Etiopia - BitItalia
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Giorgio Mencarini Etiopia Fotografie e diario di viaggio Premessa Fra i Paesi africani, solo l’Egitto ha ai miei occhi un fascino paragonabile a quello dell’Etiopia. Era da moltissimo tempo che volevo fare un viaggio in quel lembo d’Africa che è stata, fra l’altro, anche la culla dell’umanità. Laggiù, infatti, nel 1974 venne rinvenuta la piccola Lucy vissuta più di tre milioni di anni fa, una femmina alta un metro e sette centimetri, forse il primo ominide ad aver assunto la posizione eretta. Pensavo alle peculiarità di quel Paese così strano e così diverso, con un alfabeto tutto suo, composto da 325 caratteri, e pure un calendario tutto suo, tanto che laggiù è in corso solo ora l’anno 2000: è cominciato il 12 settembre 2007 e finirà l’11 settembre 2008. Anche la maniera di indicare le ore è particolare e, a volte, fonte di qualche equivoco: l’ora si conta dall’alba e non dalla mezzanotte come avviene da noi, per cui se un Etiope fissa un appuntamento alle 8,00 del mattino, in realtà ci si vede alle 14,00. Alle 18,00 finisce il mattino e scattano le ore della notte. Perfino i titoli nobiliari, finché esistettero, erano del tutto esclusivi: negus (re), ras (una specie di viceré), degiac (corrispondente al nostro duca), fitaurari (conte), cagnasmac (marchese), balambaras (cavaliere). Pensavo alla millenaria civiltà etiopica, testimoniata dal tempio di Yeha e dagli obelischi di Aksum, ai miti della regina di Saba e di Salomone, alle vicende di San Frumenzio che nel IV secolo vi portò il cristianesimo dopo essere naufragato sulle sue coste. A re Lalibela, che fra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo trasformò Roha in quello straordinario luogo che oggi porta il suo nome. Per non parlare del prete Gianni, leggendario sacerdote-sovrano di un altrettanto leggendario regno cristiano d’oriente, che qualcuno cominciò a identificare con l’Etiopia. Un personaggio che ispirò l’Ariosto, il quale nel suo “Orlando furioso” lo inserì con il nome di Senapo, re appunto d’Etiopia, e lo fece liberare da Astolfo da una maledizione divina che lo costringeva a soffrire di perpetua fame, mentre Torquato Tasso, nella “Gerusalemme Liberata”, celebrò l’eroismo e la virtù di Clorinda, che di Senapo sarebbe stata la figlia. E poi, c’era l’imperatore Galawdewos che nel 1543, con l’aiuto dei portoghesi, sul lago Tana sconfisse Gragn Mancino, sultano di Harar, sbarrando definitivamente all’Islam la strada degli altipiani etiopi. E l’imperatore Fasiladas che nel 1635 diede avvio al periodo d’oro di Gondar, la “Camelot d’Africa” con i suoi numerosi castelli. Fino ad arrivare, in tempi più recenti, all’imperatore Teodoro II che tentò di modernizzare il Paese, ma divenne sempre più autoritario e, alla fine, inviso alla sua stessa gente, fu sconfitto dagli Inglesi e nel 1868 si suicidò nella fortezza di Magdala. Venne allora l’imperatore Giovanni IV, tanto puro e cristiano da rasentare l’integralismo, difese il suo impero contro tutti: gli Egiziani, gli Italiani duramente sconfitti a Dogali dal suo generale Ras Alula, i Dervisci sudanesi, dai quali però venne ucciso in battaglia nel 1889. Catturarono anche il suo cadavere, lo decapitarono ed inviarono la testa ad Omdurman, al califfo Abdullah, come testimonianza della completa vittoria. La strada per diventare imperatore fu così spianata per Menelik II, con la sua furbizia volpina e la sua faccia da bandito, e salì agli allori delle cronache anche la sua affascinante seconda moglie, Taitù, forse il vero cervello dell’impero. Sul fascino di Taitù c’è la conferma di Augusto Salimbeni, primo ambasciatore italiano ad Addis Abeba. Angelo Del Boca, nel primo volume del suo monumentale lavoro “Gli Italiani in Africa orientale”,1 scrive che questi la corteggiava “colmandola di doni e di sorrisi. <Nel congedarmi – racconta – bacio la mano del re per avere il pretesto di baciare anche quella della regina, che mi piace assai, assai>”. Di tutti i Paesi africani, l’Etiopia è sicuramente quello che ha maggiormente colpito l’immaginario collettivo degli Italiani. E non sto parlando di quando, nel 1936, fu invasa dai fascisti, col nostro 1 Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Africa orientale – I. Dall’unità alla marcia su Roma”, Oscar Mondadori (su licenza Giuseppe Laterza & Figli), Cles (TN), 1992. 5 colonialismo cosiddetto “straccione”, come se possa esistere un colonialismo che “straccione” non lo sia, ivi comprendendovi anche quello degli spocchiosi Inglesi. L’interesse italiano all’Etiopia risale, quanto meno, alla seconda metà dell’800. Basterebbe citare personaggi come il cardinale Giuseppe Massaja, già nel 1846 nominato vicario apostolico presso la popolazione etiopica dei Galla; fu per anni consigliere di Menelik, fu apprezzato anche da Teodoro II, ma non da Giovanni IV che lo cacciò dall’impero. O come Giuseppe Sapeto, prima missionario lazzarista, poi diplomatico ed avventuriero; fu lui ad acquistare nel 1869, dando così il via al colonialismo italiano, la baia di Assab per conto dell’armatore genovese Rubattino, lo stesso che fornì le navi a Garibaldi per la spedizione dei mille. O l’esploratore Carlo Piaggia, rispettoso degli indigeni perché, come scrive Angelo Del Boca ne “La nostra Africa”, “nessuno meglio di lui poteva capirli ed amarli, perché lui stesso era un primitivo”. O il marchese Orazio Antinori, che convinse Menelik a donargli una stazione scientifica ed ospedaliera, Lèt-Marefià, nella quale restò fino alla morte. O il pesarese Antonio Cecchi che, durante una spedizione sfortunata, restò prigioniero per due anni della regina galla Ghennè-Fa e fu poi liberato grazie ai buoni uffici di Ras Adal e dell’imperatore Giovanni, nonostante le cronache raccontino di un improbabile salvataggio da parte di un altro esploratore italiano, Gustavo Bianchi, con un incontro che somiglia a quello più celebre fra Stanley e Livingstone. Cecchi fu, in seguito, uno dei principali protagonisti dell’espansione italiana in Somalia. O Augusto Franzoj, che viaggiava senza denaro ed amava definirsi “Don Chisciotte dell’Africa” o “tapino delle Ambe”. O, tralasciando molti altri, il conte Pietro Antonelli, artefice – non si sa se in buona o cattiva fede – del nefasto trattato di Uccialli, con il quale Crispi tentò di imporre con l’inganno il suo protettorato a Menelik. Chiedo scusa a chi questa premessa sia venuta a noia, ma volevo tentare di spiegare perché ritengo che l’Etiopia sia così affascinante. Per non dilungarmi oltre, rimando alla fine di questo scritto per una sua brevissima storia. Venendo al viaggio, dopo diverse forzate defezioni di altri amici, siamo partiti solo in due: Romano Storoni ed io. Ecco, qui di seguito, il diario. 6 Primo giorno 13 marzo 2008. Alle 7,40, con precisione cronometrica, il Boeing 757 atterra all’aeroporto di Bole, ad Addis Abeba. L’Ethiopian Airlines conferma così di essere una delle compagnie aeree africane più efficienti. L’aerostazione è nuovissima, seppure sia già presente qualche traccia di incuria. Appena sbarcati dall’aereo, cominciamo a far la coda per il visto. Trovo abbastanza strano che, con tutto lo spazio che c’è, i visti vengano rilasciati in una stanzetta di due metri per sei, con quattro scrivanie allineate. La coda non è lunga, ma i tempi sono piuttosto lenti perché, come scopriremo, gli Etiopi scrivono tutto a mano e non si può certo dire che ci sia poca burocrazia. Prima una ragazza scrive i nostri dati su dei talloncini adesivi che vengono appiccicati ai passaporti, poi ci avviciniamo alla cassa per pagare i 20 dollari del costo del visto. Ci fanno un cenno e solo allora ci accorgiamo che c’è una nuova fila e, per accodarci ad essa, dobbiamo uscire dalla porta situata all’altra estremità dello stanzino. Quando viene il nostro turno, un’altra ragazza scrive meticolosamente le nostre ricevute su un bollettario a tre copie, poi passa il tutto a un funzionario che mette una sigla sia sulle ricevute che sui passaporti. Infine, l’ultimo controllo della polizia di frontiera e siamo pronti ad affrontare l’Etiopia. Ad attenderci all’aeroporto, c’è Padre Nicola Di Iorio, un frate comboniano con il quale sono in contatto via e-mail da diverso tempo. Addis Abeba, letteralmente “Nuovo Fiore”, è una città di tre milioni di abitanti, situata a circa 2.400 metri di altitudine. È attraversata da larghi viali che danno un’impressione abbastanza piacevole, ma quando ne vedo uno fiancheggiato da un muro mi viene in mente quanto scritto da Ryszard Kapuściński nel suo gustosissimo “Il Negus”.2 Era il 1963 e ad Addis Abeba si sarebbero incontrati i presidenti dell’Africa indipendente: poco prima “enormi bulldozer avanzavano lungo le grandi arterie distruggendo la prima fila di capanne di fango, dalle quali il giorno prima la polizia aveva scacciato gli abitanti. Poi squadre di muratori innalzavano un alto muro per celare agli sguardi le capanne delle file posteriori”. In effetti, appena si esce dai viali, le abitazioni sono quasi tutte costituite da capanne con i tetti di lamiera ondulata che, peraltro, avevamo già notato dall’aereo. “Relativamente nuova come città - brillante idea di Menelik, che bramava la propria capitale – Addis Abeba era un insediamento che si stendeva disordinatamente a una notevole altitudine, con l’aspetto di un grande villaggio dai tetti rugginosi sparpagliato su molte colline. Aveva cento anni ma era di una decrepitezza senza tempo. Poco attraente da una certa distanza, da vicino era sporca e cadente, puzzava orribilmente di esseri umani non lavati e di animali malridotti; tutti i muri mandavano fetore di urina, tutti i vicoli erano ingombri di rifiuti” (Paul Theroux, Dark Star Safari).3 Probabilmente questo giudizio dello scrittore americano è un po’ troppo severo; io ho trovato la città molto più piacevole di tante altre capitali del terzo mondo. Quando Theroux parla di fetore di urina, probabilmente si riferisce all’abitudine degli uomini abissini di mingere ovunque capiti, anche di fronte a tutti ed in pieno centro cittadino. In proposito circola anche una storiella. Il presidente ugandese Museveni è in visita ufficiale e dice all’omologo etiope Girma Wolde Giorgis: “Addis Abeba è proprio una bella città, però dovreste far qualcosa per correggere questa deprecabile abitudine dei vostri cittadini di fare pipì dappertutto”. Dopo un po’ di tempo Wolde Giorgis ricambia la visita, va a Kampala e vede un uomo orinare per strada. Subito dà di gomito al suo primo ministro Meles Zenawi e gli dice: “Vedi, non è solo da noi che c’è questa cattiva abitudine”. E l’altro, di rimando: “Ma come, non l’hai riconosciuto? Quello è l’ambasciatore etiopico in Uganda”. 2 Ryszard Kapuściński, “Il Negus”, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2007. 3 Paul Theroux, “Dark Star Safari”, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2006. 7 Tre immagini della casa provinciale dei Comboniani ad Addis Abeba Tornando a noi, dopo esserci divincolati dal traffico che, per la verità, non è troppo caotico anche se è abbastanza intenso e il cattivo odore dei gas di scarico è piuttosto forte, arriviamo finalmente alla casa provinciale dei comboniani, una solida costruzione in pietra locale. Qui, incontro mio zio, Padre o meglio – Abba Silvio Mencarini, che non vedo da più di quindici anni. È vestito di bianco, più piccolo di come lo ricordavo, curvo ed ossuto, i suoi gesti sono lentissimi e cammina altrettanto adagio appoggiandosi ad un bastone, ma è autosufficiente, lucido di mente e, beato lui, riesce ancora a leggere senza occhiali. Per lui, ottantacinquenne, che nel frattempo non ha più visto nessun altro familiare, l’emozione deve essere sicuramente più forte della mia. Partì per l’Africa nel 1948. Ricordo l’ultima volta che tornò in Italia, nei primi anni '90: aveva una valigia di cartone pressato, due camicie, una addosso ed una nel bagaglio, due paia di pantaloni, due paia di calze e così via. Mi disse: “D’altra parte, cosa ci fai con più?”. Padre Silvio Mencarini 8 Restiamo solo un giorno ad Addis Abeba. Fa caldo, anche se l’altitudine mitiga un poco il clima. Visitiamo il museo nazionale che ha due calchi di Lucy. Le sue vere ossa non sono esposte al pubblico. Fu chiamata così perché colui che la scoprì, in quel momento, stava ascoltando "Lucy in the sky with diamonds" dei Beatles. Un calco di “Lucy”, femmina di ominide alta 1,07 metri vissuta più di tre milioni di anni fa 9 Dopo, andiamo nel quartiere Merkato, suddiviso in settori, in ognuno dei quali si vende una determinata mercanzia. È enorme, probabilmente il mercato più grande di tutta l’Africa ma, nella sostanza, non molto diverso da quelli di tante altre città del terzo mondo. Poi ci prepariamo per la partenza del giorno dopo. In particolare, compriamo un po’ di provviste e cambiamo da Padre Nicola un po’ di soldi. Fra l’altro, mi faccio dare una mazzetta di banconote da 1 birr (circa 7 centesimi di euro), che saranno utilissime per le elemosine, ed una di banconote da 10 birr, altrettanto utili per le mance. Sopra e nella pagina seguente: tre immagini del quartiere Merkato di Addis Abeba 10 11 Secondo giorno 14 marzo 2008. Lasciamo la capitale di buon mattino. Puntiamo in direzione nord lungo la strada n. 3. La meta finale della giornata è Bahir Dar, sul lago Tana. Alle 6,00 le strade sono già piene di gente che cammina. Padre Nicola ha affittato per noi un’auto, una grossa Toyota a quattro ruote motrici, con autista. L’auto ha due grandi serbatoi che le permettono una lunga autonomia ed è piuttosto comoda; l’unico difetto è che non è provvista di aria condizionata. La nostra auto Il nostro autista è un bravo ragazzo di 28 anni, di nome Haimanot, non è sposato, vive ad Addis Abeba assieme a 3 dei suoi 7 fratelli, non beve alcolici per principio e, normalmente, va a dormire fra le 9 e le 10 di sera. La sua guida è calma e sicura, parla inglese non molto bene e proprio per questo, siccome anche il mio inglese è solo “di sopravvivenza”, ci capiamo benissimo. Saliamo fino a 3.000 metri di quota, sulla collina di Entoto. Quassù, oltre a molta gente che raccoglie legna, vi sono anche diversi atleti che si allenano: i fondisti etiopi sono i più forti del modo. 12 Dopo la collina, la strada si fa più dritta ed attraversa zone più aride. Oggi ci aspettano parecchie centinaia di chilometri, penso circa 600, ma fortunatamente la strada è stata recentemente rifatta dalla cooperazione giapponese ed il fondo è asfaltato e molto buono. Quello che ci fa più impressione è la quantità di gente in giro: chi trasporta acqua, chi legna, chi chissà cosa e chi semplicemente cammina. “Gente di bell’aspetto e cenciosa, tanto altera quanto misera. Una stirpe aristocratica che aveva impegnato l’argenteria di famiglia. Unica nell’Africa nera ad avere una propria scrittura, l’Etiopia ha perciò una storia scritta e un forte senso del passato” (Paul Theroux, Dark Star Safari).4 Gente per strada Forse non c’è altro posto al mondo dove si possa vedere camminare così tanta gente. Queste persone che si spostano a piedi saranno una costante di tutto il nostro viaggio, le troveremo lungo tutte le strade, anche nei luoghi più impervi e remoti. Gli uomini hanno spesso un bastone lungo circa un metro, lo adoperano per sostenere le braccia durante le marce o per appendervi un carico o per appoggiarsi quando stanno in piedi, ma anche, come mi dice l’autista, per difendersi da bestie e da altri uomini. Le portatrici di legna, dal canto loro, percorrono a piedi fino a 30 o più chilometri per raccogliere fascine da vendere. Portano sulle spalle almeno 35 chili e riescono sì e no a guadagnare 10 euro al mese. Di auto ne incontriamo invece pochissime, qualche altra Toyota, simile alla nostra, a volte con la scritta di qualche agenzia dell’Onu. Anche gli autocarri sono rari e, per lo più, di marca Iveco. Le corriere 4 Op. citata. 13 sono chiamate dagli Abissini “Al-Qaida” perché, a loro dire, provocano almeno altrettanti morti che la nota organizzazione terroristica. Lungo la strada, le case sono normalmente di fango, con il tetto di lamiera ondulata. Quasi sempre, vicino alla casa, c’è un cumulo di sterco secco di vacca che le famiglie adoperano per il fuoco. Una deviazione di quattro chilometri dalla strada principale ci porta al monastero di Debre Libanos. La stradina polverosa è popolata da moltitudini di pellegrini vestiti di giallo. È il principale monastero della regione storica dello Scioa. Il monastero è stato fondato nel XIII secolo, ma la chiesa attuale è stata fatta costruire nel 1961 da Hailé Selassié, in uno stile monumentale ed un po’ kitsch. Qui, fra il 20 ed il 27 maggio 1937, per ordine di Graziani, gli Italiani fucilarono 449 persone, fra monaci, diaconi e civili. La chiesa del monastero di Debre Libanos 14 Il Nilo Azzurro Riprendiamo il viaggio e, a circa 200 chilometri da Addis Abeba, arriviamo al Nilo Azzurro. Con una lunga serie di tornanti, la strada scende nell’aspra scarpata, per un dislivello superiore a 1.000 metri, per raggiungere il fiume, sul quale i Giapponesi stanno costruendo un nuovo ponte in sostituzione del vecchio ponte italiano. Su quest’ultimo (non so perché, dato che non sembra pericolante e oltretutto ci passano sopra anche le autocisterne) è permesso inoltrarsi ad un solo autoveicolo per volta. Proprio qui, ed è strano visto lo scarsissimo traffico, incontriamo un’altra auto proveniente dal senso opposto e dobbiamo aspettare un minuto o due. Passiamo il fiume, che oggi segna il confine fra lo Stato degli Oromo e quello degli Amhara, mentre in passato era il confine fra le regioni storiche dello Scioa e del Goggiam. Riguadagniamo rapidamente il dislivello perduto e, non molto tempo dopo, arriviamo a Debre Markos, cittadina natale del nostro autista, il quale ci invita ad una cerimonia del caffè a casa della madre, che vive ancora lì. L’invito a partecipare ad una cerimonia del caffè è un segno di amicizia e di rispetto e, quindi, non possiamo certo rifiutare. Mentre viene bruciato dell’incenso, vengono tostati in una padella i chicchi del caffè che, una volta pronto, viene servito in tazze piccole come le nostre da espresso, con almeno tre cucchiaini di zucchero. Bisogna bere almeno tre tazze, perché la terza è quella che porta fortuna. 15 Cerimonia del caffè Lasciamo una piccola mancia e andiamo a mangiare nell’unico hotel della cittadina, lo Shebel. Vado in bagno per lavare le mani, ma il cattivo odore è orribile e non c’è acqua. Quasi dappertutto in Etiopia cucinano anche pasta, forse un retaggio della breve permanenza italiana. Mangiamo un piatto di spaghetti scotti ed una specie di cotoletta alla milanese completamente bruciata, la birra è invece ottima. Il nostro autista mangia injera. È il più tipico dei piatti etiopici e lui dice che è così buona che non potrebbe stare un giorno intero senza mangiarla. Si tratta di una specie di piadina morbida o crêpe, credo fatta con farina di miglio. La assaggiamo, ma non condividiamo il giudizio dell’autista, bensì ci accodiamo a quello che di Paul Theroux in Dark Star Safari: “freddo, umido e gommoso, più simile a 16 un tappetino da bagno intriso d’acqua che a una crêpe”.5 Comunque, in tre, non arriviamo a spendere 10 euro. Riprendiamo il viaggio. Ci fermiamo solo un’altra volta, a Dangla, dove - in un lurido motel dietro un distributore – beviamo una birra. Arriviamo a Bahir Dar attorno alle 17,00. La città ha circa 160.000 abitanti ed è la capitale dello stato degli Amhara. L’altitudine resta piuttosto elevata, attorno ai 1.8001.900 metri. Bahir Dar è distesa sulle rive del Lago Tana, ha la pretesa di essere una località turistica e, in effetti, è abbastanza graziosa e dispone di diversi alberghi. Si dice che Hailé Selassié, negli anni ’60, abbia accarezzato l’idea di trasferirvi addirittura la capitale. Fortunatamente troviamo posto nell’albergo in testa alla nostra lista: il Summerland Hotel. Non hanno singole disponibili e ci assegnano una camera doppia. L’albergo è nuovo, ma gli Etiopici dovranno fare ancora qualche sforzo per raggiungere gli standard internazionali. Non c’è ascensore, e non ne troveremo mai neanche negli alberghi successivi, per cui ci rallegriamo che la nostra camera sia al primo piano, non sapendo ancora che c’è anche il ristorante. Verremo svegliati alle 5,30 del mattino dallo starnazzare delle cuoche. La struttura triangolare della camera copia quella che poi scopriremo essere tipica della catena statale Ghion. Per fare la doccia dobbiamo aspettare, perché per l’acqua c’è uno scaldabagno dell’Ariston che troviamo staccato. L’Ariston fa buoni affari in Etiopia, troveremo i suoi scaldabagni anche in tutti gli alberghi successivi. Un’altra “invenzione” che sarebbe stata comoda e non abbiamo mai trovato è quella dell’aria condizionata. Comunque, una volta ripuliti e dopo aver spruzzato insetticida nella stanza, usciamo ed andiamo a bere una birra sul lago, al Mango Park, frequentato da famiglie e studenti. Qui una birra costa circa 40 centesimi di euro, durante tutto il nostro giro la troveremo a prezzi compresi fra i 20 ed i 50 centesimi. Ceniamo al nostro hotel, cucina internazionale senza infamia né lode. Poi, andiamo a fare due passi, ma prima delle 11,00 siamo già a letto. 5 Op. citata 17 Terzo giorno 15 marzo 2008. Noleggiamo una barca ed andiamo a visitare alcuni dei conventi del Lago Tana. Uno dei più belli, posto su un’isola, è il Kebran Gabriel, il cui ingresso è vietato alle donne. Giorgio, Haimanot e Romano Isole sul Lago Tana 18 Il molo del Kebran Gabriel, sopra, e l’ingresso al monastero, sotto 19 Il Kebran Grabriel, sopra, ed un codice miniato (forse del XIV secolo), sotto L’edificio principale è del XVII secolo, ha un portico a 12 colonne e, all’interno, alcuni bei dipinti. In una capanna vicina alla chiesa, i monaci hanno allestito un minuscolo museo con molte croci ed alcuni antichi codici miniati in pergamena. Contemporaneamente a noi arriva anche un ragazzo di colore, di bell’aspetto e benvestito. Come mi dirà in seguito, si tratta di uno studente di Addis Abeba in visita, anche lui per la prima volta, ai conventi del lago. Mi è molto utile perché l’inglese del 20 monaco che fa da guida al piccolo museo è molto approssimativo e, quando lo studente si accorge che sono in difficoltà a capire, si fa spiegare in amarico e traduce in inglese a mio vantaggio. A mia volta, io traduco in italiano per Romano. “Che bello – dice – ho una guida, un interprete ed un traduttore, tutti a mia disposizione”. Le croci che ci mostrano sono di diverse tipologie, praticamente ogni città etiopica ne ha una diversa. La più bella è quella di Gondar, è composta da 33 piccole croci, a rappresentare gli anni di Cristo, 12 delle croci, gli apostoli, sono un po’ sporgenti e 3 croci più grandi, anch’esse sporgenti, simboleggiano la Trinità. I codici miniati qui li trattano con una certa cura, il monaco li estrae da un armadio, dove vengono conservati avvolti in un panno. Mi fanno prendere una foto senza flash del più antico, risalente – dicono - al XIV secolo (ma io ne dubito). Visitiamo altri due monasteri, l’Ura Kidane Meret ed il Debre Maryam. I monasteri si assomigliano un po’ tutti. Sono a pianta circolare, con il tetto conico, un po’ come dei grandi tucul. Di norma hanno anche un porticato esterno e le pareti affrescate, oppure decorate da grandi dipinti su tavola. I dipinti hanno quasi sempre carattere didattico, come ho già visto anche nei monasteri ortodossi europei. Ed è normale che, in passato, per raccontare qualcosa a gente che raramente sapeva leggere, fossero usate le immagini. Così, oltre alle tematiche tipiche dell'iconografia cristiana come le crocifissioni o le madonne, si trovano molti racconti delle gesta di santi locali: da quello che addomesticava enormi serpenti a quello che uccise una balena, la quale stava per distruggere una chiesa con la coda. Non manca quasi mai San Giorgio, il protettore dell’Etiopia, nell’atto di trafiggere il drago. Una cosa curiosa è che si distinguono immediatamente i buoni dai cattivi, infatti i primi sono rappresentati frontalmente, mentre i secondi sono di profilo. Il Debre Maryam 21 Nell’ultimo monastero, il Debre Maryam, un monaco ci mostra un paio di antichi codici miniati, trattandoli malamente: se li mette sulle ginocchia e li apre come se avesse in mano una fisarmonica. Fuori dal convento, lo studente di Addis Abeba – che incontriamo nuovamente – ci fa notare una coltivazione di chat; ne mettiamo in bocca qualche foglia che risputiamo poco tempo dopo. Un monaco, al Debre Maryam, ci mostra un antico codice miniato 22 Sul lago, vicino al Debre Maryam, c’è la sorgente del Nilo Azzurro che – partendo da qui – percorrerà 5.223 chilometri prima di arrivare al Mediterraneo. Vediamo anche qualche tankwa, sottili imbarcazioni tradizionali costruite con papiro intrecciato, e in lontananza la testa di un ippopotamo. Due Tankwa Torniamo a Bahir Dar e ci fermiamo un po’ nel suo porticciolo. È un vero spettacolo. Da un traghetto arrugginito sbarca una variopinta folla, probabilmente diretta verso qualche mercato. Sulla banchina giace ogni genere di mercanzia. Scaricatori malvestiti trasportano grandi sacchi sulla propria testa o servendosi di carretti tirati da muli, che vengono frustati senza alcuna pietà. Sbarco al porticciolo di Bahir Dar 23 In queste pagine: immagini del porticciolo di Bahir Dar 24 25 Avvicinandosi l’ora di pranzo, andiamo al Bahir Dar Hotel, che ha un popolarissimo ristorante nel cortile interno. Mangiamo un’ottima cotoletta di un pesce non meglio identificato, accompagnata da birra St. George, della quale siamo ormai diventati grandi estimatori. A pranzo al Bahir Dar Hotel e, sotto, la famosa injera 26 Sopra e sotto: dintorni di Bahir Dar 27 In queste pagine: verso le cascate Tis Isat 28 29 Giorgio, Haimanot e Romano davanti alle cascate Tis Isat, sul Nilo Azzurro Il pomeriggio andiamo verso le cascate del Nilo Azzurro, Tis Isat, che letteralmente significa “acqua che fuma”. Per arrivarci bisogna percorrere 32 chilometri di una strada polverosissima e, come al solito, affollatissima di gente a piedi che trasporta di tutto. Una volta arrivati al fiume, dobbiamo attraversarlo e noleggiamo una barca a motore, mentre i locali si ammassano su barche mosse con delle pertiche. Poi, per arrivare alle cascate, si percorre per circa un chilometro un sentiero, stando attenti a non pestare le numerose cacche di vacca. Le cascate una volta erano imponenti, avevano un’ampiezza di 400 metri e precipitavano da un dirupo alto 37 metri. Poi, a monte è stata costruita una diga idroelettrica e, oggi, sono molto più strette e anche il salto si è un po’ ridotto, a 29 metri. Le cascate sono, comunque, belle. La cosa più attraente è la mancanza di una qualsiasi attrezzatura turistica. Torniamo, in città. Doccia, aperitivo, cena, passeggiata e di nuovo a letto prima delle 11,00. Vita sana, non c’è che dire. 30 Quarto giorno 16 marzo 2008. Il mattino partiamo verso Gondar. Sono meno di 200 chilometri di strada tortuosa, ma con il fondo asfaltato. Sulla strada per Gondar e, sotto, mercato del bestiame 31 Gondar ha 150.000 abitanti ed è una bella città, rovinata solo dai troppi tetti di lamiera ondulata. L’altitudine è superiore ai 2.000 metri e la città è libera dalle zanzare. Per più di un secolo, a cavallo fra il 1600 ed il 1700, fu la capitale dell’impero. Prendiamo alloggio al Goha Hotel, della catena statale Ghion, in una splendida posizione su una collinetta che domina la città. Prendiamo due singole. Le camere sono simili a quelle dell’albergo di Bahir Dar, un po’ più logore, ma molto più caratteristiche. Il palazzo di Fasiladas Iniziamo la visita dal recinto imperiale. Per 150 birr (poco più di 10 euro) ingaggiamo una guida per l’intera giornata. La maggior parte dei castelli è stata restaurata o è in corso di restauro, a cura dell’Unesco. Entriamo dalla porta della principessa e arriviamo in una spianata dominata dal Palazzo di Fasiladas, del XVII secolo. Alto 32 metri, è il più antico dei castelli, ha un parapetto merlato e quattro torrette a cupola. Si dice che fu progettato da un architetto indiano ed è un miscuglio di stili, con influenze appunto indiane, portoghesi, moresche e aksumite. Sulla sinistra, guardando al palazzo, c’è la biblioteca di Giovanni I°, figlio di Fasiladas e, di fronte, l’archivio di quest’ultimo, sventrato dai bombardamenti inglesi del 1941, ma ancora bello con il suo parapetto merlato e le finestre a volta; la guida dice che un tempo era sfarzoso, decorato d’avorio. Dietro il palazzo di Fasiladas, c’è una grande cisterna che serviva a raccogliere l’acqua piovana. Un po’ più in là, dietro la biblioteca, sono le rovine del palazzo di Iyasu I°, figlio di Giovanni e più importante sovrano dell’epoca di Gondar. Anche questo palazzo fu rovinato dai bombardamenti. Di fronte c’è la sala dei banchetti. Proseguendo verso Nord, si incontra la casa del canto dell’imperatore Dawit, divisa in due, una metà per le musiche sacre e l’altra metà per quelle profane. 32 La biblioteca di Giovanni I L’archivio di Fasiladas 33 Il palazzo di Iyasu I 34 La sala dei banchetti con, sullo sfondo, il palazzo di Fasiladas La casa del canto dell’imperatore Dawit, a sinistra, e la casa dei leoni, a destra 35 Le scuderie e la sala dei banchetti di Bakaffa Vicino alla casa del canto, c’è la casa dei leoni. Ce n’erano due esemplari fino al 1992. I leoni sono il simbolo degli imperatori etiopici ed era loro uso tenerne qualcuno a portata di mano. Anche Hailé Selassié ne aveva nel parco del suo palazzo ad Addis Abeba. Dawit morì avvelenato nel 1721 e gli succedette Bakaffa, che fece erigere un enorme sala dei banchetti e delle grandi scuderie, dove i feudatari potevano lasciare le loro cavalcature quando si recavano dal loro imperatore per ossequiarlo e pagargli i tributi. Poi c’è un bagno turco e la palazzina di Mentewab, moglie di Bakaffa, dove oggi è stato sistemato un negozio di souvenir, il cui ricavato va per il restauro dei castelli. Siccome ho lasciato il mio in un monastero del Lago Tana, compro – per un controvalore di circa 3 euro e mezzo - un cappello di cuoio a larghe tese, a causa del quale i locali mi apostroferanno a volte come “cow-boy”, termine che si alternerà a quello, più comune, di farangi. Gli etiopici chiamano farangi tutti gli stranieri di pelle chiara. La parola deriva da franco, francese. Si diffuse probabilmente a partire dalle crociate del XII secolo, addirittura fino all’Asia sudorientale (farang in Thailandia, feringhi in Malaysia). Ci spostiamo in auto, a circa due chilometri dalla città, per visitare i bagni di Fasiladas. Qui c’è un piccolo edificio, che era la residenza estiva del sovrano, ed una grande piscina. Viene riempita una volta l’anno, il 19 gennaio, per la festa del Timkat, rievocante il battesimo di Cristo. Un sacerdote benedice l’acqua e poi la folla prende d’assalto la grande vasca. La guida ci dice che i ragazzini usano tuffarsi dai grandi alberi, le cui radici affondano nei muri in pietra che circondano la piscina e che mi ricordano quelle dei templi di Angkor Thom, in Cambogia. Vicino ai bagni, in un prato recintato, c’è il mausoleo di Zobel, cavallo dell’imperatore. 36 I bagni di Fasiladas, sopra, e radici sulle mura che circondano la piscina, sotto 37 Su consiglio della guida andiamo a mangiare in un ristorante molto tipico, con tetto di paglia, mobili in giunco ed anatre che gironzolano per il locale. Ordiniamo “lamb tips”, agnello sminuzzato in pezzetti molto piccoli. Loro vorrebbero che lo mangiassimo con le mani e fatichiamo un po’ per farci portare le forchette. È buonissimo e l’insaziabile Romano fa doppia razione. Pulizia delle mani, sopra, lamb tips, sotto a sinistra, e injera, a destra 38 Dopo pranzo, ci aspetta la visita alla chiesa di Debre Berhan Selassie, letteralmente “Monte di luce della Trinità”. Fu costruita intorno al 1690 da Iyasu I°. È circondata da un grande muro con 12 torri, in rappresentanza dei 12 apostoli, più una torre più grande simboleggiante Gesù. Con un grande tetto di paglia, la chiesa all’interno è completamente affrescata. I dipinti sulle pareti sono di ottima fattura, mentre non ci impressionano molto le tanto decantate 104 facce di angioletti che costellano il soffitto. Molto bello invece un grande diavolo, intento nella punizione di alcuni dannati. Mi stupisce il fatto che sia rappresentato di fronte poiché, essendo “cattivo”, dovrebbe essere di profilo. Chiedo spiegazioni alla guida e ricevo la risposta, non molto convincente, che essendo nota a tutti la malvagità del diavolo, non c’era alcun bisogno di sottolinearla. Io, invece, propendo per una spiegazione più teologica: in quel momento il diavolo è uno strumento della giustizia divina e pertanto, come esecutore della sua volontà, non deve essere annoverato fra i cattivi. Molto belle, sulla parete a sinistra dell’entrata, anche le raffigurazioni di molti santi e cavalieri cristiani nell’atto di trafiggere infedeli e bestie immonde. Il recinto della Debre Berhan Selassie La torre di “Gesù”, nel recinto della Debre Berhan Selassie 39 La chiesa di Debre Berhan Selassie Affreschi all’interno della chiesa di Debre Berhan Selassie 40 Terminata la visita e licenziato il nostro cicerone, abbiamo voglia di prendere un buon caffè. La guida Lonely Planet6 segnala l’Abyssinia Cafè come un “classico caffè italiano nel cuore della piazza, che è come un salto nel passato. Il caffè è ottimo e la birra costa poco”. Siccome il nostro autista non lo conosce, cominciamo a chiedere in giro. Nessuno sa dove sia. Un bambino, si badi bene interrogato dall’autista in amarico non da me in inglese, ci porta addirittura all’Abyssinia Bank. Quando finalmente troviamo il caffè, capiamo il perché di tanta ignoranza: si tratta di un trasandato localino di due metri per quattro, con un’insegna piccolissima, che di italiano ha solo il piccolo ed antiquato bancone. Anche il caffè non è un granché. Essendo ancora alle prime ore del pomeriggio, decidiamo di andare a Wolleka, un villaggio falascia a 6 chilometri da Gondar. Più che di strada, si tratta di 6 chilometri di pista. I falascia sono gli ebrei d’Etiopia. Quando il cristianesimo divenne la religione di stato, i falascia rifiutarono di convertirsi e, perciò, gli furono confiscate le terre. Dovendo cambiare lavoro, divennero abili artigiani: quelli di Wolleka erano famosi per la ceramica. Dal 1985 al 1991 molti ebrei sono emigrati in Israele. Oggi, Wolleka è un insignificante villaggio, polveroso oltre ogni umana immaginazione, ove si producono insulsi ninnoli di ceramica per i rarissimi turisti che si spingono fino a lì. Torniamo in hotel. Dopo una bella doccia ristoratrice, andiamo nel giardino terrazzato dell’albero, dal quale si gode di un bel panorama sulla città. Dopo un po’ veniamo “disturbati” da tamburi, urla e canti. Si tratta di un matrimonio. Il baccano, però, dura solo un quarto d’ora. Dopo, gli sposi e la cinquantina di ospiti si siedono e continuano i “festeggiamenti” bevendo mestamente aranciata e pepsi-cola. Passata un’oretta, se ne vanno in silenzio. Un matrimonio al nostro hotel a Gondar 6 Matt Phillips, Jean-Bernard Carillet, “Etiopia e Eritrea”, EDT, Torino, 2007. 41 Ancora il matrimonio Nel giardino terrazzato del Goha Hotel di Gondar 42 Per il dopo cena, abbiamo un appuntamento con l’autista che ci porterà a vivere le folli notti di Gondar. Sembra proprio che, per gli Etiopi, il massimo del divertimento siano gli azmari. Si tratta di menestrelli, che compongono sul momento canti e battute su fatti di attualità o sulle persone presenti. L’azmari si accompagna con un masenko, una specie di violino con una sola corda, e c’è sempre insieme a lui una ragazza che balla l’iskita, alzando ed abbassando le spalle e spostandole avanti e indietro, mentre i fianchi e le gambe restano fermi. La coppia è accompagnata da una terza persona che suona un tamburo, per segnare il ritmo. Il pubblico esprime il proprio apprezzamento andando a ballare di fronte alla ragazza e appiccicando banconote sulla fronte sudata dell’azmari o della stessa ballerina, o lasciandola cadere nel piattino di fianco al tamburo. Il nostro autista si diverte come un pazzo e noto che anche lui lascia mance, sicuro segno che non si tratta di una finzione a nostro uso e consumo. Sta di fatto, però, che noi – non capendo una parola di quello che dicono – dopo un po’ ci annoiamo. Torniamo in albergo e, non volendo certo perdere le buone abitudini appena acquisite, anche stanotte andiamo a letto prima delle 11,00. Una ballerina e, dietro, un azmari 43 Sopra e sotto: anche noi ci lanciamo nelle danze 44 Quinto giorno 17 marzo 2008. Riprendiamo la strada n. 3, verso Aksum. La tappa è di 270 chilometri, ma si tratta di strada di montagna, oltretutto non asfaltata. Infatti, impiegheremo almeno 10 ore a percorrerla. La strada è scomoda ma, in compenso, è ricca di vedute mozzafiato sui Monti Simien e il parco nazionale che li circonda, con molte vette che superano i 4.000 metri ed il Ras Dashen che si spinge fino a 4.590 metri. Attorno alle 10,00 ci fermiamo a Debark, uno dei pochi centri abitati degni di questo nome lungo la strada, al Simien Park Hotel, luogo senza troppe pretese. Ad un tavolo del cortile c’è un occidentale sui 65 anni, accompagnato da una prosperosa ragazza di colore. Ci saluta con un “good morning” e sembra un po’ stupito di incontrare altri bianchi in quel posto. Scopriremo poi che si tratta di un americano di Jackson, nel Wyoming. Non avevo mai conosciuto un americano del Wyoming e, sinceramente, anch’io mostro un certo stupore per averlo incontrato proprio in mezzo all’Africa. Io prendo solo un caffè, mentre Romano si fa un bel panino con frittata. E fa bene, perché lungo il percorso non troveremo altri posti per mangiare. Ingresso a Debark 45 A Debark Ancora a Debark 46 Sempre a Debark Sulla strada verso i Monti Simien 47 Bambina sulla strada verso i Monti Simien La strada fra Debark e Adi Arkay è veramente spettacolare, con le montagne che sembrano un’ininterrotta serie di guglie, pinnacoli e imponenti torrioni. Certo, i tornanti della vecchia strada 48 italiana, scavati nella roccia e spesso non protetti da alcun parapetto, non sono i più indicati per chi come me soffre di vertigini. Osservando le tante montagne brulle, seppur pittoresche, anche se l’autista ci dice che durante la stagione delle piogge diventano tutte verdi, si capisce meglio cosa intendeva dire Winston Churchill quando, in riferimento all’avventura imperiale italiana, parlò di “regioni che in quattromila anni nessun conquistatore giudicò mai valesse la pena di sottomettere”. Fra le case tradizionali, vediamo sempre più tucul. Si tratta di piccole abitazioni circolari con le pareti di fango ed il tetto di paglia o, i più “moderni”, di lamiera. In genere non ci sono finestre. Spesso dentro la stessa abitazione, vivono sia la famiglia, a destra, che gli animali, a sinistra. In seguito, a Lalibela, vedremo addirittura dei tucul a due piani. I Monti Simien Ad un cero punto, siamo bloccati da un incidente. La strada è totalmente occupata da un vecchissimo carro attrezzi Mercedes che sta tentando di rimettere in carreggiata un camion Iveco, a nostro avviso senza alcuna speranza di farcela. Infatti, dopo mezz’ora, desistono e finalmente il carro attrezzi si sposta e ci lascia passare. Gli lasciamo una bottiglia d’acqua, visto che le quattro persone che son lì sembrano tutte mezze morte di sete, e proseguiamo. 49 Sopra e sotto: incidente sulla strada 50 La discesa verso il fiume Tekeze Per una tortuosissima strada di terra rossa, con la polvere che penetra dappertutto, scendiamo verso il fiume Tekeze, dove passa il confine fra lo Stato degli Amhara ed il Tigray. “Villini” sul fiume Tekeze 51 Fanciulla Quando torniamo sopra i 2.000 metri ed il caldo diminuisce, essendo pomeriggio ormai inoltrato, siccome la fame si fa sentire e, previdenti, abbiamo pane e marmellata, ci fermiamo sotto un albero per un picnic. Dal niente, sbucano 5 o 6 bambini ed un adulto. Sentendoci un po’ osservati, smettiamo di mangiare e regaliamo loro il barattolo di marmellata. L’adulto la distribuisce equamente ai bambini, direttamente sulle mani, e poi con un dito cerca di raccogliere dal barattolo i rimasugli. Temiamo che, non essendoci traccia d’acqua in giro, a tutti resteranno le mani leggermente appiccicose. 52 In questa pagina: dopo la distribuzione della marmellata 53 Arriviamo ad Aksum al tramonto. È una città di 40.000 abitanti a 2.100 metri di altitudine e, dalle poche luci che vediamo, la giudicheremmo ancora più piccola, sembra più un villaggio che una città. Prendiamo due camere al Yeha Hotel, della medesima catena statale dell’albergo di Gondar; gli è simile in tutto. Dopo cena, per cercare di tirare almeno fino alle 11,00 ci fermiamo al bar dell’albergo, bevendo gin ed araki, la grappa locale al sapore di anice. Iniziamo a conversare con il barista. Non so a che età si vada in pensione in Etiopia, ma penso che il nostro barista ci sia vicino e cioè che, se non ha sessant’anni o più, ne abbia almeno 57 o 58. Quindi ci rimango male, quando parlando di Hailé Selassié affermo che penso che lui se lo ricordi bene e quello, di rimando, risponde che lo ricorda poco perché, quando è morto, aveva solo 8 anni. Quindi, visto che l’imperatore è stato deposto e ucciso nel 1974, deduco che il nostro barista di anni ne ha solo 42. Comunque, alle 10,30 chiude il bar e se ne va a casa e noi capiamo che si è fatto tardi ed è ora di andare a dormire. 54 Sesto giorno 18 marzo 2008. Il mattino ci alziamo ovviamente presto e, dalla terrazza dell’albergo, abbiamo modo di osservare bene la città. È veramente dimessa e sembra impossibile che questo villaggio pieno di polvere sia stato la capitale di un impero per 1.200 anni. Quando arriva l’autista, scendiamo in città, ingaggiamo una guida e siamo pronti ad iniziare le visite. Cominciamo dal parco delle stele settentrionali. Le stele sono state ricavate da blocchi unici di granito. La grande stele è quella che mi ha impressionato di più. Alta 33 metri, è il singolo blocco di pietra più grande che l’uomo abbia mai tentato di erigere. Cadde 1.600 anni fa e, dopo di lei, ad Aksum non è stata più eretta nessun’altra stele. Considerando che si era agli inizi della penetrazione cristiana, è credibile che questo disastro abbia contribuito alla fine del paganesimo ed alla conversione della popolazione al cristianesimo. In questo caso, non si può certo escludere che la caduta sia il frutto di un sabotaggio. Cadendo, la stele si è abbattuta contro l’enorme pietra di 360 tonnellate che copre la tomba di Nefas Mawcha, facendone crollare la camera centrale. La grande stele 55 La più alta è la stele di re Ezana La stele più alta attualmente in piedi è quella di re Ezana, con i suoi 24 metri, visto che la stele di Roma – di poco più grande - è ancora tagliata in tronconi e impacchettata, anche se è ormai pronto il basamento sul quale dovrà essere eretta. Oltre alla tomba di Nefas Mawcha, nel parco delle stele settentrionali ci sono la tomba degli archi di mattoni e quella della finta porta, la quale prende il nome dalla grande lastra di pietra sulla quale è incisa, appunto, una porta. Abbastanza interessante è anche il piccolo museo, con alcune iscrizioni risalenti a 2.500 anni fa e vari reperti rinvenuti nelle tombe, oltre a monete risalenti al periodo fra il IV ed il VI secolo dopo Cristo. Un angolo del parco delle stele settentrionali 56 Prima di proseguire ci fermiamo in un bar, dove possiamo ammirare un grande schermo TV a 16:9, ove viene trasmesso il dibattito parlamentare intorno al report semestrale governativo sullo stato del Paese, che rivedremo anche in albergo e durerà fino a tarda notte. Non capiamo cosa stiano dicendo, ma ammiriamo l’energia del presidente del parlamento, una bella signora sulla sessantina. La chiesa di Enda Iyesus, in un angolo del parco delle stele settentrionali Su una collinetta a 2 chilometri dalla città, si trovano le tombe dei re Kaleb e Gebre Meskel, del VI secolo, con lavorazioni della pietra molto raffinate. Scendendo ci fermiamo davanti ad una baracchetta e, con una piccola mancia al custode, possiamo vedere la famosa iscrizione di re Ezana. È stata paragonata all’egiziana stele di Rosetta ma, naturalmente, la sua importanza è di molto inferiore. Fu trovata casualmente da un contadino nel 1981; è in tre lingue: sabeo, ge’ez e greco. Commenta le campagne militari cristiane del re. Forse è stata lasciata lì perché contiene anche una maledizione: chiunque la sposti andrà incontro a morte prematura. Una croce all’interno della tomba di re Kaleb, chiaro segno di cristianizzazione 57 La tomba di re Kaleb Un esempio di strada etiopica: la discesa dalle tombe dei re Kaleb e Gebre Meskel 58 L’iscrizione di re Ezana 59 I bagni della regina di Saba I bagni della regina di Saba altro non sono che un grande serbatoio, ancora oggi utilizzato per prendere acqua e lavare i panni. In realtà, la vasca è posteriore di circa mille anni all’epoca in cui dovrebbe essere vissuta la mitica regina. Di epoca altrettanto posteriore sono anche i resti del cosiddetto palazzo della regina di Saba. Di fronte a quest’ultimo, c’è il parco delle stele di Gudit, più piccole di quelle situate in città e non decorate. La mattinata volge al termine ma, prima di pranzo, vogliamo ancora fare un paio di visite. I resti del palazzo della regina di Saba 60 Il parco delle stele di Gudit 61 La tomba di re Bazen risale all’epoca di Cristo, non è lavorata ma la scala d’ingresso scavata nella roccia è piuttosto suggestiva. Dietro la tomba vi sono una serie di altre camere funerarie, simili a loculi, sempre scavate nella roccia. L’ingresso alla tomba di re Bazen 62 Nel giardino di re Ezana, vicino al centro della città, dentro un tucul con il tetto in lamiera, vi è un’altra iscrizione, sempre trilingue, ove si ringrazia il dio della guerra. Pertanto l’iscrizione è precedente alla conversione al cristianesino di Ezana. L’iscrizione nel giardino di re Ezana 63 Il monastero Abba Pentalewon Mentre andiamo verso il ristorante, ammiriamo la splendida posizione del monastero Abba Pentalewon, su un pinnacolo che era già ritenuto sacro in epoca pagana. Dopo pranzo, ci rimane da visitare la chiesa di Santa Maria di Sion. Axum è la città sacra dell’Etiopia e in questa chiesa venivano incoronati gli imperatori. Più che di una chiesa si tratta di un complesso: c’è la chiesa nuova, quella antica e la cappella che contiene l’arca dell’alleanza. Cominciamo dalla chiesa nuova, fatta costruire da Hailé Selassié negli anni ’60. Si dice che, nel 1965, la regina Elisabetta d’Inghilterra doveva recarsi in visita ufficiale in Etiopia ed, essendo nella chiesa antica vietato l’ingresso alle donne, il negus ricorse all'espediente di costruire questa nuova cattedrale. Anche questa costruzione, come le altre volute da Hailé, ha uno stile monumentale, con una grande cupola ed un enorme campanile. Mentre passo dalla chiesa nuova a quella antica, vado verso il piccolo padiglione in cui è contenuta l’Arca dell’Alleanza, per prendere una foto dall’esterno. Vengo immediatamente sgridato da un monaco, sembra che si potrebbe rimanere fulminati solo ad avvicinarsi troppo. Ma deve essere che Dio colpisce solo i bianchi, visto che io vengo tenuto ad almeno 100 metri, mentre un abissino – come documentato da una mia foto – arriva fin proprio davanti al cancello del piccolo recinto. La chiesa antica è stata ricostruita da re Fasilidas nel 1665, dopo che la vecchia chiesa – probabilmente del IV secolo – era stata distrutta dal 1535 dagli islamici di Gragn Mancino. Già l’esterno della chiesa, a pianta rettangolare, è molto bello ma ancora di più mi piacciono gli affreschi dell’interno, in particolare le due madonne, quella bianca e quella nera, ed il ciclo che racconta la storia di non so quale santo che convertì un leone. 64 La chiesa nuova di Santa Maria di Sion Il padiglione dell’Arca dell’Alleanza 65 La chiesa antica di Santa Maria di Sion Il cortile di di Santa Maria di Sion 66 Un grande sicomoro La leggenda del santo che addomesticò un leone, affresco all’interno della chiesa antica di Santa Maria di Sion 67 In queste pagine: la Madonna bianca e la Madonna nera, affreschi all’interno della chiesa antica di Santa Maria di Sion 68 69 Congedata la guida, prima di tornare in hotel abbiamo il tempo di fare un giretto in città, bere una birra, osservare i ragazzi uscire da scuola, studiare i movimenti di minibus e minitaxi, vedere la pioggia che, però, purtroppo per loro, non dura neanche tre minuti. E vorrei sprecare due parole sulle osservazioni di cui sopra. I ragazzi escono da scuola il tardo pomeriggio non perché ci sia il tempo pieno, ma perché le aule sono poche e ci sono i turni. Ogni scuola, o college come li chiamano qui un po’ pomposamente, ha la sua divisa e, da lontano, i ragazzini sembrano eleganti, ma da vicino le divise sono lise e sdrucite. Riguardo ai mezzi di trasporto, in città si usano minibus, taxi e minitaxi, tutti con i caratteristici colori bianco e azzurro. I taxi li abbiamo visti in buon numero solo ad Addis Abeba e sono quasi tutti vecchie Lada, ovvero le nostre Fiat 124 degli anni ’70; una corsa abbastanza lunga costa circa 3 euro. I minitaxi sono motocarri, i nostri apetti; possono trasportare al massimo due persone e costano circa la metà dei taxi più grandi. I minibus circolano in continuazione e l’aiutante dell’autista, sporgendosi dal finestrino, grida forte la direzione; una corsa costa da 3 a 10 centesimi di euro. Passando infine alla pioggia, questa dovrebbe essere la stagione delle “piccole piogge”, ma quest’anno è più arido del solito. Uscita da scuola ad Aksum 70 Minitaxi e minibus ad Aksum Bambino di Aksum 71 Torniamo in albergo e convinciamo l’autista a restare a cena con noi, poi noi ci fermiamo al bar, mentre lui - astemio – torna alla sua pensione. Una cosa che non ho finora detto: chi si accontenta può trovare da dormire spendendo uno o due euro a notte. Alberghi lussuosi ci sono solo ad Addis Abeba, l’Hilton e lo Sheraton, mentre nelle altre città ci sono quelli che la guida Lonely Planet chiama di “prezzi medi”. Noi, scegliendo il miglior albergo di ogni località, spendiamo circa 25 euro in camera singola, scegliendo la camera doppia si andrebbe attorno ai 15 euro a testa. La colazione non è mai compresa, ma una “continentale” costa un euro o poco più. 72 Settimo giorno 19 marzo 2008. Ci aspetta una tappa di circa 200 chilometri, fino a Macallè, non troppo lunga ma, specialmente nella prima parte, piuttosto pesante per le condizioni della strada. Dobbiamo fare gasolio. I giorni scorsi abbiamo già fatto il pieno una volta senza difficoltà, ma oggi l’impresa non è facile. Sembra che i 4 o 5 distributori di Aksum abbiano tutti finito il carburante; ne troviamo uno, ma davanti a noi c’è un camion che prosciuga gli ultimi litri. Haimanot non è preoccupato e lasciamo comunque la città. Proviamo nuovamente ad Adua, qui hanno il carburante ma non la corrente elettrica. Adua, dove perdemmo la famosa battaglia, è oggi un’anonima cittadina di 40.000 abitanti. Proseguiamo. Ormai siamo ad una manciata di chilometri dal conteso confine eritreo, cominciano a vedersi diverse installazioni militari. Aratura 73 Sopra e sotto: monti di Adua 74 Una breve deviazione dalla strada principale ci porta a Yeha. È stata la prima capitale etiopica, più antica di Aksum. Qui c’è la chiesa di Abuna Aftse, ma soprattutto le rovine di un tempio risalenti ad un periodo compreso fra l’ottavo ed il quinto secolo avanti Cristo. Il tempio è stato costruito a secco con grandi blocchi di pietra, lunghi fino a 3 metri, la cui lavorazione desta veramente stupore: non si riuscirebbe a infilare neanche una monetina fra una pietra e l’altra. Di fronte al tempio c’è il complesso Grat Beal Gebri, monumenti monolitici più piccoli di quelli di Aksum, ma che li anticipano. La chiesa di Abuna Aftse Monte a forma di cane 75 Monaco Mendicanti 76 Grat Beal Gebri 77 In queste pagine: il tempio di Yeha, risalente ad un periodo fra l’VIII ed il V secolo avanti Cristo 78 79 In questa pagina: casa in costruzione 80 Ritornati sulla strada principale, riusciamo finalmente a far gasolio. Poco dopo l’autista sente un rumorino strano, si ferma e riesce, più o meno, a riparare il guasto. Così, possiamo affrontare senza patemi d’animo la lunga deviazione per Debre Damo. Sulla brutta strada sterrata troviamo anche dei lavori in corso e non mi fa per niente piacere lo stretto passaggio sulla ghiaia appena smossa dai bulldozer, con sulla destra uno strapiombo di parecchi metri. Bambina 81 C’è un rumorino Lavori in corso 82 Casa in mezzo al nulla Bambino 83 Un altro bambino 84 L’amba di Debre Damo Durante la salita verso l’amba 85 L’ingresso al monastero di Debre Damo 86 Lasciamo l’auto in uno slargo al termine della strada sterrata e saliamo a piedi per circa un quarto d'ora, fino alla base di una falesia. Il monastero di Debre Damo è abbarbicato a 2.800 metri di altezza sulla sommità di un’amba, una montagna dalla cima piatta. L’unica maniera per raggiungere il monastero, che è completamente circondato da dirupi a picco, è quella di arrampicarsi per 15 metri con una corda. Gli indigeni salgono a piedi nudi; è probabilmente più facile farlo visto che vi sono piccoli anfratti, nei quali le scarpe non entrano, scavati da milioni di altri piedi in secoli e secoli di ascensioni e discese. Circa a metà strada c’è una sporgenza, nella quale si può riposare un poco. Io, che soffro di vertigini, rifiuto assolutamente di salire. Romano, invece, a 70 anni suonati dice: “Beh, ormai siamo qui”. Gli legano una cinta di sicurezza attorno alla vita; considerando che c’è un solo monaco mingherlino a tenere la cinta dall’alto e nessun argano, dubito che possa veramente evitare una caduta. Comunque, con non poca fatica Romano arriva su. Il nostro autista Haimanot, che qui c’era già stato 5 o 6 volte ma non era ma salito, deve pensare: “Se l’ha fatto lui che ha settant’anni, non dovrei farlo io che di anni ne ho appena ventotto?” E comincia ad andare su. Arrivato a metà, spaventatissimo, vorrebbe scendere ma, fra il monaco che lo incita dall’alto ed alcuni ragazzini che fanno il tifo da sotto, lo convincono a continuare. Mentre io rimango in compagnia delle capre, loro visitano il monastero che ha circa 80 monaci ed è completamente autosufficiente, compresi alcuni capi di bestiame e serbatoi d’acqua scavati nella roccia. L’ascesa di Romano 87 In questa pagina: continua l’ascesa di Romano 88 Ascesa e terrore di Haimanot Panorama dai piedi dell’amba 89 Compagna nell’attesa Saluti dal monastero, a sinistra, e discesa di Romano, a destra 90 Atterraggio di Romano, a sinistra, e discesa di Haimanot, a destra Paesaggio, non lontano da Adigrat 91 Lavori in corso 92 Piccola (e sporca) conquista ad Adigrat Ripreso il viaggio, arriviamo ad Adigrat attorno alle 3 del pomeriggio e ci fermiamo a mangiare all’Hohoma Hotel. Già carino nel nome, ispirato al fratello di Babbo Natale, è straordinariamente pulito rispetto ai normali standard etiopici. 93 Prima di Macallè ci sarebbero da vedere numerose chiese rupestri, ma data l’ora tarda ne visitiamo solo una, quella di Chirkos, la più vicina alla strada. A Macallè, città di 160.000 abitanti capitale del Tigray, dormiamo all’Aksum Hotel e andiamo a mangiare da Yordanos, entrambi molto al di sotto delle aspettative che aveva suscitato la guida Lonely Planet. Il campanile, sopra, e la chiesa di Chirkos 94 In questa pagina: l’interno della chiesa di Chirkos 95 Un monaco 96 Ottavo giorno 20 marzo 2008. L’ultima tappa del nostro giro, prima del ritorno ad Addis Abeba, è costituita da 370 chilometri di strada durissima, in gran parte sterrata. Dopo aver visto una lunghissima serie di scorci paesaggistici, con la schiena a pezzi e il naso pieno di polvere, arriviamo a Lalibela nel tardo pomeriggio. Fra Macallè e Lalibela 97 In queste pagine: ancora fra Macallè e Lalibela 98 99 In queste pagine: fra Macallè e Lalibela, continua 100 101 In queste pagine: anche Romano fa la sua piccola conquista 102 103 In queste pagine: sempre fra Macallè e Lalibela 104 105 In queste pagine: prosegue il viaggio fra Macallè e Lalibela 106 107 Lalibela non è una città, non arriva a 10.000 abitanti e, essendo divisa in due tronconi, sembra anche più piccola. È posta ad un’altitudine notevole, oltre i 2.600 metri. Prendiamo alloggio al Lal Hotel. Ceniamo in albergo, c’è anche un buffet con delle verdure crude. Romano vi si avvicina ed io lo ammonisco che è la maniera migliore per prendersi la dissenteria, ma un avventore bianco seduto ad un tavolo vicino ci dice che si può andare tranquilli. È un italiano che lavora lì da più di un anno per l’Unesco, per il progetto di conservazione delle chiese rupestri. Dopo cena, nel bar dell’albergo troviamo - a fare “animazione” - un azmari ed una ballerina. Nel frattempo conosciamo anche Stefano e Nadia (una coppia di Bologna che ha visitato a sud la valle dell’Omo e, come uniche tappe al nord, ha scelto Lalibela, Bahir Dar ed Addis Abeba) e due studentesse etiopiche ricche, che alloggiano all’hotel e si offrono di fare da interprete. Così possiamo finalmente sapere che tipo di battute fa l’azmari. Francamente, non sono molto divertenti. Ad esempio, una di quelle che ci riguardano è: “Ci sono due uomini, uno con i capelli ed uno senza. Si capisce subito che il capo è quello senza capelli, infatti anche il nostro primo ministro non ne ha”. Oltre a essere poco divertente, non si capisce chi sarebbe quello con i capelli, visto che anch’io ne ho ben pochi. Comunque, per rispettare le tradizioni, alle 10,00 rimaniamo al bar solo noi. Rimediamo anche un invito, per il giorno dopo, ad una cerimonia del caffè da parte della barista. Intanto, l’azmari e la ballerina continuano. Per farli smettere di suonare e sparare battute insulse, che oltretutto non avendo più le “interpreti” neanche capiamo, offriamo loro da bere. Ma dopo un po’, l’azmari ricomincia, anche da seduto. Così, usciamo all’aperto e, vista la splendida temperatura, ci sediamo a fare due chiacchiere, riuscendo a tirare fino a quasi mezzanotte. Tramonto a Lalibela 108 In questa pagina: azmari a Lalibela 109 Nono giorno 21 marzo 2008. Siamo rimasti a corto di birr e dobbiamo cambiare denaro. A Lalibela c’è un'unica banca. Per andarci bisogna entrare in un piccolo cortile, all’ingresso del quale c’è una guardia con il compito di perquisire gli avventori. Quando sono in viaggio, è mia abitudine portare un gilet simile a quello dei pescatori, con moltissime tasche che contengono di tutto: macchina fotografica, cellulare, portafogli, navigatore satellitare, un piccolo binocolo e così via. Dopo le prime due tasche, la guardia rinuncia a perquisirmi e mi fa cenno di passare. La banca è una stanzetta di quattro metri per quattro, al cui interno sono ammassate tre scrivanie ed un box per la cassa. Debbo cambiare solo 300 euro, ma immaginavo già prima di entrare che non sarebbe stato un lavoro veloce. Infatti, una cosa che finora non ho detto è che gli Etiopici sono estremamente burocratici. Fanno ricevute per tutto, normalmente scrivendole a mano in bollettari a tre copie, con la carta carbone. E questo avviene un po’ dappertutto, negli alberghi, nei ristoranti, nei bar, eccetera. Così, quando la sera si avvicina l’ora di chiusura, tutti sono alla prese con fasci di ricevute, contando il denaro e cercando di far quadrare i conti. Tornando alla banca, mi fanno sedere davanti alla scrivania di quello che sembra il direttore. Mi chiedono quanto voglio cambiare. Una ragazza digita qualcosa su una calcolatrice portatile e la fa vedere al direttore, che approva con un cenno del capo. La ragazza compila una specie di contabile su uno dei soliti bollettari a tre copie, porge il tutto ad un altro impiegato, suppongo l’addetto al riscontro. Questi ricontrolla, firma e mostra al direttore, che ci appone una sigla. Finalmente, la contabile viene passata alla cassa. Lì sono in due, una ragazza conta il denaro e lo passa a quello che penso sia il capo cassiere, il quale riconta e mi consegna il denaro. Vorrei chiedere di avere banconote di taglio più piccolo ma, per non correre il rischio di passare in banca l’intera mattinata, ringrazio ed esco. Qui sopra e nella pagina accanto: a Lalibela i fedeli si recano alla festa di San Michele 110 Diamo inizio alle visite delle famose chiese scavate nella roccia. In questo caso abbiamo una guida che era già stata contattata da Addis Abeba, un uomo sulla cinquantina, amico di certe suore comboniane e - a suo dire - parlante italiano. L’ha scritto anche sui biglietti da visita, ma in realtà non conosce più di 4 o 5 parole. La prima cosa che impariamo è che le chiese possono essere monolitiche, quando sono scavate su tutti e quattro i lati e quindi sono completamente staccate dalla roccia, o semi-monolitiche, quando uno o più lati sono ancora attaccati alla roccia. A Lalibela ci sono le chiese del gruppo NordOccidentale, quelle del gruppo Sud-Orientale e la Bet Giyorgis, isolata rispetto a tutte le altre. Cominciamo dal gruppo Nord-Occidentale. Le prime due sono le gemelle Bet Golgotha e Bet Mikael. Siamo fortunati perché, nel calendario etiopico San Michele viene festeggiato proprio oggi, il 21 marzo, ed è pieno di fedeli vestiti di bianco che vanno a pregare, essendo la seconda chiesa dedicata a lui. Uno spettacolo veramente suggestivo. Avvicinandoci, capisco perché a volte Lalibela viene paragonata a Petra. La roccia rossastra richiama quella della città giordana e, ad aumentare l’impressione, c’è la finezza della sua lavorazione, che spesso direi addirittura superiore. All’interno di Bet Mikael c’è anche la Cappella di Selassie, generalmente chiusa ma oggi aperta per il giorno di festa; contiene quattro figure scolpite che dovrebbero rappresentare gli evangelisti. Bet Golghota, invece, viene considerata così sacra che, secondo alcuni, basta una sola visita per assicurarsi il paradiso. 111 La gola che porta a Bet Golgotha e Bet Mikael 112 L’affollato ingresso di Bet Mikael 113 Alto prelato Figure scolpite nella cappella di Selassie 114 Fanciullo all’interno di Bet Mikael 115 Preghiera a Bet Miakael 116 La gente prega anche all’esterno di Bet Mikael. Qui la mia macchina fotografica subisce una brutta caduta che peggiorerà la qualità delle mie foto, con sfocature sul lato destro 117 Per un cunicolo, si arriva ad un cortile con altre tre chiese. Bet Maryam ha su una parete due serie di tre finestre. Quella superiore rappresenta la Trinità. Quella inferiore, sovrastata da una finestrella a croce, rappresenta la crocifissione di Gesù. La finestra a destra ha una piccola apertura sopra, a significare il ladrone pentito andato in paradiso, quella al centro è per Gesù, mentre quella a sinistra ha la piccola apertura sotto, a rappresentare il ladrone che andò all’inferno. Bet Medhane Alem sembra un tempio greco ed è la più grande chiesa rupestre del mondo, 33 metri per 23, con 11 metri di altezza. All’esterno ci sono 34 colonne rettangolari e altre 38 sono all’interno. In un angolo ci sono tre tombe vuote, preparate per Abramo, Isacco e Giacobbe. C’è, poi, la piccola Bet Meskel. A chiudere il gruppo Nord-Occidentale, la cappella di Bet Danaghel, costruita per commemorare alcune novizie martirizzate. A sinistra: il passaggio fra Bet Mikael e Bet Maryam. A destra: sconosciuti. Sotto: arco all’interno di Bet Maryam 118 In questa pagina: Bet Maryam 119 Le finestre della crocifissione di Gesù, a Bet Maryam Bet Danaghel 120 In questa pagina: Bet Medhane Alem 121 Ci spostiamo verso Bet Giyorgis, considerata il capolavoro di Lalibela. È a forma di croce greca ed è alta 15 metri. Vi si scende per un suggestivo cunicolo. Bellissime, nella loro semplicità, le croci scolpite nel soffitto. Nelle pareti che circondano la chiesa vi sono delle nicchie che contengono corpi mummificati. La vista non è la migliore predisposizione per un pranzo, ma la fame ci consiglia di avviarci verso il Seven Olives Hotel a mettere qualcosa sotto i denti. Tucul a due piani Dopo pranzo, avendo tutto il pomeriggio davanti, prima di affrontare le chiese del gruppo Sud-Orientale, usciamo da Lalibela e, a 7 chilometri, troviamo la chiesa Na’akuto La’ab. E’ stata costruita sotto una grotta naturale ed è di struttura molto semplice. Alcuni antichi contenitori in pietra raccolgono l’acqua santa che stilla dal soffitto della grotta. Selezione delle granaglie per le offerte 122 Bet Giyorgis 123 Ancora la Bet Giyorgis 124 A sinistra: il cunicolo d’accesso. A destra: immagine della Bet Giyorgis. Sotto: nicchia contenente corpi mummificati 125 Una finestra della Bet Giyorgis Croce scolpita sul soffitto della Bet Giyorgis 126 Monaco alla Bet Giyorgis 127 Bambina che va a scuola 128 La chiesa Na’akuto La’ab I contenitori nei quali viene raccolta l’acqua proveniente dal soffitto della grotta 129 Un monaco nella chiesa Na’akuto La’ab 130 In questa pagina: nella chiesa Na’akuto La’ab 131 In questa pagina: ancora alla Na’akuto La’ab 132 Torniamo a Lalibela. La Bet Gabriel-Rufael è affiancata da una roccia scolpita digradante, nota come “via del paradiso”. La chiesa potrebbe essere stata, in passato, un palazzo fortificato. In un cortile interno, un pozzo rappresenta l’inferno. Passando per un buio tunnel, si arriva a Bet Merkorios. Anche questa chiesa potrebbe essere stata qualcosa di completamente diverso, alcuni studiosi suggeriscono una prigione o una corte di giustizia. Bet Amanuel, finemente scolpita, è monolitica, cioè completamente staccata dalla roccia, mentre l’ultima chiesa, Bet Abba Libanos ha la particolarità di essere ipogea, cioè è unita alla roccia solo nel tetto e nel pavimento. La leggenda vuole che quest’ultima chiesa sia stata costruita dalla moglie di re Lalibela, Meskel Kebra, in una sola notte con l’aiuto degli angeli. L’erta via del paradiso alla Bet Gabriel-Rufael 133 L’ingresso alla Bet Gabriel-Rufael Una finestra della Bet Gabriel-Rufael, a sinistra, ed il pozzo dell’inferno, a destra 134 Guardascarpe. Si aspettano una mancia perché fanno la guarda alle scarpe lasciate fuori della chiesa 135 La Bet Merkorios Monaco alla Bet Merkorios, a sinistra, e passaggio verso la Bet Amanuel, a destra 136 In questa pagina: la Bet Amanuel 137 Prima di rientrare in hotel, andiamo dalla barista per la cerimonia del caffè e abbiamo anche l’opportunità di assaggiare il tej, una bevanda alcolica ottenuta dal miele fermentato. Tornati all’albergo, paghiamo la guida. Essendoci già stata la prenotazione da Addis Abeba, non avevamo concordato il prezzo e lui se ne approfitta, chiedendoci 400 birr, contro i 100 – 150 birr che avevamo pagato le altre guide. Il danno è modesto, la differenza è meno di 20 euro. Paghiamo senza battere ciglio, ma ciò non ci impedisce di annoverare Mr. Joseph Mistrih fra i disonesti e consigliare di evitarlo a coloro che si recassero a Lalibela. L’indomani rientreremo ad Addis Abeba in aereo, perciò salutiamo affettuosamente anche il nostro buon autista Haimanot che, invece, ritornerà con l’auto impiegando un paio di giorni. Saremmo portati a lasciargli una mancia più alta, ma considerando che gli autisti hanno, come stipendio, un compenso di 70 birr al giorno e che la guida Lonely Planet indica come mancia generosa un importo compreso fra i 30 e i 50 birr al giorno, decidiamo di dargli 500 birr, comprendendo anche i due giorni che impiegherà per tornare ad Addis Abeba. Dopo cena, fanno ancora da intrattenitori l’azmari e la ballerina del giorno prima. Scambiamo due chiacchiere con Stefano e Nadia e, poi, andiamo a dormire. 138 Decimo giorno 22 marzo 2008. In attesa del minibus dell’albergo che alle 10,00 ci porterà in aeroporto, passiamo la prima parte della mattinata riposando nel giardino. Dopo un po’ ci raggiungono anche Stefano e Nadia. Anche loro devono venire in aeroporto. Infatti, il volo per Addis Abeba non è diretto ma, per ottenere che l’aereo sia pieno, passerà molto più a Nord, facendo tappa a Gondar e Bahir Dar, dove scenderanno i nostri nuovi amici bolognesi. Mentre siamo lì, vediamo arrivare anche l’americano del Wyoming che, sorpreso, si domanda se siamo noi a seguire lui o lui a seguire noi. Mi chiede anche quanto tempo possa richiedere la visita di Lalibela. Gli rispondo che basta un giorno, massimo due se si vogliono vedere anche le chiese dei dintorni. Nadia commenta acida: “Chissà se almeno si rende conto di dove si stia trovando?”. Il minibus arriva puntuale, l’aeroporto è lontano e impieghiamo un’ora ad arrivarci. A mezzogiorno saliamo sul Fokker dell’Ethiopian Airlines e, dopo le tappe previste, alle 14,30 atterriamo puntuali ad Addis Abeba. Prendiamo un taxi dopo aver concordato il prezzo. Dovrebbe costare non più di 50 birr, ma essendo stranieri non riusciamo a scendere sotto i 70. Dare l’indicazione di dove andare non è semplicissimo, perché solo le strade e le piazze principali hanno un nome. Gli dico di andare a Mexico Square, ma una volta là debbo aggiungere: “Please, go towards Mekanisa. At the first Shell station, go to the right. After St. Mary College, there is our house”. Padre Nicola mi aveva detto che bisogna scriverlo anche sulle buste, per fare arrivare la posta. Infatti, ad Addis Abeba quasi tutti hanno una casella postale. Approfitto delle ore libere del pomeriggio per parlare con lo zio. La sera, Padre Nicola vorrebbe che mangiassimo lì alla casa. Ma lo convinciamo ad andare a cena fuori. Noi suggeriamo il Ristorante Castelli, ma lui preferisce il Blue Tops. Mangio del maiale in salsa di arancio che mi farebbe piacere ritrovare anche in Italia. 139 Undicesimo giorno 23 Marzo 2008. In Italia è Pasqua, ma qui in Etiopia siamo ancora in quaresima. Per non essere scortesi dobbiamo assistere ad una messa nella cappella della casa. Oltre a Padre Nicola e mio zio, che la officiano, siamo presenti solo noi e quattro suore, di cui una italiana e tre locali. Mi stupisce un po’ che, durante la fase che penso sia chiamata “preghiera dei fedeli”, una delle suore indigene inviti a pregare affinché Dio conservi la chiesa ortodossa etiopica, baluardo contro l’Islam. A proposito della chiesa etiopica, questa viene usualmente chiamata copta, ma la definizione non è esatta. Infatti copto ha un significato etnico e vuol dire “egiziano”. Nonostante sia dipesa giuridicamente per molti secoli dalla chiesa di Alessandria, quella etiopica si è sviluppata in maniera indipendente. I riti, che probabilmente erano identici nel IV secolo, col passare del tempo sono andati differenziandosi, anche in virtù delle peculiarità culturali del Paese. Inoltre, la chiesa etiopica non reca l’impronta ellenistica di quella alessandrina, come dimostrato anche dallo stile architettonico degli edifici di culto. Comunque, dal 1959, la chiesa ortodossa d’Etiopia non dipende più da quella di Alessandria. Nella seconda parte della mattinata, assieme a Padre Nicola ed allo zio, andiamo a far visita ad un convento di suore, fra le quali ci sono tante giovani e simpatiche novizie. Molte vengono dai villaggi del Sud, dal Sidamo. Una di loro ha appena ottenuto il diploma di infermiera. Stiamo un poco anche in cucina e vediamo come si prepara l’injera. Per pranzo, non so se perché non ci hanno invitato o per decisione di Padre Nicola, torniamo alla casa comboniana, anche se Romano ed io avremmo preferito fermarci dalle suore, dove l’ambiente è in verità molto più allegro. A sinistra: la Banca d’Etiopia. A destra: una novizia 140 A sinistra: Padre Nicola. A destra: foto di gruppo con alcune novizie La cuoca 141 Dopo pranzo, usciamo a piedi e, del tutto casualmente, veniamo visti dal nostro Haimanot che sta passando con l’auto, appena arrivato da Lalibela. Ci facciamo un’ultima bevuta insieme, prima di salutarci definitivamente. La chiesa di Entoto Maryam Il ghebi di Menelik Poi, torniamo alla casa e Padre Nicola ci porta a fare un giro per la città. Saliamo fino ad Entoto, la vecchia capitale, con il ghebi di Menelik e la chiesa di Entoto Maryam, dove questi si fece incoronare 142 imperatore nel 1882, rompendo la tradizione che la cerimonia si svolgesse ad Aksum. Passiamo davanti all’ambasciata americana che, come spesso capita alle rappresentanze di quel Paese, sembra più una fortezza. Da quassù si gode un completo panorama della città. È il nostro addio ad Addis Abeba. Non ci resta che preparare i bagagli. Il giorno dopo si torna a casa. Sulla porta della chiesa di Entoto Maryam 143 Dodicesimo giorno 24 Marzo 2008. Restano da fare le ultime riflessioni. Il viaggio è stato decisamente bello. Se dovessi dargli un voto, sarebbe fra il 9 e il 10. Resta un senso di insoddisfazione di fronte a tanta povertà, ma anche di irritazione per l’ignavia delle organizzazioni internazionali, con i loro apparati di esperti in tante cose, con i loro strapagati funzionari che hanno fatto un mestiere delle miserie altrui. C’è quasi la voglia di andare a togliere pietre dai campi ed a scavare pozzi con le proprie mani. Resta un senso di impotenza e la consapevolezza che qui poco o nulla cambierà per chissà quanto tempo, come poco o nulla è cambiato da secoli. Per dirla con Paul Valery (Sguardi sul mondo attuale): “Vi sono nazioni che hanno in mano soltanto ricordi che risalgono al Medioevo o all’antichità, valori morti e sepolti”. Lo zio vuole venire ad accompagnarci all’aeroporto. Ci salutiamo nel piazzale perché chi non ha il biglietto non può entrare nell’aerostazione. Lo zio si commuove e, forse, pensa che difficilmente rivedrà qualcuno di famiglia prima di morire. Per consolarlo, Padre Nicola cerca di farmi promettere di ritornare il prossimo anno per visitare il Sud del Paese e la valle dell’Omo. Non riesce ad estirparmi la promessa, ma solo un più vago impegno a prendere in esame la possibilità. Chissà se il mio è un addio all’Etiopia o solo un arrivederci? Ultimo saluto all’aeroporto 144 Brevissima storia dell’Etiopia Sembra che già prima del 2000 avanti Cristo vi fossero forti contatti con l’Arabia e, proprio dalla fusione fra la cultura araba e quella dell’Africa orientale, nacque la lingua ge’ez, antenata del moderno amarico. Attorno al 1500 avanti Cristo cominciò a svilupparsi una civiltà, cosiddetta “pre-aksumita”, la cui più importante testimonianza è il tempio di Yeha. Attorno al 400 avanti Cristo, prese avvio il regno di Aksum che durò moltissimo tempo, all’incirca fino al 700 dopo Cristo, e raggiunse il suo massimo splendore fra il III ed il VI secolo dopo Cristo. Nel IV secolo venne introdotto in Etiopia il Cristianesimo. Dopo il declino di Aksum, seguì un periodo buio che durò fino all’ascesa, nel 1137, della dinastia Zagwe. Questa dinastia costruì le straordinarie chiese rupestri di Lalibela, tuttavia non si sa molto dei suoi re, poiché non hanno lasciato testimonianze scritte. Nel 1270, gli Zagwe furono sconfitti da Yekuno Amlak e il potere si spostò verso Sud, verso lo Scioa. Yekuno fondò la “dinastia salomonica” e diede inizio al cosiddetto medioevo etiopico. In questo periodo, venne scritto il principale poema epico nazionale, il Kebra Negast, che letteralmente significa “Gloria dei Re”. La principale leggenda che vi è contenuta è quella della regina di Saba. Vi si narra che la bella regina intraprese un lungo viaggio per recarsi a visitare Salomone, il saggio re d’Israele. Il furbo Salomone le assicurò che non avrebbe voluto nulla finché lei non avesse sottratto a lui qualcosa. Pose un bicchiere d’acqua presso il letto della regina e lei, svegliandosi assetata a causa della cena piccante che le avevano servito, non poté fare a meno di bere. Salomone pretese di essere immediatamente risarcito e possiamo ben immaginare quale fu il suo desiderio. Così, la regina di Saba tornò in Etiopia incinta del futuro re Menelik. Quest’ultimo, in seguito, fece visita al padre a Gerusalemme e rubò l’Arca dell’Alleanza che, come noto, conteneva le tavole dei comandamenti che Dio aveva dato a Mosé. Da Yekuno Amlak ad Hailé Selassié, che regnò fino al 1974, tutti gli imperatori etiopici si rifecero a questa storiella per rivendicare la loro discendenza salomonica e, quindi, il loro diritto a regnare per volontà divina. Generalmente, gli Etiopi credono fermamente a questo mito e la tradizione vuole che l’Arca dell’Alleanza sia custodita in una cappella nel recinto della chiesa di Santa Maria di Sion, ad Aksum. Durante il medioevo etiopico, la corte dei re era itinerante e le capitali erano praticamente costituite da grandi accampamenti militari. I contadini temevano le visite reali più delle invasioni delle cavallette. Gli accampamenti erano così imponenti da esaurire in breve tempo le risorse di una zona. Di norma, il periodo massimo di soggiorno in un villaggio era di quattro mesi e dovevano trascorrere almeno dieci anni prima che quel villaggio potesse essere visitato di nuovo. Nel 1489, il re del Portogallo Giovanni II inviò un’ambasceria in Africa alla ricerca del mitico regno cristiano del Prete Gianni. I messi raggiunsero l'Etiopia e, trovando veramente dei re cristiani sottomessi ad un imperatore che si proclamava discendente di Salomone, cedettero di essere giunti a destinazione. Iniziarono allora i rapporti dell’Etiopia con il Portogallo. Nei primi decenni del 1500, l’impero era alle prese contro l’espansionismo islamico. Nel 1535, l’imperatore Lebna Dengel chiese aiuto ai portoghesi, ma morì prima che questi arrivassero. Gli succedette il figlio Galawdewos. I Portoghesi inviarono 400 moschettieri ben armati al comando di Dom Christovāo da Gama, figlio del famoso navigatore Vasco da Gama. I Portoghesi furono sconfitti dal sultano Gragn Mancino e il comandante venne catturato e decapitato. Nel 1543, Galawdewos – con l’aiuto dei portoghesi superstiti - sconfisse definitivamente i musulmani non lontano dal Lago Tana. Poiché, però, da Harar proseguirono negli anni successivi alcune incursioni, il re marciò contro la ricca città islamica e nel 1559 vi trovò la morte; la sua testa venne portata in parata per tutta la città. Nel frattempo, si delineò una nuova minaccia: migrazioni di massa di Oromo, chiamati spregiativamente Galla dagli Amhari, iniziarono a provenire da Sud, all’incirca dall’odierno Kenia. I 145 Galla erano abili cavalieri e per 200 anni si ebbero periodici conflitti fra loro e l’impero. In questo contesto si rafforzarono le relazioni con l’Occidente cristiano, il quale a sua volta sperava di ricondurre la chiesa etiopica nel grembo del cattolicesimo romano. Sembrò riuscirci nel 1622, quando il gesuita Pero Paes convinse l’imperatore Susenyos a divenire cattolico. Ma il patriarca inviato da Roma, Alfonso Mendez, ebbe troppa fretta; assoggettò la chiesa etiopica ad una impetuosa latinizzazione e convinse il sovrano di imporre con la forza ai sudditi la nuova fede. Scoppiò una guerra civile e l’imperatore dovette ritornare sui suoi passi, ripristinando la fede ortodossa. Susenyos abdicò nel 1632 a favore del figlio Fasiladas. Questi, pochi anni dopo, espulse gli invadenti gesuiti e proibì a tutti gli stranieri l’ingresso nel suo impero. Fasiladas stabilì in maniera permanente la sua capitale a Gondar, dove fece costruire un magnifico castello ed altre fortificazioni. L’età d’oro di Gondar durò più di un secolo, fino alla morte di Iyasu II, nel 1755. Seguì quella che gli storici etiopici chiamano l’era dei giudici, durante la quale l’Etiopia rimase frammentata in una moltitudine di feudi indipendenti. Nel 1855, Teodoro II riuscì a farsi proclamare imperatore, dopo aver riunificato il Paese. All’iniziò fu un buon sovrano, vietò la poligamia, tentò di abolire lo schiavismo, attuò una riforma agraria e promosse la lingua parlata, l’amarico, al posto della lingua scritta, il ge’ez. Quando, però, le sue riforme si scontrarono con l’opposizione dei proprietari terrieri e del clero, cominciò a montarsi la testa, sentendosi come lo strumento scelto da Dio per punire i peccatori. Iniziò a dare segni di squilibrio, fino a giungere ad estremi di pazzia sanguinaria. Offeso per non aver ricevuto risposta ad una sua lettera alla regina Vittoria, imprigionò alcuni funzionari inglesi che si trovavano alla sua corte. Gli Inglesi inviarono una spedizione punitiva, guidata dal generale Robert Napier. Sconfitto, Teodoro si suicidò nel 1868 nella fortezza di Magdala, cittadina che aveva scelto come capitale, un po’ più a Sud di Lalibela. Dopo il breve regno di Takla Giyorgis II, nel 1872 prese il potere Giovanni IV (Yohannes). Questi si assicurò il sostegno della chiesa rimettendo in vigore alcune antiche ordinanze contro i musulmani ed i falascia, gli ebrei neri d’Etiopia. Giovanni dovette fronteggiare l’espansionismo dell’Egitto e delle potenze europee, oltre che dei Dervisci sudanesi guidati dal Mahdi. Seppure ufficialmente soggetto all’impero ottomano, l’Egitto iniziò sotto Ismail Pasha una politica espansionistica, rivendicando il dominio di tutto il corso del Nilo, fino ai grandi laghi, e tutta la costa africana del Mar Rosso, fino addirittura alla Somalia. Ciò portò ad una guerra con l’Etiopia nel 1875. L’anno seguente gli Egiziani furono più volte sconfitti, prima a Gundet e poi a Gura. La guerra si raffreddò, ma la pace fu firmata solo nel 1884. L’interesse europeo per il Mar Rosso fu una diretta conseguenza dell’apertura del Canale di Suez, inaugurato nel 1869. In particolare, l’Italia fu sempre incoraggiata dagli Inglesi, preoccupati di evitare insediamenti francesi e restii ad impegnarsi in proprio, viste le difficoltà che già incontravano a controllare il loro vasto impero. Nel 1869, su ispirazione del governo italiano, che aveva già rinnegato l’ideale risorgimentale dell’autodeterminazione, la compagnia di navigazione Rubattino acquistò la baia di Assab da un piccolo sultano locale. Nel 1885, gli Egiziani ormai sommersi dai debiti ed in grave difficoltà per la rivolta mahdista in Sudan, erano ormai in procinto di abbandonare le loro posizioni sul Mar Rosso. Il 5 febbraio 1885 le truppe italiane sbarcarono a Massaua. Pochi mesi prima, il 4 giugno 1884 era stato stipulato, fra Etiopia, Egitto ed Inghilterra il trattato Hewett che riconosceva all’Etiopia il libero transito nel porto di Massaua. Probabilmente, con un codicillo segreto gli Inglesi avevano anche garantito all’imperatore il possesso della città in caso di ritiro degli Egiziani. Giovanni IV, quindi, non poteva certo gradire il “disinteresse” britannico all’insediamento italiano, ma la guerra scoppiò solo nel 1887, in seguito all’occupazione italiana di Zula e Ua-à: il 26 gennaio gli Italiani vennero duramente sconfitti a Dogali dal Ras Alula. Mentre era ancora in corso la guerra con gli Italiani, i quali trattavano segretamente con l’aspirante al trono imperiale Ras Menelik, Giovanni IV doveva fronteggiare anche i dervisci, che si erano ormai 146 impossessati di tutto il Sudan, dopo aver ucciso e decapitato, il 26 gennaio 1885 a Khartoum, l’ormai leggendario generale inglese Charles George Gordon. L’imperatore fu ucciso dagli islamici nel 1889 nella battaglia di Metemma. Gli Italiani ne approfittarono per salire sull’altipiano ed occupare Asmara, essendo molto più salubre dell’infuocata costa di Massaua. Un anno dopo, nel 1890, i possedimenti italiani nel Mar Rosso vennero riuniti nella colonia Eritrea, un nome poetico ed ellenistico che priverà per sempre il grande impero etiopico di uno sbocco al mare. Divenne imperatore Menelik II, da tempo “amico” degli Italiani e, una volta saldo sul trono, il 2 maggio 1889, venne firmato l’infame trattato di Uccialli. Oltre a barare sui confini, gli Italiani stesero due versioni dell'articolo 17, differenti in amarico e in italiano: nella versione in amarico si affermava che il negus "può trattare tutti gli affari che desidera con i regni di Europa mediante l'aiuto del regno d'Italia", mentre nella versione italiana si diceva che il negus "consente di servirsi" del governo italiano per "tutte le trattative d'affari che avesse con altri governi", stabilendo un protettorato italiano sull’Etiopia. Ne nacque una controversia e questa peregrina astuzia diplomatica costituirà il casus belli della guerra italo etiopica del 1895-1896, che si concluse con la sconfitta subita dall'Italia ad Adua. La battaglia di Adua era stata preceduta da un’altra sconfitta, quella dell’Amba Alagi, che però in Italia non destò molto scalpore perché, seppure erano morti più di 1.500 soldati, si trattava in gran parte di ascari indigeni ed i caduti nazionali erano stati solo 40. Nella battaglia di Adua, invece, si stima che si ebbero circa 5.000 nazionali e 1.000 ascari morti, 1.500 feriti, 1.900 prigionieri nazionali ed altri 800 indigeni, dei quali 406 fecero ritorno in Eritrea mutilati della mano destra e del piede sinistro. Quest’ultima fu la dura punizione che gli Etiopi riservarono agli ascari tigrini, considerati traditori, mentre vennero rispettati i sudanesi, i somali, i dancali e i musulmani della costa. Dice una canzone etiopica: “i loro occhi spalancati pel terrore e lo strazio sembrano gli occhi dei gatti e i loro denti scricchiolando l’uno contro l’altro sembrano lino che si mangi”. La battaglia di Adua è la più grave sconfitta che un esercito europeo abbia mai subito ad opera di africani. Da allora la sua data, il 1° marzo, viene celebrata ogni anno in Etiopia. A seguito della sconfitta, l’Italia riconobbe l’impero come stato indipendente, con un trattato firmato ad Addis Abeba, la nuova capitale voluta da Menelik e soprattutto da sua moglie Taitù in sostituzione di Entoto, situata pochi chilometri più a Nord. Alla morte di Menelik, nel 1913, venne designato successore il minorenne Ligg Iyasu, ma quando questi - raggiunta la maggiore età nel 1916 – mostrò chiare tendenze islamiche, venne deposto e il trono fu offerto a Zawditu, figlia minore di Menelik, alla quale venne affiancato, come reggente e futuro successore, Ras Tafari. Quest’ultimo nel 1930 divenne imperatore con il nome di Hailé Selassié. Una curiosità è che su di lui è nata addirittura una nuova religione: quella dei Rastafariani. In Giamaica, dove Marcus Garvey aveva fondato il movimento per il “ritorno in Africa”, si cominciò a proiettare una viva attesa messianica di riscatto sull'Etiopia e, nel 1930, dopo aver assistito all’incoronazione di Ras Tafari, alcuni discepoli di Garvey videro in lui il Messia atteso, che non era però, nella loro interpretazione, un generico liberatore politico, ma Gesù stesso. Questa persuasione diede il via al Rastafarianesimo, nome dovuto all'abitudine dei primi fedeli di definirsi Rasta, per indicare la propria identificazione con Hailé Selassié, la cui rivelazione diventò il punto di riferimento essenziale. Dopo l'intensa predicazione dei primi seguaci in Africa e in America ed una rapida espansione iniziale, il Rastafarianesimo si è di seguito radicato ovunque sul globo, soprattutto grazie al potere mediatico della sua vivace cultura musicale, legata in particolare al reggae, che ne ha veicolato il messaggio teologico: Bob Marley apparteneva a questa setta. Tornando alla storia, quando nel 1935 il fascismo volle dare all’Italia un impero, l'unico territorio rimasto libero da ingerenze straniere era l'Abissinia e, nonostante questa fosse membro della Società delle Nazioni, venne attaccata. Per vincere la guerra, il generale Badoglio – a ciò autorizzato da Mussolini – fece largo uso di armi chimiche, in particolare bombe all’iprite, in spregio alle convenzioni internazionali che le vietavano. Il 6 febbraio 1922, infatti, la Conferenza sulle armi di Washington, firmata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia ed Italia, aveva proibito l'uso di gas asfissianti, velenosi e di qualunque altro genere, mentre il 7 settembre 1929 era entrato in vigore anche il 147 Protocollo di Ginevra, che vietava l'uso di gas velenosi e di armi batteriologiche. Contro l’iprite non servivano neanche le maschere antigas, infatti ha un'azione vescicante e, oltre alle mucose respiratorie, attacca anche la pelle, provocando estese dermatiti bollose, che sono dolorosissime e difficili da curare. Ovvero, venendo a contatto con la superficie del corpo, causa un'irritazione profonda con successiva formazione di vesciche, piaghe ed ulcerazioni estese; anche gli occhi vengono danneggiati, già a dosi modeste. Non si sa quante armi chimiche usò l’Italia ma, solo dal 22 dicembre 1935 al 18 gennaio 1936 e soltanto sulle regioni settentrionali dell’impero, vennero lanciati oltre 2.000 quintali di bombe, una parte rilevante delle quali caricate a gas. Oltre alle armi chimiche, ai fascisti venne in mente di usare anche quelle batteriologiche e Badoglio ci rinunciò solo perché il nemico era ormai fiaccato. Il 5 maggio 1936, Pietro Badoglio entrò in Addis Abeba. Come primo viceré fu nominato il generale Rodolfo Graziani. La sua reggenza fu caratterizzata da un’estrema ferocia e crudeltà, culminata nella repressione seguita all’attentato da lui subito il 19 febbraio 1937 che, secondo il memorandum presentato dal governo etiopico al Consiglio dei ministri degli Esteri riunito a Londra nel settembre 1945, aveva provocato 30.000 morti. E non è solo per questo episodio che Graziani è stato soprannominato "il macellaio d'Etiopia". Basti citare la strage degli indovini. Il 19 marzo 1937, dopo che la polizia gli aveva segnalato che tra i più pericolosi perturbartori dell’ordine pubblico erano da annoverarsi i cantastorie, gli indovini e gli stregoni che diffondevano notizie false, ne rastrellò e ne eliminò 70. Lui stesso, in una macabra contabilità annotò che, a parte le esecuzioni immediatamente seguenti l’attentato, dal 19 febbraio al 21 marzo 1937 ci furono 324 esecuzioni sommarie, il 30 aprile i “provvedimenti di rigore” salirono a 710, il 5 luglio a 1.686, il 25 luglio a 1.878, il 3 agosto a 1.918. Da una relazione risulta che, nel primo anno dell’impero, i soli carabinieri passarono per le armi 2.509 indigeni. Ci fu, poi, la repressione nella regione del Mens, della quale fu incaricato il generale Maletti: con i suoi soldati, a partire dal 6 maggio 1937, in due settimane incendiò 115.422 tucul, tre chiese, un convento e uccise 2.523 ribelli. Sempre Maletti ricevette l’ordine da Graziani di eliminare tutti i monaci di Debre Libanos: il 20 maggio vennnero fucilati 297 monaci e 23 laici, seguiti il 27 maggio da 129 giovani diaconi. Nel dicembre 1937, il generale Graziani venne sostituito dal più mite duca Amedeo d’Aosta. Poi, a seguito dello scoppio della seconda guerra mondiale, nel 1941 l’Etiopia viene liberata dagli Inglesi ed il negus Hailé Selassié rientrò ad Addis Abeba. L’Eritrea venne federata all’Etiopia. Nel 1974, un colpo di stato militare portò al potere il “Derg” del colonnello Menghistu. Questi, si dice, soffocò con le sue mani l’ottantaduenne imperatore ed instaurò uno stato socialista. Una riforma agraria sbagliata e la guerriglia, divampata sia in Etiopia che in Eritrea, portarono alla caduta di Menghistu nel 1991. L’Eritrea ottenne l’indipendenza nel 1993. Fra il 1998 ed il 2000 ci fu una cruenta guerra fra di essa e l’Etiopia. Il confine è ancora presidiato dalle truppe Onu. Inoltre, alla fine del 2006, le truppe etiopiche sono entrate in Somalia per “pacificarla”. Oggi l’Etiopia ha una superficie di 1.127.127 chilometri quadrati ed una popolazione di quasi 80 milioni di abitanti. Non ha sbocchi al mare, ha poche strade ed una sola ed antiquata ferrovia che collega Addis Abeba a Gibuti. Lo Stato etiopico è stato riformato in senso federale su basi etniche: oggi, oltre al distretto di Addis Abeba, ci sono gli Stati degli amhara, dei tigrini, degli afar, dei somali, degli oromo e dei popoli del sud. 148 Bibliografia consigliata Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Africa orientale – I. Dall’unità alla marcia su Roma”, Oscar Mondadori (su licenza Giuseppe Laterza & Figli), Cles (TN) Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Africa orientale – II. La conquista dell’impero”, Oscar Mondadori (su licenza Giuseppe Laterza & Figli), Cles (TN) Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Africa orientale – I. La caduta dell’impero”, Oscar Mondadori (su licenza Giuseppe Laterza & Figli), Cles (TN) Angelo Del Boca, “La nostra Africa”, Neri Pozza Editore, Vicenza Augusto Franzoj, “Continente nero”, Interlinea edizioni, Novara Ryszard Kapuściński, “Il Negus”, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano Curzio Malaparte, “Viaggio in Etiopia e altri scritti africani”, Vallecchi, Firenze Matt Phillips, Jean-Bernard Carillet, “Etiopia e Eritrea”, EDT, Torino Paul Theroux, “Dark Star Safari”, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 149 Indice PREMESSA...................................................................................................................................................................5 PRIMO GIORNO.........................................................................................................................................................7 SECONDO GIORNO ................................................................................................................................................ 12 TERZO GIORNO ...................................................................................................................................................... 18 QUARTO GIORNO................................................................................................................................................... 31 QUINTO GIORNO ...................................................................................................................................................45 SESTO GIORNO .......................................................................................................................................................55 SETTIMO GIORNO..................................................................................................................................................73 OTTAVO GIORNO ...................................................................................................................................................97 NONO GIORNO ......................................................................................................................................................110 DECIMO GIORNO ................................................................................................................................................. 139 UNDICESIMO GIORNO........................................................................................................................................ 140 DODICESIMO GIORNO........................................................................................................................................ 144 BREVISSIMA STORIA DELL’ETIOPIA............................................................................................................... 145 BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA........................................................................................................................... 149 150