validazione dell`igf-1 come marker di riserva funzionale del graft e
Transcript
validazione dell`igf-1 come marker di riserva funzionale del graft e
UNIVERSITA’ POLITECNICA DELLE MARCHE SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN MEDICINA E CHIRURGIA - XIV° CICLO Direttore: Chiar.mo Prof. Antonio Benedetti Curriculum: Medicina Sperimentale VALIDAZIONE DELL’IGF-1 COME MARKER DI RISERVA FUNZIONALE DEL GRAFT E INDICATORE PROGNOSTICO NEI PAZIENTI SOTTOPOSTI A TRAPIANTO DI FEGATO Presentata da: Dr Daniele Nicolini Relatore : Dr Federico Mocchegiani _______________________________________________________ Triennio Accademico 2012-2015 Indice Indice ................................................................................................................................. 2 CAPITOLO 1. TRAPIANTO DI FEGATO .......................................................................... 3 1.1-INTRODUZIONE E NOTE STORICHE ................................................................... 3 1.2-INDICAZIONI AL TRAPIANTO .............................................................................. 5 1.3-TECNICA CHIRURGICA ........................................................................................ 18 1.4-OUTCOME DEL TRAPIANTO DI FEGATO ......................................................... 29 CAPITOLO 2. LA VALUTAZIONE DELLA FUNZIONE EPATICA POST TRAPIANTO E COMPLICANZE...................................................................................... 31 2.1-LE DISFUNZIONI PRIMITIVE DEL GRAFT ........................................................ 31 2.2-LA VALUTAZIONE DEL DONATORE, FATTORI DI RISCHIO E SCORES PROGNOSTICI ............................................................................................................... 33 2.3-INDICI DI FUNZIONALITA’ DEL FEGATO PRE E POST TRAPIANTO .......... 42 CAPITOLO 3. STUDIO CLINICO:ASSE SOMATOTROPO E FUNZIONALITA’ EPATICA ............................................................................................................................ 45 3.1-INTRODUZIONE ALLO STUDIO .......................................................................... 45 3.2-SCOPO DELLO STUDIO ........................................................................................ 49 3.3-MATERIALI E METODI ......................................................................................... 50 3.4-RISULTATI .............................................................................................................. 53 CONCLUSIONI .................................................................................................................. 57 TABELLE ........................................................................................................................... 62 FIGURE ............................................................................................................................... 70 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................. 78 2 CAPITOLO 1. TRAPIANTO DI FEGATO 1.1 INTRODUZIONE E NOTE STORICHE Il trapianto di fegato costituisce l’unico trattamento ad intervento curativo per numerose epatopatie terminali, per l’insufficienza epatica acuta; per alcune malattie metaboliche e per patologie congenite, dell’adulto o del bambino che implicano un coinvolgimento del fegato. In Italia, dove le malattie epatiche in fase terminale rappresentano un importante problema di sanità pubblica e la mortalità per cause epatiche, seppure in lenta riduzione, è ancora molto rilevante, il ricorso al trapianto di fegato è divenuto progressivamente crescente. Oggi si può certamente affermare che il trapianto di fegato è una procedura consolidata, con più di 20 Centri Trapianti attivi nel paese. Intorno al 1900, i lavori di ricerca del chirurgo bernese e premio Nobel Theodor Kocher portarono al riconoscimento del trapianto quale concetto medico sostanzialmente applicabile. Al tempo si parlava di «concetto di sostituzione di organi». In medicina si era arrivati alla conclusione unanime che il trapianto di organi poteva in linea di principio funzionare. I primi tentativi di trapianto d’organo vennero eseguiti durante la prima decade del ventesimo secolo, quando nel 1912 Carrel vinse il premio Nobel per le sue innovazioni e ricerche in campo chirurgico: riuscì per primo a trovare una tecnica innovativa per suturare tra loro i vasi sanguigni, passo fondamentale per poter iniziare i primi trapianti sperimentali. Negli anni 1920 e 1930 furono condotti altri esperimenti pionieristici isolati, ma fallirono tutti: il primo trapianto di rene sull'uomo fu eseguito nel 1933 dal medico ucraino Yu Yu Voronoy, la ricevente sopravvisse solo 4 giorni. Tra il 1907 e il 1925 il chirurgo tedesco Erich Lexer fece vari tentativi di trapianto di cartilagine e di articolazioni, anch'essi con esito negativo. Dopo la Seconda guerra mondiale si effettuarono diversi tentativi di trapianto di reni umani. Nel 1945, a Boston, fu trapiantato un rene di un uomo deceduto su una donna che soffriva di una grave insufficienza renale, tuttavia senza particolare successo. Seguì una serie di esperimenti successivi in cui l'intervento in sé riusciva, ma l'organo trapiantato veniva distrutto nel giro di pochi mesi. Si dovette aspettare il 1954 quando Murray eseguì con successo un trapianto di rene poiché venne fatto tra gemelli e perciò tra due pazienti geneticamente identici. 3 Nel 1963 Starzl effettuò il primo trapianto di fegato nell’uomo, purtroppo però i risultati ottenuti non furono quelli sperati; il paziente, un bambino di appena tre anni colpito da atresia delle vie biliari, morì durante l’intervento per complicanze emorragiche. Starzl dovette aspettare tre anni per raggiungere il primo grande successo con una bambina di diciotto mesi, trapiantata per epatocarcinoma: la paziente sopravvisse tredici mesi prima di morire a causa della progressione della malattia. Visti i recenti risultati si sperimentò il trapianto anche per altri organi quale il polmone effettuato nel 1963 da Hardy, pancreas nel 1966 e intestino nel 1967 da Lillehei e Kelly, fino ad arrivare al trapianto di cuore eseguito da Barnard nel 1967 in Sudafrica. Tutte queste procedure presentavano una percentuale decisamente alta di decesso del trapiantato dovuta ad una mancata ripresa funzionale dell’organo in questione che venne ricondotta al rigetto, ovvero un’attivazione del sistema immunitario del ricevente diretto contro l’organo trapiantato, le cui basi immunologiche furono descritte in maniera dettagliata da Medawar agli inizi degli anni ’50, grazie ai suoi studi sul trapianto di innesti cutanei. Queste ultime scoperte spinsero Borel e Calne a studiare non solo le basi immunologiche del rigetto ma anche un farmaco in grado di trattare questa complicanza molto grave, e fu così che nel 1978 scoprirono il principio attivo chiamato Ciclosporina, farmaco ancora adesso di elevata importanza e di largo utilizzo, che permise la sopravvivenza a lungo termine dei trapiantati e di conseguenza l’incremento dei trapianti. Lo sviluppo di questa classe di farmaci fu dunque una condizione essenziale perché il trapianto di numerosi organi, tessuti e cellule si affermasse quale terapia standard per numerose malattie potenzialmente letali. (1,2,3,4,5). Oggi la branca chirurgica dei trapianti è diventata “vittima” del proprio successo. Esiste un numero sempre maggiore di casi per i quali un trapianto è possibile ed opportuno, di conseguenza, la disponibilità di organi non riesce a tenere il passo con la domanda. 4 1.2 INDICAZIONI AL TRAPIANTO Il trapianto di fegato o liver transplantation (LT) rappresenta una preziosa opzione terapeutica per una vasta gamma di patologie che portano all’insufficienza epatica terminale acuta o cronica, ma lo è anche per alcune malattie nelle quali un errore genetico impedisce la produzione di una essenziale proteina del fegato. È inoltre considerata una procedura valida per pazienti attentamente selezionati affetti da tumori del fegato non resecabili che non abbiano dato metastasi extraepatiche (Tabella 1). In generale, l’indicazione ad LT viene posta quando ogni altra opzione terapeutica medicochirurgica ha esaurito la capacità di garantire al paziente una qualità di vita accettabile nel lungo termine. Indipendentemente dall’eziologia della cirrosi, l’indicazione all’inserimento in lista d’attesa per LT viene posta sulla base della gravità dell’epatopatia correlata mediante score prognostici; tali punteggi sono quindi fondamentali per stabilire la priorità nell’assegnazione dell’organo ai candidati presenti in lista. Esistono due importanti score utilizzati per a tale scopo: il punteggio Child-Pugh e il punteggio MELD (Model for End Stage Liver Disease). Punteggio Child-Pugh. La versione iniziale del Child, o meglio del Child-Turcotte(5), utilizzava due variabili estrapolabili tramite indagini di laboratorio (albumina e bilirubina) e altre tre variabili che potevano essere rilevate dalla valutazione (ascite, encefalopatia e stato nutrizionale del paziente). Questo score ed i valori dalle seguenti variabili, sono state concepite per definire tre gruppi distinti di gravità dell’epatopatia in ordine crescente, dallo stadio A, al B e al C (Tabella 2). Circa dieci anni dopo, il modello Child-Turcotte venne modificato in punteggio ChildPugh secondo il quale lo stato nutrizionale del paziente venne sostituito da un altro valore, ossia il tempo di protrombina (Tabella 3). In questo modo divenne possibile valutare sia l’attività sintetica del fegato (albumina e protrombina) e sia l’attività secretoria (bilirubina) (6) . Inizialmente gli score di Child- Turcotte e poi di Child-Pugh furono utilizzati per stimare il grado di ipertensione portale (6) dei pazienti epatopatici candidati ad interventi chirurgici non trapiantologici quali gli shunts porto-cavali o le resezioni del tratto distale dell’esofago. In seguito l’affidabilità di questo score è stata valutata nella globalità dei 5 pazienti con cirrosi accompagnata da epatocarcinoma, varici esofagee, encefalopatia epatica, colangite sclerosante primitiva, cirrosi biliare primitiva e la sindorme di BuddChiari (9-14) . L’attendibilità del Child- Pugh score per il trapianto di fegato e la stratificazione dei pazienti è stata ampiamente discussa. I principali limiti di questi score, come già accennato, risiedono nel fatto che le alterazioni delle variabili considerate non dipendono esclusivamente dalla funzione epatica, per esempio, il valore dell’albumina è condizionato da stati patologici come l’ascite e la sepsi (7, 8) , allo stesso modo, la bilirubina risulta alterata in caso di insufficienza renale, emolisi o sepsi, tutte condizioni non necessariamente peculiari del un paziente epatopatico. Alcune tra queste inoltre, come l’albumina e i fattori della coagulazione, risultano fortemente correlati l’una all’altra: includere queste due parametri in un singolo score può determinare una sovrastima del punteggio. Un secondo limite deriva dall’utilizzo di parametri come l’ascite e l’encefalopatia, in quanto il loro valore viene determinato mediante criteri clinici e quindi dipendenti dalle abilità professionali del medico. Non c’è evidenza che tali valori limite siano ottimali per definire variazioni significative nella mortalità, né che il rischio di mortalità aumenti in modo lineare nella progressione dei gradi A, B, C. Un terzo limite è che ad ogni variabile viene assegnato lo stesso peso. Un quarto limite è dovuto al fatto che importanti fattori prognostico non sono presi in considerazione; in particolare numerosi studi hanno enfatizzato l’influenza determinante della funzione renale nello sviluppo della cirrosi(15, 16, 17, 18). In ultimo, lo score Child-Pugh non prende in considerazione elementi quali la causa della cirrosi, la possibile coesistenza di molteplici fattori causali, e la persistenza di un processo dannoso come abuso di alcol persistente o la replicazione in corso di HBV o HCV, o attività infiammatoria in corso di epatiti autoimmuni(19, 20). Punteggio MELD. Un altro score per la valutazione della funzionalità epatica è il MELD score (Model for End-stage Liver Disease) che si è progressivamente imposto come strumento per la valutazione clinica e sopravvivenza dei pazienti con epatopatia cronica da inserire in lista. Il calcolo del punteggio (MELD-score) viene effettuato utilizzando la formula seguente: 9.57*log(Creatinina mg/dl) + 11.2*log (INR) + 3.78*log (Bilirubina mg/dl) + 6.43 ma vista la sua complessità è possibile calcolare il MELD Score di ciascun paziente direttamente on-line (http://www.mayoclinic.org/meld/mayomodel6.html) inserendo semplicemente i valori di creatininemia, bilirubinemia e INR, tutti valori 6 facilmente reperibili fra gli esami del sangue che un paziente cirrotico esegue di routine. Il MELD score rappresenta uno strumento prognostico più oggettivo e più affidabile rispetto al Child-Pugh, in quanto il primo utilizza valori rilevati in laboratorio. Il MELD score, è stato adottato dall’UNOS (United Network for Organ Sharing, l’istituzione statunitense che controlla l’allocazione degli organi) a partire dal febbraio 2002, come strumento evidence–based per l’allocazione degli organi per tutti i potenziali candidati al trapianto di fegato, escluse le epatiti fulminanti. Il punteggio MELD può variare da 6 a 40, valori ai quali corrisponde una gravità clinica crescente. Ogni punteggio correla con una probabilità di decesso a 3 mesi. Inoltre se il paziente ha effettuato almeno due dialisi nell’ultima settimana antecedente al calcolo del MELD la creatinina viene automaticamente impostata a 4 per il calcolo dello score. Recenti studi(21), consultando in retrospettiva i database UNOS hanno correlato il punteggio MELD dei candidati a LT con la sopravvivenza, introducendo quindi il transplant benefit(21), inteso come guadagno sulla sopravvivenza di pazienti sottoposti a trapianto di fegato confrontati con pazienti alla stessa fascia di gravità ma che non hanno avuto accesso al trapianto, per differenti categorie di gravità clinica valutate con il MELD score. Il guadagno di sopravvivenza ad 1 anno dopo trapianto, rispetto al non trapianto è risultato più elevato per i riceventi con MELD progressivamente più alto, con particolare evidenza nei pazienti con MELD >18. Apparentemente non vi sono valori elevati di MELD oltre i quali il trapianto appare essere “futile”. Per valori di MELD <15, invece, non solo non è stato osservato survival benefit ma addirittura si profila un rischio di riduzione della sopravvivenza attesa dopo trapianto rispetto al non trapianto, in particolare per valori di MELD molto bassi (22-26) . In questo ambito, peraltro, l’aggravamento della malattia inteso come incremento del MELD avverrebbe, nell’arco di 1 anno solo nel 20% dei soggetti e tra questi, meno del 5% progredirebbe verso categorie superiori ove il survival benefit diviene significativo. Il limite di questo modello è rappresentato dalla breve durata dell’osservazione dopo il trapianto. E’ infatti possibile che periodi di osservazione più lunghi possano spostare verso il basso la curva del survival benefit. In base ai dati della letteratura appare quindi prudente non trapiantare pazienti con MELD <15, se non associato ad altre patologie (es. HCC)(21). 7 Uno degli strumenti per ridurre il numero di soggetti con malattia epatica terminale che non possono accedere al trapianto è l’allargamento dei criteri di accettazione dei donatori. Il numero di extended criteria donors (ECD) è progressivamente aumentato nel corso degli anni, fino a costituire circa un quarto di tutti gli organi trapiantati negli Stati Uniti nel triennio 2004-2006 (dati OPTN 2006), determinando sicuramente una riduzione della mortalità complessiva dei soggetti in lista d’attesa, ma con la conseguenza di sopravvivenze inferiori rispetto a quelle attese in soggetti di pari gravità ed affetti dalla stessa patologia che vengano trapiantati con organi standard(27,28,29). L’utilizzo di organi prelevati da ECD comporta quindi per il paziente un rischio ulteriore che si va ad aggiungere a quelli propri del trapianto. Questo rischio appare accettabile, da un punto di vista etico e dell’efficienza complessiva della “terapia trapianto di fegato”, quando organi provenienti da ECD vengano utilizzati in soggetti con MELD elevato e quindi con un notevole rischio di esclusione dalla lista per decesso o perché divenuti troppo gravi per essere trapiantati. Al contrario, il rischio aggiuntivo per organi da ECD può apparire difficilmente giustificabile in soggetti con MELD biochimico basso e, quindi, con basso rischio di esclusione dalla lista, a meno di non considerare che comunque questi pazienti, in caso di non utilizzo di questi organi, sarebbero destinati con il tempo ad aggravarsi a loro volta in attesa del trapianto. Un complesso modello di analisi decisionale, basata su dati UNOS, dati della letteratura e sull’opinione di esperti, suggerisce che, rispetto all’attesa di un organo standard, solo i soggetti con MELD>20 otterrebbero una maggiore sopravvivenza a un anno qualora fossero immediatamente trapiantati con organi da ECD(30). L’utilizzo di organi provenienti da ECD esclusivamente nei soggetti con MELD elevato è supportato anche dai dati di un ampio studio retrospettivo che mostra come il rischio aggiuntivo sulla sopravvivenza a breve termine degli organi da ECD non sia significativamente differente in diverse classi di MELD(27). E’ stato suggerito, anche se non ancora dimostrato, che l’uso di donatori non ottimali in riceventi con MELD elevato possa portare a risultati peggiori, seppure ancora accettabili. Al di là dell’assenza di studi prospettici che confermino i dati finora ottenuti e della mancanza di una definizione universalmente accettata di ECD, una allocazione degli organi da ECD basata esclusivamente sulla gravità clinica non è del tutto esente da critiche in quanto la gravità clinica al momento del trapianto predice la sopravvivenza dopo trapianto meno efficacemente della mortalità in lista, come prevedibile(31,32). 8 Sono auspicabili studi che consentano di individuare un algoritmo per calcolare il survival benefit del paziente, non teorico, ma relativo all’organo disponibile, tenendo conto di molteplici variabili, dalle caratteristiche del ricevente, a quelle dell’organo, all’efficienza organizzativa del sistema di rinvenimento, all’esperienza del singolo centro trapianti. La fattibilità di una valutazione quantitativa del rischio individuale a lungo termine prima del trapianto attraverso la valutazione delle caratteristiche e delle condizioni cliniche del donatore e del ricevente è stata dimostrata, sebbene solo con un singolo, per quanto ampio, studio retrospettivo. Esistono casi in cui la semplice gravità clinica descritta dal MELD non rende ragione del rischio di decesso in lista d’attesa o di uscita dalla lista stessa per l’insorgenza di complicanze, per queste situazioni, come ad esempio per l’epatocarcinoma (HCC), sono stati proposti dei correttivi punteggi del MELD score. Per quanto riguarda il punteggio da attribuire ai pazienti con epatocarcinoma, i criteri adottati nei diversi centri in Italia e nel mondo non sono sempre congruenti tra loro. Il criterio della gravità clinica legato alla cirrosi da molti autori ha ricevuto un ridotto peso, in quanto ritenuto non ben applicabile nel contesto di pazienti in cui l’indicazione a LT dovrebbe avvenire per il tumore piuttosto che per la insufficienza epatica. La Commissione AISF, in analogia alle scelte effettuate in USA nel contesto di una allocazione secondo MELD, aveva suggerito, nella precedente versione delle linee guida (2002-2004), di attribuire un punteggio fisso ai pazienti con HCC, graduato in base allo stadio del tumore al momento dell’ingresso in lista. A questo dovrebbe poi essere attribuito un punteggio aggiuntivo legato al tempo trascorso in lista, in quanto è poco probabile che il paziente possa essere giudicato trapiantabile sulla base del solo peggioramento della funzione epatica. Peraltro nei pazienti con HCC in gravi condizioni cliniche, va considerato il MELD biochimico, qualora questo superasse il punteggio corretto per HCC. Negli USA, almeno fino a metà 2007, il sistema mantiene ancora questa impostazione concettuale: ai pazienti inseriti in lista per HCC in stadio T2 (singolo HCC 2-5 cm o 2-3 noduli di diametro massimo di 3 cm) viene attribuito un punteggio fisso di 22 punti, incrementato di un valore pari al 10% di rischio (circa 3 punti) ogni tre mesi(33). Non viene invece attribuito punteggio aggiuntivo agli HCC in stadio T1 (nodulo singolo <2 cm) in quanto il rischio di morte o drop-out a breve termine legato al tumore viene considerato trascurabile. L’attuale raccomandazione dal Centro Nazionale Trapianti italiano prevede un 9 punteggio di MELD 22 punti per il T2, non ulteriormente incrementabili con il tempo. L’attribuzione di punti aggiuntivi ad HCC T1, precedentemente proposta, è stata recentemente eliminata, in accordo con la letteratura, in quanto eccessivamente premiante per i pazienti in stadio T1. Questo modo di calcolare il rischio tuttavia non scende adeguatamente a livello individuale nello stimare il rischio di drop-out o decesso in lista potrebbe essere oggetto di revisione in futuro. E’ infatti possibile, a titolo di esempio, che la prognosi di un paziente con nodulo di HCC di 4 cm sia ben diversa se il paziente ha un punteggio MELD di 8 (parametri ematochimici sostanzialmente normali ed uno score CTP A) o se sia piuttosto un paziente con punteggio MELD di 20 (spesso in classe CTP-C), con un ben diverso rischio di morte per epatopatia. Il rischio di drop-out dalla lista è infatti legato sia a possibili complicazioni legate alla severità dell’epatopatia sottostante, sia alla ridotta possibilità di trattamento curativo dell’HCC nel paziente in classe Child-Pugh C o talora anche solo in classe B. Attribuire quindi lo stesso punteggio a tutti i pazienti con HCC in lista potrebbe premiare troppo il paziente con funzione epatica ottimale rispetto alle reali necessità e penalizzare invece quello con funzione epatica compromessa. In effetti, in una recente esperienza italiana l’uscita dalla lista per insufficienza epatica/morte negli HCC è stata superiore a quella per progressione di malattia neoplastica anche qualora si fossero considerati rigidamente i criteri di Milano(34). Peraltro i pazienti in lista per trapianto con HCC ed insufficienza epatica possono costituire anche un numero consistente dei candidati (41% Child-Pugh classe C, 53% classe B e 6% classe A in un recente lavoro italiano che analizza i dati del periodo 2003-2004(34) o rispettivamente 18%, 66% e 16% in un altro recente studio italiano)(35). Comparazione Dei Due Metodi. Il Child-Pugh score e il MELD score rappresentano quindi due modi differenti per inquadrare la gravità clinica del paziente con epatopatia cronica e per l’inserimento del paziente in lista d’attesa di trapianto. I vantaggi del MELD rispetto al Child Pugh sono essenzialmente quattro: il primo è l’uso di tre fattori biologici semplici ed oggettivi, i quali facilitano il confronto tra pazienti epatopatici. La misurazione di queste variabili, al contrario di quanto avviene con l’ascite e l’encefalopatia, non è operatore dipendente e solo lievemente suscettibile a fattori esterni. 10 Il secondo vantaggio si riscontra nel fatto che il MELD è una variabile continua che aiuta a classificare con appropriatezza e precisione i pazienti. Il terzo, è l’inclusione del marker di funzione renale nel valutare il paziente. Il quarto è rappresentato dal fatto che la scelta delle variabili è stata effettuata sulla base di analisi statistiche atte a ponderare la loro effettiva influenza sulla prognosi (Tabella 4). Le attuali indicazioni a LT nell’adulto si possono raggruppare in 4 categorie: Cirrosi colestatiche CIRROSI BILIARE PRIMITIVA E COLANGITE SCLEROSANTE. Rappresentano due malattie croniche di deterioramento epatico ad impronta colestatica, la cui eziologia è tutt’oggi sconosciuta. Clinicamente presentano segni e sintomi caratteristici delle patologie croniche delle vie biliari (prurito e ittero) con conseguente aumento degli indici di colestasi. Il meccanismo patogenetico alla base di queste due condizioni consiste nella distruzione dei dotti biliari ad opera di autoanticorpi prodotti in circolo, nel caso della cirrosi biliare primitiva vengono coinvolti soprattutto i dotti di calibro minore quindi intraepatici, mentre la colangite sclerosante colpisce i dotti intraepatici, extraepatici e talvolta anche il coledoco e la colecisti. In entrambe le malattie l’indicazione a LT è basata sulla qualità della vita del paziente (prurito, osteoporosi, ripetuti ricoveri) e sulle complicanze della malattia di base (ascite, encefalopatia, emorragia). Il trapianto rappresenta l’intervento risolutivo con una elevata percentuale di sopravvivenza sebbene con persistenza, dopo trapianto, di anticorpi antimitocondri responsabili della distruzione delle vie biliari(37). Cirrosi croniche da danno vascolare SINDROME DI BUDD-CHIARI. La sindrome di Budd-Chiari(38) è dovuta ad una ostruzione del deflusso venoso epatico (più frequentemente su base trombotica), che può realizzarsi a livello di venule epatiche, vene sovraepatiche, vena cava inferiore, o atrio destro; ne conseguono ipertensione portale e necrosi epatica centrolobulare, con possibilità di evoluzione cirrotica. 11 La causa più comune di tale sindrome è rappresentata dagli stati ipercoagulativi, che possono essere ereditari (deficit di antitrombina III, deficit di proteina C, deficit di proteina S, mutazione del fattore V di Leiden, mutazioni della protrombina) o acquisiti (disordini mieloproliferativi, emoglobinuria parossistica notturna, sindrome da anticorpi antifosfolipidi, cancro, gravidanza, contraccettivi orali). Altre cause meno frequenti comprendono l’invasione tumorale (carcinoma epatocellulare, carcinoma del rene e del surrene) e forme miscellanee (aspergillosi, trauma etc); in circa il 25% dei pazienti non è identificabile una causa. La malattia può esordire con un quadro di epatopatia fulminante, acuta, subacuta o cronica. Il trattamento, oltre alla gestione delle complicanze, include: • terapia della causa sottostante; • terapia anticoagulante per prevenire l’estensione della trombosi venosa; • rimozione dell’ostruzione al deflusso venoso epatico: terapia trombolitica nelle forme acute; angioplastica nelle forme su base stenotica; shunt porto-sistemico per via transgiugulare (TIPS) o chirurgica; LT trova indicazione in caso di insufficienza epatica fulminante, cirrosi e fallimento dello shunt porto-sistemico. Nel trapianto di fegato per sindrome di Budd-Chiari è di fondamentale importanza considerare due aspetti: prognosi a lungo termine della malattia sottostante, riservando il trapianto solo ai pazienti con malattie a prognosi favorevole, e la necessità di trattamento anticoagulante a lungo termine per prevenire trombosi arteriose e venose nel post-LT; tale trattamento potrebbe non essere indicato nei pazienti con stati trombofilici a genesi epatica in quanto corretti da LT. Cirrosi cronica da causa alcolica CIRROSI ALCOLICA. L’epatopatia alcolica, in passato considerata controindicazione relativa a LT, rappresenta una delle indicazioni sempre più prevalenti nei paesi industrializzati. Il danno epatico da alcool deriva dall’effetto tossico dell’etanolo sull’epatocita, dall’accumulo di acidi grassi all’interno delle cellule con conseguente degenerazione e necrosi. L’intensità di degenerazione è in diretta relazione con la quantità di alcool ingerita 12 infatti la sospensione del consumo di alcool può fermare la distruzione dell’epatocita e permetterne la rigenerazione mantenendo una cirrosi compensata. La cirrosi epatica alcolica è un’indicazione consolidata a LT(39). Secondo i dati riportati dal ELTR, relativi a circa 33845 trapianti totali eseguiti per cirrosi epatica nel periodo 19882005, il 33% dei pazienti era affetto da malattia epatica alcol correlata; la sopravvivenza del paziente con cirrosi alcolica è risultata del 82% a 1 anno, del 72% a 5 anni, comparabile con i risultati ottenuti per altre indicazioni all’intervento. L’indicazione a LT per questa patologia richiede una accurata valutazione dell’idoneità del ricevente, sia per motivi etici che clinici, data l’alta incidenza di ripresa dell’abuso alcolico dopo l’intervento, segnalata fino al 95% dei casi(39,40). La recidiva di epatopatia alcolica rappresenta la causa più frequente di morte 87.5% dopo LT, mentre le neoplasie maligne, le malattie cardiovascolari e le infezioni, rappresentano il rischio maggiore di mortalità nei pazienti che si mantengono astinenti(41). La maggior parte dei Centri trapianto internazionali ritiene indispensabile, per l’inserimento in lista d’attesa, almeno sei mesi di documentata astinenza alcolica(42,43). In questo ambito è importante sottolineare che alcuni fattori quali: età, stabilità socio-economica, assenza di conviventi con assunzione abituale di alcool, assenza di abuso di altre sostanze, sono risultati fattori prognostici positivi per il mantenimento della astinenza post-trapianto. E’ auspicabile la presenza nei Centri di riferimento di personale specializzato in questa problematica, per migliorare i criteri di selezione ed approntare specifici protocolli di selezione e follow-up clinico nel periodo pre e post-trapianto. Un capitolo ancora oggetto di controversia nell’ambito delle indicazioni a trapianto epatico in corso di malattia alcolica è rappresentato dalla epatite acuta alcolica. Tale condizione è associata ad una prognosi sfavorevole con l’impiego della sola terapia medica di supporto, con una mortalità riportata variabile tra il 35% e il 46%(44). Gli scarsi dati della letteratura sembrerebbero dimostrare, sulla base dell’analisi istologica del fegato espiantato, come la presenza di una epatite acuta alcolica su cirrosi non influenzi negativamente la sopravvivenza dei pazienti sottoposti a trapianto e come questa sia sovrapponibile a quella ottenuta nel trapianto in presenza di cirrosi alcolica non associata ad epatite acuta (45) . Alcuni autori hanno evidenziato come in assenza di un tangibile miglioramento clinico della epatite acuta alcolica dopo 3 mesi di assoluta astensione dal consumo di alcol sia molto improbabile un recupero ulteriore della funzione epatica e pertanto questa categoria 13 di pazienti può essere presa in considerazione per trapianto epatico dopo solo 3 mesi di astinenza certificata dalle bevande alcoliche(46). Attualmente non appare giustificato estendere l’indicazione al trapianto epatico nei pazienti con cirrosi associata ad epatite acuta alcolica, se non nell’ambito di un protocollo sperimentale condiviso dalla maggior parte dei Centri trapianto. Dal punto di vista strettamente clinico, inoltre, debbono essere attentamente esclusi vari fattori di comorbilità da abuso cronico di alcol che possono influenzare negativamente la prognosi sia a breve che a lungo termine, quali: • danno organico cerebrale • cardiomiopatia • pancreatite cronica • neoplasie maligne (esofago, oro-faringe, etc.)(47,48) Cirrosi croniche virali post necrotiche HBV E HDV CORRELATA. La cirrosi epatica da virus B (sia HBeAg positiva che HBeAg negativa) è un’indicazione consolidata al trapianto di fegato. Secondo i dati riportati dal ELTR, la sopravvivenza a 5 anni e 10 anni è risultata rispettivamente del 74% e 69 %. Questi ottimi risultati sono frutto da un lato, della migliore selezione del paziente candidato a trapianto e dall’altro dalla possibilità di attuare una attiva prevenzione della recidiva di malattia dopo il trapianto, grazie alla disponibilità, oltre che di immunoglobuline (IgG) specifiche per la immunoprofilassi, di nuovi farmaci antivirali (analoghi nucleos(t)idici)(49,50). Nonostante i notevoli progressi compiuti negli ultimi dieci anni in tema di prevenzione e trattamento dell’epatopatia da virus B, rimane ancora aperto il problema della ricorrenza di malattia post-trapianto, infatti è accertato che l’HBV possieda sedi di replicazione extraepatiche che pregiudicano l’eradicazione totale del virus nel ricevente. L’affinamento delle metodiche di biologia molecolare ha permesso di migliorare la sensibilità della determinazione della attività replicativa del virus B, così da definire il profilo genotipico e fenotipico del candidato a trapianto e monitorare la risposta alla terapia antivirale nel periodo precedente il trapianto. La riattivazione virale è predetta dalla presenza di livelli sierici pre-operatori di HBV-DNA elevati (>50.000 copie/ml o 20.000 UI/ml, determinati con metodica PCR)(51). 14 L’introduzione degli analoghi nucleos(t)idici (Lamivudina/Adefovir e, più recentemente Entecavir e Telbivudina) capaci di abbattere anche in tempi rapidi la viremia HBV prima del trapianto, ha virtualmente esteso l’accessibilità al trapianto a tutti i pazienti con cirrosi HBV-correlata che ne abbiano indicazione, indipendentemente dalla carica virale iniziale. É tuttavia indispensabile che l’indicazione alla terapia antivirale pre-trapianto sia posta in accordo con il Centro trapianto di riferimento, soprattutto in relazione alla prevedibile tempistica del trapianto stesso ed al rischio di insorgenza di mutanti virali farmacoresistenti. I pazienti con cirrosi HDV correlata seguono gli stessi criteri di selezione e profilassi indicati per l’etiologia HBV(51). In genere questi pazienti hanno bassi livelli di viremia HBV o sono HBV-DNA negativi ed il trattamento con analoghi nucleos(t)idici nel periodo pre-trapianto non è indicato. La sopravvivenza dopo trapianto dei pazienti affetti da epatopatia da virus B senza evidenza di replica attiva (anti-HBe positivi e HBV-DNA negativi con PCR) è attorno al 70-80% ad un anno, rispetto al 45-50 % circa per i pazienti con segni di replica attiva oppure rispetto a pazienti dove non è stata effettuata adeguata prevenzione di recidiva con immunoglobuline antiHBs. CIRROSI HCV CORRELATA. La cirrosi da virus C è l’indicazione più frequente al trapianto di fegato; secondo i dati riportati dal ELTR1, questa rappresenta fino al 63% delle indicazioni al trapianto. L’appropriatezza dell’indicazione è giustificata sia dalla frequente associazione con epatocarcinoma (HCC) che dall’elevato numero di decessi per cirrosi legati a questa etiologia(52,53).A differenza di quanto accade per l’infezione da HBV, ad oggi non è stato dimostrata in maniera solida una correlazione diretta tra la carica virale di HCV pre trapianto e la severità della ricorrenza di malattia nel post trapianto(54). Nonostante alcune segnalazioni della letteratura indichino come l’ottenimento di una negativizzazione della carica virale di HCV al momento del trapianto, perseguibile mediante la terapia di associazione con interferone standard o peghilato e ribavirina, riduca la probabilità di insorgenza della epatite ricorrente da HCV nel graft(55,56), in pazienti con malattia di fegato scompensata candidabili al trapianto, l’utilizzo della terapia antivirale è associato ad elevati 15 rischi(57,58) e non dovrebbe essere intrapreso se non in accordo con il Centro trapianto di riferimento. L’elevata percentuale di recidiva di epatite nel graft e le sue complicanze, influenzano marcatamente la sopravvivenza post-trapianto rispetto alle altre patologie virali e non virali, risultando compresa tra 81% al 1° anno post-trapianto e 52% a 10 anni rispettivamente. Neoplasie CARCINOMA EPATOCELLULARE. L’HCC rappresenta la quinta neoplasia più frequente al mondo e la terza causa di morte per neoplasia. L’80% degli HCC compare su fegato cirrotico. Il trapianto di fegato è attualmente considerato, in pazienti selezionati, il miglior trattamento del HCC su cirrosi in quanto consente il trattamento contemporaneo della cirrosi e della neoplasia. I criteri minimi per la diagnosi di epatocarcinoma sono quelli definiti dalla conferenza EASL di Barcellona del 2001(59). I potenziali candidati a trapianto per HCC su cirrosi, non resecabili, debbono avere le seguenti caratteristiche: • presenza di un singolo nodulo di HCC (con diametro massino di 5 cm) oppure fino a tre noduli, ciascuno di diametro non superiore a 3 cm • assenza di localizzazioni tumorali extraepatiche (linfonodali o in altre sedi metastatiche) • assenza di invasione vascolare neoplastica dei principali rami venosi intraepatici (portali, sovraepatici) o extraepatici (vena porta, vena cava) confermata o sospettata alle valutazioni di imaging pre-operatorie. Tali criteri sono noti come Criteri di Milano e rimangono gli unici parametri validati in studi prospettici e nell’esperienza dei maggiori Centri. L’utilizzo di tali criteri comporta una sopravvivenza attesa del paziente a 5 anni pari a circa il 70% con una percentuale di recidiva tumorale inferiore al 25%. ERRORI CONGENITI DEL METABOLISMO. L’indicazione al trapianto nei pazienti con queste patologie può risultare da: 16 a) epatopatia cronica direttamente conseguente al difetto metabolico; b) epatopatia nel quadro di una sindrome che colpisce diversi organi; c) insufficienza di altro organo vitale come risultato di difetto congenito peculiare del fegato, ma senza epatopatia macroscopicamente evidente Nel primo caso il trapianto corregge il difetto metabolico inerente al fegato con il restauro della funzione enzimatica geneticamente carente. Nel secondo caso il trapianto di fegato non elimina il difetto metabolico, in quanto dipendente anche da altri organi i cui trapianti devono essere associati per ottenere dei risultati soddisfacenti. Nel terzo caso la malattia epatica è macroscopicamente assente ed il difetto metabolico si ripercuote su altri organi vitali quali cuore, polmone o rene. Esempi sono: l’ipercolesterolemia familiare, la deficienza di alfa-1-antitrispina, errori congeniti nel metabolismo dell’urea, l’ossalosi e il deficit di lipoproteina tipo II, l’amiloidosi. La malattia di Wilson è un difetto autosomico recessivo dell’escrezione epatica di rame il quale si accumula in diversi organi, tra cui fegato e nuclei lenticolari del SNC portando a morte se non trattata con agenti chelanti. Le indicazioni al trapianto di fegato si pongono quando la malattia si presenta nella sua forma fulminante oppure quando non vi sia risposta alla terapia medica con un progressivo danno neurologico e/o epatico. Dopo trapianto di fegato il difetto escretorio viene corretto e il danno neurologico in genere è reversibile sebbene in grado variabile(1,2). 17 1.3 TECNICA CHIRURGICA Il prelievo di fegato. Il successo di un LT è in gran parte dipendente dalle modalità di prelievo e di conservazione dell’organo. La tecnica di prelievo prevede per lo stesso donatore, l’avvicendarsi di più equipes al tavolo operatorio per il prelievo cardiaco, polmonare, renale, pancreatico, epatico, e recentemente intestinale. I tempi di successione sono ben codificati ed il prelievo di fegato precede quello di tutti gli altri organi addominali. Tre sono i punti fondamentali da rispettare: a) il mantenimento dell’integrità anatomica dell’organo, come condizione necessaria per il successivo ripristino della continuità vascolare e biliare; b) il riconoscimento della tipologia dell’apporto vascolare, riferito soprattutto alle ramificazioni arteriose, in quanto le anomalie anatomiche sono molto frequenti ed è molto frequente una loro lesione iatrogena accidentale se non riconosciute; c) la perfrigerazione a 4°C dell’organo in tempi brevi e con soluzioni idonee. L’intervento chirurgico di prelievo viene eseguito secondo le stesse modalità tecniche di Starzl che nel 1984 e nel 1987 descrisse al tecnica “classica” e la tecnica “rapida” rispettivamente(60,61). Quella standard risulta maggiormente idonea in condizioni di elezione e qualora sia prevedibile la stabilità emodinamica del donatore, in quanto prevede una più lenta dissezione delle strutture vascolari ed una più accurata scheletrizzazione dell’ilo epatico(62,63). Per la tecnica rapida, invece, non è prevista nessuna scheletrizzazione, ma solo la cannulazione vascolare, pertanto, per la sua velocità di esecuzione trova una sua giustificazione qualora il donatore, durante il periodo di osservazione o nel corso dell’intervento, mostri segni di instabilità emodinamica. L’intervento inizia con una sterno-laparotomia mediana che partendo dal giugulo raggiunge la regione pubica. Attraverso l’accesso toracico le equipes dedicate al prelievo di cuore e polmoni, possono giudicare l’idoneità dei relativi organi. Il tempo addominale inizia con la sezione del legamento rotondo e falciforme del fegato in modo da agevolare il posizionamento di un ampio divaricatore addominale che garantisca una adeguata esposizione dei visceri addominali per una preliminare esplorazione della cavità peritoneale. 18 Esclusa la presenza di lesioni neoplastiche macroscopicamente evidenti, si effettua la valutazione macroscopica del fegato considerandone aspetto, colore, forma, taglia e consistenza, inoltre un’attenta valutazione del legamento gastroepatico permette di identificare la presenza di una branca arteriosa anomala sinistra proveniente dall’arteria gastrica sinistra, mentre la presenza di una branca arteriosa anomala destra derivante dall’arteria mesenterica superiore, è rilevabile al di sotto della vena porta con la palpazione dell’ilo epatico. L’intervento procede con l’isolamento dell’aorta addominale sottorenale e con la sezione dell’arteria mesenterica inferiore, si prosegue quindi con la mobilizzazione epatica mediante sezione del legamento coronarico di sinistra e con la dissezione dell’aorta sopraceliaca che viene sospesa su fettuccia per il successivo clampaggio al fine di impedire la fuga del liquido di preservazione in torace al momento della perfrigerazione ipotermica. Il tempo ilare prevede il riconoscimento e la scheletrizzazione dei peduncoli vascolari e biliari, si procede con la sezione fra lacci delle arterie gastrica destra, sinistra, gastroduodenale e splenica. Il colodeco viene legato e reciso a livello del margine superiore del duodeno mentre il tronco portale viene isolato in direzione caudale fino alla confluenza spleno-mesenterica che viene incannulata (tecnica facoltativa) mediante un catetere da 10 fr introdotto nella vena mesenterica inferiore. Si procede all’eparinizzazione sistemica del donatore con 300-500 U/Kg di eparina sodica, alla legatura dell’aorta al carrefour iliaco ed all’incanulazione del vaso mediante una adeguata aortotomia anteriore. A questo punto tutti i team chirurgici possono procedere all’avvio delle perfusioni (crossclamp), con il liquido di preservazione appropriato dando il via alla cosiddetta ischemia fredda del fegato. La tecnica rapida non prevede nessuna procedura preliminare a carico dell’ilo epatico limitandosi al solo isolamento dell’aorta per la cannulazione e riservando l’isolamento delle strutture nobili ilari a perfusione avvenuta. Simultaneamente all’avvio della perfusione aortica si procede al dissanguamento rapido del cadavere mediante sezione della vena cava inferiore intrapericardica riempiendo il cavo toracico ed addominale con ghiaccio e soluzione fisiologica sterili a 4°C. Terminate le perfusioni cardioplegica e pneumoplegica le equipes toraciche provvedono al prelievo degli organi di competenza. 19 In caso di tecnica standard si completa il prelievo di fegato mediante sezione delle ultime connessioni epatiche diaframmatiche, della vena cava inferiore in sede soprarenale e del segmento di aorta addominale comprendente l’emergenza del tripode celiaco e dell’arteria mesenterica superiore. In caso di tecnica rapida si esegue invece la sezione di tutti i peduncoli che viene eseguita seguendo un ordine di approccio ai diversi vasi ben preciso: coledoco, arterie gastroduodenali, gastrica sinistra e splenica, tronco portale ed arteria mesenterica superiore all’interno della radice del mesentere. La dissezione dell’arteria mesenterica superiore viene effettuata, partendo da una posizione distale fino al raggiungimento dell’emergenza aortica in modo da identificare la possibile presenza di una branca epatica destra accessoria di pertinenza mesenterica. In tale caso la sezione della mesenterica avviene distalmente in moda da includere il ramo anomalo nel graft da asportare. Interrotta l’aorta a livello sopra e sotto celiaco si procede alla dissezione della vena cava inferiore sottoepatica a monte della confluenza delle vene renali. L’interruzione del pericardio e del diaframma con ampio margine attorno alla vena cava e la recisione dei pilastri diaframmatici destro e sinistro, completano la liberazione del fegato, che può essere asportato. Al momento della cardioplegia si infonde una quantità totale di soluzione di preservazione (Celsior o Belzer) compresa tra i 4 e i 6 litri, in rapporto anche ai tempi di prelievo. Una seconda perfusione del graft viene effettuata al banco immediatamente dopo l’asportazione del fegato infondendo ulteriore 700 ml di perfusione per via portale e circa 250 ml attraverso l’asse arterioso. Successivamente il graft epatico viene avvolto in tre sacchi di Mayo per organi deposto nel contenitore per il trasporto ricoprendolo completamente con ghiaccio non sterile. Nella fase finale, dopo prelievo en bloc dei reni, l’equipe epatica provvede al prelievo dei segmenti vascolari arteriosi e venosi iliaci per un loro eventuale utilizzo come omoinnesti al momento del trapianto(64,65,66,67). 20 Chirurgia da tavolo (Back Table Surgery). Consiste nella preparazione del graft prelevato: viene eseguita , una volta rientrati in sede, dalla stessa equipes che effettua il prelievo. Il fegato viene mantenuto in immersione nel liquido di conservazione, circondato da ghiaccio, in modo tale che la temperatura del bagno si mantenga intorno a 4°C durante tutta la procedura, che consiste in: a) preparazione dei vasi venosi per la successiva anastomosi (cava sovra epatica, cava sottoepatica, vena porta); b) preparazione dei vasi arteriosi ed eventuale ricostruzione delle anomalie; c) riparazione delle lesioni traumatiche o iatrogene eventualmente presenti; d) preparazione dei graft arteriosi iliaci; e) preparazione dei graft venosi iliaci. Anomalie anatomiche dell’arteria epatica. La presenza di rami arteriosi anomali è rilevabile in una percentuale di circa il 35% dei casi, valutata in base a studi effettuati sui donatori di fegato. Le più frequenti risultano: a) epatica sinistra dalla gastrica sinistra b) epatica destra dalla mesenterica superiore c) epatica comune dalla mesenterica superiore d) doppia anomalia (arteria epatica sinistra da arteria gastrica sinistra e arteria epatica destra da arteria mesenterica superiore) In caso di presenza si un’arteria epatica sinistra dalla gastrica sinistra, si lega quest’ultima distalmente rispetto al ramo anomalo e quindi si preleva in blocco con il tronco celiaco, che abitualmente viene preservato con il patch di Carrel. Nel caso sia presente un’arteria epatica destra o un’arteria epatica comune dalla mesenterica superiore, il patch aortico di Carrel viene prelevato più ampiamente, comprendendo anche l’origine della arteria mesenterica superiore. Durante il “back-table” si provvede alla ricostruzione di un inflow arterioso unico anastomizzato le arterie accessorie, a seconda del calibro al moncone dell’arteria splenica e dell’arteria gastroduodenale. Una ulteriore alternativa, in presenza di anomalie più complesse, consiste nella confezione di un tronco epatico comune anastomizzando i singoli 21 rami arteriosi su un tratto di graft arterioso iliaco del donatore, con utilizzo della biforcazione iliaca(64,65,66,67). Tecnica tradizionale. Consiste nella rimozione del fegato unitamente a tutta la vena cava retro epatica. La procedura prevede la preparazione di un ampio campo chirurgico comprendente l’ascella e l’inguine di sinistra per un eventuale utilizzo degli accessi venosi ascellare e femorale per il bypass veno-venoso. L’incisione addominale più utilizzata è la classica bisottocostale allungata sulla linea mediana (a stella Mercedes) estesa a sinistra fino alla linea emiclaveare, a destra fino alla ascellare media e cranialmente al processo xifoideo. Più raramente l’accesso è sottocostale destro (J incision) con l’intento di limitare le complicanze respiratorie post-chirurgiche e la comparsa di ernie addominali post-incisionali. Il posizionamento di un divaricatore costale di Rochard o di Kent permette una ampia visione della loggia epatica. La mobilizzazione del fegato mediante sezione del legamento rotondo e falciforme è seguita dal tempo ilare con l’incisione della pagina anteriore del peritoneo del legamento epatoduodenale. E’ possibile così isolare e sezionare il coledoco e successivamente le due branche di divisione dell’arteria epatica propria. Il tronco di quest’ultima viene scheletrizzato fino all’emergenza dell’arteria gastroduodenale che, a sua volta viene sezionata. Si procede con la scheletrizzazione de tronco portale che viene liberato dal tessuto linfatico circostante fino al margine pancreatico. Mediante sezione dei legamenti triangolare destro e sinistro con elettrobisturi risulterà possibile il progressivo distacco del lobo epatico destro dal diaframma e dalla ghiandola surrenale evitando ogni suo possibile traumatismo. La vena cava sovra epatica ed infraepatica saranno successivamente sospese su fettucce in modo da agevolarne il suo clampaggio trasversale a tali livelli. Prima del completamento dell’epatectomia è necessario preparare per il bypass veno-venoso (non sempre obbligatorio) ai fini di decomprimere il sistema venoso splancnico e consentire il ritorno venoso dagli arti inferiori. Il bypass trova indicazione soprattutto nei casi di instabilità emodinamica legata ai clampaggi cavali o nei casi di abbondante sanguinamento determinato dalla presenza di una ipertensione portale severa. 22 La circolazione extracorporea richiede l’incannulamento di una vena dell’arto inferiore, solitamente la vena safeno-femorale sinistra e della vena porta. Da queste il flusso viene convogliato con apposite cannule eparinate all’interno di una pompa centrifuga e da qui sospinto nella vena ascellare sinistra precedentemente incannulata(68,69). Il trapianto procede con il clampaggio cavale sovra e sotto epatico seguito dall’epatectomia e da una accurata emostasi delle aree cruentate con riperitoneizzazione dell’impronta dell’area nuda. Con il neo-fegato in addome (fine dell’ischemia fredda ed inizio dell’ischemia calda) si esegue un’anastomosi cavale superiore con sutura continua estroflettente in monofilamento non riassorbibile 4/0. Durante il completamento di tale anastomosi viene eseguito un lavaggio del graft per via portale con 500 ml di soluzione fisiologica ed albumina a 4°C con lo scopo di eluire i residui di soluzione perfusionale limitandone l’ingresso in circolo alla riperfusione ematica. Si esegue successivamente con la tecnica precedente l’anastomosi cavo-cavale inferiore. Previa eventuale chiusura della branca portale del bypass, viene poi eseguita l’anastomosi porto-portale termino-terminale con sutura continua estroflettente in monofilamento non riassorbibile 6/0 avendo cura di non serrare completamente il nodo lasciandolo distante dalla parete vascolare per una distanza pari al 50% del calibro del vaso (growth-factor). Tale accorgimento permette la completa distensione della sutura ed il raggiungimento di un adeguato calibro dell’anastomosi al momento del declampaggio. In presenza di trombosi della vena porta del ricevente è conveniente tentare la trombectomia del vaso prima di optare per una ricostruzione l’inflow venoso mediante un innesto venoso iliaco del donatore anastomizzato a monte della trombosi, solitamente sulla vena mesenterica superiore. In presenza di trombosi non suscettibile di trattamento con trombectomia, qualora non sia tecnicamente possibile ripristinare l’inflow portale con l’ausilio di un graft venoso da cadavere può essere necessario adottare la tecnica di impianto con trasposizione portocavale. In questa evenienza la vena porta del graft viene anastomizzata alla vena cava infraepatica. Al fine di ottenere un adeguato flusso venoso è necessario confezionare un bendaggio cavale a valle dell’anastomosi porto-cava T-L (emitrasposizione porto-cavale parziale) o derivare completamente il sangue cavale nella porta del graft (emitrasposizione porto-cavale parziale). 23 In ogni caso tali metodiche possiedono una elevata mortalità intra e perioperatoria e non consentono, nonostante il recupero della funzionalità epatica, di eliminare il rischio di sanguinamento da varici esofagee in quanto non risolvono l’ipertensione portale. La presenza di una TIPSS richiede la sua totale rimozione dal tronco portale evitando di danneggiare l’intima del vaso. Ad anastomosi portale completata, la rimozione delle clamp cavali e portale consente la riperfusione del graft (fine dell’ischemia calda). In tale fase si può osservare la comparsa di una “sindrome da riperfusione” che consiste in una insufficienza ventricolare destra con alte pressioni di riempimento ed ipotensione sistemica. Tale evento di gravità variabile e solitamente transitorio è legato all’immissione in circolo dei residui del liquido di conservazione unitamente al carico di metaboliti acidi e di potassio dal circolo splancnico e dagli arti inferiori rimasti congesti durante la fase anepatica. La sindrome da riperfusione richiede una gestione anestesiologica esperta delle alterazioni elettrocardiografiche, degli squilibri elettrolitici e delle turbe coagulative. L’anastomosi dell’arteria epatica deve essere condotta fra l’arteria epatica nativa alla emergenza della gastroduodenale e l’arteria del graft mantenendo i due capi rettilinei evitando il kinking e torsioni anastomotiche. La sutura è continua in monofilamento non riassorbibile 7-8/0. Nel 15-20 % dei casi, per la presenza di anomalie arteriose del graft è necessario adottare diverse tecniche anastomotiche al fine di riva scolarizzare ogni branca presente. In taluni casi, l’afflusso di sangue proveniente dall’arteria epatica del ricevente è inadeguato e non garantisce una adeguata perfusione. In questi casi è necessario confezionare un pontaggio aorto-epatico utilizzando uno dei segmenti arteriosi iliaci del donatore ed anastomizzandolo alla superficie anteriore dell’aorta infrarenale. Tale condotto viene portato in sede sottoepatica mediante un tunnel transmesocolico retro gastrico. Sulla sua estremità craniale verrà confenzionata la ricostruzione arteriosa. In altri il pontaggio può avere configurazioni diverse o giungere dall’aorta sopraceliaca (1,2,3). Dopo aver verificato la pervietà delle anastomosi vascolari e completato l’emostasi si procede alla ricostruzione del deflusso biliare. Quest’ultimo può essere portato a termine mediante epatico-coledoco anastomosi con o senza tubo a T di Kehr o mediante coledoco-digiunostomia a Y sec. Roux con o senza stent interno utilizzando monofilamenti riassorbibili 6/0(70). 24 Le correnti indicazioni al confezionamento di anatomosi biliodigestiva sono: a) discrepanza di calibro fra dotto epatico del donatore e coledoco del ricevente; b) patologie delle vie biliari; c) cirrosi biliare secondaria; d) colangite sclerosante; e) coledoco litiasi; f) atresia biliare; g) coinvolgimento neoplastico del coledoco; h) segni di ischemia del coledoco; i) stenosi dell’ampolla di Vater; j) anastomosi arteriosa su arteria accessoria destra. E’ tutt’ora oggetto di discussione la necessità del tubo a T a causa di un aumento di incidenza di complicanze biliari legate alla sua rimozione o al dislocamento. Per contro, la presenza del tubo di Kehr consente un continuo monitoraggio della quantità e qualità del flusso biliare e rappresenta un vantaggioso accesso col angiografico(70). Tecnica piggy-back. Nella maggior parte dei casi l’epatectomia può venire condotta lasciando in situ la vena cava retro-epatica secondo la cosiddetta tecnica piggy-back(71). La mobilizzazione del fegato ed il tempo ilare sono gli stessi della tecnica standard. Il fegato viene progressivamente liberato dalla cava mediante sezione fra legature di tutte le sue collaterali venose fino a lasciarlo connesso alla porta ed ala cuffia delle vene sovra epatiche. Dopo clampaggio portale e dell’ilo sovra epatico è possibile completare l’epatectomia senza compromettere il ritorno venoso al cuore. Gli osti delle vene sovra epatiche vengono modellati in modo da ottenere una bocca unica su cui anastomizzare la vena cava sovra epatica con la tecnica sopra descritta. Il “cul de sac” cavale inferiore viene legato mentre la ricostruzione ilare segue le tappe descritta per la tecnica standard. Qualora il clampaggio delle vene sovra epatiche risulti difficoltoso o fonte di pesanti turbe emodinamiche esistono alcune esistono alcune soluzioni tecniche che permettono di ripristinare ugualmente l’outflow venoso sovra epatico. Una di esse prevede la chiusura della cuffia delle vene sovra epatiche del ricevente, la chiusura delle estremità cavali sovra e sottoepatiche del graft seguita dall’anastomosi 25 latero-laterale fra la vena cava di quest’ultima o e quella nativa secondo la tecnica descritta da Belghiti(72). La seconda prevede, dopo la chiusura della cuffia delle vene sovra epatiche del ricevente, l’anastomosi termino-laterale della cava del graft sulla vena cava nativa. In caso di incompetenza di calibro delle anastomosi cavali eseguite, in presenza di un cul de sac infraepatico esiste la possibilità di un suo utilizzo di salvataggio per il confezionamento di un’ulteriore anastomosi di fuga accessoria(73). Tecnica fegato ridotto. Trova indicazione in riceventi adulti di piccole dimensioni od in pazienti pediatrici che richiedano un trapianto urgente in assenza di donatori di piccola taglia. Le opzioni previste sono il trapianto dell’intero emifegato destro, dell’emifegato sinistro o solamente del segmento laterale sinistro. Le procedure sul donatore sono analoghe a quelle descritte in precedenza mentre si diversifica la chirurgia di banco. Mantenendo il fegato immerso nella soluzione di preservazione si effettua una estesa dissezione degli elementi ilari identificando le strutture vascolari e biliari di destra e sinistra. Dopo aver stabilito il piano di sezione, la transezione parenchimale viene eseguita mediante kellyclasia o con dissettore armonico avendo cura di suturare tutte le branche vascolari incontrate sulla trancia di sezione. Il reimpianto avviene con le usuali tecniche descritte successivamente per lo split liver(74). Tecnica “split liver”. Il passo successivo alla riduzione del fegato è stata la possibilità di utilizzare un graft proveniente da un unico donatore per il trapianto di due riceventi. La separazione dei due graft può essere effettuata in situ cioè al momento del prelievo sul donatore cadavere, oppure ex situ, ossia al momento della chirurgia di banco. I primi casi di split ex situ furono effettuati nel 1988 in Europa e Stati Uniti con buone sopravvivenze a distanza dei riceventi. Attualmente la sopravvivenza totale dei pazienti negli split ex situ finora condotti varia fra il 75 ed il 93 % con una sopravvivenza del graft del 67-83 %. Da segnalare, rispetto alla procedura in situ, una maggiore incidenza di complicanze biliari ed in particolare lesione della trancia di sezione legati la mancato riconoscimento e legatura dei piccoli dotti biliari durante la fase di transezione parenchimale. La tecnica in situ proposta dal gruppo di Amburgo e successivamente dall’UCLA permette di ottenere delle sopravvivenze globali comprese fra il 65 e l’84 % a seconda della gravità 26 del ricevente, con una sopravvivenza del graft variabile fra il 62 e il 73 %. Con questa tecnica viene minimizzato il tempo di ischemia riducendo altresì l’incidenza di complicanze biliari post-trapianto. Le tecniche di splitting, inizialmente nate per soddisfare le necessità di riceventi pediatrici o di piccola taglia, si sono molto perfezionate tanto da poter essere utilizzate per il trapianto di due riceventi adulti di piccola corporatura. La regola fondamentale da seguire indipendentemente dal tipo di procedura, è quella di cercare di ottenere un graft di appropriata dimensione e quindi di appropriata funzione. Uno split laterale sinistro dovrebbe essere rivolto ad un ricevente di peso non superiore ai 30 Kg. Uno split destro allargato può venire allocato come se si trattasse di un fegato intero per riceventi fino a 85 Kg, mentre uno split destro/sinistro permette di ottenere due graft di medie dimensioni adatti per riceventi di peso compreso tra 40-60 Kg. Dal punto di vista tecnico devono essere rispettati alcuni punti chiave al fine di garantire la massima funzionalità del graft ed in particolare: mantenere una adeguata perfusione portale ed arteriosa nonché un completo drenaggio venoso di tutti i segmenti epatici trapiantati; condurre le transezioni parenchimali lungo piani anatomici. Dal punto di vista della donazione, il donatore ideale è rappresentato da un soggetto giovane di età inferiore ai 50 anni che all’anamnesi non presenti una storia di epatopatia. È preferibile una degenza in terapia intensiva inferiore ai 2 giorni con una costante stabilità emodinamica in assenza di alterazioni della funzionalità epatica e con un normale aspetto intraoperatorio del parenchima. Quale che sia il tipo di split utilizzato, le fasi iniziali di prelievo sono analoghe a quelle seguite per il prelievo di fegato intero. Nel caso di split ex situ, il graft rimosso verrà separato al back table mentre in caso di procedura in situ, la separazione dei due emifegati verrà eseguita a cuore battente dando via alla perfusione aortica solo a divisione avvenuta limitando così al massimo i tempi di ischemia. La dissezione degli elementi ilari permette di separare con sicurezza i peduncoli vascolari di destra e di sinistra. Al back table è possibile eseguire una valutazione colangiografica per ottimizzare il punto di sezione dell’albero biliare mentre nella tecnica in vivo si soprassiede a questa valutazione. Dopo aver isolato anche gli elementi venosi sovraepatici si procede con la sezione dei peduncoli che viene eseguita prima della sezione del parenchima nello split ex vivo mentre in quella in situ, nella fase finale. La transezione del parenchima si completa 27 con dissettore armonico o con kellyclasia suturando con punti transfissi ogni vaso interrotto. Per il trapianto di graft ottenuti con metodica ex situ è necessario che due riceventi appropriati (in termine di size-match con il donatore) siano disponibili nella stessa sede. Viceversa per lo spilt in vivo i graft possono essere destinati a centri di trapianto diversi. In questa ottica appare di fondamentale importanza una stretta collaborazione tecnica fra tutti i Centri coinvolti nelle varie fasi descritte(75). 28 1.4-OUTCOME DEL TRAPIANTO DI FEGATO In base ai dati forniti dal Collaborative Transplant Study (CTS) di Heidelberg, si può affermare che il trapianto ha ormai raggiunto una validità terapeutica evidente. Se i pazienti trapiantati prima del 1985 presentavano una sopravvivenza ad 1 anno del 34% e a 5 anni del 21%, oggi tali valori sono superiori rispettivamente all’85% ed al 70%. Tale incremento della sopravvivenza appare evidente anche confrontando due periodi temporali relativamente recenti (1990-1999 versus 2000-2013; Figura 1). Pochi studi esistono sulle sopravvivenze a lungo termine dopo OLT (76) ; Busuttil et al. Hanno recentemente presentato un’ampia serie di 3200 OLT effettuati presso la University of California di Los Angeles tra il 1984 ed il 2001(77): i dati da loro forniti hanno evidenziato come, anche a lungo termine, il trapianto di fegato fornisca risultati ottimali, con tassi di sopravvivenza ad 1, 5, 10 e 15 anni rispettivamente pari all’81%, 72%, 68% e 64%. Suddividendo la popolazione dei pazienti retrospettivamente studiati in due ere, la seconda (1992-2001), ha fornito risultati ancora più incoraggianti (83%, 75% e 71% ad 1, 5 e 10 anni rispettivamente), evidenziando come negli ultimi anni la tecnica del trapianto di fegato abbia subito netti miglioramenti. Valutando i pazienti in base all’età ed alla patologia di base sono emerse alcune differenze significative. • I pazienti pediatrici hanno presentato migliori sopravvivenze rispetto alle altre categorie di pazienti (84%, 79% e 76% di sopravvivenza ad 1,5 e 10 anni nei pazienti con età tra 1 e 18 anni rispetto a 82%, 70% e 59% nei pazienti con età superiore ai 55anni). • La sopravvivenza nei pazienti non urgenti è stata nettamente superiore a quella dei pazienti operati in urgenza (Figura 2). • L’atresia biliare presenta le migliori sopravvivenze tra le patologie pediatriche (82%, 79% e 78% ad 1, 5 e 10 anni). • Negli adulti la cirrosi biliare primitiva, la colangite sclerosante e la cirrosi postalcolica presentano i migliori risultati (82%, 77% e 68%; 85%, 76% e 70%; 84%, 77% e 70% ad 1, 5 e 10 anni rispettivamente; Figura 3). 29 • Le sopravvivenze per la cirrosi HBV-correlata sono state inferiori rispetto a quelle per le patologie colestatiche, ma superiori rispetto a quelle per cirrosi HCVcorrelata, che sono state pari a 82%, 69% e 58% ad 1, 5 e 10 anni. • Nei periodi antecedenti al 1990, il trapianto di fegato per patologia neoplastica presentava risultati ampiamente insoddisfacenti. Tale tendenza si è drammaticamente invertita nei periodi successivi, fino ad ottenere sopravvivenze sovrapponibili ai riceventi trapiantati per altra indicazione (Figura 4). Ciò è avvenuto principalmente per l’evoluzione della terapia immunosoppressiva e l’adozione di criteri di selezione più stringenti. Per quanto riguarda l’HCC, l’introduzione dei Criteri di Milano (MC) in vari centri ha fornito risultati sovrapponibili a quelli per patologia non tumorale (sopravvivenza ad 1 e 5 anni rispettivamente dell’85% e del 70%), con tassi di recidiva inferiori al 15%. Tuttavia alcuni centri hanno provato ad allargare questi criteri: Gondolesi et al.(78) hanno descritto una serie di 36 LDLT (living donor liver transplantation), dei quali il 33% è stato effettuato su pazienti con HCC che superavano i MC, con dei risultati ottimali sia per quanto riguarda la sopravvivenza libera da malattia (82% ad 1 anno e 74% a 2 anni), sia per quanto concerne la sopravvivenza globale (75% ad 1 anno e 60% a 2 anni). 30 CAPITOLO 2. LA VALUTAZIONE DELLA FUNZIONE EPATICA POST OLT E COMPLICANZE 2.1 LE DISFUNZIONI PRIMITIVE DEL GRAFT La qualità dell’organo da trapiantare è stato oggetto negli ultimi anni di sempre maggiore attenzione sia per l’aumento della prevalenza di organi cosiddetti marginali nella popolazione dei potenziali donatori, sia per l’accentuazione dello squilibrio tra offerta e richiesta di organi. Dall’analisi della letteratura emerge chiaramente che tra i fattori favorenti l’incremento dell’attività trapiantologica risulta l’allargamento dei criteri di selezione dei donatori, i quali sono alcuni anni fa non sarebbero stati giudicati idonei per età e altre caratteristiche. In tale contesto, un inquadramento organico di questa tematica ed un consenso sulla definizione di donazione non-standard o con criteri di accettazione allargati, a cui far riferimento in maniera univoca, assumono particolare importanza al fine di: 1) stratificare dal punto di vista prognostico la qualità della donazione ai fini dell’allocazione dell’organo e dei processi di attribuzione della priorità in lista; 2) stratificare dal punto di vista prognostico i riceventi tenendo in considerazione anche la qualità della donazione ricevuta; 3) rendere uniformi i processi decisionali che portano alla selezione degli organi da utilizzare o meno nei diversi Centri trapianto. In generale, si ritiene opportuno sostituire il concetto di donatore non-standard con quello di processo di donazione non-standard o con criteri di accettazione allargati, sottolineando l’importanza di considerare la donazione come un evento multifase in cui possono intervenire fattori molteplici, a volte persino indipendenti dall’organo o dal donatore stesso, variamente interagenti tra loro, ma sempre con significativo impatto sull’esito del trapianto. Si definisce donazione non-standard o con criteri di accettazione allargati la condizione in cui uno o più fattori caratterizzanti le diverse fasi del processo della donazione implichino un aumentato rischio di morbilità o mortalità di un ricevente dopo trapianto. 31 La complicanza più temuta, ed anche più facilmente documentabile, è rappresentata dalla primary non-function (PNF), con cui si intende la mancata ripresa funzionale del fegato non secondaria a trombosi dell’arteria epatica, complicanze biliari, ripresa di malattia o rigetto acuto, con necessità di ritrapianto entro 7 giorni per evitare la morte del paziente(79). Nel corso degli anni, pur aumentando il numero di fegati non-standard utilizzati per trapianto, il miglioramento sia delle tecniche chirurgiche e rianimatorie, sia delle procedure organizzative di allocazione ha consentito di contenere, se non di ridurre, l’incidenza di PNF. Una condizione analoga che però si verifica tra i 7 ed i 30 giorni dal trapianto è definita come delayed non-function (DNF)(80). Se PNF/DNF rappresentano entità nosologiche ben delineate e, nel complesso, poco frequenti, anche se drammatiche per le loro implicazioni, ben diversa è la situazione di una serie di condizioni caratterizzate sostanzialmente da una disfunzione iniziale dell’organo potenzialmente reversibile, definita come initial poor graft function (IPGF). Nel corso degli anni sono state proposte numerose entità nosologiche nelle quali parametri di danno epatico, di colestasi e di funzionalità epatica sono stati variamente utilizzati per indicare la disfunzione del fegato nella fase iniziale dopo trapianto. La comparsa di IPGF ha un impatto prognostico negativo in quanto si associa ad un aumentato rischio di insufficienza renale, sepsi, rigetto acuto nelle prime settimane dopo trapianto e ad un incremento della degenza ospedaliera e dei costi sanitari. Infine, alcuni studi indicano che l’IPGF si associ ad una ridotta sopravvivenza dell’organo e del paziente non solo a breve, ma anche a lungo termine. Recentemente è stata introdotta una nuova definizione di disfunzione iniziale reversibile del graft, denominata early allograft dysfunction (EAD), ovvero la presenza di una o più caratteristiche laboratoristiche di seguito riportate: bilirubina totale > o uguale a 10 mg/dl in settima giornata post-operatoria, INR (international normalized ratio) > o uguale a 1,6 in settima giornata post- operatoria e infine il valore dell’alanina aminotransferasi (ALT) o dell’aspartato aminotransferasi (AST) > 2000 IU/L entro la prima settima post-operatoria. Tale definizione si è dimostrata superiore a quelle utilizzate in studi precedenti nel stratificare la prognosi a sei mesi dei pazienti sottoposti a trapianto, intesa come graft failure non correlata a problemi tecnico-chirurgici o recidiva della patologia di base(81). 32 2.2 LA VALUTAZIONE DEL DONATORE, FATTORI DI RISCHIO E SCORES PROGNOSTICI I fattori in grado di influire sulla ripresa funzionale dell’organo sono molteplici e molti di essi dipendono dal donatore. Le sottoelencate variabili sono state identificate quali fattori di rischio legati al donatore: Età del donatore. Rappresenta un fattore predittivo importante, anche se ormai i donatori ultrasessantenni costituiscono la porzione in maggiore espansione del pool dei donatori, sia per il progressivo invecchiamento della popolazione, sia perché la maggior parte dei Centri trapianto ritiene che l’età del donatore non rappresenti di per sé una controindicazione assoluta all’utilizzo del fegato. L’aumento del rischio appare aumentare progressivamente per ogni decade a partire dai 40 anni, anche se un cut-off discriminante è stato identificato tra i 60 ed i 70 anni(82)(Figura 5). Deve essere comunque sottolineato che numerosi studi, incluso un multicentrico italiano in ambito AIRT(83), hanno dimostrato la possibilità di trapiantare con successo fegati da donatori ultrasettantenni ed ultraottantenni a condizione che venga minimizzato il tempo di ischemia fredda ed effettuata un’accurata selezione del donatore al fine di escludere patologie epatiche, lesioni ateromasiche dell’arteria epatica e neoplasie occulte. Merita un discorso specifico l’utilizzo del fegato di un donatore anziano in un paziente HCV-positivo. Infatti, l’incremento dell’età del donatore, con un cut-off tra i 50 e i 60 anni a seconda delle casistiche, si correla con il rischio di progressione in cirrosi della recidiva di epatite HCV-relata(84). L’età del donatore superiore ai 60 anni costituisce uno dei principali determinanti della donazione non-standard. L’impatto sfavorevole dei donatori ultrasessantenni sulla sopravvivenza dei pazienti è particolarmente evidente nei riceventi HCV-positivi. Appare ragionevole, ove possibile in base ai criteri di allocazione, riservare gli organi di questi ultimi preferenzialmente a riceventi HCV-negativi, soprattutto nel caso in cui coesistano altri fattori prognostici sfavorevoli. Tuttavia, non esiste un limite di età per l’utilizzo dei donatori anziani in quanto anche fegati prelevati da ultraottantenni possono essere trapiantati con successo. 33 BMI. Per quanto concerne il trapianto da donatore cadavere, il body mass index (BMI) appare correlato alla percentuale di steatosi epatica. Tuttavia, in un recente ed ampio studio retrospettivo, nel quale i donatori sono stati stratificati sulla base del BMI (<25; 25-30; 3035; >35) non si sono riscontrate differenze statisticamente significative sull’esito del trapianto in termini di incidenza di PNF, percentuale di retrapianto e sopravvivenza del ricevente; va sottolineato, tuttavia, che in tale studio organi con steatosi >35% all’esame bioptico non sono stati utilizzati indipendentemente dal BMI dei donatori(85). Quindi, in presenza di donatori con BMI elevato, è consigliabile valutare sempre la presenza ed il grado di steatosi attraverso l’esecuzione di una biopsia epatica. Degenza in terapia intensiva e farmaci vasopressori. I dati della letteratura sui fattori di rischio legati alla permanenza del donatore in terapia intensiva sono spesso contradditori e/o di bassa qualità scientifica per diverse ragioni: assenza di studi prospettici su ampia casistica, variabilità di gestione del donatore tra i centri, evoluzione delle tecniche rianimatorie negli anni ed assenza di uniformità nella definizione di una stessa variabile e/o tempistica rispetto al prelievo dell’organo. In generale la prolungata durata del ricovero in terapia intensiva deve essere considerato come un indice indiretto di bassa qualità del donatore, in quanto spesso si associa ad un massivo utilizzo di farmaci vasopressori, all’ alterazioni dei parametri laboratoristici epatici (ad esempio, aumento delle transaminasi), ad un aumentato rischio di trasmissione di agenti infettivi, ad alterazioni emodinamiche (arresto cardiaco transitorio o ipotensione prolungata), ed alterazione di parametri emogasanalitici (ipossiemia e acidosi). I fattori di rischio legati alla permanenza in terapia intensiva non rappresentano da soli motivo di esclusione dal processo di donazione anche se il loro impatto negativo sul risultato del trapianto è documentato da modelli prognostici predittivi del rischio associato all’uso di un donatore non-standard. La corretta gestione del donatore in terapia intensiva, con particolare attenzione alla prevenzione dell’insorgenza ed alla eventuale correzione dell’ipernatremia, costituisce un obiettivo primario specialmente nelle donazioni con fattori di rischio non modificabili (ad esempio, età avanzata). Causa di morte. Con l’aumento dell’età media dei donatori, si è registrato un aumento proporzionale delle morti cerebrali da cause non traumatiche (principalmente eventi 34 cerebro-vascolari). In uno ampio studio retrospettivo basato sui dati statunitensi dello Scientific Registry of Transplant Recipients (SRTR), la morte cerebrale da causa non traumatica è risultata associata ad un aumentato rischio di perdita dell’organo(86). Ipersodiemia. Studi degli anni ’80 e ’90 hanno documentato come l’ipersodiemia (>155 mmol/L) costituisse un fattore predittivo indipendente di IPGF. Più recentemente, è stato dimostrato che tale effetto sfavorevole può essere annullato se l’ipernatriemia viene corretta adeguatamente prima del prelievo(87). Va comunque sottolineato che due recenti studi retrospettivi non hanno riscontrato un’associazione tra ipersodiemia severa (>170 mm/L) e sopravvivenza dell’organo a lungo termine(88). Steatosi. L’epatosteatosi rappresenta la più frequente alterazione del fegato nella popolazione generale. In Italia, lo studio Dioniso ha dimostrato una prevalenza di steatosi dimostrabile ecograficamente del 58% ed una stretta associazione con BMI >25 ed anamnesi positiva per abuso alcolico acuto e cronico. Inoltre, in soggetti con BMI <25 ma affetti da sindrome metabolica si rileva una possibilità maggiore di riscontrare steatosi epatica(89). Comunque circa 1/5 dei potenziali donatori presenta steatosi dimostrabile ecograficamente, anche in assenza di fattori di rischio. Si distinguono classicamente due tipi istologici di steatosi: macrovescicolare e microvescicolare, che possono anche coesistere. Il grado della steatosi macrovescicolare viene suddiviso in lieve (<30% del volume del fegato) , moderata (dal 30 al 60%) e severa (>60%). Attualmente, è riconosciuto che la steatosi macrovescicolare di grado severo presenti un rischio inaccettabile di PNF/DNF e rappresenti una controindicazione alla donazione. La steatosi di grado lieve, in assenza di altri concomitanti fattori di rischio, consente di ottenere risultati dopo trapianto comparabili a quelli di organi non steatosici(90,91). Tuttavia, anche la steatosi lieve in presenza di altri fattori di rischio (condizione peraltro alquanto frequente) influenza negativamente il risultato del trapianto. A questo proposito, in un lavoro del Centro Trapianti di Torino, è stato dimostrato che la steatosi macrovescicolare >15% si associa ad una ridotta sopravvivenza dell’organo e del paziente in presenza di età del donatore maggiore di 65 anni, di ricevente HCV-positivo e tempo di ischemia fredda >10 ore (92) . Infine, l’incidenza di IPGF dopo trapianto di fegati con steatosi moderata raggiunge anche il 35% nelle diverse casistiche. 35 Non sorprende, quindi, che la maggioranza degli studi indica un cut-off di esclusione a livelli di steatosi macrovescicolare tra il 30 e 40%(90,91). Non esiste, invece, un’associazione certa tra steatosi microvescicolare, anche severa, e disfunzione dell’organo dopo trapianto(93). Nei casi di steatosi mista, si fa riferimento alla componente macrovescicolare per valutarne il rischio associato. Nonostante quanto sopra descritto, la steatosi spesso non è inserita nei modelli prognostici di rischio in quanto la biopsia epatica non viene sistematicamente eseguita su tutti i donatori e, quindi, il dato istologico spesso non è riportato nei database dei singoli Centri o dei grandi registri. Infatti, molti Centri ritengono adeguata la valutazione macroscopica del chirurgo al momento del prelievo. Va comunque ribadito che la biopsia epatica rappresenta attualmente il gold standard nella quantificazione della steatosi in quanto le tecniche di imaging non sono risultate sufficientemente sensibili nei casi di steatosi lieve-moderata e pur considerando i limiti legati al possibile errore di campionamento ed alla ridotta accuratezza diagnostica delle tecniche istologiche utilizzabili nei tempi ristretti del prelievo. La steatosi epatica macrovescicolare è un fattore di rischio indipendente di disfunzione epatica dopo trapianto la cui gravità aumenta all’aumentare del grado. L’esame istologico è fortemente raccomandato nei donatori con steatosi riscontrata ecograficamente, BMI >25, anamnesi positiva per abuso alcolico od uno dei criteri diagnostici per sindrome metabolica. Poiché l’esito del trapianto dipende dalla interazione di molteplici fattori legati al processo di donazione ed al ricevente, non è possibile stabilire criteri assoluti di accettabilità dei fegati steatosici ed è possibile che organi rifiutati da un Centro possano trovare favorevole utilizzo presso un altro Centro. A questo proposito, sarebbe opportuno che tutti i Centri seguissero protocolli condivisi nell’assicurare la qualità tecnica, la fattibilità e leggibilità delle biopsie nei ristretti tempi del contesto trapiantologico al fine di raccogliere dati scientificamente validi su cui poter elaborare criteri oggettivi per l’utilizzo di tali organi. Infine, il fegato con steatosi esclusivamente microvescicolare può essere utilizzato per il trapianto, possibilmente evitando l’effetto sinergico con altri fattori di rischio. Altre variabili non legate in senso stretto al donatore ma piuttosto al processo di donazione e all’atto chirurgico in grado di condizionare la qualità dell’organo da trapiantare sono: 36 Tempo di ischemia e danno da preservazione. La procedura di preservazione comprende una serie di fasi che si susseguono dal momento in cui viene arrestato l’apporto di sangue e ossigeno al fegato mediante il clampaggio dell’aorta addominale nel donatore (cross-clamp) fino al ripristino dell’apporto di sangue e ossigeno nel ricevente (riperfusione). Durante questo intervallo di tempo (ischemia totale), l’organo prelevato dal donatore viene perfuso con opportune soluzioni di preservazione, raffreddato a 4°C per ridurre al minimo il metabolismo cellulare, conservato sterilmente in appositi contenitori-frigo e trasportato presso la sede in cui verrà effettuato il trapianto. Infine, il fegato subirà un’ulteriore operazione di perfusione e preparazione al banco (back-table) prima di essere definitivamente impiantato sul ricevente. Tutte queste fasi sono ormai standardizzate e strettamente controllate. Il tempo che intercorre tra il cross-clamp e il posizionamento del graft nell’addome del ricevente (per confezionare le anastomosi vascolari) rappresenta il tempo di ischemia fredda (CIT: cold ischemia time) e gioca un ruolo determinante nella fisiopatologia del danno da ischemia-riperfusione a carico sia della componente epatocitaria sia sinusoidale. La comparsa di danno da preservazione si associa ad un aumentato rischio di PNF/DNF, IPGF ed, in alcuni studi, anche di perdita dell’organo e mortalità del paziente a lungo termine. Sostanzialmente, l’entità del danno da preservazione dipende dall’interazione di due fattori: la durata dell’ischemia fredda e la qualità del fegato. In pratica, il danno da preservazione sarà maggiore quanto più lunga sarà l’ischemia fredda, con la maggior parte degli studi che identificano un significativo aumento del rischio dopo 10-12 ore di preservazione. A tale proposito, un recente studio italiano del CNT ha dimostrato come un CIT superiore a 12 h raddoppi il rischio di PNF(94). Deve essere, inoltre, ribadito che il cut-off per la comparsa di un significativo danno da preservazione, pur variando da organo ad organo, dipende dalla qualità del fegato. Infatti, appare evidente che fegati steatosici e da donatori ultrasessantenni (e verosimilmente da donatori con fattori di rischio insorti durante la permanenza in terapia intensiva) presentano una ridotta tolleranza al danno da ischemia ed il limite di sicurezza è nettamente inferiore alle 10-12 ore. E’ stato dimostrato come la riduzione del tempo di ischemia fredda costituisca una strategia efficace nel prevenire o, almeno, minimizzare il danno da 37 preservazione in fegati steatosici e da donatori anziani, garantendo, in tal modo, un esito del trapianto comparabile o, comunque, accettabile, rispetto a quello osservato nei trapianti con donatori non-standard. Al fine di ridurre il danno da ischemia-riperfusione, sono state sviluppate diverse soluzioni di preservazione (UW - University of Wisconsin solution; HTK - Histidine-TryptophanKetoglutarate solution; Celsior solution). La soluzione UW venne considerata per anni il gold standard per la preservazione dell’organo in corso di trapianto epatico, ma alcuni studi hanno riportato un elevato tasso di incidenza di lesioni biliari di tipo ischemico, ipotizzando una non ottimale perfusione di UW a livello del microcircolo a causa della sua elevata viscosità. Le altre due soluzioni in commercio, Celsior e HTK, a differenza di UW hanno una composizione di tipo extracellulare (bassa concentrazione di K, elevata concentrazione di Na) ed una minore viscosità che favorisce una maggiore perfusione del microcircolo epatico. L’effetto di queste soluzioni sul danno da preservazione è stato comparato in alcuni studi clinici multicentrici, anche in Italia, che hanno però dimostrato una sostanziale pari efficacia(95,96). Tra i fattori di rischio in grado di influenzare in maniera significativa la ripresa funzionale del graft dopo trapianto epatico vanno inclusi quelli che si sviluppano durante l’intervento chirurgico e strettamente correlati al tipo di procedura chirurgica. Il tempo di ischemia calda è l’intervallo di tempo che intercorre tra il posizionamento del fegato nella cavità addominale del ricevente (momento in cui passa da una temperatura di 4°C ad una temperatura di 37°C) e la riperfusione dell’organo al termine delle anastomosi vascolari. Più sinteticamente è il tempo necessario al confezionamento delle anastomosi vascolari che precedono la riperfusione dell’organo. Un tempo di ischemia calda >45 minuti si associa ad un aumentato rischio di disfunzione epatica dopo trapianto. L’intervento chirurgico può influenzare indirettamente anche il tempo di ischemia fredda; ad esempio, la presenza nel ricevente di pregressi interventi di chirurgia addominale o di significativi deficit coagulativi possono rendere l’epatectomia particolarmente difficoltosa e prolungata allungando, di conseguenza, il tempo di ischemia fredda. Il tempo di ischemia calda e fredda sembrano influenzare in maniera sinergica l’esito del trapianto. 38 In particolare, il rischio di perdita dell’organo aumenta significativamente nei casi in cui ad un’ischemia fredda >12 ore segue un’ischemia calda >45 minuti(97) (Figura 6). Altre variabili analizzate e strettamente correlate all’intervento chirurgico, quali l’instabilità emodinamica e quantità di emoderivati trasfusi durante l’intervento, il tipo di anastomosi vascolare e la durata complessiva dell’intervento, non sembrano influenzare in maniera significativa la ripresa funzionale dell’organo dopo trapianto di fegato. Effetto dell’interazione dei fattori di rischio e scores prognostici. Da quanto sinora emerso dall’analisi dei singoli fattori di rischio del processo di donazione, alcune osservazioni risultano incontrovertibili: 1. la prevalenza di donazioni non-standard è progressivamente in aumento. 2. la prevalenza di donazioni con una combinazione di almeno 2 o più fattori di rischio è frequente. 3. l’interazione dei fattori provoca un aumento del rischio di mortalità e morbilità dopo trapianto e riduce i cut-off identificati per i singoli fattori (Figura 7). Esistono notevoli differenze tra i molteplici studi nella determinazione dei fattori di rischio per definizione delle singole variabili (ad esempio, utilizzo di cut-off differenti), tipo e numero di variabili incluse nelle analisi multivariate, popolazione oggetto dello studio (database di singoli centri o analisi di grandi registri nazionali) e approccio clinico al problema e caratteristiche organizzative dei singoli Centri trapianto, che inevitabilmente influenzano i risultati (ad esempio, quantificazione istologica o meno della steatosi, scelta del ricevente, tempi di ischemia fredda). Allo stato attuale, quindi, non esistono criteri univoci ed universalmente condivisi che consentano di identificare e quantificare il rischio associato alla donazione non-standard, che, di per sé, appare una condizione molto eterogenea. Non sorprende, pertanto, che da qualche anno si sia cercato di dare un valore pesato ad ognuno dei fattori di rischio e di elaborare indici di rischio numerici o modelli prognostici in grado di predire, tenendo in considerazione l’interazione dei diversi fattori, la probabilità di sopravvivenza post-trapianto dell’organo e del paziente a breve e lungo termine. Per essere applicabili con successo alla particolare realtà clinica ed organizzativa del trapianto, i modelli prognostici devono fornire informazioni utili al fine di ottimizzare: 39 1. i tempi di ischemia fredda (includendo variabili disponibili prima dell’espianto) 2. la scelta del ricevente (includendo anche il tempo di ischemia fredda, che può essere stimato in anticipo con buona approssimazione nella maggioranza dei casi, e le variabili legate al ricevente) 3. la gestione terapeutica nell’immediato post-operatorio (includendo in questo caso anche le variabili legate all’intervento chirurgico) Nel 2002, Briceno et al. proposero un modello prognostico basato su cinque variabili emerse all’analisi multivariata: steatosi macrovescicolare di grado moderato-severo, permanenza in terapia intensiva >4 giorni, uso di vasopressori ad alto dosaggio, tempo di ischemia fredda ed età del donatore. Il progressivo aumento del numero di fattori si associava ad un parallelo incremento dell’incidenza di danno da preservazione severo e DNF. Il fattore associato a maggiore rischio era rappresentato dalla steatosi, la cui quantificazione istologica era disponibile in tutti i trapianti(80). Negli anni successivi, altri modelli prognostici sono stati proposti da diversi autori(98). Nel complesso, mentre l’età del donatore ed il tempo di ischemia fredda sono stati quasi sempre inclusi in questi modelli, differenze si riscontrano nelle variabili legate alla permanenza del donatore in terapia intensiva (durata, uso di vasopressori, ipersodemia), all’intervento chirurgico (ischemia calda) ed all’inclusione o meno della steatosi in base alla consuetudine del Centro di eseguire una biopsia di protocollo. Nella maggioranza di questi modelli, veniva proposto un indice, basato sul numero di fattori di rischio presenti, da utilizzare per predire il rischio di mortalità e morbilità postoperatoria. Nel 2006, Feng et al. hanno introdotto il concetto di “donor risk index” (DRI) basato sull’analisi retrospettiva dello Scientific Registry of Transplant Recipients (SRTR) di 20023 trapianti dal 1998 al 2002(86). Sono state individuate tre variabili legate al donatore (età, sesso, razza), tre collegate a causa e tipo di morte del donatore (morte da accidente cerebrovascolare, morte da altra causa non-traumatica, morte da arresto cardiaco) ed una legata al tipo di intervento chirurgico (split-partial liver transplantation). Inoltre, nel modello sono stati aggiunti altre due fattori prognostici indipendenti: il tempo di ischemia fredda e la provenienza dell’organo da una regione di allocazione diversa da quella locale. 40 Il risultato è stata l’elaborazione di un modello con valori continui che vanno dal gruppo a minor rischio (DRI: 0.0-1.0) ad un gruppo a rischio più alto (DRI: >2.0) a cui corrisponde una progressiva riduzione della sopravvivenza dell’organo a 3 mesi, 1 e 3 anni. Va detto che il modello non include variabili importanti, come il grado di steatosi in quanto i dati istologici nel registro SRTR sono a tale riguardo incompleti e che alcune della variabili incluse sono difficilmente utilizzabili al di fuori degli Stati Uniti, come la razza e la morte del donatore da causa cardiaca. Tuttavia, il DRI rappresenta il prototipo di modelli prognostici sulla donazione non-standard, che necessita, comunque, di studi di validazione su altre casistiche e la cui impostazione metodologica rappresenta ragionevolmente la base per lo sviluppo di nuovi modelli prognostici. Il DRI viene ampiamente utilizzato, specialmente in USA, grazie alla sua interfaccia intuitiva reperibile su numerosi siti web; va sottolineato però che il punteggio è di tipo continuo, non esiste cioè, un cut-off uniformemente accettato per definire un donatore marginale; diversi autori hanno suggerito come un punteggio > o uguale a 1,7 possa identificare questa condizione(99). 41 2.3 INDICI DI FUNZIONALITA’ DEL FEGATO PRE E POST TRAPIANTO Allo scopo di massimizzare il beneficio tratto dal paziente sottoposto a LT è necessario identificare nuovi markers di funzione epatica applicabili nel periodo pre e post-trapianto, al fine di poter individualizzare la prognosi del paziente e consentire decisioni terapeutiche tempestive. Tale necessità si è resa ancor più impellente dato l’esteso utilizzo degli extended criteria donors, giudicati inutilizzabili in passato, ma che attualmente rappresentano fino al 25-40% dei graft utilizzati. Tradizionalmente la valutazione della funzionalità e del danno epatico si basa su test statici e test dinamici: i primi valutano la presenza degli enzimi epatici nel siero, la sintesi proteica (fattori della coagulazione) e l’escrezione dei cataboliti (la bilirubina). I test statici vengono così definiti poiché permettono unicamente un controllo puntuale della funzionalità epatica. I limite di questi test è rappresentato dal fatto di non descrivere i rapidi cambiamenti dell’attività epatica, spesso necessario nel paziente critico. La stima della bilirubina, degli enzimi epatici e la proteosintesi forniscono un’immagine statica della funzione epatica e non sempre stimano correttamente la riserva funzionale dell’organo. La bilirubina è un prodotto dell’eme, sottoposto a catalisi e coniugazione con acido glucuronico (bilirubina indiretta) dopo captazione epatocellulare, e successivamente escreto nella bile. L’iperbilirubinemia può esser causata da patologie pre-epatiche (es. emolisi) o da ostruzione post-epatica (es. colestasi), rivelandosi a volte poco specifica per le disfunzioni primitive del fegato(100). Gli enzimi epatici, ALT e AST, posso riflettere l’estensione della necrosi epatocellulare, sebbene siano presenti in altri organi come ad esempio nel muscolo scheletrico o nel cuore, quindi un loro aumento non rappresenta con certezza un indice di danno epatico. Inoltre tali enzimi sono inevitabilmente alterati nel post-LT, quindi non discriminano con certezza una reale disfunzione iniziale del graft dalla naturale e transitoria espressione biochimica del danno ischemico(101). Per quanto riguarda la protidosintesi epatica, questa viene calcolata mediante parametri della coagulazione (tempo di protrombina e di tromboplastina) o la concentrazione plasmatica dell’albumina. Questi indicatori descrivono l’estensione della perdita di massa epatica funzionante, poiché una riduzione dell’attività di sintesi comporta un calo nelle 42 concentrazioni dei fattori della coagulazione e di antitrombina e di conseguenza episodi emorragici. Va sottolineato però che nel periodo perioperatorio tali markers sono influenzati dalla terapia sostitutiva (plasma fresco concentrato o albumina) necessaria al supporto coagulativo e volemico del paziente trapiantato, perdendo quindi di specificità nella valutazione della reale funzionalità del neofegato(102). Esistono inoltre tests dinamici basati, invece, sulla capacità del fegato di metabolizzare o eliminare determinate sostanze che vengono effettuati tramite il calcolo della clearance del verde di indocianina (ICG) e dei livelli monoetilglicinxilidide (MEGX) ovvero un metabolita della lidocaina. Tali tests dinamici hanno il vantaggio di quantificare lo stato funzionale al momento della valutazione e, se ripetuti ad intervalli di tempo relativamente brevi, di evidenziare disfunzioni epatiche altrimenti inapparenti(103). Il verde di indocianina (ICG) è un composto fluorescente a contenuto di ioduro, sicuro e senza eventi avversi tranne nei pazienti con allergia allo ioduro o con tireotossicosi, il quale dopo iniezione e.v., viene eliminato dal fegato nella bile senza un ricircolo enteroepatico. In generale, l’eliminazione dell’ICG dal sangue dipende dal flusso ematico epatico, dalla funzione delle cellule parenchimali e dall’escrezione biliare(104). L’eliminazione dell’ICG può essere espressa tramite il valore dell’emivita, la clearance ematica o la velocità di eliminazione dal plasma (ICG-PDR, plasma disappearance rate). La ICG-PDR e la clearence del MEGX possono essere utili nel LT; infatti in fase di preLT tali valori sono risultati altamente predittivi di sopravvivenza del paziente indipendentemente dalle patologie di base, sia negli adulti che nei pazienti pediatrici(105). Inoltre è stata riscontrata una scarsa funzionalità dell’organo trapiantato quando i donatori avevano un’ICG-PDR bassa, mentre un valore di ICG-PDR inferiore a 15% si associava ad tasso più elevato di disfunzione dell’organo trapiantato. La clearance dell’ICG può quindi rappresentare un utile strumento per testare la funzionalità del fegato da trapiantare sia quando applicato sul donatore sia dopo l’intervento(106). Tuttavia più che un indicatore di funzionalità cellulare, l’ICG-PDR è un marcatore di flusso ematico e le variazioni dei suoi valori a breve termine probabilmente riflettono le variazioni del flusso sanguigno piuttosto che la funzione epatocellulare; le valutazioni dinamiche appena citate non sono però considerate indagini routinarie e risultano perciò scarsamente applicabili su larga scala, data la loro complessità di esecuzione e la difficile interpretazione dei risultati. 43 Altri parametri importanti di valutazione sono la stima dell’acidosi metabolica e dei lattati ematici, i cui valori, se non normalizzati nelle ore o giorni successivi al trapianto, rappresentano un fattore prognostico negativo per la ripresa funzionale del graft. (107). Le sopracitate indagini ematochimiche, (bilirubina, PT, ALT, AST, albumina), vengono ovviamente considerate anche per valutare l’idoneità del fegato da trapiantare ma la loro affidabilità può essere minata dalle pregresse patologie (non necessariamente epatiche) del donatore o dal meccanismo che ha prodotto la morte cerebrale; basti pensare, ad esempio, che la causa di morte di gran parte dei donatori italiani ed europei è rappresentata da eventi emorragici cerebrali come conseguenza della terapia con anticoagulanti orali, che alterano cronicamente i valori della coagulazione rendendoli indici inaffidabili della sintesi epatica. Inoltre, per le cause di morte cerebrale ad eziologia post-anossica, l’incremento delle transaminasi dovuto all’arresto di circolo è praticamente costante senza che ciò rifletta necessariamente un danno epatico tale da precludere la donazione. Al contrario, in molte delle analisi multivariate aventi come oggetto l’insorgenza di PNF, EAD o DNF, vengono identificati come fattori di rischio la modalità del decesso, l’età del donatore, il tempo di ischemia fredda e l’instabilità emodinamica trattata con cicli ripetuti di farmaci vasopressori(108); non compaiono quindi come fattori predisponenti le alterazioni degli ematochimiche degli indici di sintesi e citonecrosi epatica, che spesso risultano perfettamente normali nei soggetti che svilupperanno tali complicanze. Le analisi di laboratorio sopracitate si dimostrano efficaci nella valutazione della funzionalità residua del fegato nel paziente cirrotico in attesa di trapianto, ma non presentano una simile validità nel predire la funzionalità del potenziale graft nella valutazione del donatore; inoltre, allo stato attuale, esistono pochi metodi o parametri biochimici utili a predire lo sviluppo di PNF, DNF o EAD. Pertanto uno dei compiti della medicina del laboratorio è mettere a markers alternativi per identificare anzitutto quali organi siano più idonei al trapianto, specialmente tra quelli dei donatori “anziani” o “marginali” e per monitorare in maniera precisa ed affidabile la funzione dell’organo appena trapiantato al fine di fornire al chirurgo un dato altamente predittivo del recupero funzionale e quindi utile nel consentire opzioni terapeutiche nei tempi ristretti imposti da tali scenari clinici. 44 CAPITOLO 3. STUDIO CLINICO: ASSE SOMATOTROPO E FUNZIONALITA’ EPATICA 3.1 INTRODUZIONE ALLO STUDIO Asse somatotropo GH/IGF-1. L’Ormone della crescita (GH) è un peptide sintetizzato e secreto dalle cellule somatotrope ipofisarie e metabolizzato in gran parte a livello epatico e in minor misura a livello renale. La secrezione di GH è controllata principalmente da due ormoni ipotalamici, il GHRH e la somatostatina (il GHRH stimola la sintesi e la secrezione di GH, mentre la somatostatina esercita un effetto inibitorio sulla secrezione), ma può essere modulata da altri numerosi fattori fisiologici, farmacologici e patologici agendo direttamente a livello ipotalamico sulla secrezione di GHRH e somatostatina (Tabella 5). Il GH esercita azioni metaboliche (Tabella 6) e trofiche, promuovendo la crescita corporea e inducendo l’ipertrofia e l’iperplasia di diversi organi, mediate i fattori di crescita insulino-simili (IGF-I e IGF-II) e le loro proteine leganti. I mediatori dell’ormone GH sono le somatomedine IGF-1 e IGF-2, quest’ultima fondamentale durante la vita fetale e solo parzialmente suscettibile alle variazioni del GH; questi agiscono prevalentemente sull’apparato scheletrico, pelle, cervello, midollo osseo e proteosintesi. La maggiore fonte di IGF-1 è il fegato, tuttavia viene sintetizzato da numerosi altri organi come il rene, l’ovaio, la placenta, il pancreas, la pelle e il polmone(109) sotto lo stimolo del GH stesso. I livelli circolanti di IGF-1 sono inoltre influenzati da numerosi fattori come l’età, lo stato nutrizionale e la presenza di malattie croniche. Quasi la totalità dell’IGF-1 circolante è legato a delle specifiche proteine di trasporto chiamate IGF-binding proteins (IGFBPs) mentre la restante quota, inferiore all’1%, è libera e biologicamente attiva. Sono state descritte sei diverse IGFBP (da IGFBP1 a IGFBP-6) tuttavia, il 95% dell’IGF-1 circolante è legato alla IGFBP-3 la quale risulta prodotta a livello epatico sia dagli epatociti che dalle cellule di Kupffer. Infine l’azione dell’IGF-1 nei diversi organi o tessuti bersaglio si esplica mediante il suo legame con degli specifici recettori di membrana (IGF-1R) appartenenti alla famiglia delle titosin-kinasi. 45 Asse somatotropo in cirrosi e post trapianto. Il primo studio presente in letteratura che ha evidenziato una correlazione tra epatopatia e livelli sierici di IGF-1 risale al 1986. Cuafriez aveva notato per la prima volta che i pazienti affetti da epatopatia cronica presentavano bassi livelli di IGF-1 concludendo pertanto che l’IGF-1 poteva considerarsi un affidabile marcatore di funzionalità epatica. In seguito sono stati pubblicati altri studi che hanno confermato tale dato e valutato l’asse somatotropo nelle diverse fasi dell’epatopatia fino alla cirrosi. Già nel 1987, come successivamente confermato da altri studi(110,111), Salerno aveva osservato che i pazienti con malattia epatica cronica presentano un’aumentata secrezione di GHRH e GH che risultava, tra l’altro, particolarmente elevata nei pazienti affetti cirrosi epatica avanzata. Come giustificazione a tale dato l’autore ipotizzava che la presenza di un accumulo di ammine o di altri suoi precursori a livello cerebrale (cosa che si verifica nelle fasi avanzate della cirrosi a causa dell’encefalopatia e/o dello shunt porto sistemico) potesse alterare le trasmissioni di segnale neuro-ormonali a livello ipotalamico, provocando un ulteriore rilascio di GHRH e GH(112). Come già osservato da Cuafriez tale rialzo non si accompagna tuttavia ad una adeguata risposta epatica nella produzione di IGF-1(113) e IGFBP-3, che risultano quindi ridotti, provocando a loro volta un ulteriore incremento del GH per mancanza del feed-back negativo che l’IGF1 stesso provoca a livello sia ipotalamico che ipofisario. Il decremento dei livelli di IGF-1 nei pazienti affetti da cirrosi epatica è prevalentemente dovuto alla ridotta funzionalità epatica per riduzione della massa epatocellulare (infatti si è vista una correlazione negativa tra i livelli di IGF-1 e gli indicatori di funzionalità quali AST, bilirubina, Fosfatasi alcalina e albumina) (114) , ma anche ad una riduzione dei recettori del GH nel fegato cirrotico(115,116) ed ad una aumentata attività dell’IGFBP-1 e 2 i quali hanno come azione primaria il blocco delle IGF(117). Altri fattori di comune riscontro nei pazienti cirrotici che possono influenzare i livelli plasmatici di IGF-1 sono: 1) la malnutrizione, anche se non tutti gli studi in merito hanno rilevato una correlazione tra i livelli di IGF-1 e lo stato nutrizionale(118); 2) la peritonite batterica caratterizzata dall’incremento dell’IL-6: è stata evidenziata una correlazione inversa tra i livelli di IGF-1 e IL-6 suggerendo la capacità dell’IL-6 di bloccare la produzione epatica di IGF-1(119). Le alterazioni dell’asse GH/IGF-1/IGFBP sono dunque ben documentate nella cirrosi e le alterazioni di tali peptidi sono stati proposte come markers di disfunzione epatocellulare, malnutrizione e sopravvivenza: uno studio caso controllo-effettuato su 44 pazienti con 46 cirrosi epatica avanzata ha infatti evidenziato che il dosaggio di IGF-I, IGF-II e IGFBP-3 in combinazione con il Child-Pugh (CP-) score, rappresenta un fattore prognostico più affidabile rispetto al solo CP-score(120). Numerosi altri studi hanno confermato la correlazione tra IGF-1 e CP-score(121), che inoltre appare più forte nei pazienti che presentavano anche ipertensione portale o malnutrizione, riflettendo dunque perfettamente il grado di insufficienza epatica. Infine, alcuni studi hanno valutato la risposta del GH al test di stimolo con GHRH nei pazienti con cirrosi epatica: in particolare, da un lavoro condotto in 52 pazienti cirrotici suddivisi in tre gruppi in base al CP-score, è emerso una maggiore risposta del GH in pazienti cirrotici, indipendentemente dal CP-score, che raggiungeva la significatività statistica se paragonata al gruppo di controllo costituito da pazienti non affetti da epatopatia(122). Tale dato si conferma indipendentemente dal sesso(123). Per quanto riguarda le variazioni dell’asse somatotropo dopo LT, gli studi presenti in letteratura sono pochi. Già dai primi dati a riguardo, risalenti ai primi anni novanta, si evidenziava una riduzione dei livelli di GH, con progressiva normalizzazione dopo alcuni mesi dal LT(124,125). Tale riduzione è tuttavia preceduta da un picco secretivo di GH dopo 30 minuti dalla perfusione del graft che tende poi a decrescere progressivamente, fino a raggiungere livelli inferiori al pre-LT, dopo una settimana. Come possibile spiegazione è stato supposto che, l’incremento del GH durante le prime 24 ore dalla riperfusione del graft, sia secondario prevalentemente allo stress chirurgico(126,127,128). Contrariamente a quanto avviene per il GH, l’IGF-1 mostra un progressivo incremento dopo LT. Uno studio condotto nel 2004 ha valutato le variazioni dell’asse GH/IGF-1 dopo trapianto di fegato in 15 pazienti suddivisi in due gruppi in base all’insorgenza o meno di una IPF del graft: in entrambi i gruppi si è osservato un netto e sovrapponibile incremento di GH nelle prime 24 ore dal trapianto mentre l’IGF-1 è risultato significativamente più elevato nel gruppo dei pazienti con IPF. Quest’ultimo dato sembrerebbe suggerire una iniziale correlazione diretta tra l’entità del danno ischemico, al quale le cellule epatiche del graft sono andate incontro, e i livelli di IGF-1circolanti: tanto più il graft ha subito un danno ischemico durante le manovre di prelievo e conservazione, tanto maggiore sarà la risposta delle cellule epatiche nella produzione di IGF-1. Dopo le 24 ore dalla riperfusione si osserva invece un maggiore e più rapido incremento di IGF-1 nei pazienti con normale 47 funzionalità del graft (la totalità dei pazienti raggiunge normali livelli di IGF-1 dopo un mese dall’LT), mentre solo il 30% dei soggetti che hanno presentato un IPF raggiungono normali livelli di IGF-1 a causa del danno ischemico stesso. Pertanto aumentati livelli di IGF-1 nelle prime 24 ore dal trapianto si correlano ad una iniziale disfunzione del graft e tale dato sembra essere l’unica caratteristica laboratoristica che differenzia i due gruppi in questa fase precoce tra i vari parametri valutati (AST, PT, ATIII, acido lattico, albumina, bilirubina, GGT, ALT, WBC e piastrine)(128). Tale preliminare esperienza suggerisce dunque il potenziale impiego dell’IGF-1 come marker di funzionalità epatica nel periodo postoperatorio. Tuttavia, la ripresa funzionale del graft epatico, immediata e nel lungo periodo, è direttamente correlata alla qualità del donatore, così come a numerose variabili legate agli eventi intraoperatori e al decorso postoperatorio del ricevente. Le misurazioni seriate dei routinari tests di funzione epatica come ad esempio AST, ALT, attività protrombinica e bilirubina, sono utili nell’identificare una IPF (o EAD) ma appaiono inadeguati nel discriminare variazioni più sottili della riserva funzionale epatica e, dunque, nel predire l’outcome a lungo termine del trapianto. 48 3.2 SCOPO DELLO STUDIO Diversi studi presenti in letteratura hanno descritto le alterazioni della funzione endocrina, e in particolare dell’asse somatotropo, nei pazienti epatopatici terminali mentre solo pochi lavori hanno valutato tali modificazioni ormonali dopo trapianto di fegato, tra l’altro con risultati discordanti tra loro. Il nostro studio si propone di valutare il grado di alterazione dell’asse GH/IGF-1 in una popolazione di pazienti cirrotici candidati al trapianto e di studiarne prospetticamente le variazioni nell’anno successivo all’intervento chirurgico. I valori medi di IGF-1 post-LT sono stati stratificati in base ai fattori di rischio intrinseci del donatore (extended criteria donor score > o = a 2) e alle differenti variabili trapiantologiche al fine di validare l’utilità di tale marker come indicatore della riserva funzionale del fegato trapiantato. Attraverso un’ampia analisi di correlazione abbiamo studiato il grado di associazione fra i valori postoperatori di IGF-1 e i tests di laboratorio comunemente utilizzati nel follow-up clinico dei pazienti sottoposti a LT. Attraverso un’analisi delle curve di sopravvivenza attuale dei pazienti in studio, abbiamo verificato l’esistenza di una correlazione prognostica fra il ripristino della normale funzionalità dell’asse somatotropo e la sopravvivenza dei pazienti dopo LT 49 3.3-MATERIALI E METODI Da aprile 2010 ad aprile 2011, sono stati considerati prospetticamente 44 riceventi di fegato adulti per l’arruolamento in questo studio. I soggetti affetti da infezione da virus dell’immunodeficienza umana acquisita (HIV, 8 pazienti), sottoposti a trapianto per insufficienza epatica acuta a decorso fulminante (3 pazienti) o portatori di endocrinopatie preesistenti non correlate all’insufficienza epatica (1 paziente) sono stati esclusi dallo studio. Abbiamo inoltre escluso dall’analisi un ulteriore paziente sottoposto a LT per epatocarcinoma su fegato non cirrotico. Sono stati inoltre esclusi i pazienti candidati a retrapianto di fegato o a trapianto multi-organo. La popolazione oggetto dello studio è dunque rappresentata da 31 pazienti cirrotici sottoposti a LT presso la Clinica di Chirurgia dei Trapianti dell’A.O.U. “Ospedali Riuniti” di Ancona; l’analisi dei dati è stata fissata dopo un follow-up minimo di 3 anni dall’intervento chirurgico. Le caratteristiche cliniche e demografiche della popolazione studiata sono rappresentate nella tabella 7. La severità della cirrosi è stata classificata in base alla classe Child-Pugh (CP A, B o C) e secondo lo score MELD. Oltre alle caratteristiche clinico-demografiche dei riceventi, sono stati raccolti i parametri necessari per la valutazione della qualità del graft ricevuto; in particolare, la marginalità del donatore è stata definita secondo il numero cumulativo dei fattori di rischio proposti da Gruttadauria e colleghi(129). Il donatore marginale, o extended criteria donor (ECD), è stato definito dalla contemporanea presenza di 2 o più delle seguenti caratteristiche: età superiore ai 60 anni, steatosi macrovescicolare superiore al 30%, degenza prolungata in terapia intensiva (> 7 giorni), instabilità emodinamica caratterizzata da ipotensione prolungata (<60 mmHg per più di 2 ore), utilizzo di dopamina a dosaggio superiore a >10 µg/kg/minuto per più di 6 ore o necessità di impiegare due diversi farmaci inotropi per mantenere la pressione arteriosa stabile per più di 6 ore, tempo di ischemia fredda superiore alle 12 ore e picco di ipernatriemia superiore ai 160 mEq/L prima del cross-clamp aortico. Oltre all’ECD-score i donatori sono stati stratificati secondo il DRI proposto da Feng e lo score prognostico noto come DMELD. Ogni LT è stata eseguita preservando la vena cava nativa secondo la tecnica Piggyback; la terapia immunosoppressiva è basata sulla somministrazione di Tacrolimus associato ad 50 Everolimus dalla 14° giornata postoperatoria e steroidi. La somministrazione di steroidi è stata progressivamente scalata e sospesa dopo tre mesi dall’intervento chirurgico. A tutti i pazienti sono stati effettuati prelievi ematici su sangue periferico ai seguenti tempi: il giorno stesso del trapianto (entro 4-6 ore dall’inizio dell’intervento), dopo 15 giorni dall’LT e a 1, 3, 6, 12 mesi dall’intervento. I test di laboratorio sono stati eseguiti entro 24 ore dal prelievo e sono stati valutati i seguenti parametri ormonali e biochimici di funzionalità epatica: Tempo di Protrombina (PT), Bilirubina totale, aspartato aminotrasferasi (AST), alanina aminotrasferasi (ALT), gamma-glutamyl trasferasi (gGT), e Albumina. I dosaggi ormonali di GH e IGF-1 sono stati eseguiti con metodo immunometrico mediante chemiluminescenza (Immulite 2000, Siemens). Il range di riferimento per l’IGF-1 è definito dall’International Reference Reagent for IGF-I (87/518) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo lo studio di Elmlinger e colleghi(130). Il range di normalità per il GH è definito dall’International Reference Reagent for IGF-I (98/574) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ed è fissato a 3 ng/mL per i soggetti maschi e a 8 ng/mL per le femmine. Abbiamo condotto un’analisi di correlazione fra i livelli postoperatori di IGF-1 e i tests epatici di routine ad ognuno degli intervalli previsti dallo studio. Sono state registrate le seguenti complicanze postoperatorie: data e causa di morte, rigetto cellulare acuto (ACR), primary non-function (PNF), early allograft dysfunction (EAD) e complicanze biliari (BC). Abbiamo analizzato l’impatto delle variabili postoperatorie clinicamente rilevanti e delle caratteristiche del donatore sul normale ripristino dei valori ormonali post-LT. L’analisi uni- e multivariata dei fattori prognostici di sopravvivenza ha incluso le seguenti variabili: ripristino precoce dei valori di IGF-1 (entro 15 giorni), età del ricevente, età del donatore, ECD-score, presenza di HCV-RNA rilevabile al trapianto, presenza di epatocarcinoma, tempo di ischemia totale, evenienza di EAD, DRI e DMELD. Il comitato etico dell’A.O.U. Ospedali Riuniti di Ancona ha approvato lo studio e ha stabilito che il consenso informato scritto da parte del paziente non era necessario data la natura non interventistica dello studio proposto e l’evidenza che i prelievi ematici sarebbero stati eseguiti al momento dei controlli già previsti dalla normale pratica clinica. Analisi statistica. Le variabili continue sono state riportate come media ed errore standard della media (SEM) o come mediana e range, quando indicato. Le variabili categoriche sono state riportate come numeri e percentuali, e confrontate con il test di Fischer. Le 51 differenze fra le variabili continue sono state confrontate con il t-test di Student per campioni indipendenti. Il confronto tra le medie dei valori ormonali registrati ai vari time points è stato effettuato mediante il t-test di Student per dati appaiati. L’analisi di correlazione fra i livelli di IGF-1 e i valori dei principali parametri di funzione epatica è stata effettuata mediante il test di Pearson. La sopravvivenza è stata calcolata per ciascun paziente dal giorno dell'intervento alla data di morte o alla data dell’ultima visita di follow-up prevista (36 mesi); l'impatto di ogni singola variabile nel determinare la sopravvivenza è stato valutato mediante il metodo di Kaplan-Meier e le differenze tra i sottogruppi sono state confrontate mediante il log-rank test. I fattori di rischio per la sopravvivenza del paziente con valori di p uguali o inferiori a 0.2 dopo analisi univariata sono stati inclusi nel modello di regressione multivariata di Cox per identificare i fattori prognostici indipendenti. Un valore ai due lati di p uguale o inferiore a 0.05 è stato considerato statisticamente significativo in tutti i confronti effettuati. L’analisi statistica è stata effettuata con il software MedCalc® version 9.3.2.0 (MedCalc Software, Broekstraat 52 52, Belgium). 3.4 RISULTATI Da aprile 2010 ad aprile 2011 sono stati effettuati 44 trapianti di fegato e di questi sono stati arruolati un totale di 31 pazienti dei quali 25 maschi e 6 femmine (rapporto M/F paria a 4:1). Tredici trapiantati sono stati esclusi per: infezione da HIV (n° 8); epatite a decorso fulminante (n° 3); epatocarcinoma in fegato non cirrotico (n°1) ed endocrinopatia preesistenti non correlata all’insufficienza epatica (n°1). La popolazione inclusa nello studio è risultata quindi di 31 pazienti di età media al trapianto pari a 55.2 ± 1.4 anni (range da 37 a 65 anni). L’eziologia della cirrosi nel nostro gruppo di pazienti era virale nel 64.5% dei casi (14 pazienti affetti da HCV e 6 pazienti da HBV), esotossica in 4 pazienti (26%), criptogenetica in 4 pazienti (13%) e Cirrosi Biliare Primitiva in 3 pazienti (9%). Stratificando i pazienti per gravità dell’epatopatia distinguiamo: 5 pazienti pre-LT con CP-A (16%), 16 pazienti CP-B (51%) e i restanti 10 pazienti con CP-C (33%). Il MELD biochimico medio risulta di 15.3 ± 0.9 (range da 7 a 29). I donatori presentavano un’età media di 67.2 ± 2.1 anni e, valutandone la marginalità, 16 (51.6%) grafts avevano 2 o più fattori di rischio (ECD score >= 2) mentre 15 (49.4%) presentavano un ECD < a 2 (Tabella 7). Livelli ormonali post-LT e correlazione con i tests di funzione epatica. Tutti i pazienti cirrotici in attesa di trapianto presentavano livelli di IGF-1 nettamente al di sotto della normalità (media±SEM: 29.5±2.1 ng/mL con v.n. 90-360ng/ml fino a 55 anni di età e 71290ng/ml oltre i 55 anni). Diciannove (61.3%) pazienti su 31 presentavano elevati livelli di GH preoperatorio (media±SEM: 6.3±0.9 ng/mL). Stratificando i pazienti in base alla classificazione di CP (CP-A e B vs CP-C) non si sono riscontrate differenze tra i due gruppi sia per quanto riguarda i livelli di IGF-1 (29.4 ng/ml vs 29.5 ng/ml) che il del GH (5.9 ng/ml vs 6.9 ng/ml). Tuttavia è emersa una correlazione inversa statisticamente significativa fra lo score MELD e l’IGF-1 pre-LT (coefficiente r=- 0.3616; p=0.0456). I livelli ormonali preoperatori (GH e IGF-1) non sono risultati correlati all’eziologia della cirrosi. Quindici giorni dopo il trapianto si è assistito ad un drammatico rialzo dei valori medi di IGF-1 (102.7±11.7 ng/mL; p<0.0001) con normalizzazione dei livelli in 18 dei 31 riceventi in studio. I livelli plasmatici medi di IGF-1 hanno continuato ad aumentare raggiungendo un picco a 3 mesi dal trapianto (173.1±16.9 ng/mL); da quel momento in poi 53 si è assistito ad una progressiva diminuzione dei valori medi, con una stabilizzazione a 12 mesi a valori pari a 126.3±9.6 ng/mL (Figura 8B). Ventuno (87.5%) dei 24 pazienti sopravvissuti presentavano valori di IGF-1 all’interno del range di riferimento ad un anno dal trapianto (Figura 9). Il GH subisce una brusca riduzione subito dopo il trapianto (1.5 ± 0.2 ng/ml dopo 15 giorni) mantenendosi poi sostanzialmente costante per tutto il follow-up (1.8 ng/ml a 12 mesi); 3 dei 24 pazienti sopravvissuti presentavano ancora elevati valori di GH ad un anno dal trapianto (Figura 8A). I risultati dell’analisi di correlazione fra i livelli plasmatici di IGF-1 e i parametri biochimici di funzionalità epatica sono illustrati nella Tabella 8. Abbiamo evidenziato una correlazione inversa statisticamente significativa a 15 (r=-0.392, p=0.0320) e 30 (r=-0.389, p=0.0368) giorni dal LT tra i livelli di IGF-1 e la bilirubina totale. Inoltre abbiamo riscontrato una correlazione diretta statisticamente significativa fra i livelli sierici di albumina e IGF-1 a 30 (r=0.595 p=0.001) e 90 (r=0.555; p=0.003) giorni dal LT. Non sono state trovate altre correlazione tra IGF-1 ed i restanti parametri epatici esaminati (AST, gGT, e attività protrombinica). Caratteristiche del donatore e livelli postoperatori di IGF-1. L’età media dei donatori è risultata di 67.2±2.1 con 20 (64.5%) su 31 che presentavano un’età superiore ai 65 anni. A partire dal primo mese dopo il LT, i livelli di IGF-1 sono apparsi significativamente più elevati nei pazienti che hanno ricevuto un graft da donatore più giovane (età ≤ 65 anni). Tale tendenza si evidenzia già dopo 15 giorni dal trapianto (124 ng/ml vs 93ng/ml) e si mantiene fino al termine del follow-up (148 ng/ml vs 108 ng/ml) (Figura 10A). Stratificando la popolazione dei donatori secondo l’ECD-score, 4 (12.9%) pazienti hanno ricevuto un graft da donatore considerato ideale (ECD-score=0), 11 (35.5%) da donatori con un fattore di rischio e i rimanenti 16 (51.6%) donatori presentavano 2 o più criteri di marginalità. Come evidenziato dalla Figura 10B, i livelli plasmatici di IGF-1 nei due gruppi (ECD-score < o ≥ a 2) sono risultati sovrapponibili fino ad un mese dal LT. Successivamente, mentre il gruppo che ha ricevuto un graft marginale ha mostrato una fase di plateau, i soggetti che hanno ricevuto un graft con ECD < 2 hanno mostrato un’ulteriore crescita dell’IGF-1 raggiungendo un picco a tre mesi pari a 203 ng/ml contro 144 ng/ml dell’altro gruppo. Dopo i tre mesi anche in questo gruppo si è osservata una riduzione dell’IGF-1 che tuttavia risulta a lungo termine significativamente più elevato (148ng/ml vs 100ng/ml; p <0.01) rispetto ai livelli registrati dopo trapianto con donatore marginale. Non 54 sono emerse differenze statisticamente significative fra i valori postoperatori medi dei soggetti che hanno ricevuto un donatore con DRI>1.7 o con punteggio DMELD > 1300. Outcome clinico e livelli plasmatici di IGF-1. Il follow-up minimo dei pazienti inclusi nello studio è risultato di 3 anni; nessuno dei pazienti è deceduto entro 15 giorni dal trapianto o è stato re-trapiantato durante il periodo di osservazione. Ventinove (93.5%) pazienti su 31 sono stati dimessi dopo una degenza mediana di 16 giorni (range: 8-70 giorni); la degenza ospedaliera è risultata più breve nei 18 pazienti con normalizzazione precoce (entro 15 giorni) dei livelli sierici di IGF-1 (11 vs 18 giorni; p=0.0589). Secondo la definizione di Olthoff e colleghi, 11 (35.5%) dei pazienti hanno sperimentato una EAD; sebbene si sia registrata una tendenza verso livelli di IGF-1 inferiori nel sottogruppo di pazienti che hanno sperimentato tale complicanza a 15 (86.7±18.4 vs 111.9±15.0 ng/mL; p=0.3073) e 30 (126.3±21.5 vs 164.0±20.7 ng/mL; p=0.2580) giorni dal trapianto, la differenza non è risultata statisticamente significativa a nessuno dei time-points considerati. Il rigetto cellulare acuto (ACR) si è verificato in 6 (19.4%) dei 31 pazienti; nella maggioranza (5 pazienti su 6) dei casi la severità istologica del rigetto è stata classificata come lieve-moderata ed il trattamento si è basato sulla somministrazione di boli steroidei. In 5 (16.1%) pazienti è stata diagnosticata una stenosi biliare a circa 98 giorni dal trapianto (range: 11-297); in tutti i casi la stenosi è stata trattata con successo mediante colangiopancreatografia retrograda endoscopica. A 12 mesi dal trapianto né l’evenienza di ACR (122.0±10.6 vs 142.6±23.4 ng/mL) né di BC (129.6±10.1 vs 103.3±33.2 ng/mL) hanno influito significativamente sui livelli plasmatici di IGF-1. Alla fine dei 3 anni di follow-up previsti, la sopravvivenza attuale dell’intera coorte di pazienti oggetto dello studio è risultata del 71%. Nove pazienti (6 maschi e 3 femmine) sono deceduti durante il follow-up; le cause del decesso sono state la disfunzione del graft complicata da sepsi (3 pazienti), recidiva di HCV (2 pazienti), disfunzione tardiva del graft (2 pazienti), porpora trombotica trombocitopenica associata disfunzione del graft (1 paziente) e trombosi portale tardiva causata da una patologia trombofilica non specificata (1 paziente). Va evidenziato come 7 dei 9 pazienti deceduti presentassero valori patologici di IGF-1 all’ultima visita di controllo disponibile prima della morte. Confrontando le curve di sopravvivenza dei pazienti con normali livelli di IGF-1 a 15 giorni dal trapianto e dei pazienti con livelli di IGF-1 ancora ridotti dopo 15 giorni dall’intervento si è osservato che 55 un ripristino precoce dell’asse ormonale risulta associato ad un vantaggio significativo in termini di sopravvivenza (83.3% vs 53.8%, p=0.0386; Figura 11). Dopo analisi multivariata, la normalizzazione precoce (entro 15 giorni) dei livelli di IGF-1 è risultata l’unico fattore prognostico indipendente di sopravvivenza [Exp(b): 3.913; p=0.0484; Tabella 9]. 56 CONCLUSIONI Molteplici esperienze cliniche hanno documentato le alterazioni dell’asse GH / IGF-1 nei pazienti affetti da cirrosi epatica, e i peptidi coinvolti sono stati proposti come marcatori di disfunzione epatocellulare, malnutrizione e sopravvivenza(119,131,132). I bassi livelli circolanti di IGF-1 riscontrati nell’ insufficienza epatica terminale sono principalmente riconducibili ad una ridotta sintesi ormonale associata ad una severa resistenza al GH a livello epatocitario(112,115). Il nostro studio prospettico ha dimostrato che il LT ripristina i fisiologici livelli sierici di GH e IGF-1 nella maggior parte dei pazienti entro il primo anno dall'intervento chirurgico. Inoltre, l’IGF-1 riflette accuratamente la riserva funzionale del graft nel periodo postoperatorio e, per la prima volta, è stato dimostrato il ruolo prognostico del recupero ormonale sulla sopravvivenza del paziente. Diversi studi condotti su pazienti cirrotici hanno messo in evidenza la forte correlazione tra livelli sierici di IGF-1 ed il grado di insufficienza epatica, espresso dal punteggio Child Pugh(119, 121) e MELD(112) o dai valori di albumina sierica o INR. Tutti i pazienti inclusi nel nostro studio presentavano bassi livelli plasmatici di IGF-1 e, come recentemente osservato da Castro e colleghi(133), è emersa una significativa correlazione inversa fra i valori preoperatori e il MELD biochimico. Nel nostro studio, né l'eziologia della malattia epatica, né il punteggio di Child-Pugh correla in modo significativo con valori preoperatori IGF-1. Il drammatico cambiamento metabolico rappresentato dal trapianto porta ad un recupero completo dell’asse GH / IGF-1 nei riceventi adulti e pediatrici con malattia del fegato allo stadio terminale(123 133-136). La nostra esperienza indica che l'aumento dei livelli plasmatici di IGF-1 è direttamente correlato con il recupero funzionale dell’organo trapiantato. A dimostrazione di ciò, va evidenziata una significativa correlazione con i comuni indicatori biochimici della funzionalità epatica, quali bilirubina sierica e albumina, durante i primi mesi dopo LT. Anche se alcuni autori suggeriscono che questo aumento ormonale potrebbe essere espressione del danno epatocitario o di una iperstimolazione del GH causata dallo stress chirurgico(137), nel nostro studio non è emersa alcuna correlazione significativa fra IGF-1 e AST o GH nei time-points considerati. Durante il follow-up dei nostri pazienti, non abbiamo indagato l'attività di modulazione delle proteine leganti l’IGF-1 (IGFBP) 57 dopo LT; tuttavia, due precedenti esperienze riportano che i valori medi di IGFBP-3, che è la proteina legante più rappresentata, subiscono un rialzo proporzionale al ripristino dell’IGF-1(133,138). Ciò suggerisce che la quantità totale di IGF-1 in circolazione determinato dal test di laboratorio rappresenti un multiplo pressoché esatto della quota di IGF-1 attivo (non legato). Nel contesto del trapianto epatico, la maggior parte degli studi si sono concentrati su campioni di sangue prelevati da mesi o anni dopo l'intervento chirurgico; pertanto non è stato possibile dimostrare nel periodo postoperatorio alcuna correlazione tra recupero ormonale e la riserva funzionale del fegato. Per la prima volta, Bassanello colleghi hanno osservato un immediato aumento di IGF-1 dopo la riperfusione del graft ed il raggiungimento di valori all’interno del range di normalità entro 1 mese dall’'intervento(128). In questo studio, i 15 pazienti arruolati hanno mostrato un recupero completo della funzionalità epatica. Come dichiarato dagli stessi autori, l'endpoint principale dello studio era quello di esplorare la cinetica dell’IGF-1 nelle prime fasi dopo il LT, dando le stesse possibilità a tutti i pazienti arruolati di ottenere un recupero completo dell’asse GH / IGF-1. Di conseguenza, sono stati applicati rigorosi criteri di selezione escludendo i riceventi con prolungato tempo di ischemia, elevata perdita intraoperatoria di sangue ed i pazienti che hanno ricevuto un graft marginale. Per questo motivo e per il breve periodo di follow-up considerato, non si potevano trarre conclusioni certe sulla reale capacità dell’IGF-1 di riflettere la riserva funzionale del fegato trapiantato e prevedere l'esito del trapianto nel medio termine. Attualmente la carenza di organi utilizzabili per trapianto rappresenta un problema globale, pertanto l'utilizzo di fegati "marginali" (prelevati da donatori anziani, steatosici o emodinamicamente instabili) risulta indispensabile; l'affidabilità di un nuovo indicatore della qualità del graft dovrebbe essere testato su una popolazione eterogenea di donatori, tenendo conto delle principali variabili correlate al donatore, al ricevente e al decorso postoperatorio. Nella nostra serie di pazienti, le caratteristiche dei donatori di fegato (età media di 67.2 anni e più della metà con 2 o più criteri di marginalità) ci ha permesso di riconoscere due diversi profili sierici di IGF-1 nel corso del primo anno dopo LT tra coloro che hanno ricevuto grafts standard o marginali. La curva di ripristino dell’IGF-1 è stata più sensibile nel distinguere la riserva funzionale del fegato trapiantato dal terzo mese fino ai 12 mesi dal LT rispetto agli altri test di funzionalità epatica che, progressivamente, sono tornati alla normalità. Anche se un trapianto può essere eseguito con successo impiegando 58 un donatore marginale, nell’ottica di ridurre la mortalità globale in lista di attesa(139), è ipotizzabile che la riserva funzionale epatica, e di conseguenza la sopravvivenza del graft a lungo termine, potrebbe essere differente rispetto a quando viene utilizzato un donatore ottimale. I nostri dati dimostrano che l’IGF-1 è un marker affidabile e di facile impiego clinico per monitorare la funzione del graft in questa sottocategoria di pazienti. Nella nostra esperienza, né le complicanze biliari né il rigetto cellulare acuto hanno influenzato significativamente i livelli postoperatori di IGF-1. Come descritto, il rigetto è stata classificato come lieve in 5 dei 6 pazienti, e in tutti i casi si è risolto esclusivamente con terapia steroidea. Analogamente, le stenosi biliari sono state diagnosticate in 5 dei 31 pazienti arruolati nello studio ed il precoce trattamento endoscopico ha consentito il ritorno alla normalità dei test di funzionalità epatica nel giro di pochi giorni. Il modesto impatto clinico di tali complicanze può spiegare la mancanza di significative modifiche dell’IGF-1 queste sottocategorie di pazienti. La valutazione della riserva funzionale epatica prima e dopo il trapianto rimane una questione cruciale(140). I routinari test biochimici del fegato ed i criteri clinici possono essere fuorvianti in questo periodo e sono necessari nuovi metodi non invasivi per la valutazione della funzionalità dell’organo trapiantato e predire la prognosi del paziente. Negli studi sperimentali e clinici, l’entità della produzione di bile è da tempo riconosciuta come un importante parametro clinico per diagnosticare una EAD o una PNF e per discriminare la funzionalità di un graft proveniente da un donatore anziano (o marginale) e un donatore standard(141-143). Nel nostro studio non sono emerse differenze significative nella quantità di bile prodotta nei pazienti trapiantati con grafts standard o marginali. Recentemente, uno studio di Sutton e colleghi, focalizzato su fegati sottoposti a perfusione normotermica, ha evidenziato una maggior escrezione di bilirubina da parte degli organi che producevano una maggior quantità di bile. Questi risultati indicano che la qualità della bile, non solo il volume, possa riflettere la qualità dei fegati trapiantati (144) . La determinazione della concentrazione biliare di IGF-1 potrebbe dunque essere l’obiettivo dei prossimi studi per valutare la riserva funzionale e la prognosi dei pazienti. Altri metodi sperimentali, quali la determinazione della proteina legante gli acidi grassi (L-FABP)(145) e del frammento 4d del complemento(146), possono essere utilizzati come indicatori del danno agli epatociti e dunque essere in grado di predire una EAD dopo LT; sfortunatamente, la maggior parte di queste tecniche sono difficilmente riproducibili, richiedono tempi 59 prolungati per la processazione dei campioni e non possono essere utilizzate quindi nella pratica clinica quotidiana. Analogamente, nonostante diversi studi abbiano dimostrato che un’alterata clearence del verde di indocianina sia in grado di prevedere le complicanze postoperatorie e l’esito del trapianto, questo metodo non riesce a fornire informazioni prognostiche affidabili in ogni singolo paziente poiché l'assorbimento e l'escrezione del verde di indocianina è influenzata da molteplici fattori, tra i quali colestasi o iperbilirubinemia, spesso presenti nel periodo perioperatorio(147-149). La misurazione quantitativa dell’IGF-1 sierico, eseguita con metodica immunometrica in chemiluminescenza, è una procedura standardizzata, riproducibile e i cui risultati sono disponibili in tempi brevi. Inoltre, l’iperbilirubinemia coniugata e non coniugata non ha alcun effetto sulla affidabilità della prova, ed il costo per ogni campione è di circa 9 euro. Recentemente, Salso e colleghi hanno analizzato la cinetica del ripristino dell'IGF-1 in 30 pazienti trapiantati di fegato dimostrando una significativa correlazione con i livelli sierici di colesterolo ed evidenziando il valore prognostico dell’IGF-1 sulla sopravvivenza a breve termine (3 mesi) dopo LT (150) . Il notevole follow-up dei pazienti inclusi nel nostro studio (3 anni) suggerisce che il ripristino di normali valori di IGF-1entro la seconda settimana dall'intervento identifica i pazienti con prognosi favorevole anche a lungo termine. Inoltre, l'analisi multivariata ha dimostrato che recupero precoce dell'IGF-1 è un fattore prognostico indipendente dalla qualità del graft (ECD-score o DRI), dall’evenienza di una EAD postoperatoria (secondo la definizione di Olthoff e colleghi) o da altri modelli prognostici come il DMELD. In conclusione, questo studio è il primo a dimostrare che un rapido recupero dei livelli sierici dell’IGF-1 è associato con la sopravvivenza a lungo termine del paziente e ad una degenza ospedaliera più breve nei riceventi di fegato. Questo indicatore si è inoltre dimostrato un indice affidabile di riserva funzionale epatocellulare ed è in grado di identificare diversi profili di recupero ormonale tra coloro che hanno ricevuto fegati standard o marginali. Ovviamente, è necessario un numero maggiore di pazienti per confermare il significato clinico e prognostico dell’asse GH / IGF-1 nel contesto del LT; tuttavia, a titolo puramente speculativo, i nostri risultati suggeriscono che l'IGF-1 potrebbe rappresentare un nuovo test qualitativo da utilizzare nei donatori di fegato, nella speranza che possa identificare i grafts con riserva funzionale limitata, non in grado di sopportare lo 60 stress rappresentato dalle manovre chirurgiche di prelievo, la conservazione a freddo e la riperfusione, costituendo dunque un fattore limitante per il successo della procedura. 61 TABELLE Tabella 1. Indicazioni al trapianto epatico. EPATOPATIA EPATOPATIA CRONICA ACUTA a) Natura colestatica: • Cirrosi biliare • • Virale (HAV, • HBV, HCV, primitiva • sclerosante primitiva • Carcinoma Metastasi Farmaci (alotano, epatiche da disulfiram, tumore b) Danno acetaminofene, neuroendocrino epatocellulare: avvelenamento da • Epatite cronica METABOLICHE • epatocellulare HBV-HDV, altri) Colangite CAUSE NEOPLASIE antitripsina • Malattia di Wilson • Iperlipoproteinemia di tipo II • funghi) • Epatopatia da farmaci • Epatopatia alcoolcorrelata • • Sindorme di Crigler-Najjar di virale(HBV,HBVHDV,HCV) Deficit di alfa-1- tipo I Malattie metaboliche • (Sindrome di Protoporfiria eritropoietica Wilson acuto, • Sindorme di Reye) Deficit enzimatico del ciclo dell’urea Epatopatia autoimmune • Glicogenosi di tipo I e IV c) Danno vascolare: • Sindorme di BuddChiari • Tirosinemia • Emocromatosi • Polineuropatia amiloidotica familiare 62 Tabella 2. Punteggio Child-Turcotte. Gruppo A B C Bilirubina (mg/dl) <2 2-3 >3 Albumina (g/dL) >3.5 3-3.5 <3 Ascite Assente Controllata Refrattaria Encefalopatia Assente Minima Avanzata Stato nutrizionale Buono Discreto Scarso Tabella 3. Punteggio Child-Pugh. Punti 1 2 3 Encefalopatia Assente Minima Avanzata (coma) Ascite Assente Controllata Refrattaria Bilirubina (mgl/dl) <2 2-3 >3 Albumina (gd/L) >3.5 2.8-3.5 <2.8 Protrombina (s) 1-4 5-6 >6 INR <1.7 1.8-2.3 >2.3 63 Tabella 4. Confronto tra punteggio Child-Pugh e MELD. Child-Pugh MELD Numero di variabili 5 3 Variabili quantitative 3/5 3/3 Selezione variabili Su base empirica Su base statistica No Si Trasformazione logaritmica delle variabili No Si Necessita computazione No Si Variabili indipendenti dal giudizio medico No Si Tipo di punteggio Discreto Continuo Variabili ponderate relativamente all’influenza 64 Tabella 5. Condizioni che regolano la secrezione del GH. Stimolanti Inibenti Sonno Stress (fisico o psichico) Fisiologiche Iperammoniemia postprandiale Iperglicemia postprandiale Acidi grassi liberi elevati Ipoglicemia post-prandiale (relativa) Denutrizione Anoressia Patologiche IRC Nell’acromegalia: TRH, GnRH Ormoni: Insulina, GHRH, ACTH, Vasopressina, Estrogeni Farmacologiche Obesità Ipo-ipercortisolismo Nell’acromegalia: agonisti dopaminergici Ormoni: Somatostatina, IGF1, Progesterone, Glucocorticoidi Neurotrasmettitori: Neurotrasmettitori: Agonisti Antagonisti dopaminergici, dopaminergici, Precursori Agonisti serotoninergici, della serotonina, GABAAntagonisti colinergici agonisti, Agonisti alfamuscarinici, Antagonisti alfaadrenergici, Agonisti betaadrenergici, Agonisti betaadrenergici adrenergici. 65 Tabella 6. Effetti metabolici del GH. Metabolismo delle proteine - Stimola la sintesi proteica - Favorisce la captazione degli aminoacidi - Promuove l’espressione genica, accelerando la trascrizione e la traduzione di mRNA Metabolismo dei carboidrati - effetto insulino-simile - effetto diabetogeno ritardato Metabolismo lipidico - stimola la mobilizzazione di acidi grassi nel tessuto adiposo - stimola la conversione degli acidi grassi in acetil-CoA, utilizzato come substrato energetico - promuove la normale espressione dei recettori epatici per le LDL Equilibrio elettrolitico e minerale - aumentando il flusso plasmatico renale - aumenta la filtrazione glomerulare - stimola il riassorbimento dei fosfati - stimola l’escrezione urinaria di cacio, sodio e potassio - stimola l’idrossilazione del 25OHD3 1,25(OH)2D3 66 Tabella 7. Caratteristiche clinico-demografiche dei donatori e dei riceventi della popolazione in studio. Variabile Popolazione in studio (n° 31) Età del Ricevente al LT (anni) 55.2 ± 1.4 Sesso Maschile del Ricevente (n°;%) 25 (80.6) MELD-score biochimico 15.3 ± 0.9 Classe di Child-Pugh A (n°;%) 5 (16.1) B (n°;%) 16 (51.6) C (n°;%) 10 (32.3) Eziologia della Cirrosi HCV (n°;%) 14 (45.2) HBV (n°;%) 6 (19.3) Esotossica (n°;%) 4 (12.9) Criptogenetica (n°;%) 4 (12.9) Cirrosi Biliare Primitiva (n°;%) 3 (9.7) Presenza di HCC (n°;%) 11 (35.5) Età del Donatore (anni) 67.2 ± 2.1 ECD-score ≥ 2 (n°;%) 16 (51.6) Donor Risk Index 1.9 ± 0.04 Tempo di Ischemia Fredda (ore) 7.7±0.4 Tempo di Ischemia Calda (minuti) 32.8 ± 0.02 DMELD 1029.1 ± 78.3 NOTE: Le variabili continue sono espresse in media ed errore standard della media (SEM); Abbreviazioni: LT, liver transplantation. MELD, Model for End-Stage Liver Disease. ECD, extended criteria donor. DMELD, donor age x recipient MELD. 67 Tabella 8. Analisi di correlazione fra i livelli plasmatici di IGF-1 e i principali tests di funzione epatica ai vari time-points. Preoperatorio Test di funzione epatica PT (%) BT (mg/dL) r value (95% C.I.) -0.260 (-0.562-0.104) -0.071 (-0.415-0.290) Albumina -0.172 (g/dL) (-0.496-0.194) AST (U/L) γGT (U/L) 0.240 (0.124-0.548) -0.080 (-0.423-0.282) p value 0.158 0.703 0.354 0.192 0.668 Giornata 15 r value (95% C.I.) 0.316 (-0.049-0.607) -0.392 (-0.659—0.037) 0.230 (-0.142-0.545) -0.245 (-0.556-0.127) -0.077 (-0.426-0.291) Giornata 30 p value 0.088 0.032 0.230 0.192 0.684 r value (95% C.I.) 0.185 (-0.195-0.516) -0.389 (-0.661—0.027) 0.595 (0.293-0.790) 0.128 (-0.250-0.472) -0.245 (-0.561-0.133) Giornata 90 p value 0.338 0.037 0.001 0.508 0.199 r value (95% C.I.) 0.352 (-0.032-0.646) -0.166 (-0.508-0.220) 0.555 (0.213-0.775) -0.281 (0.550-0.180) -0.097 (-0.460-0.294) p value 0.072 0.398 0.003 0.281 0.631 Giornata 180 r value (95% C.I.) 0.323 (-0.131-0.645) 0.110 (-0.363-0.537) 0.235 (-0.207-0.597) 0.354 (-0.079-0.675) -0.163 (-0.547-0.277) p value 0.164 0.655 0.292 0.106 0.468 Giornata 365 r value (95% C.I.) 0.323 (-0.103-0.649) -0.097 (-0.490-0.328) 0.218 (-0.214-0.578) -0.223 (-0.589-0.219) -0.023 (-0.440-0.402) p value 0.133 0.660 0.318 0.318 0.919 Abbreviazioni: IGF-1, insulin-like growth factor 1; C.I. confidence interval; PT, attività protrombinica; BT, bilirubina totale; AST, aspartato aminotrasferasi; γGT, gamma-glutamyl trasferasi. 68 Tabella 9. Analisi uni- e multivariata dei fattori di rischio per la sopravvivenza del paziente. Analisi Univariata Fattori di Rischio Analisi Multivariata Sopravvivenza attuale a 3 anni (%) HR (95% C.I.) Log Rank p value Exp(b) (95% C.I.) p value Età del Ricevente ≥ 60 anni 81.8 vs 65.0 0.5022 (0.129-1.954) 0.3806 DMELD-score ≥ 1300 57.1 vs 75.0 2.059 (0.396-10.698) 0.2956 HCV-RNA positivo al LT 58.3 vs 78.9 2.058 (0.535-7.916) 0.2715 Presenza di HCC 63.6 vs 75.0 1.410 (0.362-5.493) 0.6063 Tempo di Ischemia Totale > 600 minuti 70.8 vs 71.4 0.948 (0.202-4.461) 0.9481 Early Allograft Dysfunction 63.6 vs 75.0 1.735 (0.425-7.078) 0.4050 ECD-score ≥ 2 80.0 vs 62.5 2.035 (0.551-7.518) 0.3039 DRI-score ≥ 1.7 72.0 vs 66.7 0.790 (0.146-4.262) 0.7679 Età del Donatore > 65 anni 60.0 vs 90.9 5.587 (1.481-21.077) 0.0664 4.131 (0.492-34.652) 0.1912 Patologici livelli sierici di IGF-1 in 15° giornata 53.8 vs 83.3 3.858 (0.973-15.300) 0.0386 3.913 (1.012-15.749) 0.0484 Abbreviazioni: HR, hazard ratio; IGF-1, insulin-like growth factor 1; LT, liver transplantation; ECD, extended criteria donor; DMELD, donor age x Model for End Stage Liver Disease; DRI, Donor Risk Index; HCV, hepatitis C virus; HCC, hepatocellular carcinoma. 69 FIGURE Figura 1. Sopravvivenza del paziente in base all’epoca di trapianto (dati CTS) 70 Figura 2. Sopravvivenza del paziente in base all’urgenza del trapianto (dati CTS). Figura 3. Sopravvivenza del paziente a seconda dell’indicazione al trapianto (dati CTS). 71 Figura 4. Sopravvivenza dei pazienti trapiantati per patologia neoplastica in base all’epoca di trapianto (dati CTS). Figura 5. Sopravvivenza del paziente in base all’età del donatore (dati CTS). 72 Figura 6. Sopravvivenza del paziente in base al tempo di ischemia fredda (dati CTS). Figura 5. Sopravvivenza del paziente in base alla qualità del donatore (dati CTS). 73 Figura 8. Livelli sierici di A) ormone della crescita (GH) e B) insulin-like growth factor 1 (IGF-1) prima e dopo il trapianto di fegato. I valori sono espressi in media ± errore standard della media. Per identificare le differenze statisticamente significative tra i valori ormonali al passare del tempo è stato utilizzato il test t di Student per campioni appaiati. * p <0.05 rispetto al valore precedente; Ω p <0.01 rispetto al valore basale (pre-LT). Abbreviazioni: IGF-1, insulin-like growth factor 1; LT, liver transplantation; GH, growth hormone. 74 Figura 9. Percentuale di pazienti con normali valori di IGF-1 prima e dopo il trapianto. Il range di riferimento per l’IGF-1 è definito dall’International Reference Reagent for IGF-I (87/518) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed è compreso tra 114 ng/mL e 492 ng/mL per i soggetti di età inferiore a 40 anni, tra 90 ng/mL e 360 ng/mL per i soggetti di età compresa fra 41 e 55 anni e tra 71 ng/mL e 290 ng/mL per i soggetti di età superiore a 55 anni. 75 Figura 10. Livelli sierici postoperatori di insulin-like growth factor 1 (IGF-1) suddivisi in base a A) età del donatore e B) extended criteria donor (ECD) score. I valori sono espressi in media ± errore standard della media. Le differenze statisticamente significative fra i valori ormonali postoperatori dei diversi sottogruppi sono state identificate mediante il test t di Student per campioni non appaiati. Abbreviazioni: IGF-1, insulin-like growth factor 1; LT, liver transplantation; ECD, extended criteria donor. 76 Figura 11. Analisi della sopravvivenza attuale a 3 anni dei pazienti con normali (linea continua) o patologici (linea tratteggiata) livelli sierici di IGF-1 in 15° giornata postoperatoria. La differenza di sopravvivenza è stata analizzata con il Log Rank test. Abbreviazioni: IGF-1, insulin-like growth factor 1; LT, liver transplantation; POD, postoperative day. 77 BIBLIOGRAFIA 1. Busuttil RW, Klintmalm GB, Transplantation of the liver. Elsevier Saunders Company, Philadelphia, 2005 2. Stuart FP, Abecassis MM et al. , Il trapianto d’organo. Excerpta Medica 2002 3. D’Amico D, Bassi N, Il trapianto di fegato. Ed Masson, Milano, 1993 4. Ascher NL, Lake JR et al., Liver transplantation for fulminant hepatic failure. Arch Surg 1993; 128:677-682 5. Child CG, Turcotte JG, Surgery and portal hypertension. In: Child CG, editor. The liver and portal hypertension. Philadelphia: W. B. Saunders Co., 1964; 50. 6. Pugh RN, Murray-Lyon IM et al., Transection of the oesophagus for bleeding oesophageal varices. Br J Surg 1973;60:646–649. 7. Fleck A, Raines G et al., Increased vascular permeability: a major cause of hypoalbuminaemia in disease and injury. Lancet 1985;1:781–784. 8. Henriksen JH, Parving HH et al., Increased transvascular escape rate of albumin during experimental portal and hepatic venous hypertension in the pig. Relation to findings in patients with cirrhosis of the liver. Scand J Clin Lab Invest 1981;41: 289– 299. 9. Barbara L, Benzi G et al., Natural history of small untreated hepatocellular carcinoma in cirrhosis: a multivariate analysis of prognostic factors of tumor growth rate and patient survival. Hepatology 1992;16:132–137. 10. Merkel C, Bolognesi M et al., The hemodynamic response to medical treatment of portal hypertension as a predictor of clinical effectiveness in the primary prophylaxis of variceal bleeding in cirrhosis. Hepatology 2000;32:930–934. 11. Hartmann IJ, Groeneweg M et al., The prognostic significance of subclinical hepatic encephalopathy. Am J Gastroenterol 2000;95:2029–2034. 12. Shetty K, Rybicki L et al., The Child–Pugh classification as a prognostic indicator for survival in primary sclerosing cholangitis. Hepatology 1997;25:1049–1053. 78 13. van Dam GM, Gips CH et al., Major clinical events, signs and severity assessment scores related to actual survival in patients who died from primary biliary cirrhosis. A long-term historical cohort study. Hepatogastroenterology 1999;46:108–115. 14. Zeitoun G, Escolano S et al., Outcome of Budd–Chiari syndrome: a multivariate analysis of factors related to survival including surgical portosystemic shunting. Hepatology 1999;30:84–89 15. Fernandez-Esparrach G, Sanchez-Fueyo A et al., A prognostic model for predicting survival in cirrhosis with ascites. J Hepatol 2001;34:46–52. 16. Angermayr B, Cejna M et al., Child–Pugh versus MELD score in predicting survival in patients undergoing transjugular intrahepatic portosystemic shunt. Gut 2003;52:879–885. 17. Longheval G, Vereerstraeten P et al., Predictive models of short- and long-term survival in patients with nonbiliary cirrhosis. Liver Transpl 2003;9:260–267. 18. Malinchoc M, Kamath PS et al., A model to predict poor survival in patients undergoing transjugular intrahepatic portosystemic shunts. Hepatology 2000;31:864–871. 19. Said A, Williams J et al., Model for end stage liver disease score predicts mortality across a broad spectrum of liver disease. J Hepatol 2004;40:897–903. 20. Pessione F, Ramond MJ et al., Five-year survival predictive factors in patients with excessive alcohol intake and cirrhosis. Effect of alcoholic hepatitis, smoking and abstinence. Liver Int 2003;23:45–53. 21. Merion RM, Schaubel DE et al., The survival benefit of liver transplantation. Am J Transplant. 2005 Feb;5(2):307-13. 22. Trotter JF, Brimhall B et al., Specific laboratory methodologies achieve higher model for endstage liver disease (MELD) scores for patients listed for liver transplantation. Liver Transpl. 2004; 10:995-1000 23. Ravaioli M, Masetti M et al., Laboratory test variability and MELD score calculation: effect on liver allocation and proposal for adjustment. Transplantation. 2007 Apr 15;83(7):919-24 79 24. Roberts JP, Dykstra DM et al., Geographic differences in event rates by model for end-stage liver disease score. Am J Transplant. 2006 Oct;6(10):2470-5 25. Young AL, Rajagenashan R et al., The value of MELD and sodium in assessing potential liver transplant recipients in the United Kingdom. Transpl Int. 2007 Apr;20(4):331-7. 26. Ravaioli M, Grazi GL et al., Liver transplantation with the Meld system: a prospective study from a single European center. Am J Transplant. 2006 Jul;6(7):1572-7. 27. Ioannou GN, Development and validation of a model predicting graft survival after liver transplantation. Liver Transpl 2006;12:1594-1606. 28. Maluf DG, Edwards EB et al., Utilization of extended criteria liver allograft: is the elevated risk of failure independent of the model for end-stage liver disease score of the recipient? Transplantation 2006;82:1653-1657. 29. Cameron AM, Rafik MG et al., Effect of nonviral factors on hepatitis C recurrence after liver transplantation. Ann Surg 2006;244:563-571. 30. Amin MG, Wolf MP et al., Expanded criteria donor grafts for deceased donor liver transplantation under the MELD system: a decision analysis. Liver Transpl 2004;10:1468-1475. 31. Desai NM, Mange KC et al., Predicting outcome after liver transplantation: utility of the model for end-stage liver disease and a newly derived discrimination function. Transplantation 2004;77:99-106. 32. Habib S, Chang CH et al., MELD and prediction of post-liver transplantation survival. Liver Transpl 2006;12:440-447. 33. Freeman RB, Wiesner RH et al., United Network for Organ Sharing Organ Procurement and Transplantation Network Liver and Transplantation Committee. Results of the first year of the new liver allocation plan. Liver Transpl 2004;10:7-15 34. Piscaglia F, Camaggi V et al., A new priority policy for patients with hepatocellular carcinoma awaiting liver transplantation within the MELD system. Liver Transpl 2007; 13:857-66. 80 35. Cillo U, Vitale A et al., Intention-to-Treat Analysis of Liver Transplantation in Selected, Aggressively Treated HCC Patients Exceeding the Milan Criteria. Am J Transplant. 2007;7:972-81 36. Duran F, Valla D, Assessment of the prognosis of cirrhosis:Child-Pugh versus MELD. J Hepatol 2005;42:100-7 37. Wiesner RH, Liver transplantation for primary biliary cirrhosis and primary sclerosing cholangitis:predicting outcome with natural history models. Mayo Clin Proc 1998;73:575-588 38. Menon K V, Shah V et al., The Budd-Chiari syndrome. N Engl J Med. 2004;350:578-85. 39. O’Grady JG, Liver transplantation alcohol related liver disease: (deliberately) stirring a hornet’s nest! Gut.2006;55:1529-31. 40. Burra P, Mioni D et al., Long-term medical and psycho-social evaluation of patients undergoing orthotopic liver transplantation for alcoholic liver disease. Transpl Int. 2000;13 Suppl 1:S174-8. 41. Bjornsson E, Olsson J et al., Long-term follow-up of patients with alcoholic liver disease after liver transplantation in Sweden: impact of structured management on recidivism. Scand J Gastroenterol. 2005;40:206-16. 42. Pfitzmann R, Schwenzer J et al., Long-term survival and predictors of relapse after orthotopic liver transplantation for alcoholic liver disease. Liver Transpl. 2007;13:197-205. 43. Bramstedt KA, Jabbour N Et al., When alcohol abstinence criteria create ethical dilemmas for the liver transplant team. 2006;32:263-5. 44. Leonard JV, Walter J H et al., The management of organic acidaemias: the role of transplantation. J Inherit Metab Dis. 2001;24:309-11. 45. Tome S, Martinez-Rey C et al., Influence of superimposed alcoholic hepatitis on the outcome of liver transplantation for end-stage alcoholic liver disease. J Hepatol. 2002;36:793-8. 46. Veldt BJ, Laine F et al., Indication of liver transplantation in severe alcoholic liver cirrhosis: quantitative evaluation and optimal timing. J Hepatol. 2002;36:93-8. 81 47. Bellentani S, Pozzato G et al., Clinical course and risk factors of hepatitis C virus related liver disease in the general population: report from the Dionysos study. Gut. 1999;44:874-80. 48. Degos F, Hepatitis C and alcohol. J Hepatol. 1999;31 Suppl 1:113-8. 49. Samuel D, Management of hepatitis B in liver transplantation patients. Semin Liver Dis. 2004;24 Suppl 1:55-62. 50. Terrault N, Samuel D, Management of the hepatitis B virus in the liver transplantation setting: a European and an American perspective. Liver Transpl. 2005;11:716-32. 51. Marzano A, Gaia S et al., Viral load at the time of liver transplantation and risk of hepatitis B virus recurrence. Liver Transpl. 2005;11:402-9. 52. Benvegnu L, Gios M et al., Natural history of compensated viral cirrhosis: a prospective study on the incidence and hierarchy of major complications. Gut. 2004;53:744-9. 53. Shiffman ML, Natural history and risk factors for progression of hepatitis C virus disease and development of hepatocellular cancer before liver transplantation. Liver Transpl. 2003;9:S14-20. 54. Berenguer M, What determines the natural history of recurrent hepatitis C after liver transplantation? J Hepatol. 2005;42:448-56. 55. Forns X, Garcia-Retortillo M et al., Antiviral therapy of patients with decompensated cirrhosis to prevent recurrence of hepatitis C after liver transplantation. J Hepatol. 2003;39:389-96. 56. Everson GT, Trotter J et al., Treatment of advanced hepatitis C with a low accelerating dosage regimen of antiviral therapy. Hepatology. 2005;42:255-62. 57. Crippin JS , McCashland T et al., A pilot study of the tolerability and efficacy of antiviral therapy in hepatitis C virus-infected patients awaiting liver transplantation. Liver Transpl. 2002;8:350-5. 58. Iacobellis A, Siciliano M et al., Peginterferon alfa-2b and ribavirin in patients with hepatitis C virus and decompensated cirrhosis: a controlled study. J Hepatol. 2007;46:206-12. 82 59. Bruix J, Sherman M et al., Clinical management of hepatocellular carcinoma. Conclusions of the Barcelona-2000 EASL conference. European Association for the Study of the Liver. J Hepatol. 2001;35:421-30. 60. de Ville de Goyet J, Hausleithner V et al., Liver procurement without in situ portal perfusion. A safe procedure for more flexible multiple organ harvesting. Transplantation 1994;9:1328-1332. 61. Nakazato PZ, Bry W et al., Total abdominal evisceration:an en bloc technique for abdominal organ harvesting. Surgery 1992;111:37-47. 62. Squifflet JP, Hamptine B et al., A new technique for en bloc liver and pancreas harvesting. Transpl Proc 1990;4:2070-2071. 63. Mazziotti A, Jovine E et al., Il prelievo multiorgano da cadavere per trapianto. Chirurgia 1990;3:135-146. 64. Ferla G, Colledan M et al., Black-table surgery for liver grafts. Transpl Proc 1988;5:1003-1004. 65. Miller C, Mazzaferro V et al., Rapid flush technique for donor hepatectomy: safety and efficacy of an improved method of liver recovery for transplantation. Transpl Proc 1988;(suppl1):948-950. 66. Starlz TE, Miller C et al., An improved technique for multiple organ harvesting. Surg Gynecol Obstet 1987;165:343-348. 67. Starlz TE, Miller C et al., An improved technique for multiple cadaveric organ harvesting. Surg Gynecol Obstet 1987;165:343-348. 68. Shaw BW JR, Martin DJ et al., Venous by-pass in clinical liver transplantation. Ann Surg 1984;200:524. 69. Chiari RS, Gan TJ et al., Venovenous bypass in adult orthotopic liver transplantation: Routine or selective use? J Am Coll Surg 1998;186:683-690. 70. Ferraz-Neto BH, Mirza DF et al., Bile duct splintage in liver transplantation: Is it necessary? Transplant International 1996;9 (Supp.1):185-187. 71. Fleitas MG, Casanova D et al., Could the piggy-back operation in liver transplantation be routinely used? Arch Surg 1994;129:842-845. 83 72. Belghiti J, Panis Y et al., A new technique of side to side anastomosis during orthotopic hepatic transplantation without inferior vena cava occlusion. Surg Gynecol Obstet 1992;175:271-273. 73. Cautero N, Risaliti A et al., L’anastomosi di salvataggio cavo-cavale infraepatica nel trapianto di fegato con tecnica piggy-back. Atti del XXV Congresso Nazionale Società Italiana Trapianti d’Organo (SITO), O.6,Conti Ediservices Editore. Bologna,1999. 74. Bismuth H, Houssin C et al., Reduce size orthotopic liver graft in herpatic transplantation children. Surgery 1984;95:367-370. 75. Otte JB, de Ville de Goyet J et al., The concept and technique of the split liver in clinical transplantation. Surgery 1990;107:605-606. 76. Ashok J, Reyes J et al., Long-term survival after liver transplantation in 4000 consecutive patients at a single center. Ann Surg 2000; Vol. 232 No.4. 77. Busuttil RW, Farmer DG et al., Analysis of long-term outcomes of 3200 liver transplantations over two decades: a single-center experience. Ann Surg 2005;241:905-918. 78. Gondolesi GE, Roayanie s et al., Adult living donor transplantation for patients with hepatocellular carcinoma: extending UNOS priority criteria. Ann Surg 2004;239:142-149. 79. Ploeg RJ, D’Alessandro AM et al., Risk factors for primaty dysfunction after liver transplantation- a multivariate analysis. Transplantation 1993;55:807-13. 80. Briceňo J, Marchal T et al., Influence of marginal donors on liver preservation injury. Transplantation 2001;71:1765-71. 81. Olthoff KM, Kwlik L et al., Validation of a current definition of early allograft dysfunction in recipients an analysis of risk factor. Liver Transpl 2010;16:943-9. 82. Busquets J, Xiol X et al., The impact of donor age on liver transplantation: influence of donor age on early liver function and on subsequent patient and graft survival. Transplantation 2001;71:1765-71. 83. Nardo B, Masetti M et al., Liver transplantation fron donors aged 80 years and over: pushing the limit. Am J Transplant 2004;4:1139-47. 84 84. Wali M, Harrison RF et al., Advancing donor liver age and rapid fibrosis pregression following transplantation for hepatitis C. Gut 2002;51:248-52. 85. Yoo HY, Molmenti E et al., The effect of donor body mass index on primary graft nonfunction, retransplantation rate, and early graft and patient survival after liver transplantation. Liver Transpl 2003;9:72-8. 86. Feng S, Goodrich NP et al., Characteristics associated with liver failure: the concept of a Donor Risk Index. Am J Transplant 2006;6:783-90. 87. Totsuka E et al., Influence of high donor serum sodium levels on early postoperative graft function in human liver transplantation : effect of correction of donor hypernatremia. Liv Transplant Surg 1999;5:421-8. 88. Bellentani S, Tribelli C et al., The spectrum of liver disease in the general population: lesson from the Dionysos study. J Hepatol 2001;35:531-7. 89. Imber CJ, Peter SD et al., Hepatic steatosis and its relationship to transplantation. Liv Transplant 2002;8:415-23. 90. Selzner M, Clavien PA et al., Fatty in liver transplantation and surgery. Sem Liv Dis 2001;21:105-13. 91. Zamboni F, Franchello A et al., Effet of macrovescicular steatosis and other donor and recipient characteristics on the outcome of liver transplantation. Clin Transplant 2001;15:53-7. 92. Fishbei TM, Field MI et al., Use of livers with microvescicular fat safely expands the donor pool. 1997;64:248-51. 93. Quintieri F, Pugliese O et al., Liver transplantation in Italy : analysis of risk factors associated with graft outcome. Prog Transplant 2006;16:57-64. 94. Mangus RS, Tector AJ et al., Comparision of Histidine-Tryptophan-Ketoglutarate solution (HTK) and University of Wisconsin Solution (UW) in adult liver transplantation. Liver transpl 2006;12:226-30. 95. Nardo B, Beltempo P et al., Comparison of Celsior and University of Wisconsin solution in cold preservation of the liver octogenarian donors. Transplant Proc 2004;36:523-4. 85 96. Totsuka E, Fung U et al., Analysis of clinical variables of donors and recipients with respect to short-term graft outcome in human liver transplantation. Transplant Proc 2004;36:2215-8. 97. Maluf DG, Edwards EB et al., Utilization of extended donor criteria liver allograft: is the elevated risk of failure independent of the Model for End-Stage Liver Disease score of the recipient? Transplantation 2006;82:1653. 98. Tekin K, Imber CJ et al., A simple scoring system to evaluate the effects of cold ischemia on marginal liver donors.Transplantation 2004;77:411-6. 99. Croome KP, Marotta W et al., Should a lower quality organ go to the least sick patient? Model for End-Stage Liver Disease score and Donor Risck Index as predictors of early allograft dysfunction. Transplant Proc 2012;44:1303-6. 100. Sakka SG Assessing liver function. Curr Opin Crit Care 2007;13:207-14. 101. Reichilin JJ, Kaplan MM Clinical use of serum enzymes in liver disease. Dig Dis Sci 1988;33:1601-14. 102. Paxian M, bauer I et al., Recovery of the hepatocellular ATP and pericentral apoptosis after hemorrhage and resuscitation FASEB J 2003;17:993-1002. 103. Faybik P, Hetz H et al., Plasma disappearance rate of indocyanine green in liver dysfunction. Transplant Proc 2006;38:801-802. 104. Oellerich M, Burdelski M et al., Assessment of pretransplant prognosis in patient with cirrhosis. Transplantation 1991;51:801-806. 105. Jalan R, Plevris JN et al., A pilot study of indocyanine green clearance as an early graft function. Transplantation 1994;58:196-200. 106. Koller J, Wiesner C et al., Orthotopic liver transplantation and perioperative clearance of lactate metabolism. Transplant Proc 1991;23:1989-1990. 107. Strasberg SM, Howard TK et al., Selecting the donor liver: risk factor for poor function after orthotopic liver transplantation. Hepatology 1994;20:829-838. 108. Daughaday WH, Rotwein P, Insulin-like growth factor I and II. Peptide,messenger ribonucleic acid and gene structures, serum, and tissue concentration. Endocr Rev 1989;10:68-91. 86 109. Shankar TP, Fredi JL et al., Elevsted growth hormone levels and insulin resistance in patients with cirrhosis of the liver. Am J Clin nutr 2007;85:805-15. 110. Cuneo RC, Hickman PE et al., Altered endogenous growth hormone secretory kinetics and diurnal GH-binding protein profiles in adults with chronic liver disease. Clin Endocrinol 1995;43:265-75. 111. Salerno F, Locatelli V et al., Growth hormone hyperresponsiveness to growth hormone releasing hormone in patients with severe liver cirrhosis. Clin Endocrinol (Oxf) 1987;27:183-190. 112. Assy N, Hochberg Z et al., Growth hormone-stimulated insulin-like factor (IGF) I and IGF-binding protein-3 in liver cirrhosis. J Hepatol 1997;27:796-802. 113. Donaghy A et al., Growth hormone therapy in patients with cirrhosis: a pilot study of the efficacy and safety. Gastroenterology 1997;113:1617-22. 114. Shen XY, Holt RIG et al., Cirrhotic liver express low levels of the full length and truncated growth hormone receptors. J Clin Endocrinol Metab 1998;83:2532-8. 115. Donaghy A, Delhonty PJD et al., Regulation of the growth hormone receptor/binding protein, insulin-like factor ternary complex system in human cirrhosis. J Hepatol 2002;36:751-8. 116. Jones JI et al., Insuline-like facrots and their binding proteins: biological actions. Endocr Rev 1995;16:3-34. 117. Caregaro L, Alberino F et al., Nutritional and prognostic significance of insulin-like growth factor 1 in patients with liver cirrhosis. Nutrition 1997;13:185-90. 118. Propt T et al., Spontaneous bacterila peritonitis is associated with high levels of interlukin-6 and its secondary mediator in ascetic fluid. Eur J Clin Invest 1193;23:832-6. 119. Wu YL, Ye J et al., Clinical significance of serum IGF-I, IGF-II and IGFBP-3 in liver cirrhosis. World J Gastroenterol 2004;10:2740-3. 120. Baruch Y, Assay N et al., Spontaneous pulsatility and pharmacokinetics of growth hormone in liver cirrhotic patients. J Hepatol 1998;29:559-564. 87 121. Zietz B, Lock G et al., Dysfunction of the hypothalamic-pituitary-glandular axes and relation to Child-Pugh classification in male patients and virus-related cirrhosis. Eur J Gastr Hepat 2003;15:495-501. 122. Daniel S, Pituitary function test and endocrine status in patients with cirrhosis of the liver before and after hepatic transplantation. Annals of transplantation 2002;7:3237. 123. Infante D, Tormo R et al., Changes in growth hormone and insulin-like growth factor-I (IGF-1) after orthotopic liver transplantion. Pediatr Surg Int 1998;13:323-6. 124. Maes M, Sokal E et al., Growth factors in children with end-stage liver disease before and after liver transplantation: a review. Pediatr Transplant 1997;1:171-5. 125. Ibana T et al., Growth hormone / insulin-like factor I axis alterations contribute to distrurbed protein metabolism in cirrhosis patients after hepatectomy. J Hepatol 1999;31:271-6. 126. Shimada M, Matsumata T et al., The role growth hormone, somatostatin and glucagons in hepatic resection. Hepatogastroenterology 1998;45:178-83. 127. Cillo U, Bassanello M et al., GH/GHBP changes in the perioperative course of liver transplantation:pathophysiologic and clinical implications. Transplant Proced 2001;33:1390-92. 128. Bassanello M, De Palo EF et al., Growth hormone/Insulin-like growth factor 1 axis recovery after liver transplantation: a preliminary prospective study. Liver Transplantation 2004;10:692-8. 129. Gruttadauria S, Vizzini G, et al. Critical use of extended criteria donor liver grafts in adult-to-adult whole liver transplantation: a single-center experience. Liver transplantation: 2008;14(2):220-7. 130. Elmlinger MW, Kuhnel W, et al. Reference ranges for two automated chemiluminescent assays for serum insulin-like growth factor I (IGF-I) and IGFbinding protein 3 (IGFBP-3). Clinical chemistry and laboratory medicine: 2004;42(6):654-64. 131. De Palo EF, Bassanello M, et al. GH/IGF system, cirrhosis and liver transplantation. Clinica chimica acta;2001;310(1):31-7. 88 132. Bonefeld K, Moller S. Insulin-like growth factor-I and the liver. Liver international 2011;31(7):911-9. 133. Castro GR, Coelho JC, et al. Insulin-like growth factor I correlates with MELD and returns to normal level after liver transplantation. Annals of transplantation:2013;18:57-62. 134. Holt RI, Baker AJ, et al. The insulin-like growth factor and binding protein axis in children with end-stage liver disease before and after orthotopic liver transplantation. Pediatric transplantation. 1998;2(1):76-84. 135. Seehofer D, Steinmueller T, et al. Pituitary function test and endocrine status in patient with cirrhosis of the liver before and after hepatic transplantation. Annals of transplantation 2002;7(2):32-7. 136. Weber MM, Auernhammer CJ, et al. Insulin-like growth factors and insulin-like growth factor binding proteins in adult patients with severe liver disease before and after orthotopic liver transplantation. Hormone research 2002;57(3-4):105-12. 137. Russell WE, D'Ercole AJ, et al. Somatomedin C/insulinlike growth factor I during liver regeneration in the rat. The American journal of physiology 1985;248(5 Pt 1):E618-23. 138. Schalch DS, Kalayoglu M, et al. Serum insulin-like growth factors and their binding proteins in patients with hepatic failure and after liver transplantation. Metabolism: clinical and experimental 1998;47(2):200-6. 139. Barshes NR, Horwitz IB, et al, Waitlist mortality decreases with increased use of extended criteria donor liver grafts at adult liver transplant centers. American journal of transplantation 2007;7(5):1265-70. 140. Shaked A, Nunes FA, et al. Assessment of liver function: pre- and peritransplant evaluation. Clinical chemistry 1997;43(8 Pt 2):1539-45. 141. Uemura T, Randall HB, et al. Liver retransplantation for primary nonfunction: analysis of a 20-year single-center experience. Liver transplantation 2007;13(2):22733. 89 142. Markmann JF, Markmann JW, et al. Operative parameters that predict the outcomes of hepatic transplantation. Journal of the American College of Surgeons 2003;196(4):566-72. 143. Imber CJ, St Peter SD, et al. Advantages of normothermic perfusion over cold storage in liver preservation.Transplantation. 2002;73(5):701-9. 144. Sutton ME, op den Dries S, et al. Criteria for viability assessment of discarded human donor livers during ex vivo normothermic machine perfusion. PloS one 2014;9(11):e110642. 145. Monbaliu D, de Vries B, et al. Liver fatty acid-binding protein: an early and sensitive plasma marker of hepatocellular damage and a reliable predictor of graft viability after liver transplantation from non-heart-beating donors. Transplantation proceedings 2005;37(1):413-6. 146. Silva MA, Mirza DF, et al. Intrahepatic complement activation, sinusoidal endothelial injury, and lactic acidosis are associated with initial poor function of the liver after transplantation. Transplantation 2008;85(5):718-25. 147. Barthel E, Rauchfuss F, et al. Impact of stable PGI(2) analog iloprost on early graft viability after liver transplantation: a pilot study. Clinical transplantation 2012;26(1):E38-47. 148. Escorsell A, Mas A, et al. Limitations of use of the noninvasive clearance of indocyanine green as a prognostic indicator of graft function in liver transplantation. Transplantation proceedings 2012;44(6):1539-41. 149. Stockmann M, Malinowski M, et al. Factors influencing the indocyanine green (ICG) test: additional impact of acute cholestasis. Hepato-gastroenterology 2009;56(91-92):734-8. 150. Salso A, Tisone G, et al. Relationship between GH/IGF-1 axis, graft recovery, and early survival in patients undergoing liver transplantation. BioMed research international 2014;2014:240873. 90