda e la gente
protesterà.
– È su questo che contate, Mallow? –
chiese Sutt lentamente. – Che cosa vi
aspettate? Una ribellione delle donne di
casa? Una rivolta dei contadini? Una
improvvisa sollevazione di fornai e
macellai con i loro coltelli? Cortei che
gridano:
«Ridateci la nostra lavatrice automatica
atomica Super-Kleeno!».
– No, signore – rispose Mallow che stava
perdendo la pazienza. – Non è così.
Mi aspetto, tuttavia, un malcontento
generale che verrà ad aggiungersi in
seguito ad altri fattori.
– E quali sarebbero questi fattori?
– I proprietari di fabbriche, gli industriali
di Korell. Dopo due anni della mia
politica di immobilismo, le macchine
industriali incominceranno a non
funzionare più. Gli industriali che hanno
cambiato sistema di lavoro introducendo
in ogni settore produttivo le nostre
macchine atomiche, saranno ridotti sul
lastrico. Tutte le loro industrie pesanti
saranno immobilizzate, e, in un batter
d’occhio, i proprietari non avranno che
mucchi di rottami inutilizzabili.
– Le loro fabbriche andavano avanti anche
quando non avevate ancora portato i
vostri macchinari, Mallow.
– Lo so, Sutt. Ma il guadagno era di venti
volte inferiore; senza considerare la spesa
necessaria per riconvertire le industrie
allo stadio pre-atomico. Con gli
industriali, i finanziatori ed il popolo
contro, quanto credete che potrà resistere
il Commodoro?
– Tanto quanto vorrà, non appena
deciderà di acquistare i generatori atomici
dall’Impero.
Mallow scoppiò in una risata. – Qui vi
sbagliate, Sutt, come si sbaglia anche il
Commodoro. Non avete capito niente.
L’Impero non è in grado di rimpiazzare
niente. L’Impero è sempre stato una fonte
di colossali risorse. Hanno sempre
calcolato tutto in pianeti, in sistemi solari
in settori della Galassia. I loro generatori
sono giganteschi, perché hanno sempre
organizzato ogni cosa in proporzioni
colossali. Ma noi, piccola Fondazione,
composta da un singolo pianeta quasi
privo di metalli, abbiamo dovuto sempre
fare i conti con precauzione. I nostri
generatori dovevano essere della
grandezza di un pollice, perché non
potevamo sprecare metallo. Abbiamo
dovuto sviluppare nuove tecniche e nuovi
metodi, sistemi che l’Impero non può
seguire perché oramai è in decadenza ed
ha sorpassato la sua fase creativa.
«Con tutti i loro scudi atomici, grandi
abbastanza da proteggere una astronave,
una città od un intero mondo, non
riusciranno mai a studiare un apparecchio
capace di proteggere un uomo solo. Per
fornire la luce ed il riscaldamento a una
città hanno motori grandi quanto un
edificio di sei piani - io li ho visti -
mentre i nostri potrebbero benissimo stare
in questa stanza. E quando io ho detto a
uno dei loro specialisti atomici che una
scatolina di cuoio della grandezza di una
noce conteneva un generatore atomico, si
è indignato, credendo che lo volessi
prendere in giro.
«E perché questo? Perché non capiscono
nemmeno più le loro macchine. Sono
strumenti che funzionano automaticamente
da generazioni. Gli incaricati della
manutenzione sono una casta chiusa
ereditaria. Non saprebbero che fare se
anche una sola valvola si bruciasse in
tutto l’enorme edificio. La guerra è una
battaglia tra questi due sistemi; tra
l’Impero e la Fondazione; tra il grande ed
il piccolo. Per assumere il controllo di un
mondo, si servono di navi immense, che
non hanno più alcun significato
economico. Noi, invece, ci serviamo di
piccolissime astronavi, inutili in guerra,
ma di vitale importanza per il guadagno
ed il benessere. Un re, o anche un
Commodoro, prenderà queste navi e ci
attaccherà. I tiranni hanno sempre
sacrificato il benessere a ciò che essi
consideravano più importante: onore,
gloria, o conquista. Ma sono ancora le
piccole cose che contano nella vita ed
Asper Argo non riuscirà a resistere alla
depressione economica che colpirà tutta
Korell in due o tre anni.
Sutt stava guardando fuori dalla finestra,
con le spalle rivolte a Mallow e a Jael.
Era ormai pomeriggio inoltrato e le poche
stelle ai margini della Galassia brillavano
già debolmente nella foschia.
Piccole costellazioni, alcune delle quali
facevano ancora parte del vasto Impero
che combatteva contro di loro.
– No – disse Sutt. – Non siete l’uomo che
fa per me.
– Non mi credete?
– Non mi fido di voi. Voi siete un abile
parlatore. Ma mi avete ingannato persino
quando credevo di avervi sotto controllo,
quando vi mandai in missione su Korell.
Quando credevo di avervi sconfitto al
processo, trovaste il modo di liberarvi e
di conquistare la carica di sindaco con
una mossa da demagogo. Non c’è niente di
sincero in voi; ogni vostra azione ne
nasconde
un’altra;
ogni
vostra
affermazione, Mallow, ha almeno tre
significati. E se voi foste un traditore? Se
foste d’accordo con l’Impero perché avete
avuto promesse di sussidi e potere? Vi
comportereste esattamente così. Ci
spingereste a continuare una guerra dopo
aver fornito rinforzi al nemico e fareste in
modo che la Fondazione non reagisse.
Riuscireste a dare a tutto una spiegazione
tanto plausibile quanto convincente.
– Allora
non accettate
alcun
compromesso? – domandò Mallow
gentilmente.
– Dico che ve ne dovete andare: o
spontaneamente o con la forza.
– Vi ho già annunciato che cosa vi aspetta
se non cooperate.
Jorane Sutt si fece rosso in faccia. Non
riusciva più a frenare l’ira.
– Ed io avverto voi, Hober Mallow di
Smyrno, che se mi farete arrestare ci sarà
una lotta senza quartiere. I miei uomini
riveleranno la verità sul vostro conto e
tutto il popolo della Fondazione si unirà
contro il governante straniero. Costoro
hanno del loro destino una coscienza che
nessuno smyrniano potrà mai avere, e vi
distruggeranno.
Hober Mallow si rivolse alle due guardie
che erano entrate. – Portatelo via. È in
stato di arresto.
– State giocando con il fuoco – disse Sutt.
Mallow spense il sigaro e non lo guardò
nemmeno.
Cinque minuti più tardi Jael disse
preoccupato: – Bene, ora che ne hai fatto
un martire, quale sarà la tua prossima
mossa?
Mallow smise di giocare con il
portacenere e alzò gli occhi. – Non è più
il Sutt che conoscevo. È accecato
dall’odio.
– Perciò è più pericoloso.
– Più pericoloso? Sciocchezze! Non
ragiona più.
– Ti fidi troppo di te stesso. Mallow –
continuò Jael con un sorriso.
– Stai dimenticando la possibilità di una
rivolta popolare.
Anche Mallow sorrise. – Una volta per
tutte, Jael: non c’è alcuna possibilità di
una rivolta!
– Sei troppo sicuro di te!
– Sono sicuro delle Crisi Seldon e della
verità storica delle loro soluzioni, sia
all’interno che nei rapporti con l’estero.
Ci sono alcune cose che non ho detto a
Sutt. Ha cercato di sottomettere anche la
Fondazione con la forza della religione,
come aveva fatto con gli altri pianeti. Ma
non c’è riuscito. Questo è la prova più
sicura che nello schema di Seldon ha
esaurito il suo compito. Il controllo
economico invece funziona diversamente.
Per parafrasare uno dei famosi detti di
Salvor Hardin, il commercio è un
disintegratore atomico che non può essere
rivolto contro di te. Se Korell prospera
grazie al nostro commercio anche noi
prosperiamo.
Se le industrie di Korell senza il nostro
commercio devono chiudere e se il
benessere dei pianeti esterni scompare
con l’isolamento commerciale, anche le
nostre industrie andranno in rovina e la
nostra prosperità sarà finita. Non esiste
un’industria, un centro commerciale, una
compagnia di trasporti che non sia sotto il
mio controllo; che io non possa ridurre
all’impotenza se Sutt tenta di accendere la
rivolta. Dove la sua propaganda avrà
successo od anche solo sembrerà
attecchire, io farò in modo che la
prosperità scompaia. Dove invece la sua
propaganda non avrà presa, il benessere
continuerà perché là le mie industrie
lavoreranno a pieno ritmo. Per la stessa
ragione che mi rende sicuro che i
korelliani si rivolteranno per riavere il
benessere, i nostri pianeti non si
rivolteranno per non perderlo. Andrò fino
in fondo.
– E dunque – disse Jael – tu stai
costituendo una plutocrazia. Farai di noi
una nazione di commercianti e di principi
mercanti. Quale sarà il nostro futuro?
Mallow lo guardò in faccia ed esclamò
eccitato: – Il futuro non è certo affar mio.
Senza dubbio Seldon ha previsto e
preparato una nuova politica. Ci saranno
delle altre Crisi quando verrà a cessare il
potere del denaro come adesso è cessato
il tempo della religione. Lascia che i miei
successori risolvano da se stessi il
problema: come io l’ho risolto adesso.
KORELL... E così, dopo tre anni di una
guerra che fu certamente la meno
combattuta della storia, la Repubblica di
Korell si arrese senza condizioni, e Hober
Mallow prese posto vicino ad Hari
Seldon e Salvor Hardin nel cuore del
popolo della Fondazione.
ENCICLOPEDIA GALATTICA
Fine.