La follia nella pittura

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La follia nella pittura
La follia nella pittura
Bosch, La Nave dei Folli
Nel dipinto di Bosch, Nave dei Folli, il folle è in tutto e
per tutto stereotipo della sregolatezza e dell’insensatezza
della condizione umana, reso protagonista di un viaggio
insulso alla volta del nulla, o forse del sapere universale. La
navigazione è al contempo simbolo dell’isolamento e della
purificazione, preludio dell’internamento e rito misterioso
che si riconduce ad antiche magie e cabale che nel
Medioevo affiancavano costantemente la figura del folle; in
questo periodo, infatti, il folle è visto anche come il
possessore di un sapere oscuro e proibito, capace di
vedere realtà superiori che nascondono segreti misteriosi o
rivelazioni religiose. A fianco del viaggio verso l’ignoto,
nella rappresentazione della follia di Bosch troviamo anche
la tendenza a raffigurare animali fantastici ed il più delle
volte mostruosi, uomini dai visi deformi e dagli arti mutilati,
ed una serie di altre visioni sconcertanti in cui sono sfogate
le paure inconsce della società sua contemporanea. Le
figure fantastiche diventano allegoria delle incertezze
dell’uomo, dell’incapacità di rispondere alle domande della
vita, anche se a volte sono semplicemente sfruttate per la
satira sociale o per l’esaltazione del mondo alla rovescia
carnevalesco.
Bosch, La cura della follia
Un quadro di questo soggetto si trovava nella sala da pranzo
del vescovo di Utrecht, Filippo di Borgogna; nel 1524 era
elencato negli inventari del castello di Duurstede; nel 1570
entrò a far parte, con altre sei opere del pittore, della
collezione di Filippo II. La maggior parte della critica
concorda nel considerarlo un originale della giovinezza del
pittore. Nel dipinto un uomo stolto ricorre a un chirurgo
ciarlatano per liberarsi dal suo male, una malattia che ha la
forma di un tulipano, perché “tulpe” in olandese vuol dire
follia. Il soggetto si ricollega alla satira popolare, e alle
invettive contro l’arte medica. Nel quadro si scorge, seppur in
maniera ancora non definita, il contrasto fra chiarezza
espressiva e più complessa intenzione simbolica, tipiche
dell’opera di Bosch.
Henry Fuseli, L’incubo, 1781
L’incubo (The Nightmare, come era il suo
titolo originale, olio su tela, 75,5 x 64 cm,
oggi al Goethe Museum di Francoforte) La
traduzione italiana non rende bene tutta la
pregnanza del titolo inglese dato da John
Henry Fuseli, pittore svizzero adottato
dall'Inghilterra, all'opera; “Nightmare”
evoca infatti, nella propria etimologia,
l'apparizione di mostri notturni. Il dipinto
raffigura una candida fanciulla che giace
reclina sul proprio letto, il petto e il collo
teneramente esposti alla notte; dal cupo
sfondo della stanza, velatamente irrorata
dalla luce di uno specchio, appare un
mostruoso folletto dalle orecchie a punta e
dagli occhi aguzzi, accovacciato
malignamente ai piedi del giaciglio, e un'enorme testa di cavallo, dagli occhi lattei e le froge
minacciose, divaricante le tende sullo sfondo. Nell'incubo della ragazza, il cavallo, animale
misterioso e inquietante, emerge dall’inconscio più profondo della psiche, violento nella sua
carica bestiale e nell'irrefrenabilità degli istinti animali. Quest'invenzione di Fuseli si rifaceva ad
una ricca tradizione iconografica, la quale condensa nella figura indomita del cavallo, e specie nel
suo sguardo impenetrabile d'animale prestigioso, tutte le forze oscure che giacciono nelle viscere
dell'umano. Freud non menziona esplicitamente l'immagine di Fuseli nei propri scritti, ma si
consideri l'interpretazione psicanalitica che egli propone: la paura del cavallo e la paura
dell'umano vengono a coincidere. Il bambino di cinque anni ha paura del muso equino perché in
esso vede i baffi del padre. Il cavallo, dunque, animale onnipresente nella mitologia di moltissimi
popoli, viene utilizzato come simbolo archetipo della soglia che separa l'uomo dall'animale, la
razionalità dal libero sfogo delle pulsioni primordiali.
Theodore Géricault, Alienata monomane del gioco, 1822-23
Una ricerca al limite dell’ossessivo fu quella che Géricault
condusse sui pazzi. Questa è una delle diverse tele che l’artista
dedicò ai malati di mente, in uno studio teso a ritrovare nella
inespressività degli alienati le linee di confine tra l’umano e ciò
che non è più tale.
Uno dei tratti del romanticismo è stato quello di interrogarsi
sulla ragione umana e sulla follia. I romantici, come i medici
di quest’epoca, pensavano che si potesse leggere sui tratti
del viso la ripercussione delle alterazioni mentali.
Géricault dipinse degli esseri che hanno superato i limiti della
coscienza e della ragione, degli esseri posti in una situazione
estrema.
Nessun aneddoto, nessun simbolo ma una tecnica solida, un
tocco libero, un’armonia di verde e di marrone, dove il bianco
inquadra il povero viso dove lo sguardo non cessa mai
di interpellarci.
Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931
BIOGRAFIA DEL PITTORE
L’origine catalana di Dalì costituisce la chiave per
la comprensione di una componente essenziale
della sua opera. Dei catalani si dice credono
soltanto nell’esistenza delle cose che si possono
mangiare, ascoltare, sentire, odorare e vedere “io
so quel che mangio. Non so quel che faccio.”
Questo delirio del commestibile lo si ritrova
diffuso in tutta la sua opera. Trasse l’ispirazione
per gli orologi molli da una forma di Camembert
che riscaldatasi aveva cominciato ad allungarsi e
ammorbidirsi nel piatto. Ciò gli fece affiorare
un’immagine nel subconscio, allorché l’artista
riempì il paesaggio costiero con questi oggetti.
Agli orologi molli se ne affianca un altro, rosso,
turgido: infatti il quadro può essere ricondotto alla concezione bergsoniana del tempo duplice. E se
quell’oggetto molle, privo di forma e incapace di dare una determinata misura del tempo è la durée,
l’orologio duro sarà quello del tempo misurato dagli strumenti, tempo che corrode e consuma (come
stanno appunto facendo le formiche sopra di esso, simboli ricorrenti). Su una spiaggia affogata nella
luce, costeggiante un mare senza increspature, giace una sagoma biomorfa, pare un profilo. Bisogna
ricordare il sottotitolo dell’opera: “Alti e bassi della memoria”, che spiega questo profilo
addormentato, immerso nel suo stesso sogno che lì si materializza. Gli occhi si chiudono alla
realtà esterna e si aprono a visioni interiori, totalmente svincolate dalla razionalità e galleggia
in una dimensione atemporale (infatti la sagoma si copre solo dell’orologio molle), una
dimensione che scaturisce dall’inconscio dove non ci sono presente passato e futuro. È la
traduzione pittorica dell’idea di Bergson, nessun’altro avrebbe potuto renderla meglio di Dalí. I
tratti della sagoma sdraiata sono quelli di Dalí stesso, che spesso si ritrae sognante, l’occhio
chiuso: dal momento in cui scoprì Freud, spesso l’artista si sottopose all’autoanalisi, entrando
così in contatto col proprio mondo interiore.