Etiopia - BitItalia

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Etiopia - BitItalia
Giorgio Mencarini
Etiopia
Fotografie e diario di viaggio
Premessa
Fra i Paesi africani, solo l’Egitto ha ai miei occhi un fascino paragonabile a quello dell’Etiopia. Era da
moltissimo tempo che volevo fare un viaggio in quel lembo d’Africa che è stata, fra l’altro, anche la
culla dell’umanità. Laggiù, infatti, nel 1974 venne rinvenuta la piccola Lucy vissuta più di tre milioni di
anni fa, una femmina alta un metro e sette centimetri, forse il primo ominide ad aver assunto la
posizione eretta.
Pensavo alle peculiarità di quel Paese così strano e così diverso, con un alfabeto tutto suo, composto da
325 caratteri, e pure un calendario tutto suo, tanto che laggiù è in corso solo ora l’anno 2000: è
cominciato il 12 settembre 2007 e finirà l’11 settembre 2008. Anche la maniera di indicare le ore è
particolare e, a volte, fonte di qualche equivoco: l’ora si conta dall’alba e non dalla mezzanotte come
avviene da noi, per cui se un Etiope fissa un appuntamento alle 8,00 del mattino, in realtà ci si vede alle
14,00. Alle 18,00 finisce il mattino e scattano le ore della notte. Perfino i titoli nobiliari, finché
esistettero, erano del tutto esclusivi: negus (re), ras (una specie di viceré), degiac (corrispondente al
nostro duca), fitaurari (conte), cagnasmac (marchese), balambaras (cavaliere).
Pensavo alla millenaria civiltà etiopica, testimoniata dal tempio di Yeha e dagli obelischi di Aksum, ai
miti della regina di Saba e di Salomone, alle vicende di San Frumenzio che nel IV secolo vi portò il
cristianesimo dopo essere naufragato sulle sue coste. A re Lalibela, che fra la fine del XII e l’inizio del
XIII secolo trasformò Roha in quello straordinario luogo che oggi porta il suo nome.
Per non parlare del prete Gianni, leggendario sacerdote-sovrano di un altrettanto leggendario regno
cristiano d’oriente, che qualcuno cominciò a identificare con l’Etiopia. Un personaggio che ispirò
l’Ariosto, il quale nel suo “Orlando furioso” lo inserì con il nome di Senapo, re appunto d’Etiopia, e lo
fece liberare da Astolfo da una maledizione divina che lo costringeva a soffrire di perpetua fame,
mentre Torquato Tasso, nella “Gerusalemme Liberata”, celebrò l’eroismo e la virtù di Clorinda, che di
Senapo sarebbe stata la figlia.
E poi, c’era l’imperatore Galawdewos che nel 1543, con l’aiuto dei portoghesi, sul lago Tana sconfisse
Gragn Mancino, sultano di Harar, sbarrando definitivamente all’Islam la strada degli altipiani etiopi. E
l’imperatore Fasiladas che nel 1635 diede avvio al periodo d’oro di Gondar, la “Camelot d’Africa” con i
suoi numerosi castelli. Fino ad arrivare, in tempi più recenti, all’imperatore Teodoro II che tentò di
modernizzare il Paese, ma divenne sempre più autoritario e, alla fine, inviso alla sua stessa gente, fu
sconfitto dagli Inglesi e nel 1868 si suicidò nella fortezza di Magdala. Venne allora l’imperatore
Giovanni IV, tanto puro e cristiano da rasentare l’integralismo, difese il suo impero contro tutti: gli
Egiziani, gli Italiani duramente sconfitti a Dogali dal suo generale Ras Alula, i Dervisci sudanesi, dai
quali però venne ucciso in battaglia nel 1889. Catturarono anche il suo cadavere, lo decapitarono ed
inviarono la testa ad Omdurman, al califfo Abdullah, come testimonianza della completa vittoria. La
strada per diventare imperatore fu così spianata per Menelik II, con la sua furbizia volpina e la sua
faccia da bandito, e salì agli allori delle cronache anche la sua affascinante seconda moglie, Taitù, forse
il vero cervello dell’impero. Sul fascino di Taitù c’è la conferma di Augusto Salimbeni, primo
ambasciatore italiano ad Addis Abeba. Angelo Del Boca, nel primo volume del suo monumentale
lavoro “Gli Italiani in Africa orientale”,1 scrive che questi la corteggiava “colmandola di doni e di
sorrisi. <Nel congedarmi – racconta – bacio la mano del re per avere il pretesto di baciare anche quella
della regina, che mi piace assai, assai>”.
Di tutti i Paesi africani, l’Etiopia è sicuramente quello che ha maggiormente colpito l’immaginario
collettivo degli Italiani. E non sto parlando di quando, nel 1936, fu invasa dai fascisti, col nostro
1 Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Africa orientale – I. Dall’unità alla marcia su Roma”, Oscar Mondadori (su licenza Giuseppe Laterza &
Figli), Cles (TN), 1992.
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colonialismo cosiddetto “straccione”, come se possa esistere un colonialismo che “straccione” non lo
sia, ivi comprendendovi anche quello degli spocchiosi Inglesi. L’interesse italiano all’Etiopia risale,
quanto meno, alla seconda metà dell’800. Basterebbe citare personaggi come il cardinale Giuseppe
Massaja, già nel 1846 nominato vicario apostolico presso la popolazione etiopica dei Galla; fu per anni
consigliere di Menelik, fu apprezzato anche da Teodoro II, ma non da Giovanni IV che lo cacciò
dall’impero. O come Giuseppe Sapeto, prima missionario lazzarista, poi diplomatico ed avventuriero;
fu lui ad acquistare nel 1869, dando così il via al colonialismo italiano, la baia di Assab per conto
dell’armatore genovese Rubattino, lo stesso che fornì le navi a Garibaldi per la spedizione dei mille. O
l’esploratore Carlo Piaggia, rispettoso degli indigeni perché, come scrive Angelo Del Boca ne “La
nostra Africa”, “nessuno meglio di lui poteva capirli ed amarli, perché lui stesso era un primitivo”. O il
marchese Orazio Antinori, che convinse Menelik a donargli una stazione scientifica ed ospedaliera,
Lèt-Marefià, nella quale restò fino alla morte. O il pesarese Antonio Cecchi che, durante una
spedizione sfortunata, restò prigioniero per due anni della regina galla Ghennè-Fa e fu poi liberato
grazie ai buoni uffici di Ras Adal e dell’imperatore Giovanni, nonostante le cronache raccontino di un
improbabile salvataggio da parte di un altro esploratore italiano, Gustavo Bianchi, con un incontro che
somiglia a quello più celebre fra Stanley e Livingstone. Cecchi fu, in seguito, uno dei principali
protagonisti dell’espansione italiana in Somalia. O Augusto Franzoj, che viaggiava senza denaro ed
amava definirsi “Don Chisciotte dell’Africa” o “tapino delle Ambe”. O, tralasciando molti altri, il conte
Pietro Antonelli, artefice – non si sa se in buona o cattiva fede – del nefasto trattato di Uccialli, con il
quale Crispi tentò di imporre con l’inganno il suo protettorato a Menelik.
Chiedo scusa a chi questa premessa sia venuta a noia, ma volevo tentare di spiegare perché ritengo che
l’Etiopia sia così affascinante. Per non dilungarmi oltre, rimando alla fine di questo scritto per una sua
brevissima storia.
Venendo al viaggio, dopo diverse forzate defezioni di altri amici, siamo partiti solo in due: Romano
Storoni ed io. Ecco, qui di seguito, il diario.
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Primo giorno
13 marzo 2008. Alle 7,40, con precisione cronometrica, il Boeing 757 atterra all’aeroporto di Bole, ad
Addis Abeba. L’Ethiopian Airlines conferma così di essere una delle compagnie aeree africane più
efficienti.
L’aerostazione è nuovissima, seppure sia già presente qualche traccia di incuria. Appena sbarcati
dall’aereo, cominciamo a far la coda per il visto. Trovo abbastanza strano che, con tutto lo spazio che
c’è, i visti vengano rilasciati in una stanzetta di due metri per sei, con quattro scrivanie allineate. La
coda non è lunga, ma i tempi sono piuttosto lenti perché, come scopriremo, gli Etiopi scrivono tutto a
mano e non si può certo dire che ci sia poca burocrazia. Prima una ragazza scrive i nostri dati su dei
talloncini adesivi che vengono appiccicati ai passaporti, poi ci avviciniamo alla cassa per pagare i 20
dollari del costo del visto. Ci fanno un cenno e solo allora ci accorgiamo che c’è una nuova fila e, per
accodarci ad essa, dobbiamo uscire dalla porta situata all’altra estremità dello stanzino. Quando viene il
nostro turno, un’altra ragazza scrive meticolosamente le nostre ricevute su un bollettario a tre copie,
poi passa il tutto a un funzionario che mette una sigla sia sulle ricevute che sui passaporti. Infine,
l’ultimo controllo della polizia di frontiera e siamo pronti ad affrontare l’Etiopia.
Ad attenderci all’aeroporto, c’è Padre Nicola Di Iorio, un frate comboniano con il quale sono in
contatto via e-mail da diverso tempo. Addis Abeba, letteralmente “Nuovo Fiore”, è una città di tre
milioni di abitanti, situata a circa 2.400 metri di altitudine. È attraversata da larghi viali che danno
un’impressione abbastanza piacevole, ma quando ne vedo uno fiancheggiato da un muro mi viene in
mente quanto scritto da Ryszard Kapuściński nel suo gustosissimo “Il Negus”.2 Era il 1963 e ad Addis
Abeba si sarebbero incontrati i presidenti dell’Africa indipendente: poco prima “enormi bulldozer
avanzavano lungo le grandi arterie distruggendo la prima fila di capanne di fango, dalle quali il giorno
prima la polizia aveva scacciato gli abitanti. Poi squadre di muratori innalzavano un alto muro per
celare agli sguardi le capanne delle file posteriori”. In effetti, appena si esce dai viali, le abitazioni sono
quasi tutte costituite da capanne con i tetti di lamiera ondulata che, peraltro, avevamo già notato
dall’aereo.
“Relativamente nuova come città - brillante idea di Menelik, che bramava la propria capitale – Addis
Abeba era un insediamento che si stendeva disordinatamente a una notevole altitudine, con l’aspetto di
un grande villaggio dai tetti rugginosi sparpagliato su molte colline. Aveva cento anni ma era di una
decrepitezza senza tempo. Poco attraente da una certa distanza, da vicino era sporca e cadente,
puzzava orribilmente di esseri umani non lavati e di animali malridotti; tutti i muri mandavano fetore di
urina, tutti i vicoli erano ingombri di rifiuti” (Paul Theroux, Dark Star Safari).3 Probabilmente questo
giudizio dello scrittore americano è un po’ troppo severo; io ho trovato la città molto più piacevole di
tante altre capitali del terzo mondo. Quando Theroux parla di fetore di urina, probabilmente si riferisce
all’abitudine degli uomini abissini di mingere ovunque capiti, anche di fronte a tutti ed in pieno centro
cittadino. In proposito circola anche una storiella. Il presidente ugandese Museveni è in visita ufficiale e
dice all’omologo etiope Girma Wolde Giorgis: “Addis Abeba è proprio una bella città, però dovreste
far qualcosa per correggere questa deprecabile abitudine dei vostri cittadini di fare pipì dappertutto”.
Dopo un po’ di tempo Wolde Giorgis ricambia la visita, va a Kampala e vede un uomo orinare per
strada. Subito dà di gomito al suo primo ministro Meles Zenawi e gli dice: “Vedi, non è solo da noi che
c’è questa cattiva abitudine”. E l’altro, di rimando: “Ma come, non l’hai riconosciuto? Quello è
l’ambasciatore etiopico in Uganda”.
2
Ryszard Kapuściński, “Il Negus”, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2007.
3
Paul Theroux, “Dark Star Safari”, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2006.
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Tre immagini della casa provinciale dei Comboniani ad Addis Abeba
Tornando a noi, dopo esserci divincolati dal traffico che, per la verità, non è troppo caotico anche se è
abbastanza intenso e il cattivo odore dei gas di scarico è piuttosto forte, arriviamo finalmente alla casa
provinciale dei comboniani, una solida costruzione in pietra locale. Qui, incontro mio zio, Padre o meglio – Abba Silvio Mencarini, che non vedo da più di quindici anni. È vestito di bianco, più piccolo
di come lo ricordavo, curvo ed ossuto, i suoi gesti sono lentissimi e cammina altrettanto adagio
appoggiandosi ad un bastone, ma è autosufficiente, lucido di mente e, beato lui, riesce ancora a leggere
senza occhiali. Per lui, ottantacinquenne, che nel frattempo non ha più visto nessun altro familiare,
l’emozione deve essere sicuramente più forte della mia. Partì per l’Africa nel 1948. Ricordo l’ultima
volta che tornò in Italia, nei primi anni '90: aveva una valigia di cartone pressato, due camicie, una
addosso ed una nel bagaglio, due paia di pantaloni, due paia di calze e così via. Mi disse: “D’altra parte,
cosa ci fai con più?”.
Padre Silvio Mencarini
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Restiamo solo un giorno ad Addis Abeba. Fa caldo, anche se l’altitudine mitiga un poco il clima.
Visitiamo il museo nazionale che ha due calchi di Lucy. Le sue vere ossa non sono esposte al pubblico.
Fu chiamata così perché colui che la scoprì, in quel momento, stava ascoltando "Lucy in the sky with
diamonds" dei Beatles.
Un calco di “Lucy”, femmina di ominide alta 1,07 metri vissuta più di tre milioni di anni fa
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Dopo, andiamo nel quartiere Merkato, suddiviso in settori, in ognuno dei quali si vende una
determinata mercanzia. È enorme, probabilmente il mercato più grande di tutta l’Africa ma, nella
sostanza, non molto diverso da quelli di tante altre città del terzo mondo.
Poi ci prepariamo per la partenza del giorno dopo. In particolare, compriamo un po’ di provviste e
cambiamo da Padre Nicola un po’ di soldi. Fra l’altro, mi faccio dare una mazzetta di banconote da 1
birr (circa 7 centesimi di euro), che saranno utilissime per le elemosine, ed una di banconote da 10 birr,
altrettanto utili per le mance.
Sopra e nella pagina seguente: tre immagini del quartiere Merkato di Addis Abeba
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Secondo giorno
14 marzo 2008. Lasciamo la capitale di buon mattino. Puntiamo in direzione nord lungo la strada n. 3.
La meta finale della giornata è Bahir Dar, sul lago Tana. Alle 6,00 le strade sono già piene di gente che
cammina. Padre Nicola ha affittato per noi un’auto, una grossa Toyota a quattro ruote motrici, con
autista. L’auto ha due grandi serbatoi che le permettono una lunga autonomia ed è piuttosto comoda;
l’unico difetto è che non è provvista di aria condizionata.
La nostra auto
Il nostro autista è un bravo ragazzo di 28 anni, di nome Haimanot, non è sposato, vive ad Addis Abeba
assieme a 3 dei suoi 7 fratelli, non beve alcolici per principio e, normalmente, va a dormire fra le 9 e le
10 di sera. La sua guida è calma e sicura, parla inglese non molto bene e proprio per questo, siccome
anche il mio inglese è solo “di sopravvivenza”, ci capiamo benissimo. Saliamo fino a 3.000 metri di
quota, sulla collina di Entoto. Quassù, oltre a molta gente che raccoglie legna, vi sono anche diversi
atleti che si allenano: i fondisti etiopi sono i più forti del modo.
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Dopo la collina, la strada si fa più dritta ed attraversa zone più aride. Oggi ci aspettano parecchie
centinaia di chilometri, penso circa 600, ma fortunatamente la strada è stata recentemente rifatta dalla
cooperazione giapponese ed il fondo è asfaltato e molto buono.
Quello che ci fa più impressione è la quantità di gente in giro: chi trasporta acqua, chi legna, chi chissà
cosa e chi semplicemente cammina. “Gente di bell’aspetto e cenciosa, tanto altera quanto misera. Una
stirpe aristocratica che aveva impegnato l’argenteria di famiglia. Unica nell’Africa nera ad avere una
propria scrittura, l’Etiopia ha perciò una storia scritta e un forte senso del passato” (Paul Theroux,
Dark Star Safari).4
Gente per strada
Forse non c’è altro posto al mondo dove si possa vedere camminare così tanta gente. Queste persone
che si spostano a piedi saranno una costante di tutto il nostro viaggio, le troveremo lungo tutte le
strade, anche nei luoghi più impervi e remoti. Gli uomini hanno spesso un bastone lungo circa un
metro, lo adoperano per sostenere le braccia durante le marce o per appendervi un carico o per
appoggiarsi quando stanno in piedi, ma anche, come mi dice l’autista, per difendersi da bestie e da altri
uomini. Le portatrici di legna, dal canto loro, percorrono a piedi fino a 30 o più chilometri per
raccogliere fascine da vendere. Portano sulle spalle almeno 35 chili e riescono sì e no a guadagnare 10
euro al mese.
Di auto ne incontriamo invece pochissime, qualche altra Toyota, simile alla nostra, a volte con la scritta
di qualche agenzia dell’Onu. Anche gli autocarri sono rari e, per lo più, di marca Iveco. Le corriere
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Op. citata.
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sono chiamate dagli Abissini “Al-Qaida” perché, a loro dire, provocano almeno altrettanti morti che la
nota organizzazione terroristica.
Lungo la strada, le case sono normalmente di fango, con il tetto di lamiera ondulata. Quasi sempre,
vicino alla casa, c’è un cumulo di sterco secco di vacca che le famiglie adoperano per il fuoco.
Una deviazione di quattro chilometri dalla strada principale ci porta al monastero di Debre Libanos.
La stradina polverosa è popolata da moltitudini di pellegrini vestiti di giallo. È il principale monastero
della regione storica dello Scioa. Il monastero è stato fondato nel XIII secolo, ma la chiesa attuale è
stata fatta costruire nel 1961 da Hailé Selassié, in uno stile monumentale ed un po’ kitsch. Qui, fra il 20
ed il 27 maggio 1937, per ordine di Graziani, gli Italiani fucilarono 449 persone, fra monaci, diaconi e
civili.
La chiesa del monastero di Debre Libanos
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Il Nilo Azzurro
Riprendiamo il viaggio e, a circa 200 chilometri da Addis Abeba, arriviamo al Nilo Azzurro. Con una
lunga serie di tornanti, la strada scende nell’aspra scarpata, per un dislivello superiore a 1.000 metri, per
raggiungere il fiume, sul quale i Giapponesi stanno costruendo un nuovo ponte in sostituzione del
vecchio ponte italiano. Su quest’ultimo (non so perché, dato che non sembra pericolante e oltretutto ci
passano sopra anche le autocisterne) è permesso inoltrarsi ad un solo autoveicolo per volta. Proprio
qui, ed è strano visto lo scarsissimo traffico, incontriamo un’altra auto proveniente dal senso opposto e
dobbiamo aspettare un minuto o due. Passiamo il fiume, che oggi segna il confine fra lo Stato degli
Oromo e quello degli Amhara, mentre in passato era il confine fra le regioni storiche dello Scioa e del
Goggiam.
Riguadagniamo rapidamente il dislivello perduto e, non molto tempo dopo, arriviamo a Debre Markos,
cittadina natale del nostro autista, il quale ci invita ad una cerimonia del caffè a casa della madre, che
vive ancora lì. L’invito a partecipare ad una cerimonia del caffè è un segno di amicizia e di rispetto e,
quindi, non possiamo certo rifiutare. Mentre viene bruciato dell’incenso, vengono tostati in una padella
i chicchi del caffè che, una volta pronto, viene servito in tazze piccole come le nostre da espresso, con
almeno tre cucchiaini di zucchero. Bisogna bere almeno tre tazze, perché la terza è quella che porta
fortuna.
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Cerimonia del caffè
Lasciamo una piccola mancia e andiamo a mangiare nell’unico hotel della cittadina, lo Shebel. Vado in
bagno per lavare le mani, ma il cattivo odore è orribile e non c’è acqua. Quasi dappertutto in Etiopia
cucinano anche pasta, forse un retaggio della breve permanenza italiana. Mangiamo un piatto di
spaghetti scotti ed una specie di cotoletta alla milanese completamente bruciata, la birra è invece
ottima. Il nostro autista mangia injera. È il più tipico dei piatti etiopici e lui dice che è così buona che
non potrebbe stare un giorno intero senza mangiarla. Si tratta di una specie di piadina morbida o crêpe,
credo fatta con farina di miglio. La assaggiamo, ma non condividiamo il giudizio dell’autista, bensì ci
accodiamo a quello che di Paul Theroux in Dark Star Safari: “freddo, umido e gommoso, più simile a
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un tappetino da bagno intriso d’acqua che a una crêpe”.5 Comunque, in tre, non arriviamo a spendere
10 euro.
Riprendiamo il viaggio. Ci fermiamo solo un’altra volta, a Dangla, dove - in un lurido motel dietro un
distributore – beviamo una birra. Arriviamo a Bahir Dar attorno alle 17,00. La città ha circa 160.000
abitanti ed è la capitale dello stato degli Amhara. L’altitudine resta piuttosto elevata, attorno ai 1.8001.900 metri. Bahir Dar è distesa sulle rive del Lago Tana, ha la pretesa di essere una località turistica e,
in effetti, è abbastanza graziosa e dispone di diversi alberghi. Si dice che Hailé Selassié, negli anni ’60,
abbia accarezzato l’idea di trasferirvi addirittura la capitale.
Fortunatamente troviamo posto nell’albergo in testa alla nostra lista: il Summerland Hotel. Non hanno
singole disponibili e ci assegnano una camera doppia. L’albergo è nuovo, ma gli Etiopici dovranno fare
ancora qualche sforzo per raggiungere gli standard internazionali. Non c’è ascensore, e non ne
troveremo mai neanche negli alberghi successivi, per cui ci rallegriamo che la nostra camera sia al
primo piano, non sapendo ancora che c’è anche il ristorante. Verremo svegliati alle 5,30 del mattino
dallo starnazzare delle cuoche. La struttura triangolare della camera copia quella che poi scopriremo
essere tipica della catena statale Ghion. Per fare la doccia dobbiamo aspettare, perché per l’acqua c’è
uno scaldabagno dell’Ariston che troviamo staccato. L’Ariston fa buoni affari in Etiopia, troveremo i
suoi scaldabagni anche in tutti gli alberghi successivi. Un’altra “invenzione” che sarebbe stata comoda e
non abbiamo mai trovato è quella dell’aria condizionata.
Comunque, una volta ripuliti e dopo aver spruzzato insetticida nella stanza, usciamo ed andiamo a bere
una birra sul lago, al Mango Park, frequentato da famiglie e studenti. Qui una birra costa circa 40
centesimi di euro, durante tutto il nostro giro la troveremo a prezzi compresi fra i 20 ed i 50 centesimi.
Ceniamo al nostro hotel, cucina internazionale senza infamia né lode. Poi, andiamo a fare due passi, ma
prima delle 11,00 siamo già a letto.
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Op. citata
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Terzo giorno
15 marzo 2008. Noleggiamo una barca ed andiamo a visitare alcuni dei conventi del Lago Tana. Uno
dei più belli, posto su un’isola, è il Kebran Gabriel, il cui ingresso è vietato alle donne.
Giorgio, Haimanot e Romano
Isole sul Lago Tana
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Il molo del Kebran Gabriel, sopra, e l’ingresso al monastero, sotto
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Il Kebran Grabriel, sopra, ed un codice miniato (forse del XIV secolo), sotto
L’edificio principale è
del XVII secolo, ha un
portico a 12 colonne e,
all’interno, alcuni bei
dipinti. In una capanna
vicina alla chiesa, i
monaci hanno allestito
un minuscolo museo
con molte croci ed
alcuni antichi codici
miniati in pergamena.
Contemporaneamente a
noi arriva anche un
ragazzo di colore, di
bell’aspetto e benvestito.
Come mi dirà in seguito,
si tratta di uno studente
di Addis Abeba in visita,
anche lui per la prima
volta, ai conventi del
lago. Mi è molto utile
perché l’inglese del
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monaco che fa da guida al piccolo museo è molto approssimativo e, quando lo studente si accorge che
sono in difficoltà a capire, si fa spiegare in amarico e traduce in inglese a mio vantaggio. A mia volta, io
traduco in italiano per Romano. “Che bello – dice – ho una guida, un interprete ed un traduttore, tutti
a mia disposizione”. Le croci che ci mostrano sono di diverse tipologie, praticamente ogni città etiopica
ne ha una diversa. La più bella è quella di Gondar, è composta da 33 piccole croci, a rappresentare gli
anni di Cristo, 12 delle croci, gli apostoli, sono un po’ sporgenti e 3 croci più grandi, anch’esse
sporgenti, simboleggiano la Trinità. I codici miniati qui li trattano con una certa cura, il monaco li
estrae da un armadio, dove vengono conservati avvolti in un panno. Mi fanno prendere una foto senza
flash del più antico, risalente – dicono - al XIV secolo (ma io ne dubito).
Visitiamo altri due monasteri, l’Ura Kidane Meret ed il Debre Maryam. I monasteri si assomigliano un
po’ tutti. Sono a pianta circolare, con il tetto conico, un po’ come dei grandi tucul. Di norma hanno
anche un porticato esterno e le pareti affrescate, oppure decorate da grandi dipinti su tavola. I dipinti
hanno quasi sempre carattere didattico, come ho già visto anche nei monasteri ortodossi europei. Ed è
normale che, in passato, per raccontare qualcosa a gente che raramente sapeva leggere, fossero usate le
immagini. Così, oltre alle tematiche tipiche dell'iconografia cristiana come le crocifissioni o le madonne,
si trovano molti racconti delle gesta di santi locali: da quello che addomesticava enormi serpenti a
quello che uccise una balena, la quale stava per distruggere una chiesa con la coda. Non manca quasi
mai San Giorgio, il protettore dell’Etiopia, nell’atto di trafiggere il drago. Una cosa curiosa è che si
distinguono immediatamente i buoni dai cattivi, infatti i primi sono rappresentati frontalmente, mentre
i secondi sono di profilo.
Il Debre Maryam
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Nell’ultimo monastero, il Debre Maryam, un monaco ci mostra un paio di antichi codici miniati,
trattandoli malamente: se li mette sulle ginocchia e li apre come se avesse in mano una fisarmonica.
Fuori dal convento, lo studente di Addis Abeba – che incontriamo nuovamente – ci fa notare una
coltivazione di chat; ne mettiamo in bocca qualche foglia che risputiamo poco tempo dopo.
Un monaco, al Debre Maryam, ci mostra un antico codice miniato
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Sul lago, vicino al Debre Maryam, c’è
la sorgente del Nilo Azzurro che –
partendo da qui – percorrerà 5.223
chilometri prima di arrivare al
Mediterraneo. Vediamo anche qualche
tankwa,
sottili
imbarcazioni
tradizionali costruite con papiro
intrecciato, e in lontananza la testa di
un ippopotamo.
Due Tankwa
Torniamo a Bahir Dar e ci fermiamo
un po’ nel suo porticciolo. È un vero
spettacolo.
Da
un
traghetto
arrugginito sbarca una variopinta folla,
probabilmente diretta verso qualche
mercato. Sulla banchina giace ogni
genere di mercanzia. Scaricatori
malvestiti trasportano grandi sacchi
sulla propria testa o servendosi di
carretti tirati da muli, che vengono
frustati senza alcuna pietà.
Sbarco al porticciolo di Bahir Dar
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In queste pagine: immagini del porticciolo di Bahir Dar
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Avvicinandosi l’ora di pranzo, andiamo al Bahir Dar Hotel, che ha un popolarissimo ristorante nel
cortile interno. Mangiamo un’ottima cotoletta di un pesce non meglio identificato, accompagnata da
birra St. George, della quale siamo ormai diventati grandi estimatori.
A pranzo al Bahir Dar Hotel e, sotto, la famosa injera
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Sopra e sotto: dintorni di Bahir Dar
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In queste pagine: verso le cascate Tis Isat
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Giorgio, Haimanot e Romano davanti alle cascate Tis Isat, sul Nilo Azzurro
Il pomeriggio andiamo verso le cascate del Nilo Azzurro, Tis Isat, che letteralmente significa “acqua
che fuma”. Per arrivarci bisogna percorrere 32 chilometri di una strada polverosissima e, come al
solito, affollatissima di gente a piedi che trasporta di tutto.
Una volta arrivati al fiume, dobbiamo attraversarlo e noleggiamo una barca a motore, mentre i locali si
ammassano su barche mosse con delle pertiche. Poi, per arrivare alle cascate, si percorre per circa un
chilometro un sentiero, stando attenti a non pestare le numerose cacche di vacca.
Le cascate una volta erano imponenti, avevano un’ampiezza di 400 metri e precipitavano da un dirupo
alto 37 metri. Poi, a monte è stata costruita una diga idroelettrica e, oggi, sono molto più strette e anche
il salto si è un po’ ridotto, a 29 metri. Le cascate sono, comunque, belle. La cosa più attraente è la
mancanza di una qualsiasi attrezzatura turistica.
Torniamo, in città. Doccia, aperitivo, cena, passeggiata e di nuovo a letto prima delle 11,00. Vita sana,
non c’è che dire.
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Quarto giorno
16 marzo 2008. Il mattino partiamo verso Gondar. Sono meno di 200 chilometri di strada tortuosa, ma
con il fondo asfaltato.
Sulla strada per Gondar e, sotto, mercato del bestiame
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Gondar ha 150.000 abitanti ed è una bella città, rovinata solo dai troppi tetti di lamiera ondulata.
L’altitudine è superiore ai 2.000 metri e la città è libera dalle zanzare. Per più di un secolo, a cavallo fra
il 1600 ed il 1700, fu la capitale dell’impero. Prendiamo alloggio al Goha Hotel, della catena statale
Ghion, in una splendida posizione su una collinetta che domina la città. Prendiamo due singole. Le
camere sono simili a quelle dell’albergo di Bahir Dar, un po’ più logore, ma molto più caratteristiche.
Il palazzo di Fasiladas
Iniziamo la visita dal recinto imperiale. Per 150 birr (poco più di 10 euro) ingaggiamo una guida per
l’intera giornata. La maggior parte dei castelli è stata restaurata o è in corso di restauro, a cura
dell’Unesco. Entriamo dalla porta della principessa e arriviamo in una spianata dominata dal Palazzo di
Fasiladas, del XVII secolo. Alto 32 metri, è il più antico dei castelli, ha un parapetto merlato e quattro
torrette a cupola. Si dice che fu progettato da un architetto indiano ed è un miscuglio di stili, con
influenze appunto indiane, portoghesi, moresche e aksumite. Sulla sinistra, guardando al palazzo, c’è la
biblioteca di Giovanni I°, figlio di Fasiladas e, di fronte, l’archivio di quest’ultimo, sventrato dai
bombardamenti inglesi del 1941, ma ancora bello con il suo parapetto merlato e le finestre a volta; la
guida dice che un tempo era sfarzoso, decorato d’avorio.
Dietro il palazzo di Fasiladas, c’è una grande cisterna che serviva a raccogliere l’acqua piovana. Un po’
più in là, dietro la biblioteca, sono le rovine del palazzo di Iyasu I°, figlio di Giovanni e più importante
sovrano dell’epoca di Gondar. Anche questo palazzo fu rovinato dai bombardamenti. Di fronte c’è la
sala dei banchetti. Proseguendo verso Nord, si incontra la casa del canto dell’imperatore Dawit, divisa
in due, una metà per le musiche sacre e l’altra metà per quelle profane.
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La biblioteca di Giovanni I
L’archivio di Fasiladas
33
Il palazzo di Iyasu I
34
La sala dei banchetti con, sullo sfondo, il palazzo di Fasiladas
La casa del canto dell’imperatore Dawit, a sinistra, e la casa dei leoni, a destra
35
Le scuderie e la sala dei banchetti di Bakaffa
Vicino alla casa del canto, c’è la casa dei leoni. Ce n’erano due esemplari fino al 1992. I leoni sono il
simbolo degli imperatori etiopici ed era loro uso tenerne qualcuno a portata di mano. Anche Hailé
Selassié ne aveva nel parco del suo palazzo ad Addis Abeba. Dawit morì avvelenato nel 1721 e gli
succedette Bakaffa, che fece erigere un enorme sala dei banchetti e delle grandi scuderie, dove i
feudatari potevano lasciare le loro cavalcature quando si recavano dal loro imperatore per ossequiarlo e
pagargli i tributi. Poi c’è un bagno turco e la palazzina di Mentewab, moglie di Bakaffa, dove oggi è
stato sistemato un negozio di souvenir, il cui ricavato va per il restauro dei castelli. Siccome ho lasciato
il mio in un monastero del Lago Tana, compro – per un controvalore di circa 3 euro e mezzo - un
cappello di cuoio a larghe tese, a causa del quale i locali mi apostroferanno a volte come “cow-boy”,
termine che si alternerà a quello, più comune, di farangi. Gli etiopici chiamano farangi tutti gli stranieri
di pelle chiara. La parola deriva da franco, francese. Si diffuse probabilmente a partire dalle crociate del
XII secolo, addirittura fino all’Asia sudorientale (farang in Thailandia, feringhi in Malaysia).
Ci spostiamo in auto, a circa due chilometri dalla città, per visitare i bagni di Fasiladas. Qui c’è un
piccolo edificio, che era la residenza estiva del sovrano, ed una grande piscina. Viene riempita una volta
l’anno, il 19 gennaio, per la festa del Timkat, rievocante il battesimo di Cristo. Un sacerdote benedice
l’acqua e poi la folla prende d’assalto la grande vasca. La guida ci dice che i ragazzini usano tuffarsi dai
grandi alberi, le cui radici affondano nei muri in pietra che circondano la piscina e che mi ricordano
quelle dei templi di Angkor Thom, in Cambogia. Vicino ai bagni, in un prato recintato, c’è il mausoleo
di Zobel, cavallo dell’imperatore.
36
I bagni di Fasiladas, sopra, e radici sulle mura che circondano la piscina, sotto
37
Su consiglio della guida andiamo a mangiare in un ristorante molto tipico, con tetto di paglia, mobili in
giunco ed anatre che gironzolano per il locale. Ordiniamo “lamb tips”, agnello sminuzzato in pezzetti
molto piccoli. Loro vorrebbero che lo mangiassimo con le mani e fatichiamo un po’ per farci portare le
forchette. È buonissimo e l’insaziabile Romano fa doppia razione.
Pulizia delle mani, sopra, lamb tips, sotto a sinistra, e injera, a destra
38
Dopo pranzo, ci aspetta la visita alla chiesa di Debre Berhan Selassie, letteralmente “Monte di luce
della Trinità”. Fu costruita intorno al 1690 da Iyasu I°. È circondata da un grande muro con 12 torri, in
rappresentanza dei 12 apostoli, più una torre più grande simboleggiante Gesù. Con un grande tetto di
paglia, la chiesa all’interno è completamente affrescata. I dipinti sulle pareti sono di ottima fattura,
mentre non ci impressionano molto le tanto decantate 104 facce di angioletti che costellano il soffitto.
Molto bello invece un grande diavolo, intento nella punizione di alcuni dannati. Mi stupisce il fatto che
sia rappresentato di fronte poiché,
essendo “cattivo”, dovrebbe essere di
profilo. Chiedo spiegazioni alla guida
e ricevo la risposta, non molto
convincente, che essendo nota a tutti
la malvagità del diavolo, non c’era
alcun bisogno di sottolinearla. Io,
invece, propendo per una spiegazione
più teologica: in quel momento il
diavolo è uno strumento della
giustizia divina e pertanto, come
esecutore della sua volontà, non deve
essere annoverato fra i cattivi. Molto
belle, sulla parete a sinistra
dell’entrata, anche le raffigurazioni di
molti santi e cavalieri cristiani
nell’atto di trafiggere infedeli e bestie
immonde.
Il recinto della Debre Berhan Selassie
La torre di “Gesù”, nel recinto della Debre Berhan Selassie
39
La chiesa di Debre Berhan Selassie
Affreschi all’interno della chiesa di Debre Berhan Selassie
40
Terminata la visita e licenziato il nostro cicerone, abbiamo voglia di prendere un buon caffè. La guida
Lonely Planet6 segnala l’Abyssinia Cafè come un “classico caffè italiano nel cuore della piazza, che è
come un salto nel passato. Il caffè è ottimo e la birra costa poco”. Siccome il nostro autista non lo
conosce, cominciamo a chiedere in giro. Nessuno sa dove sia. Un bambino, si badi bene interrogato
dall’autista in amarico non da me in inglese, ci porta addirittura all’Abyssinia Bank. Quando finalmente
troviamo il caffè, capiamo il perché di tanta ignoranza: si tratta di un trasandato localino di due metri
per quattro, con un’insegna piccolissima, che di italiano ha solo il piccolo ed antiquato bancone. Anche
il caffè non è un granché.
Essendo ancora alle prime ore del pomeriggio, decidiamo di andare a Wolleka, un villaggio falascia a 6
chilometri da Gondar. Più che di strada, si tratta di 6 chilometri di pista. I falascia sono gli ebrei
d’Etiopia. Quando il cristianesimo divenne la religione di stato, i falascia rifiutarono di convertirsi e,
perciò, gli furono confiscate le terre. Dovendo cambiare lavoro, divennero abili artigiani: quelli di
Wolleka erano famosi per la ceramica. Dal 1985 al 1991 molti ebrei sono emigrati in Israele. Oggi,
Wolleka è un insignificante villaggio, polveroso oltre ogni umana immaginazione, ove si producono
insulsi ninnoli di ceramica per i rarissimi turisti che si spingono fino a lì. Torniamo in hotel. Dopo una
bella doccia ristoratrice, andiamo nel giardino terrazzato dell’albero, dal quale si gode di un bel
panorama sulla città. Dopo un po’ veniamo “disturbati” da tamburi, urla e canti. Si tratta di un
matrimonio. Il baccano, però, dura solo un quarto d’ora. Dopo, gli sposi e la cinquantina di ospiti si
siedono e continuano i “festeggiamenti” bevendo mestamente aranciata e pepsi-cola. Passata un’oretta,
se ne vanno in silenzio.
Un matrimonio al nostro hotel a Gondar
6
Matt Phillips, Jean-Bernard Carillet, “Etiopia e Eritrea”, EDT, Torino, 2007.
41
Ancora il matrimonio
Nel giardino terrazzato del Goha Hotel di Gondar
42
Per il dopo cena, abbiamo un appuntamento con l’autista che ci porterà a vivere le folli notti di
Gondar. Sembra proprio che, per gli Etiopi, il massimo del divertimento siano gli azmari. Si tratta di
menestrelli, che compongono sul momento canti e battute su fatti di attualità o sulle persone presenti.
L’azmari si accompagna con un masenko, una specie di violino con una sola corda, e c’è sempre
insieme a lui una ragazza che balla l’iskita, alzando ed abbassando le spalle e spostandole avanti e
indietro, mentre i fianchi e le gambe restano fermi. La coppia è accompagnata da una terza persona che
suona un tamburo, per segnare il ritmo. Il pubblico esprime il proprio apprezzamento andando a
ballare di fronte alla ragazza e appiccicando banconote sulla fronte sudata dell’azmari o della stessa
ballerina, o lasciandola cadere nel piattino di fianco al tamburo. Il nostro autista si diverte come un
pazzo e noto che anche lui lascia mance, sicuro segno che non si tratta di una finzione a nostro uso e
consumo. Sta di fatto, però, che noi – non capendo una parola di quello che dicono – dopo un po’ ci
annoiamo. Torniamo in albergo e, non volendo certo perdere le buone abitudini appena acquisite,
anche stanotte andiamo a letto prima delle 11,00.
Una ballerina e, dietro, un azmari
43
Sopra e sotto: anche noi ci lanciamo nelle danze
44
Quinto giorno
17 marzo 2008. Riprendiamo la strada n. 3, verso Aksum. La tappa è di 270 chilometri, ma si tratta di
strada di montagna, oltretutto non asfaltata. Infatti, impiegheremo almeno 10 ore a percorrerla. La
strada è scomoda ma, in compenso, è ricca di vedute mozzafiato sui Monti Simien e il parco nazionale
che li circonda, con molte vette che superano i 4.000 metri ed il Ras Dashen che si spinge fino a 4.590
metri.
Attorno alle 10,00 ci fermiamo a Debark, uno dei pochi centri abitati degni di questo nome lungo la
strada, al Simien Park Hotel, luogo senza troppe pretese. Ad un tavolo del cortile c’è un occidentale sui
65 anni, accompagnato da una prosperosa ragazza di colore. Ci saluta con un “good morning” e
sembra un po’ stupito di incontrare altri bianchi in quel posto. Scopriremo poi che si tratta di un
americano di Jackson, nel Wyoming. Non avevo mai conosciuto un americano del Wyoming e,
sinceramente, anch’io mostro un certo stupore per averlo incontrato proprio in mezzo all’Africa. Io
prendo solo un caffè, mentre Romano si fa un bel panino con frittata. E fa bene, perché lungo il
percorso non troveremo altri posti per mangiare.
Ingresso a Debark
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A Debark
Ancora a Debark
46
Sempre a Debark
Sulla strada verso i Monti Simien
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Bambina sulla strada verso i Monti Simien
La strada fra Debark e Adi Arkay è veramente spettacolare, con le montagne che sembrano
un’ininterrotta serie di guglie, pinnacoli e imponenti torrioni. Certo, i tornanti della vecchia strada
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italiana, scavati nella roccia e spesso non protetti da alcun parapetto, non sono i più indicati per chi
come me soffre di vertigini. Osservando le tante montagne brulle, seppur pittoresche, anche se l’autista
ci dice che durante la stagione delle piogge diventano tutte verdi, si capisce meglio cosa intendeva dire
Winston Churchill quando, in riferimento all’avventura imperiale italiana, parlò di “regioni che in
quattromila anni nessun conquistatore giudicò mai valesse la pena di sottomettere”.
Fra le case tradizionali, vediamo sempre più tucul. Si tratta di piccole abitazioni circolari con le pareti di
fango ed il tetto di paglia o, i più “moderni”, di lamiera. In genere non ci sono finestre. Spesso dentro
la stessa abitazione, vivono sia la famiglia, a destra, che gli animali, a sinistra. In seguito, a Lalibela,
vedremo addirittura dei tucul a due piani.
I Monti Simien
Ad un cero punto, siamo bloccati da un incidente. La strada è totalmente occupata da un vecchissimo
carro attrezzi Mercedes che sta tentando di rimettere in carreggiata un camion Iveco, a nostro avviso
senza alcuna speranza di farcela. Infatti, dopo mezz’ora, desistono e finalmente il carro attrezzi si
sposta e ci lascia passare. Gli lasciamo una bottiglia d’acqua, visto che le quattro persone che son lì
sembrano tutte mezze morte di sete, e proseguiamo.
49
Sopra e sotto: incidente sulla strada
50
La discesa verso il fiume Tekeze
Per una tortuosissima strada
di terra rossa, con la polvere
che penetra dappertutto,
scendiamo verso il fiume
Tekeze, dove passa il confine
fra lo Stato degli Amhara ed
il Tigray.
“Villini” sul fiume Tekeze
51
Fanciulla
Quando torniamo sopra i 2.000 metri ed il caldo diminuisce, essendo pomeriggio ormai inoltrato,
siccome la fame si fa sentire e, previdenti, abbiamo pane e marmellata, ci fermiamo sotto un albero per
un picnic. Dal niente, sbucano 5 o 6 bambini ed un adulto. Sentendoci un po’ osservati, smettiamo di
mangiare e regaliamo loro il barattolo di marmellata. L’adulto la distribuisce equamente ai bambini,
direttamente sulle mani, e poi con un dito cerca di raccogliere dal barattolo i rimasugli. Temiamo che,
non essendoci traccia d’acqua in giro, a tutti resteranno le mani leggermente appiccicose.
52
In questa pagina: dopo la distribuzione della marmellata
53
Arriviamo ad Aksum al tramonto. È una città di 40.000 abitanti a 2.100 metri di altitudine e, dalle
poche luci che vediamo, la giudicheremmo ancora più piccola, sembra più un villaggio che una città.
Prendiamo due camere al Yeha Hotel, della medesima catena statale dell’albergo di Gondar; gli è simile
in tutto. Dopo cena, per cercare di tirare almeno fino alle 11,00 ci fermiamo al bar dell’albergo,
bevendo gin ed araki, la grappa locale al sapore di anice. Iniziamo a conversare con il barista. Non so a
che età si vada in pensione in Etiopia, ma penso che il nostro barista ci sia vicino e cioè che, se non ha
sessant’anni o più, ne abbia almeno 57 o 58. Quindi ci rimango male, quando parlando di Hailé Selassié
affermo che penso che lui se lo ricordi bene e quello, di rimando, risponde che lo ricorda poco perché,
quando è morto, aveva solo 8 anni. Quindi, visto che l’imperatore è stato deposto e ucciso nel 1974,
deduco che il nostro barista di anni ne ha solo 42. Comunque, alle 10,30 chiude il bar e se ne va a casa
e noi capiamo che si è fatto tardi ed è ora di andare a dormire.
54
Sesto giorno
18 marzo 2008. Il mattino ci alziamo ovviamente presto e, dalla terrazza dell’albergo, abbiamo modo di
osservare bene la città. È veramente dimessa e sembra impossibile che questo villaggio pieno di polvere
sia stato la capitale di un impero per 1.200 anni. Quando arriva l’autista, scendiamo in città, ingaggiamo
una guida e siamo pronti ad iniziare le visite. Cominciamo dal parco delle stele settentrionali. Le stele
sono state ricavate da blocchi unici di granito. La grande stele è quella che mi ha impressionato di più.
Alta 33 metri, è il singolo blocco di pietra più grande che l’uomo abbia mai tentato di erigere. Cadde
1.600 anni fa e, dopo di lei, ad Aksum non è stata più eretta nessun’altra stele. Considerando che si era
agli inizi della penetrazione cristiana, è credibile che questo disastro abbia contribuito alla fine del
paganesimo ed alla conversione della popolazione al cristianesimo. In questo caso, non si può certo
escludere che la caduta sia il frutto di un sabotaggio. Cadendo, la stele si è abbattuta contro l’enorme
pietra di 360 tonnellate che copre la tomba di Nefas Mawcha, facendone crollare la camera centrale.
La grande stele
55
La più alta è la stele di re Ezana
La stele più alta attualmente in piedi è
quella di re Ezana, con i suoi 24 metri,
visto che la stele di Roma – di poco più
grande - è ancora tagliata in tronconi e
impacchettata, anche se è ormai pronto il
basamento sul quale dovrà essere eretta.
Oltre alla tomba di Nefas Mawcha, nel
parco delle stele settentrionali ci sono la
tomba degli archi di mattoni e quella
della finta porta, la quale prende il nome
dalla grande lastra di pietra sulla quale è
incisa, appunto, una porta. Abbastanza
interessante è anche il piccolo museo,
con alcune iscrizioni risalenti a 2.500
anni fa e vari reperti rinvenuti nelle
tombe, oltre a monete risalenti al
periodo fra il IV ed il VI secolo dopo
Cristo.
Un angolo del parco delle stele settentrionali
56
Prima di proseguire ci fermiamo in un bar, dove possiamo ammirare un grande schermo TV a 16:9,
ove viene trasmesso il dibattito parlamentare intorno al report semestrale governativo sullo stato del
Paese, che rivedremo anche in albergo e durerà fino a tarda notte. Non capiamo cosa stiano dicendo,
ma ammiriamo l’energia del presidente del parlamento, una bella signora sulla sessantina.
La chiesa di Enda Iyesus, in un angolo del parco delle stele settentrionali
Su una collinetta a 2 chilometri dalla città, si trovano
le tombe dei re Kaleb e Gebre Meskel, del VI secolo,
con lavorazioni della pietra molto raffinate.
Scendendo ci fermiamo davanti ad una baracchetta e,
con una piccola mancia al custode, possiamo vedere
la famosa iscrizione di re Ezana. È stata paragonata
all’egiziana stele di Rosetta ma, naturalmente, la sua
importanza è di molto inferiore. Fu trovata
casualmente da un contadino nel 1981; è in tre lingue:
sabeo, ge’ez e greco. Commenta le campagne militari
cristiane del re. Forse è stata lasciata lì perché
contiene anche una maledizione: chiunque la sposti
andrà incontro a morte prematura.
Una croce all’interno della tomba di re Kaleb, chiaro segno di cristianizzazione
57
La tomba di re Kaleb
Un esempio di strada etiopica: la discesa dalle tombe dei re Kaleb e Gebre Meskel
58
L’iscrizione di re Ezana
59
I bagni della regina di Saba
I bagni della regina di Saba altro non
sono che un grande serbatoio, ancora
oggi utilizzato per prendere acqua e
lavare i panni. In realtà, la vasca è
posteriore di circa mille anni all’epoca
in cui dovrebbe essere vissuta la
mitica regina. Di epoca altrettanto
posteriore sono anche i resti del
cosiddetto palazzo della regina di
Saba. Di fronte a quest’ultimo, c’è il
parco delle stele di Gudit, più piccole
di quelle situate in città e non
decorate. La mattinata volge al
termine ma, prima di pranzo,
vogliamo ancora fare un paio di
visite.
I resti del palazzo della regina di Saba
60
Il parco delle stele di Gudit
61
La tomba di re Bazen risale all’epoca di Cristo, non è lavorata ma la scala d’ingresso scavata nella roccia
è piuttosto suggestiva. Dietro la tomba vi sono una serie di altre camere funerarie, simili a loculi,
sempre scavate nella roccia.
L’ingresso alla tomba di re Bazen
62
Nel giardino di re Ezana, vicino al centro della città, dentro un tucul con il tetto in lamiera, vi è un’altra
iscrizione, sempre trilingue, ove si ringrazia il dio della guerra. Pertanto l’iscrizione è precedente alla
conversione al cristianesino di Ezana.
L’iscrizione nel giardino di re Ezana
63
Il monastero Abba Pentalewon
Mentre andiamo verso il ristorante, ammiriamo la splendida posizione del monastero Abba
Pentalewon, su un pinnacolo che era già ritenuto sacro in epoca pagana. Dopo pranzo, ci rimane da
visitare la chiesa di Santa Maria di Sion. Axum è la città sacra dell’Etiopia e in questa chiesa venivano
incoronati gli imperatori. Più che di una chiesa si tratta di un complesso: c’è la chiesa nuova, quella
antica e la cappella che contiene l’arca dell’alleanza. Cominciamo dalla chiesa nuova, fatta costruire da
Hailé Selassié negli anni ’60. Si dice che, nel 1965, la regina Elisabetta d’Inghilterra doveva recarsi in
visita ufficiale in Etiopia ed, essendo nella chiesa antica vietato l’ingresso alle donne, il negus ricorse
all'espediente di costruire questa nuova cattedrale. Anche questa costruzione, come le altre volute da
Hailé, ha uno stile monumentale, con una grande cupola ed un enorme campanile. Mentre passo dalla
chiesa nuova a quella antica, vado verso il piccolo padiglione in cui è contenuta l’Arca dell’Alleanza, per
prendere una foto dall’esterno. Vengo immediatamente sgridato da un monaco, sembra che si potrebbe
rimanere fulminati solo ad avvicinarsi troppo. Ma deve essere che Dio colpisce solo i bianchi, visto che
io vengo tenuto ad almeno 100 metri, mentre un abissino – come documentato da una mia foto –
arriva fin proprio davanti al cancello del piccolo recinto. La chiesa antica è stata ricostruita da re
Fasilidas nel 1665, dopo che la vecchia chiesa – probabilmente del IV secolo – era stata distrutta dal
1535 dagli islamici di Gragn Mancino. Già l’esterno della chiesa, a pianta rettangolare, è molto bello ma
ancora di più mi piacciono gli affreschi dell’interno, in particolare le due madonne, quella bianca e
quella nera, ed il ciclo che racconta la storia di non so quale santo che convertì un leone.
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La chiesa nuova di Santa Maria di Sion
Il padiglione dell’Arca dell’Alleanza
65
La chiesa antica di Santa Maria di Sion
Il cortile di di
Santa Maria di Sion
66
Un grande sicomoro
La leggenda del santo che
addomesticò un leone,
affresco all’interno della
chiesa antica di Santa
Maria di Sion
67
In queste pagine: la Madonna bianca e la Madonna nera, affreschi all’interno della chiesa antica
di Santa Maria di Sion
68
69
Congedata la guida, prima di tornare in hotel abbiamo il tempo di fare un giretto in città, bere una
birra, osservare i ragazzi uscire da scuola, studiare i movimenti di minibus e minitaxi, vedere la pioggia
che, però, purtroppo per loro, non dura neanche tre minuti. E vorrei sprecare due parole sulle
osservazioni di cui sopra. I ragazzi escono da scuola il tardo pomeriggio non perché ci sia il tempo
pieno, ma perché le aule sono poche e ci sono i turni. Ogni scuola, o college come li chiamano qui un
po’ pomposamente, ha la sua divisa e, da lontano, i ragazzini sembrano eleganti, ma da vicino le divise
sono lise e sdrucite. Riguardo ai mezzi di trasporto, in città si usano minibus, taxi e minitaxi, tutti con i
caratteristici colori bianco e azzurro. I taxi li abbiamo visti in buon numero solo ad Addis Abeba e
sono quasi tutti vecchie Lada, ovvero le nostre Fiat 124 degli anni ’70; una corsa abbastanza lunga
costa circa 3 euro. I minitaxi sono motocarri, i nostri apetti; possono trasportare al massimo due
persone e costano circa la metà dei taxi più grandi. I minibus circolano in continuazione e l’aiutante
dell’autista, sporgendosi dal finestrino, grida forte la direzione; una corsa costa da 3 a 10 centesimi di
euro. Passando infine alla pioggia, questa dovrebbe essere la stagione delle “piccole piogge”, ma
quest’anno è più arido del solito.
Uscita da scuola ad Aksum
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Minitaxi e minibus ad Aksum
Bambino di Aksum
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Torniamo in albergo e convinciamo l’autista a restare a cena con noi, poi noi ci fermiamo al bar,
mentre lui - astemio – torna alla sua pensione. Una cosa che non ho finora detto: chi si accontenta può
trovare da dormire spendendo uno o due euro a notte. Alberghi lussuosi ci sono solo ad Addis Abeba,
l’Hilton e lo Sheraton, mentre nelle altre città ci sono quelli che la guida Lonely Planet chiama di
“prezzi medi”. Noi, scegliendo il miglior albergo di ogni località, spendiamo circa 25 euro in camera
singola, scegliendo la camera doppia si andrebbe attorno ai 15 euro a testa. La colazione non è mai
compresa, ma una “continentale” costa un euro o poco più.
72
Settimo giorno
19 marzo 2008. Ci aspetta una tappa di circa 200 chilometri, fino a Macallè, non troppo lunga ma,
specialmente nella prima parte, piuttosto pesante per le condizioni della strada. Dobbiamo fare gasolio.
I giorni scorsi abbiamo già fatto il pieno una volta senza difficoltà, ma oggi l’impresa non è facile.
Sembra che i 4 o 5 distributori di Aksum abbiano tutti finito il carburante; ne troviamo uno, ma
davanti a noi c’è un camion che prosciuga gli ultimi litri. Haimanot non è preoccupato e lasciamo
comunque la città. Proviamo nuovamente ad Adua, qui hanno il carburante ma non la corrente
elettrica. Adua, dove perdemmo la famosa battaglia, è oggi un’anonima cittadina di 40.000 abitanti.
Proseguiamo. Ormai siamo ad una manciata di chilometri dal conteso confine eritreo, cominciano a
vedersi diverse installazioni militari.
Aratura
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Sopra e sotto: monti di Adua
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Una breve deviazione dalla strada principale ci porta a Yeha. È stata la prima capitale etiopica, più
antica di Aksum. Qui c’è la chiesa di Abuna Aftse, ma soprattutto le rovine di un tempio risalenti ad un
periodo compreso fra l’ottavo ed il quinto secolo avanti Cristo. Il tempio è stato costruito a secco con
grandi blocchi di pietra, lunghi fino a 3 metri, la cui lavorazione desta veramente stupore: non si
riuscirebbe a infilare neanche una monetina fra una pietra e l’altra. Di fronte al tempio c’è il complesso
Grat Beal Gebri, monumenti monolitici più piccoli di quelli di Aksum, ma che li anticipano.
La chiesa di Abuna Aftse
Monte a forma di cane
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Monaco
Mendicanti
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Grat Beal Gebri
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In queste pagine: il tempio di Yeha, risalente ad un periodo fra l’VIII ed il V secolo avanti Cristo
78
79
In questa pagina: casa in costruzione
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Ritornati sulla strada principale, riusciamo finalmente a far gasolio. Poco dopo l’autista sente un
rumorino strano, si ferma e riesce, più o meno, a riparare il guasto. Così, possiamo affrontare senza
patemi d’animo la lunga deviazione per Debre Damo. Sulla brutta strada sterrata troviamo anche dei
lavori in corso e non mi fa per niente piacere lo stretto passaggio sulla ghiaia appena smossa dai
bulldozer, con sulla destra uno strapiombo di parecchi metri.
Bambina
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C’è un rumorino
Lavori in corso
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Casa in mezzo al nulla
Bambino
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Un altro bambino
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L’amba di Debre Damo
Durante la salita verso l’amba
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L’ingresso al monastero di Debre Damo
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Lasciamo l’auto in uno slargo al termine della strada sterrata e saliamo a piedi per circa un quarto d'ora,
fino alla base di una falesia. Il monastero di Debre Damo è abbarbicato a 2.800 metri di altezza sulla
sommità di un’amba, una montagna dalla cima piatta. L’unica maniera per raggiungere il monastero,
che è completamente circondato da dirupi a picco, è quella di arrampicarsi per 15 metri con una corda.
Gli indigeni salgono a piedi nudi; è probabilmente più facile farlo visto che vi sono piccoli anfratti, nei
quali le scarpe non entrano, scavati da milioni di altri piedi in secoli e secoli di ascensioni e discese.
Circa a metà strada c’è una sporgenza, nella quale si può riposare un poco. Io, che soffro di vertigini,
rifiuto assolutamente di salire. Romano, invece, a 70 anni suonati dice: “Beh, ormai siamo qui”. Gli
legano una cinta di sicurezza attorno alla vita; considerando che c’è un solo monaco mingherlino a
tenere la cinta dall’alto e nessun argano, dubito che possa veramente evitare una caduta. Comunque,
con non poca fatica Romano arriva su. Il nostro autista Haimanot, che qui c’era già stato 5 o 6 volte
ma non era ma salito, deve pensare: “Se l’ha fatto lui che ha settant’anni, non dovrei farlo io che di anni
ne ho appena ventotto?” E comincia ad andare su. Arrivato a metà, spaventatissimo, vorrebbe
scendere ma, fra il monaco che lo incita dall’alto ed alcuni ragazzini che fanno il tifo da sotto, lo
convincono a continuare. Mentre io rimango in compagnia delle capre, loro visitano il monastero che
ha circa 80 monaci ed è completamente autosufficiente, compresi alcuni capi di bestiame e serbatoi
d’acqua scavati nella roccia.
L’ascesa di Romano
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In questa pagina: continua l’ascesa di Romano
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Ascesa e terrore di Haimanot
Panorama dai piedi dell’amba
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Compagna nell’attesa
Saluti dal monastero, a sinistra, e discesa di Romano, a destra
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Atterraggio di Romano, a sinistra, e discesa di Haimanot, a destra
Paesaggio, non lontano da Adigrat
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Lavori in corso
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Piccola (e sporca) conquista ad Adigrat
Ripreso il viaggio, arriviamo ad Adigrat
attorno alle 3 del pomeriggio e ci fermiamo
a mangiare all’Hohoma Hotel. Già carino
nel nome, ispirato al fratello di Babbo
Natale, è straordinariamente pulito rispetto
ai normali standard etiopici.
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Prima di Macallè ci sarebbero da vedere numerose chiese rupestri, ma data l’ora tarda ne visitiamo solo
una, quella di Chirkos, la più vicina alla strada. A Macallè, città di 160.000 abitanti capitale del Tigray,
dormiamo all’Aksum Hotel e andiamo a mangiare da Yordanos, entrambi molto al di sotto delle
aspettative che aveva suscitato la guida Lonely Planet.
Il campanile, sopra, e la chiesa di Chirkos
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In questa pagina: l’interno della chiesa di Chirkos
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Un monaco
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Ottavo giorno
20 marzo 2008. L’ultima tappa del nostro giro, prima del ritorno ad Addis Abeba, è costituita da 370
chilometri di strada durissima, in gran parte sterrata. Dopo aver visto una lunghissima serie di scorci
paesaggistici, con la schiena a pezzi e il naso pieno di polvere, arriviamo a Lalibela nel tardo
pomeriggio.
Fra Macallè e Lalibela
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In queste pagine: ancora fra Macallè e Lalibela
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In queste pagine: fra Macallè e Lalibela, continua
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In queste pagine: anche Romano fa la sua piccola conquista
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In queste pagine: sempre fra Macallè e Lalibela
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In queste pagine: prosegue il viaggio fra Macallè e Lalibela
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Lalibela non è una città, non arriva a 10.000 abitanti e, essendo divisa in due tronconi, sembra anche
più piccola. È posta ad un’altitudine notevole, oltre i 2.600 metri. Prendiamo alloggio al Lal Hotel.
Ceniamo in albergo, c’è anche un buffet con delle verdure crude. Romano vi si avvicina ed io lo
ammonisco che è la maniera migliore per prendersi la dissenteria, ma un avventore bianco seduto ad
un tavolo vicino ci dice che si può andare tranquilli. È un italiano che lavora lì da più di un anno per
l’Unesco, per il progetto di conservazione delle chiese rupestri.
Dopo cena, nel bar dell’albergo troviamo - a fare “animazione” - un azmari ed una ballerina. Nel
frattempo conosciamo anche Stefano e Nadia (una coppia di Bologna che ha visitato a sud la valle
dell’Omo e, come uniche tappe al nord, ha scelto Lalibela, Bahir Dar ed Addis Abeba) e due
studentesse etiopiche ricche, che alloggiano all’hotel e si offrono di fare da interprete. Così possiamo
finalmente sapere che tipo di battute fa l’azmari. Francamente, non sono molto divertenti. Ad esempio,
una di quelle che ci riguardano è: “Ci sono due uomini, uno con i capelli ed uno senza. Si capisce
subito che il capo è quello senza capelli, infatti anche il nostro primo ministro non ne ha”. Oltre a
essere poco divertente, non si capisce chi sarebbe quello con i capelli, visto che anch’io ne ho ben
pochi. Comunque, per rispettare le tradizioni, alle 10,00 rimaniamo al bar solo noi. Rimediamo anche
un invito, per il giorno dopo, ad una cerimonia del caffè da parte della barista. Intanto, l’azmari e la
ballerina continuano. Per farli smettere di suonare e sparare battute insulse, che oltretutto non avendo
più le “interpreti” neanche capiamo, offriamo loro da bere. Ma dopo un po’, l’azmari ricomincia, anche
da seduto. Così, usciamo all’aperto e, vista la splendida temperatura, ci sediamo a fare due chiacchiere,
riuscendo a tirare fino a quasi mezzanotte.
Tramonto a Lalibela
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In questa pagina: azmari a Lalibela
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Nono giorno
21 marzo 2008. Siamo rimasti a corto di birr e dobbiamo cambiare denaro. A Lalibela c’è un'unica
banca. Per andarci bisogna entrare in un piccolo cortile, all’ingresso del quale c’è una guardia con il
compito di perquisire gli avventori. Quando sono in viaggio, è mia abitudine portare un gilet simile a
quello dei pescatori, con moltissime tasche che contengono di tutto: macchina fotografica, cellulare,
portafogli, navigatore satellitare, un piccolo binocolo e così via. Dopo le prime due tasche, la guardia
rinuncia a perquisirmi e mi fa cenno di passare. La banca è una stanzetta di quattro metri per quattro, al
cui interno sono ammassate tre scrivanie ed un box per la cassa. Debbo cambiare solo 300 euro, ma
immaginavo già prima di entrare che non sarebbe stato un lavoro veloce. Infatti, una cosa che finora
non ho detto è che gli Etiopici sono estremamente burocratici. Fanno ricevute per tutto, normalmente
scrivendole a mano in bollettari a tre copie, con la carta carbone. E questo avviene un po’ dappertutto,
negli alberghi, nei ristoranti, nei bar, eccetera. Così, quando la sera si avvicina l’ora di chiusura, tutti
sono alla prese con fasci di ricevute, contando il denaro e cercando di far quadrare i conti. Tornando
alla banca, mi fanno sedere davanti alla scrivania di quello che sembra il direttore. Mi chiedono quanto
voglio cambiare. Una ragazza digita qualcosa su una calcolatrice portatile e la fa vedere al direttore, che
approva con un cenno del capo. La ragazza compila una specie di contabile su uno dei soliti bollettari a
tre copie, porge il tutto ad un altro impiegato, suppongo l’addetto al riscontro. Questi ricontrolla, firma
e mostra al direttore, che ci appone una sigla. Finalmente, la contabile viene passata alla cassa. Lì sono
in due, una ragazza conta il denaro e lo passa a quello che penso sia il capo cassiere, il quale riconta e
mi consegna il denaro. Vorrei chiedere di avere banconote di taglio più piccolo ma, per non correre il
rischio di passare in banca l’intera mattinata, ringrazio ed esco.
Qui sopra e nella pagina accanto: a Lalibela i fedeli si recano alla festa di San Michele
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Diamo inizio alle visite delle famose chiese scavate nella roccia. In questo caso abbiamo una guida che
era già stata contattata da Addis Abeba, un uomo sulla cinquantina, amico di certe suore comboniane e
- a suo dire - parlante italiano. L’ha scritto anche sui biglietti da visita, ma in realtà non conosce più di 4
o 5 parole. La prima cosa che impariamo è che le chiese possono essere monolitiche, quando sono
scavate su tutti e quattro i lati e quindi sono completamente staccate dalla roccia, o semi-monolitiche,
quando uno o più lati sono ancora attaccati alla roccia. A Lalibela ci sono le chiese del gruppo NordOccidentale, quelle del gruppo Sud-Orientale e la Bet Giyorgis, isolata rispetto a tutte le altre.
Cominciamo dal gruppo Nord-Occidentale. Le prime due sono le gemelle Bet Golgotha e Bet Mikael.
Siamo fortunati perché, nel calendario etiopico San Michele viene festeggiato proprio oggi, il 21 marzo,
ed è pieno di fedeli vestiti di bianco che vanno a pregare, essendo la seconda chiesa dedicata a lui. Uno
spettacolo veramente suggestivo. Avvicinandoci, capisco perché a volte Lalibela viene paragonata a
Petra. La roccia rossastra richiama quella della città giordana e, ad aumentare l’impressione, c’è la
finezza della sua lavorazione, che spesso direi addirittura superiore. All’interno di Bet Mikael c’è anche
la Cappella di Selassie, generalmente chiusa ma oggi aperta per il giorno di festa; contiene quattro figure
scolpite che dovrebbero rappresentare gli evangelisti. Bet Golghota, invece, viene considerata così
sacra che, secondo alcuni, basta una sola visita per assicurarsi il paradiso.
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La gola che porta a Bet Golgotha e Bet Mikael
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L’affollato ingresso di Bet Mikael
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Alto prelato
Figure scolpite nella cappella di Selassie
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Fanciullo all’interno di Bet Mikael
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Preghiera a Bet Miakael
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La gente prega anche all’esterno di Bet Mikael. Qui la mia macchina fotografica subisce una brutta caduta che peggiorerà
la qualità delle mie foto, con sfocature sul lato destro
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Per un cunicolo, si arriva ad un cortile con altre tre chiese. Bet Maryam ha su una parete due serie di tre
finestre. Quella superiore rappresenta la Trinità. Quella inferiore, sovrastata da una finestrella a croce,
rappresenta la crocifissione di Gesù. La finestra a destra ha una piccola apertura sopra, a significare il
ladrone pentito andato in paradiso, quella al centro è per Gesù, mentre quella a sinistra ha la piccola
apertura sotto, a rappresentare il ladrone che andò all’inferno. Bet Medhane Alem sembra un tempio
greco ed è la più grande chiesa rupestre del mondo, 33 metri per 23, con 11 metri di altezza.
All’esterno ci sono 34 colonne rettangolari e altre 38 sono all’interno. In un angolo ci sono tre tombe
vuote, preparate per Abramo, Isacco e Giacobbe. C’è, poi, la piccola Bet Meskel. A chiudere il gruppo
Nord-Occidentale, la cappella di Bet Danaghel, costruita per commemorare alcune novizie
martirizzate.
A sinistra: il passaggio fra Bet Mikael e Bet Maryam. A destra: sconosciuti. Sotto: arco all’interno di Bet Maryam
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In questa pagina: Bet Maryam
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Le finestre della crocifissione di Gesù, a Bet Maryam
Bet Danaghel
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In questa pagina: Bet Medhane Alem
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Ci spostiamo verso Bet Giyorgis,
considerata il capolavoro di
Lalibela. È a forma di croce greca
ed è alta 15 metri. Vi si scende
per un suggestivo cunicolo.
Bellissime, nella loro semplicità,
le croci scolpite nel soffitto. Nelle
pareti che circondano la chiesa vi
sono
delle
nicchie
che
contengono corpi mummificati.
La vista non è la migliore
predisposizione per un pranzo,
ma la fame ci consiglia di avviarci
verso il Seven Olives Hotel a
mettere qualcosa sotto i denti.
Tucul a due piani
Dopo pranzo, avendo tutto il
pomeriggio davanti, prima di affrontare
le chiese del gruppo Sud-Orientale,
usciamo da Lalibela e, a 7 chilometri,
troviamo la chiesa Na’akuto La’ab. E’
stata costruita sotto una grotta naturale
ed è di struttura molto semplice. Alcuni
antichi contenitori in pietra raccolgono
l’acqua santa che stilla dal soffitto della
grotta.
Selezione delle granaglie per le offerte
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Bet Giyorgis
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Ancora la Bet Giyorgis
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A sinistra: il cunicolo d’accesso. A destra: immagine della Bet Giyorgis. Sotto: nicchia contenente corpi mummificati
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Una finestra della Bet Giyorgis
Croce scolpita sul soffitto della Bet Giyorgis
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Monaco alla Bet Giyorgis
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Bambina che va a scuola
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La chiesa Na’akuto La’ab
I contenitori nei quali viene raccolta l’acqua proveniente dal soffitto della grotta
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Un monaco nella chiesa Na’akuto La’ab
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In questa pagina: nella chiesa Na’akuto La’ab
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In questa pagina: ancora alla Na’akuto La’ab
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Torniamo a Lalibela. La Bet Gabriel-Rufael è affiancata da una roccia scolpita digradante, nota come
“via del paradiso”. La chiesa potrebbe essere stata, in passato, un palazzo fortificato. In un cortile
interno, un pozzo rappresenta l’inferno. Passando per un buio tunnel, si arriva a Bet Merkorios. Anche
questa chiesa potrebbe essere stata qualcosa di completamente diverso, alcuni studiosi suggeriscono
una prigione o una corte di giustizia. Bet Amanuel, finemente scolpita, è monolitica, cioè
completamente staccata dalla roccia, mentre l’ultima chiesa, Bet Abba Libanos ha la particolarità di
essere ipogea, cioè è unita alla roccia solo nel tetto e nel pavimento. La leggenda vuole che quest’ultima
chiesa sia stata costruita dalla moglie di re Lalibela, Meskel Kebra, in una sola notte con l’aiuto degli
angeli.
L’erta via del paradiso alla Bet Gabriel-Rufael
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L’ingresso alla Bet Gabriel-Rufael
Una finestra della Bet Gabriel-Rufael, a sinistra, ed il pozzo dell’inferno, a destra
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Guardascarpe. Si aspettano una mancia perché fanno la guarda alle scarpe lasciate fuori della chiesa
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La Bet Merkorios
Monaco alla Bet Merkorios, a sinistra, e passaggio verso la Bet Amanuel, a destra
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In questa pagina: la Bet Amanuel
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Prima di rientrare in hotel, andiamo dalla barista per la cerimonia del caffè e abbiamo anche
l’opportunità di assaggiare il tej, una bevanda alcolica ottenuta dal miele fermentato. Tornati all’albergo,
paghiamo la guida. Essendoci già stata la prenotazione da Addis Abeba, non avevamo concordato il
prezzo e lui se ne approfitta, chiedendoci 400 birr, contro i 100 – 150 birr che avevamo pagato le altre
guide. Il danno è modesto, la differenza è meno di 20 euro. Paghiamo senza battere ciglio, ma ciò non
ci impedisce di annoverare Mr. Joseph Mistrih fra i disonesti e consigliare di evitarlo a coloro che si
recassero a Lalibela.
L’indomani rientreremo ad Addis Abeba in aereo, perciò salutiamo affettuosamente anche il nostro
buon autista Haimanot che, invece, ritornerà con l’auto impiegando un paio di giorni. Saremmo portati
a lasciargli una mancia più alta, ma considerando che gli autisti hanno, come stipendio, un compenso di
70 birr al giorno e che la guida Lonely Planet indica come mancia generosa un importo compreso fra i
30 e i 50 birr al giorno, decidiamo di dargli 500 birr, comprendendo anche i due giorni che impiegherà
per tornare ad Addis Abeba.
Dopo cena, fanno ancora da intrattenitori l’azmari e la ballerina del giorno prima. Scambiamo due
chiacchiere con Stefano e Nadia e, poi, andiamo a dormire.
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Decimo giorno
22 marzo 2008. In attesa del minibus dell’albergo che alle 10,00 ci porterà in aeroporto, passiamo la
prima parte della mattinata riposando nel giardino. Dopo un po’ ci raggiungono anche Stefano e Nadia.
Anche loro devono venire in aeroporto. Infatti, il volo per Addis Abeba non è diretto ma, per ottenere
che l’aereo sia pieno, passerà molto più a Nord, facendo tappa a Gondar e Bahir Dar, dove
scenderanno i nostri nuovi amici bolognesi. Mentre siamo lì, vediamo arrivare anche l’americano del
Wyoming che, sorpreso, si domanda se siamo noi a seguire lui o lui a seguire noi. Mi chiede anche
quanto tempo possa richiedere la visita di Lalibela. Gli rispondo che basta un giorno, massimo due se si
vogliono vedere anche le chiese dei dintorni. Nadia commenta acida: “Chissà se almeno si rende conto
di dove si stia trovando?”.
Il minibus arriva puntuale, l’aeroporto è lontano e impieghiamo un’ora ad arrivarci. A mezzogiorno
saliamo sul Fokker dell’Ethiopian Airlines e, dopo le tappe previste, alle 14,30 atterriamo puntuali ad
Addis Abeba. Prendiamo un taxi dopo aver concordato il prezzo. Dovrebbe costare non più di 50 birr,
ma essendo stranieri non riusciamo a scendere sotto i 70. Dare l’indicazione di dove andare non è
semplicissimo, perché solo le strade e le piazze principali hanno un nome. Gli dico di andare a Mexico
Square, ma una volta là debbo aggiungere: “Please, go towards Mekanisa. At the first Shell station, go
to the right. After St. Mary College, there is our house”. Padre Nicola mi aveva detto che bisogna
scriverlo anche sulle buste, per fare arrivare la posta. Infatti, ad Addis Abeba quasi tutti hanno una
casella postale. Approfitto delle ore libere del pomeriggio per parlare con lo zio.
La sera, Padre Nicola vorrebbe che mangiassimo lì alla casa. Ma lo convinciamo ad andare a cena fuori.
Noi suggeriamo il Ristorante Castelli, ma lui preferisce il Blue Tops. Mangio del maiale in salsa di
arancio che mi farebbe piacere ritrovare anche in Italia.
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Undicesimo giorno
23 Marzo 2008. In Italia è Pasqua, ma qui in Etiopia siamo ancora in quaresima. Per non essere scortesi
dobbiamo assistere ad una messa nella cappella della casa. Oltre a Padre Nicola e mio zio, che la
officiano, siamo presenti solo noi e quattro suore, di cui una italiana e tre locali. Mi stupisce un po’ che,
durante la fase che penso sia chiamata “preghiera dei fedeli”, una delle suore indigene inviti a pregare
affinché Dio conservi la chiesa ortodossa etiopica, baluardo contro l’Islam.
A proposito della chiesa etiopica, questa viene usualmente chiamata copta, ma la definizione non è
esatta. Infatti copto ha un significato etnico e vuol dire “egiziano”. Nonostante sia dipesa
giuridicamente per molti secoli dalla chiesa di Alessandria, quella etiopica si è sviluppata in maniera
indipendente. I riti, che probabilmente erano identici nel IV secolo, col passare del tempo sono andati
differenziandosi, anche in virtù delle peculiarità culturali del Paese. Inoltre, la chiesa etiopica non reca
l’impronta ellenistica di quella alessandrina, come dimostrato anche dallo stile architettonico degli
edifici di culto. Comunque, dal 1959, la chiesa ortodossa d’Etiopia non dipende più da quella di
Alessandria.
Nella seconda parte della mattinata, assieme a Padre Nicola ed allo zio, andiamo a far visita ad un
convento di suore, fra le quali ci sono tante giovani e simpatiche novizie. Molte vengono dai villaggi del
Sud, dal Sidamo. Una di loro ha appena ottenuto il diploma di infermiera. Stiamo un poco anche in
cucina e vediamo come si prepara l’injera. Per pranzo, non so se perché non ci hanno invitato o per
decisione di Padre Nicola, torniamo alla casa comboniana, anche se Romano ed io avremmo preferito
fermarci dalle suore, dove l’ambiente è in verità molto più allegro.
A sinistra: la Banca d’Etiopia. A destra: una novizia
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A sinistra: Padre Nicola. A destra: foto di gruppo con alcune novizie
La cuoca
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Dopo pranzo, usciamo a piedi e, del tutto casualmente, veniamo visti dal nostro Haimanot che sta
passando con l’auto, appena arrivato da Lalibela. Ci facciamo un’ultima bevuta insieme, prima di
salutarci definitivamente.
La chiesa di Entoto Maryam
Il ghebi di Menelik
Poi, torniamo alla casa e Padre Nicola ci porta a fare un giro per la città. Saliamo fino ad Entoto, la
vecchia capitale, con il ghebi di Menelik e la chiesa di Entoto Maryam, dove questi si fece incoronare
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imperatore nel 1882, rompendo la tradizione che la cerimonia si svolgesse ad Aksum. Passiamo davanti
all’ambasciata americana che, come spesso capita alle rappresentanze di quel Paese, sembra più una
fortezza. Da quassù si gode un completo panorama della città. È il nostro addio ad Addis Abeba. Non
ci resta che preparare i bagagli. Il giorno dopo si torna a casa.
Sulla porta della chiesa di Entoto Maryam
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Dodicesimo giorno
24 Marzo 2008. Restano da fare le ultime riflessioni. Il viaggio è stato decisamente bello. Se dovessi
dargli un voto, sarebbe fra il 9 e il 10. Resta un senso di insoddisfazione di fronte a tanta povertà, ma
anche di irritazione per l’ignavia delle organizzazioni internazionali, con i loro apparati di esperti in
tante cose, con i loro strapagati funzionari che hanno fatto un mestiere delle miserie altrui. C’è quasi la
voglia di andare a togliere pietre dai campi ed a scavare pozzi con le proprie mani. Resta un senso di
impotenza e la consapevolezza che qui poco o nulla cambierà per chissà quanto tempo, come poco o
nulla è cambiato da secoli. Per dirla con Paul Valery (Sguardi sul mondo attuale): “Vi sono nazioni
che hanno in mano soltanto ricordi che risalgono al Medioevo o all’antichità, valori morti e sepolti”.
Lo zio vuole venire ad accompagnarci all’aeroporto. Ci salutiamo nel piazzale perché chi non ha il
biglietto non può entrare nell’aerostazione. Lo zio si commuove e, forse, pensa che difficilmente
rivedrà qualcuno di famiglia prima di morire. Per consolarlo, Padre Nicola cerca di farmi promettere di
ritornare il prossimo anno per visitare il Sud del Paese e la valle dell’Omo. Non riesce ad estirparmi la
promessa, ma solo un più vago impegno a prendere in esame la possibilità. Chissà se il mio è un addio
all’Etiopia o solo un arrivederci?
Ultimo saluto all’aeroporto
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Brevissima storia dell’Etiopia
Sembra che già prima del 2000 avanti Cristo vi fossero forti contatti con l’Arabia e, proprio dalla
fusione fra la cultura araba e quella dell’Africa orientale, nacque la lingua ge’ez, antenata del moderno
amarico. Attorno al 1500 avanti Cristo cominciò a svilupparsi una civiltà, cosiddetta “pre-aksumita”, la
cui più importante testimonianza è il tempio di Yeha.
Attorno al 400 avanti Cristo, prese avvio il regno di Aksum che durò moltissimo tempo, all’incirca fino
al 700 dopo Cristo, e raggiunse il suo massimo splendore fra il III ed il VI secolo dopo Cristo. Nel IV
secolo venne introdotto in Etiopia il Cristianesimo.
Dopo il declino di Aksum, seguì un periodo buio che durò fino all’ascesa, nel 1137, della dinastia
Zagwe. Questa dinastia costruì le straordinarie chiese rupestri di Lalibela, tuttavia non si sa molto dei
suoi re, poiché non hanno lasciato testimonianze scritte.
Nel 1270, gli Zagwe furono sconfitti da Yekuno Amlak e il potere si spostò verso Sud, verso lo Scioa.
Yekuno fondò la “dinastia salomonica” e diede inizio al cosiddetto medioevo etiopico. In questo
periodo, venne scritto il principale poema epico nazionale, il Kebra Negast, che letteralmente significa
“Gloria dei Re”. La principale leggenda che vi è contenuta è quella della regina di Saba. Vi si narra che
la bella regina intraprese un lungo viaggio per recarsi a visitare Salomone, il saggio re d’Israele. Il furbo
Salomone le assicurò che non avrebbe voluto nulla finché lei non avesse sottratto a lui qualcosa. Pose
un bicchiere d’acqua presso il letto della regina e lei, svegliandosi assetata a causa della cena piccante
che le avevano servito, non poté fare a meno di bere. Salomone pretese di essere immediatamente
risarcito e possiamo ben immaginare quale fu il suo desiderio. Così, la regina di Saba tornò in Etiopia
incinta del futuro re Menelik. Quest’ultimo, in seguito, fece visita al padre a Gerusalemme e rubò l’Arca
dell’Alleanza che, come noto, conteneva le tavole dei comandamenti che Dio aveva dato a Mosé. Da
Yekuno Amlak ad Hailé Selassié, che regnò fino al 1974, tutti gli imperatori etiopici si rifecero a questa
storiella per rivendicare la loro discendenza salomonica e, quindi, il loro diritto a regnare per volontà
divina. Generalmente, gli Etiopi credono fermamente a questo mito e la tradizione vuole che l’Arca
dell’Alleanza sia custodita in una cappella nel recinto della chiesa di Santa Maria di Sion, ad Aksum.
Durante il medioevo etiopico, la corte dei re era itinerante e le capitali erano praticamente costituite da
grandi accampamenti militari. I contadini temevano le visite reali più delle invasioni delle cavallette. Gli
accampamenti erano così imponenti da esaurire in breve tempo le risorse di una zona. Di norma, il
periodo massimo di soggiorno in un villaggio era di quattro mesi e dovevano trascorrere almeno dieci
anni prima che quel villaggio potesse essere visitato di nuovo.
Nel 1489, il re del Portogallo Giovanni II inviò un’ambasceria in Africa alla ricerca del mitico regno
cristiano del Prete Gianni. I messi raggiunsero l'Etiopia e, trovando veramente dei re cristiani
sottomessi ad un imperatore che si proclamava discendente di Salomone, cedettero di essere giunti a
destinazione. Iniziarono allora i rapporti dell’Etiopia con il Portogallo.
Nei primi decenni del 1500, l’impero era alle prese contro l’espansionismo islamico. Nel 1535,
l’imperatore Lebna Dengel chiese aiuto ai portoghesi, ma morì prima che questi arrivassero. Gli
succedette il figlio Galawdewos. I Portoghesi inviarono 400 moschettieri ben armati al comando di
Dom Christovāo da Gama, figlio del famoso navigatore Vasco da Gama. I Portoghesi furono sconfitti
dal sultano Gragn Mancino e il comandante venne catturato e decapitato. Nel 1543, Galawdewos – con
l’aiuto dei portoghesi superstiti - sconfisse definitivamente i musulmani non lontano dal Lago Tana.
Poiché, però, da Harar proseguirono negli anni successivi alcune incursioni, il re marciò contro la ricca
città islamica e nel 1559 vi trovò la morte; la sua testa venne portata in parata per tutta la città.
Nel frattempo, si delineò una nuova minaccia: migrazioni di massa di Oromo, chiamati
spregiativamente Galla dagli Amhari, iniziarono a provenire da Sud, all’incirca dall’odierno Kenia. I
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Galla erano abili cavalieri e per 200 anni si ebbero periodici conflitti fra loro e l’impero. In questo
contesto si rafforzarono le relazioni con l’Occidente cristiano, il quale a sua volta sperava di ricondurre
la chiesa etiopica nel grembo del cattolicesimo romano. Sembrò riuscirci nel 1622, quando il gesuita
Pero Paes convinse l’imperatore Susenyos a divenire cattolico. Ma il patriarca inviato da Roma,
Alfonso Mendez, ebbe troppa fretta; assoggettò la chiesa etiopica ad una impetuosa latinizzazione e
convinse il sovrano di imporre con la forza ai sudditi la nuova fede. Scoppiò una guerra civile e
l’imperatore dovette ritornare sui suoi passi, ripristinando la fede ortodossa. Susenyos abdicò nel 1632
a favore del figlio Fasiladas. Questi, pochi anni dopo, espulse gli invadenti gesuiti e proibì a tutti gli
stranieri l’ingresso nel suo impero. Fasiladas stabilì in maniera permanente la sua capitale a Gondar,
dove fece costruire un magnifico castello ed altre fortificazioni.
L’età d’oro di Gondar durò più di un secolo, fino alla morte di Iyasu II, nel 1755. Seguì quella che gli
storici etiopici chiamano l’era dei giudici, durante la quale l’Etiopia rimase frammentata in una
moltitudine di feudi indipendenti.
Nel 1855, Teodoro II riuscì a farsi proclamare imperatore, dopo aver riunificato il Paese. All’iniziò fu
un buon sovrano, vietò la poligamia, tentò di abolire lo schiavismo, attuò una riforma agraria e
promosse la lingua parlata, l’amarico, al posto della lingua scritta, il ge’ez. Quando, però, le sue riforme
si scontrarono con l’opposizione dei proprietari terrieri e del clero, cominciò a montarsi la testa,
sentendosi come lo strumento scelto da Dio per punire i peccatori. Iniziò a dare segni di squilibrio,
fino a giungere ad estremi di pazzia sanguinaria. Offeso per non aver ricevuto risposta ad una sua
lettera alla regina Vittoria, imprigionò alcuni funzionari inglesi che si trovavano alla sua corte. Gli
Inglesi inviarono una spedizione punitiva, guidata dal generale Robert Napier. Sconfitto, Teodoro si
suicidò nel 1868 nella fortezza di Magdala, cittadina che aveva scelto come capitale, un po’ più a Sud di
Lalibela.
Dopo il breve regno di Takla Giyorgis II, nel 1872 prese il potere Giovanni IV (Yohannes). Questi si
assicurò il sostegno della chiesa rimettendo in vigore alcune antiche ordinanze contro i musulmani ed i
falascia, gli ebrei neri d’Etiopia. Giovanni dovette fronteggiare l’espansionismo dell’Egitto e delle
potenze europee, oltre che dei Dervisci sudanesi guidati dal Mahdi. Seppure ufficialmente soggetto
all’impero ottomano, l’Egitto iniziò sotto Ismail Pasha una politica espansionistica, rivendicando il
dominio di tutto il corso del Nilo, fino ai grandi laghi, e tutta la costa africana del Mar Rosso, fino
addirittura alla Somalia. Ciò portò ad una guerra con l’Etiopia nel 1875. L’anno seguente gli Egiziani
furono più volte sconfitti, prima a Gundet e poi a Gura. La guerra si raffreddò, ma la pace fu firmata
solo nel 1884.
L’interesse europeo per il Mar Rosso fu una diretta conseguenza dell’apertura del Canale di Suez,
inaugurato nel 1869. In particolare, l’Italia fu sempre incoraggiata dagli Inglesi, preoccupati di evitare
insediamenti francesi e restii ad impegnarsi in proprio, viste le difficoltà che già incontravano a
controllare il loro vasto impero. Nel 1869, su ispirazione del governo italiano, che aveva già rinnegato
l’ideale risorgimentale dell’autodeterminazione, la compagnia di navigazione Rubattino acquistò la baia
di Assab da un piccolo sultano locale. Nel 1885, gli Egiziani ormai sommersi dai debiti ed in grave
difficoltà per la rivolta mahdista in Sudan, erano ormai in procinto di abbandonare le loro posizioni sul
Mar Rosso. Il 5 febbraio 1885 le truppe italiane sbarcarono a Massaua. Pochi mesi prima, il 4 giugno
1884 era stato stipulato, fra Etiopia, Egitto ed Inghilterra il trattato Hewett che riconosceva all’Etiopia
il libero transito nel porto di Massaua. Probabilmente, con un codicillo segreto gli Inglesi avevano
anche garantito all’imperatore il possesso della città in caso di ritiro degli Egiziani. Giovanni IV, quindi,
non poteva certo gradire il “disinteresse” britannico all’insediamento italiano, ma la guerra scoppiò solo
nel 1887, in seguito all’occupazione italiana di Zula e Ua-à: il 26 gennaio gli Italiani vennero duramente
sconfitti a Dogali dal Ras Alula.
Mentre era ancora in corso la guerra con gli Italiani, i quali trattavano segretamente con l’aspirante al
trono imperiale Ras Menelik, Giovanni IV doveva fronteggiare anche i dervisci, che si erano ormai
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impossessati di tutto il Sudan, dopo aver ucciso e decapitato, il 26 gennaio 1885 a Khartoum, l’ormai
leggendario generale inglese Charles George Gordon. L’imperatore fu ucciso dagli islamici nel 1889
nella battaglia di Metemma. Gli Italiani ne approfittarono per salire sull’altipiano ed occupare Asmara,
essendo molto più salubre dell’infuocata costa di Massaua. Un anno dopo, nel 1890, i possedimenti
italiani nel Mar Rosso vennero riuniti nella colonia Eritrea, un nome poetico ed ellenistico che priverà
per sempre il grande impero etiopico di uno sbocco al mare.
Divenne imperatore Menelik II, da tempo “amico” degli Italiani e, una volta saldo sul trono, il 2
maggio 1889, venne firmato l’infame trattato di Uccialli. Oltre a barare sui confini, gli Italiani stesero
due versioni dell'articolo 17, differenti in amarico e in italiano: nella versione in amarico si affermava
che il negus "può trattare tutti gli affari che desidera con i regni di Europa mediante l'aiuto del regno
d'Italia", mentre nella versione italiana si diceva che il negus "consente di servirsi" del governo italiano
per "tutte le trattative d'affari che avesse con altri governi", stabilendo un protettorato italiano
sull’Etiopia. Ne nacque una controversia e questa peregrina astuzia diplomatica costituirà il casus belli
della guerra italo etiopica del 1895-1896, che si concluse con la sconfitta subita dall'Italia ad Adua. La
battaglia di Adua era stata preceduta da un’altra sconfitta, quella dell’Amba Alagi, che però in Italia non
destò molto scalpore perché, seppure erano morti più di 1.500 soldati, si trattava in gran parte di ascari
indigeni ed i caduti nazionali erano stati solo 40. Nella battaglia di Adua, invece, si stima che si ebbero
circa 5.000 nazionali e 1.000 ascari morti, 1.500 feriti, 1.900 prigionieri nazionali ed altri 800 indigeni,
dei quali 406 fecero ritorno in Eritrea mutilati della mano destra e del piede sinistro. Quest’ultima fu la
dura punizione che gli Etiopi riservarono agli ascari tigrini, considerati traditori, mentre vennero
rispettati i sudanesi, i somali, i dancali e i musulmani della costa. Dice una canzone etiopica: “i loro
occhi spalancati pel terrore e lo strazio sembrano gli occhi dei gatti e i loro denti scricchiolando l’uno
contro l’altro sembrano lino che si mangi”. La battaglia di Adua è la più grave sconfitta che un esercito
europeo abbia mai subito ad opera di africani. Da allora la sua data, il 1° marzo, viene celebrata ogni
anno in Etiopia. A seguito della sconfitta, l’Italia riconobbe l’impero come stato indipendente, con un
trattato firmato ad Addis Abeba, la nuova capitale voluta da Menelik e soprattutto da sua moglie Taitù
in sostituzione di Entoto, situata pochi chilometri più a Nord.
Alla morte di Menelik, nel 1913, venne designato successore il minorenne Ligg Iyasu, ma quando
questi - raggiunta la maggiore età nel 1916 – mostrò chiare tendenze islamiche, venne deposto e il
trono fu offerto a Zawditu, figlia minore di Menelik, alla quale venne affiancato, come reggente e
futuro successore, Ras Tafari. Quest’ultimo nel 1930 divenne imperatore con il nome di Hailé Selassié.
Una curiosità è che su di lui è nata addirittura una nuova religione: quella dei Rastafariani. In Giamaica,
dove Marcus Garvey aveva fondato il movimento per il “ritorno in Africa”, si cominciò a proiettare
una viva attesa messianica di riscatto sull'Etiopia e, nel 1930, dopo aver assistito all’incoronazione di
Ras Tafari, alcuni discepoli di Garvey videro in lui il Messia atteso, che non era però, nella loro
interpretazione, un generico liberatore politico, ma Gesù stesso. Questa persuasione diede il via al
Rastafarianesimo, nome dovuto all'abitudine dei primi fedeli di definirsi Rasta, per indicare la propria
identificazione con Hailé Selassié, la cui rivelazione diventò il punto di riferimento essenziale. Dopo
l'intensa predicazione dei primi seguaci in Africa e in America ed una rapida espansione iniziale, il
Rastafarianesimo si è di seguito radicato ovunque sul globo, soprattutto grazie al potere mediatico della
sua vivace cultura musicale, legata in particolare al reggae, che ne ha veicolato il messaggio teologico:
Bob Marley apparteneva a questa setta.
Tornando alla storia, quando nel 1935 il fascismo volle dare all’Italia un impero, l'unico territorio
rimasto libero da ingerenze straniere era l'Abissinia e, nonostante questa fosse membro della Società
delle Nazioni, venne attaccata. Per vincere la guerra, il generale Badoglio – a ciò autorizzato da
Mussolini – fece largo uso di armi chimiche, in particolare bombe all’iprite, in spregio alle convenzioni
internazionali che le vietavano. Il 6 febbraio 1922, infatti, la Conferenza sulle armi di Washington,
firmata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia ed Italia, aveva proibito l'uso di gas asfissianti,
velenosi e di qualunque altro genere, mentre il 7 settembre 1929 era entrato in vigore anche il
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Protocollo di Ginevra, che vietava l'uso di gas velenosi e di armi batteriologiche. Contro l’iprite non
servivano neanche le maschere antigas, infatti ha un'azione vescicante e, oltre alle mucose respiratorie,
attacca anche la pelle, provocando estese dermatiti bollose, che sono dolorosissime e difficili da curare.
Ovvero, venendo a contatto con la superficie del corpo, causa un'irritazione profonda con successiva
formazione di vesciche, piaghe ed ulcerazioni estese; anche gli occhi vengono danneggiati, già a dosi
modeste. Non si sa quante armi chimiche usò l’Italia ma, solo dal 22 dicembre 1935 al 18 gennaio 1936
e soltanto sulle regioni settentrionali dell’impero, vennero lanciati oltre 2.000 quintali di bombe, una
parte rilevante delle quali caricate a gas. Oltre alle armi chimiche, ai fascisti venne in mente di usare
anche quelle batteriologiche e Badoglio ci rinunciò solo perché il nemico era ormai fiaccato.
Il 5 maggio 1936, Pietro Badoglio entrò in Addis Abeba. Come primo viceré fu nominato il generale
Rodolfo Graziani. La sua reggenza fu caratterizzata da un’estrema ferocia e crudeltà, culminata nella
repressione seguita all’attentato da lui subito il 19 febbraio 1937 che, secondo il memorandum
presentato dal governo etiopico al Consiglio dei ministri degli Esteri riunito a Londra nel settembre
1945, aveva provocato 30.000 morti. E non è solo per questo episodio che Graziani è stato
soprannominato "il macellaio d'Etiopia". Basti citare la strage degli indovini. Il 19 marzo 1937, dopo
che la polizia gli aveva segnalato che tra i più pericolosi perturbartori dell’ordine pubblico erano da
annoverarsi i cantastorie, gli indovini e gli stregoni che diffondevano notizie false, ne rastrellò e ne
eliminò 70. Lui stesso, in una macabra contabilità annotò che, a parte le esecuzioni immediatamente
seguenti l’attentato, dal 19 febbraio al 21 marzo 1937 ci furono 324 esecuzioni sommarie, il 30 aprile i
“provvedimenti di rigore” salirono a 710, il 5 luglio a 1.686, il 25 luglio a 1.878, il 3 agosto a 1.918. Da
una relazione risulta che, nel primo anno dell’impero, i soli carabinieri passarono per le armi 2.509
indigeni. Ci fu, poi, la repressione nella regione del Mens, della quale fu incaricato il generale Maletti:
con i suoi soldati, a partire dal 6 maggio 1937, in due settimane incendiò 115.422 tucul, tre chiese, un
convento e uccise 2.523 ribelli. Sempre Maletti ricevette l’ordine da Graziani di eliminare tutti i monaci
di Debre Libanos: il 20 maggio vennnero fucilati 297 monaci e 23 laici, seguiti il 27 maggio da 129
giovani diaconi.
Nel dicembre 1937, il generale Graziani venne sostituito dal più mite duca Amedeo d’Aosta. Poi, a
seguito dello scoppio della seconda guerra mondiale, nel 1941 l’Etiopia viene liberata dagli Inglesi ed il
negus Hailé Selassié rientrò ad Addis Abeba. L’Eritrea venne federata all’Etiopia.
Nel 1974, un colpo di stato militare portò al potere il “Derg” del colonnello Menghistu. Questi, si dice,
soffocò con le sue mani l’ottantaduenne imperatore ed instaurò uno stato socialista. Una riforma
agraria sbagliata e la guerriglia, divampata sia in Etiopia che in Eritrea, portarono alla caduta di
Menghistu nel 1991.
L’Eritrea ottenne l’indipendenza nel 1993. Fra il 1998 ed il 2000 ci fu una cruenta guerra fra di essa e
l’Etiopia. Il confine è ancora presidiato dalle truppe Onu. Inoltre, alla fine del 2006, le truppe etiopiche
sono entrate in Somalia per “pacificarla”.
Oggi l’Etiopia ha una superficie di 1.127.127 chilometri quadrati ed una popolazione di quasi 80
milioni di abitanti. Non ha sbocchi al mare, ha poche strade ed una sola ed antiquata ferrovia che
collega Addis Abeba a Gibuti. Lo Stato etiopico è stato riformato in senso federale su basi etniche:
oggi, oltre al distretto di Addis Abeba, ci sono gli Stati degli amhara, dei tigrini, degli afar, dei somali,
degli oromo e dei popoli del sud.
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Bibliografia consigliata
Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Africa orientale – I. Dall’unità alla marcia su Roma”, Oscar
Mondadori (su licenza Giuseppe Laterza & Figli), Cles (TN)
Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Africa orientale – II. La conquista dell’impero”, Oscar Mondadori (su
licenza Giuseppe Laterza & Figli), Cles (TN)
Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Africa orientale – I. La caduta dell’impero”, Oscar Mondadori (su
licenza Giuseppe Laterza & Figli), Cles (TN)
Angelo Del Boca, “La nostra Africa”, Neri Pozza Editore, Vicenza
Augusto Franzoj, “Continente nero”, Interlinea edizioni, Novara
Ryszard Kapuściński, “Il Negus”, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano
Curzio Malaparte, “Viaggio in Etiopia e altri scritti africani”, Vallecchi, Firenze
Matt Phillips, Jean-Bernard Carillet, “Etiopia e Eritrea”, EDT, Torino
Paul Theroux, “Dark Star Safari”, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano
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Indice
PREMESSA...................................................................................................................................................................5
PRIMO GIORNO.........................................................................................................................................................7
SECONDO GIORNO ................................................................................................................................................ 12
TERZO GIORNO ...................................................................................................................................................... 18
QUARTO GIORNO................................................................................................................................................... 31
QUINTO GIORNO ...................................................................................................................................................45
SESTO GIORNO .......................................................................................................................................................55
SETTIMO GIORNO..................................................................................................................................................73
OTTAVO GIORNO ...................................................................................................................................................97
NONO GIORNO ......................................................................................................................................................110
DECIMO GIORNO ................................................................................................................................................. 139
UNDICESIMO GIORNO........................................................................................................................................ 140
DODICESIMO GIORNO........................................................................................................................................ 144
BREVISSIMA STORIA DELL’ETIOPIA............................................................................................................... 145
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA........................................................................................................................... 149
150