validazione dell`igf-1 come marker di riserva funzionale del graft e

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validazione dell`igf-1 come marker di riserva funzionale del graft e
UNIVERSITA’ POLITECNICA DELLE MARCHE
SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN MEDICINA E
CHIRURGIA - XIV° CICLO
Direttore: Chiar.mo Prof. Antonio Benedetti
Curriculum: Medicina Sperimentale
VALIDAZIONE DELL’IGF-1 COME MARKER DI
RISERVA FUNZIONALE DEL GRAFT E
INDICATORE PROGNOSTICO NEI PAZIENTI
SOTTOPOSTI A TRAPIANTO DI FEGATO
Presentata da:
Dr Daniele Nicolini
Relatore :
Dr Federico Mocchegiani
_______________________________________________________
Triennio Accademico 2012-2015
Indice
Indice ................................................................................................................................. 2
CAPITOLO 1. TRAPIANTO DI FEGATO .......................................................................... 3
1.1-INTRODUZIONE E NOTE STORICHE ................................................................... 3
1.2-INDICAZIONI AL TRAPIANTO .............................................................................. 5
1.3-TECNICA CHIRURGICA ........................................................................................ 18
1.4-OUTCOME DEL TRAPIANTO DI FEGATO ......................................................... 29
CAPITOLO 2. LA VALUTAZIONE DELLA FUNZIONE EPATICA POST
TRAPIANTO E COMPLICANZE...................................................................................... 31
2.1-LE DISFUNZIONI PRIMITIVE DEL GRAFT ........................................................ 31
2.2-LA VALUTAZIONE DEL DONATORE, FATTORI DI RISCHIO E SCORES
PROGNOSTICI ............................................................................................................... 33
2.3-INDICI DI FUNZIONALITA’ DEL FEGATO PRE E POST TRAPIANTO .......... 42
CAPITOLO 3. STUDIO CLINICO:ASSE SOMATOTROPO E FUNZIONALITA’
EPATICA ............................................................................................................................ 45
3.1-INTRODUZIONE ALLO STUDIO .......................................................................... 45
3.2-SCOPO DELLO STUDIO ........................................................................................ 49
3.3-MATERIALI E METODI ......................................................................................... 50
3.4-RISULTATI .............................................................................................................. 53
CONCLUSIONI .................................................................................................................. 57
TABELLE ........................................................................................................................... 62
FIGURE ............................................................................................................................... 70
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................. 78
2
CAPITOLO 1. TRAPIANTO DI FEGATO
1.1 INTRODUZIONE E NOTE STORICHE
Il trapianto di fegato costituisce l’unico trattamento ad intervento curativo per numerose
epatopatie terminali, per l’insufficienza epatica acuta; per alcune malattie metaboliche e
per patologie congenite, dell’adulto o del bambino che implicano un coinvolgimento del
fegato. In Italia, dove le malattie epatiche in fase terminale rappresentano un importante
problema di sanità pubblica e la mortalità per cause epatiche, seppure in lenta riduzione, è
ancora molto rilevante, il ricorso al trapianto di fegato è divenuto progressivamente
crescente. Oggi si può certamente affermare che il trapianto di fegato è una procedura
consolidata, con più di 20 Centri Trapianti attivi nel paese.
Intorno al 1900, i lavori di ricerca del chirurgo bernese e premio Nobel Theodor Kocher
portarono al riconoscimento del trapianto quale concetto medico sostanzialmente
applicabile. Al tempo si parlava di «concetto di sostituzione di organi». In medicina si era
arrivati alla conclusione unanime che il trapianto di organi poteva in linea di principio
funzionare.
I primi tentativi di trapianto d’organo vennero eseguiti durante la prima decade del
ventesimo secolo, quando nel 1912 Carrel vinse il premio Nobel per le sue innovazioni e
ricerche in campo chirurgico: riuscì per primo a trovare una tecnica innovativa per suturare
tra loro i vasi sanguigni, passo fondamentale per poter iniziare i primi trapianti
sperimentali.
Negli anni 1920 e 1930 furono condotti altri esperimenti pionieristici isolati, ma fallirono
tutti: il primo trapianto di rene sull'uomo fu eseguito nel 1933 dal medico ucraino Yu Yu
Voronoy, la ricevente sopravvisse solo 4 giorni. Tra il 1907 e il 1925 il chirurgo tedesco
Erich Lexer fece vari tentativi di trapianto di cartilagine e di articolazioni, anch'essi con
esito negativo. Dopo la Seconda guerra mondiale si effettuarono diversi tentativi di
trapianto di reni umani. Nel 1945, a Boston, fu trapiantato un rene di un uomo deceduto su
una donna che soffriva di una grave insufficienza renale, tuttavia senza particolare
successo. Seguì una serie di esperimenti successivi in cui l'intervento in sé riusciva, ma
l'organo trapiantato veniva distrutto nel giro di pochi mesi. Si dovette aspettare il 1954
quando Murray eseguì con successo un trapianto di rene poiché venne fatto tra gemelli e
perciò tra due pazienti geneticamente identici.
3
Nel 1963 Starzl effettuò il primo trapianto di fegato nell’uomo, purtroppo però i risultati
ottenuti non furono quelli sperati; il paziente, un bambino di appena tre anni colpito da
atresia delle vie biliari, morì durante l’intervento per complicanze emorragiche. Starzl
dovette aspettare tre anni per raggiungere il primo grande successo con una bambina di
diciotto mesi, trapiantata per epatocarcinoma: la paziente sopravvisse tredici mesi prima di
morire a causa della progressione della malattia.
Visti i recenti risultati si sperimentò il trapianto anche per altri organi quale il polmone
effettuato nel 1963 da Hardy, pancreas nel 1966 e intestino nel 1967 da Lillehei e Kelly,
fino ad arrivare al trapianto di cuore eseguito da Barnard nel 1967 in Sudafrica.
Tutte queste procedure presentavano una percentuale decisamente alta di decesso del
trapiantato dovuta ad una mancata ripresa funzionale dell’organo in questione che venne
ricondotta al rigetto, ovvero un’attivazione del sistema immunitario del ricevente diretto
contro l’organo trapiantato, le cui basi immunologiche furono descritte in maniera
dettagliata da Medawar agli inizi degli anni ’50, grazie ai suoi studi sul trapianto di innesti
cutanei. Queste ultime scoperte spinsero Borel e Calne a studiare non solo le basi
immunologiche del rigetto ma anche un farmaco in grado di trattare questa complicanza
molto grave, e fu così che nel 1978 scoprirono il principio attivo chiamato Ciclosporina,
farmaco ancora adesso di elevata importanza e di largo utilizzo, che permise la
sopravvivenza a lungo termine dei trapiantati e di conseguenza l’incremento dei trapianti.
Lo sviluppo di questa classe di farmaci fu dunque una condizione essenziale perché il
trapianto di numerosi organi, tessuti e cellule si affermasse quale terapia standard per
numerose malattie potenzialmente letali. (1,2,3,4,5).
Oggi la branca chirurgica dei trapianti è diventata “vittima” del proprio successo. Esiste un
numero sempre maggiore di casi per i quali un trapianto è possibile ed opportuno, di
conseguenza, la disponibilità di organi non riesce a tenere il passo con la domanda.
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1.2 INDICAZIONI AL TRAPIANTO
Il trapianto di fegato o liver transplantation (LT) rappresenta una preziosa opzione
terapeutica per una vasta gamma di patologie che portano all’insufficienza epatica
terminale acuta o cronica, ma lo è anche per alcune malattie nelle quali un errore genetico
impedisce la produzione di una essenziale proteina del fegato. È inoltre considerata una
procedura valida per pazienti attentamente selezionati affetti da tumori del fegato non
resecabili che non abbiano dato metastasi extraepatiche (Tabella 1).
In generale, l’indicazione ad LT viene posta quando ogni altra opzione terapeutica medicochirurgica ha esaurito la capacità di garantire al paziente una qualità di vita accettabile nel
lungo termine.
Indipendentemente dall’eziologia della cirrosi, l’indicazione all’inserimento in lista
d’attesa per LT viene posta sulla base della gravità dell’epatopatia correlata mediante score
prognostici;
tali
punteggi
sono
quindi
fondamentali
per
stabilire
la
priorità
nell’assegnazione dell’organo ai candidati presenti in lista.
Esistono due importanti score utilizzati per a tale scopo: il punteggio Child-Pugh e il
punteggio MELD (Model for End Stage Liver Disease).
Punteggio Child-Pugh. La versione iniziale del Child, o meglio del Child-Turcotte(5),
utilizzava due variabili estrapolabili tramite indagini di laboratorio (albumina e bilirubina)
e altre tre variabili che potevano essere rilevate dalla valutazione (ascite, encefalopatia e
stato nutrizionale del paziente). Questo score ed i valori dalle seguenti variabili, sono state
concepite per definire tre gruppi distinti di gravità dell’epatopatia in ordine crescente, dallo
stadio A, al B e al C (Tabella 2).
Circa dieci anni dopo, il modello Child-Turcotte venne modificato in punteggio ChildPugh secondo il quale lo stato nutrizionale del paziente venne sostituito da un altro valore,
ossia il tempo di protrombina (Tabella 3). In questo modo divenne possibile valutare sia
l’attività sintetica del fegato (albumina e protrombina) e sia l’attività secretoria (bilirubina)
(6)
. Inizialmente gli score di Child- Turcotte e poi di Child-Pugh furono utilizzati per
stimare il grado di ipertensione portale
(6)
dei pazienti epatopatici candidati ad interventi
chirurgici non trapiantologici quali gli shunts porto-cavali o le resezioni del tratto distale
dell’esofago. In seguito l’affidabilità di questo score è stata valutata nella globalità dei
5
pazienti con cirrosi accompagnata da epatocarcinoma, varici esofagee, encefalopatia
epatica, colangite sclerosante primitiva, cirrosi biliare primitiva e la sindorme di BuddChiari
(9-14)
. L’attendibilità del Child- Pugh score per il trapianto di fegato e la
stratificazione dei pazienti è stata ampiamente discussa.
I principali limiti di questi score, come già accennato, risiedono nel fatto che le alterazioni
delle variabili considerate non dipendono esclusivamente dalla funzione epatica, per
esempio, il valore dell’albumina è condizionato da stati patologici come l’ascite e la sepsi
(7, 8)
, allo stesso modo, la bilirubina risulta alterata in caso di insufficienza renale, emolisi o
sepsi, tutte condizioni non necessariamente peculiari del un paziente epatopatico. Alcune
tra queste inoltre, come l’albumina e i fattori della coagulazione, risultano fortemente
correlati l’una all’altra: includere queste due parametri in un singolo score può determinare
una sovrastima del punteggio. Un secondo limite deriva dall’utilizzo di parametri come
l’ascite e l’encefalopatia, in quanto il loro valore viene determinato mediante criteri clinici
e quindi dipendenti dalle abilità professionali del medico. Non c’è evidenza che tali valori
limite siano ottimali per definire variazioni significative nella mortalità, né che il rischio di
mortalità aumenti in modo lineare nella progressione dei gradi A, B, C. Un terzo limite è
che ad ogni variabile viene assegnato lo stesso peso. Un quarto limite è dovuto al fatto che
importanti fattori prognostico non sono presi in considerazione; in particolare numerosi
studi hanno enfatizzato l’influenza determinante della funzione renale nello sviluppo della
cirrosi(15, 16, 17, 18). In ultimo, lo score Child-Pugh non prende in considerazione elementi
quali la causa della cirrosi, la possibile coesistenza di molteplici fattori causali, e la
persistenza di un processo dannoso come abuso di alcol persistente o la replicazione in
corso di HBV o HCV, o attività infiammatoria in corso di epatiti autoimmuni(19, 20).
Punteggio MELD. Un altro score per la valutazione della funzionalità epatica è il
MELD score (Model for End-stage Liver Disease) che si è progressivamente imposto come
strumento per la valutazione clinica e sopravvivenza dei pazienti con epatopatia cronica da
inserire in lista. Il calcolo del punteggio (MELD-score) viene effettuato utilizzando la
formula seguente: 9.57*log(Creatinina mg/dl) + 11.2*log (INR) + 3.78*log (Bilirubina
mg/dl) + 6.43 ma vista la sua complessità è possibile calcolare il MELD Score di ciascun
paziente
direttamente
on-line
(http://www.mayoclinic.org/meld/mayomodel6.html)
inserendo semplicemente i valori di creatininemia, bilirubinemia e INR, tutti valori
6
facilmente reperibili fra gli esami del sangue che un paziente cirrotico esegue di routine. Il
MELD score rappresenta uno strumento prognostico più oggettivo e più affidabile rispetto
al Child-Pugh, in quanto il primo utilizza valori rilevati in laboratorio. Il MELD score, è
stato adottato dall’UNOS (United Network for Organ Sharing, l’istituzione statunitense
che controlla l’allocazione degli organi) a partire dal febbraio 2002, come strumento
evidence–based per l’allocazione degli organi per tutti i potenziali candidati al trapianto di
fegato, escluse le epatiti fulminanti.
Il punteggio MELD può variare da 6 a 40, valori ai quali corrisponde una gravità clinica
crescente. Ogni punteggio correla con una probabilità di decesso a 3 mesi. Inoltre se il
paziente ha effettuato almeno due dialisi nell’ultima settimana antecedente al calcolo del
MELD la creatinina viene automaticamente impostata a 4 per il calcolo dello score.
Recenti studi(21), consultando in retrospettiva i database UNOS hanno correlato il
punteggio MELD dei candidati a LT con la sopravvivenza, introducendo quindi il
transplant benefit(21), inteso come guadagno sulla sopravvivenza di pazienti sottoposti a
trapianto di fegato confrontati con pazienti alla stessa fascia di gravità ma che non hanno
avuto accesso al trapianto, per differenti categorie di gravità clinica valutate con il MELD
score.
Il guadagno di sopravvivenza ad 1 anno dopo trapianto, rispetto al non trapianto è risultato
più elevato per i riceventi con MELD progressivamente più alto, con particolare evidenza
nei pazienti con MELD >18. Apparentemente non vi sono valori elevati di MELD oltre i
quali il trapianto appare essere “futile”.
Per valori di MELD <15, invece, non solo non è stato osservato survival benefit ma
addirittura si profila un rischio di riduzione della sopravvivenza attesa dopo trapianto
rispetto al non trapianto, in particolare per valori di MELD molto bassi
(22-26)
. In questo
ambito, peraltro, l’aggravamento della malattia inteso come incremento del MELD
avverrebbe, nell’arco di 1 anno solo nel 20% dei soggetti e tra questi, meno del 5%
progredirebbe verso categorie superiori ove il survival benefit diviene significativo.
Il limite di questo modello è rappresentato dalla breve durata dell’osservazione dopo il
trapianto. E’ infatti possibile che periodi di osservazione più lunghi possano spostare verso
il basso la curva del survival benefit. In base ai dati della letteratura appare quindi prudente
non trapiantare pazienti con MELD <15, se non associato ad altre patologie (es. HCC)(21).
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Uno degli strumenti per ridurre il numero di soggetti con malattia epatica terminale che
non possono accedere al trapianto è l’allargamento dei criteri di accettazione dei donatori.
Il numero di extended criteria donors (ECD) è progressivamente aumentato nel corso degli
anni, fino a costituire circa un quarto di tutti gli organi trapiantati negli Stati Uniti nel
triennio 2004-2006 (dati OPTN 2006), determinando sicuramente una riduzione della
mortalità complessiva dei soggetti in lista d’attesa, ma con la conseguenza di
sopravvivenze inferiori rispetto a quelle attese in soggetti di pari gravità ed affetti dalla
stessa patologia che vengano trapiantati con organi standard(27,28,29). L’utilizzo di organi
prelevati da ECD comporta quindi per il paziente un rischio ulteriore che si va ad
aggiungere a quelli propri del trapianto. Questo rischio appare accettabile, da un punto di
vista etico e dell’efficienza complessiva della “terapia trapianto di fegato”, quando organi
provenienti da ECD vengano utilizzati in soggetti con MELD elevato e quindi con un
notevole rischio di esclusione dalla lista per decesso o perché divenuti troppo gravi per
essere trapiantati. Al contrario, il rischio aggiuntivo per organi da ECD può apparire
difficilmente giustificabile in soggetti con MELD biochimico basso e, quindi, con basso
rischio di esclusione dalla lista, a meno di non considerare che comunque questi pazienti,
in caso di non utilizzo di questi organi, sarebbero destinati con il tempo ad aggravarsi a
loro volta in attesa del trapianto. Un complesso modello di analisi decisionale, basata su
dati UNOS, dati della letteratura e sull’opinione di esperti, suggerisce che, rispetto
all’attesa di un organo standard, solo i soggetti con MELD>20 otterrebbero una maggiore
sopravvivenza a un anno qualora fossero immediatamente trapiantati con organi da
ECD(30). L’utilizzo di organi provenienti da ECD esclusivamente nei soggetti con MELD
elevato è supportato anche dai dati di un ampio studio retrospettivo che mostra come il
rischio aggiuntivo sulla sopravvivenza a breve termine degli organi da ECD non sia
significativamente differente in diverse classi di MELD(27). E’ stato suggerito, anche se non
ancora dimostrato, che l’uso di donatori non ottimali in riceventi con MELD elevato possa
portare a risultati peggiori, seppure ancora accettabili.
Al di là dell’assenza di studi prospettici che confermino i dati finora ottenuti e della
mancanza di una definizione universalmente accettata di ECD, una allocazione degli
organi da ECD basata esclusivamente sulla gravità clinica non è del tutto esente da critiche
in quanto la gravità clinica al momento del trapianto predice la sopravvivenza dopo
trapianto meno efficacemente della mortalità in lista, come prevedibile(31,32).
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Sono auspicabili studi che consentano di individuare un algoritmo per calcolare il survival
benefit del paziente, non teorico, ma relativo all’organo disponibile, tenendo conto di
molteplici variabili, dalle caratteristiche del ricevente, a quelle dell’organo, all’efficienza
organizzativa del sistema di rinvenimento, all’esperienza del singolo centro trapianti.
La fattibilità di una valutazione quantitativa del rischio individuale a lungo termine prima
del trapianto attraverso la valutazione delle caratteristiche e delle condizioni cliniche del
donatore e del ricevente è stata dimostrata, sebbene solo con un singolo, per quanto ampio,
studio retrospettivo.
Esistono casi in cui la semplice gravità clinica descritta dal MELD non rende ragione del
rischio di decesso in lista d’attesa o di uscita dalla lista stessa per l’insorgenza di
complicanze, per queste situazioni, come ad esempio per l’epatocarcinoma (HCC), sono
stati proposti dei correttivi punteggi del MELD score. Per quanto riguarda il punteggio da
attribuire ai pazienti con epatocarcinoma, i criteri adottati nei diversi centri in Italia e nel
mondo non sono sempre congruenti tra loro. Il criterio della gravità clinica legato alla
cirrosi da molti autori ha ricevuto un ridotto peso, in quanto ritenuto non ben applicabile
nel contesto di pazienti in cui l’indicazione a LT dovrebbe avvenire per il tumore piuttosto
che per la insufficienza epatica. La Commissione AISF, in analogia alle scelte effettuate in
USA nel contesto di una allocazione secondo MELD, aveva suggerito, nella precedente
versione delle linee guida (2002-2004), di attribuire un punteggio fisso ai pazienti con
HCC, graduato in base allo stadio del tumore al momento dell’ingresso in lista. A questo
dovrebbe poi essere attribuito un punteggio aggiuntivo legato al tempo trascorso in lista, in
quanto è poco probabile che il paziente possa essere giudicato trapiantabile sulla base del
solo peggioramento della funzione epatica. Peraltro nei pazienti con HCC in gravi
condizioni cliniche, va considerato il MELD biochimico, qualora questo superasse il
punteggio corretto per HCC.
Negli USA, almeno fino a metà 2007, il sistema mantiene ancora questa impostazione
concettuale: ai pazienti inseriti in lista per HCC in stadio T2 (singolo HCC 2-5 cm o 2-3
noduli di diametro massimo di 3 cm) viene attribuito un punteggio fisso di 22 punti,
incrementato di un valore pari al 10% di rischio (circa 3 punti) ogni tre mesi(33). Non viene
invece attribuito punteggio aggiuntivo agli HCC in stadio T1 (nodulo singolo <2 cm) in
quanto il rischio di morte o drop-out a breve termine legato al tumore viene considerato
trascurabile. L’attuale raccomandazione dal Centro Nazionale Trapianti italiano prevede un
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punteggio di MELD 22 punti per il T2, non ulteriormente incrementabili con il tempo.
L’attribuzione di punti aggiuntivi ad HCC T1, precedentemente proposta, è stata
recentemente eliminata, in accordo con la letteratura, in quanto eccessivamente premiante
per i pazienti in stadio T1. Questo modo di calcolare il rischio tuttavia non scende
adeguatamente a livello individuale nello stimare il rischio di drop-out o decesso in lista
potrebbe essere oggetto di revisione in futuro. E’ infatti possibile, a titolo di esempio, che
la prognosi di un paziente con nodulo di HCC di 4 cm sia ben diversa se il paziente ha un
punteggio MELD di 8 (parametri ematochimici sostanzialmente normali ed uno score CTP
A) o se sia piuttosto un paziente con punteggio MELD di 20 (spesso in classe CTP-C), con
un ben diverso rischio di morte per epatopatia. Il rischio di drop-out dalla lista è infatti
legato sia a possibili complicazioni legate alla severità dell’epatopatia sottostante, sia alla
ridotta possibilità di trattamento curativo dell’HCC nel paziente in classe Child-Pugh C o
talora anche solo in classe B.
Attribuire quindi lo stesso punteggio a tutti i pazienti con HCC in lista potrebbe premiare
troppo il paziente con funzione epatica ottimale rispetto alle reali necessità e penalizzare
invece quello con funzione epatica compromessa. In effetti, in una recente esperienza
italiana l’uscita dalla lista per insufficienza epatica/morte negli HCC è stata superiore a
quella per progressione di malattia neoplastica anche qualora si fossero considerati
rigidamente i criteri di Milano(34). Peraltro i pazienti in lista per trapianto con HCC ed
insufficienza epatica possono costituire anche un numero consistente dei candidati (41%
Child-Pugh classe C, 53% classe B e 6% classe A in un recente lavoro italiano che analizza
i dati del periodo 2003-2004(34) o rispettivamente 18%, 66% e 16% in un altro recente
studio italiano)(35).
Comparazione Dei Due Metodi. Il Child-Pugh score e il MELD score
rappresentano quindi due modi differenti per inquadrare la gravità clinica del paziente con
epatopatia cronica e per l’inserimento del paziente in lista d’attesa di trapianto. I vantaggi
del MELD rispetto al Child Pugh sono essenzialmente quattro: il primo è l’uso di tre fattori
biologici semplici ed oggettivi, i quali facilitano il confronto tra pazienti epatopatici. La
misurazione di queste variabili, al contrario di quanto avviene con l’ascite e
l’encefalopatia, non è operatore dipendente e solo lievemente suscettibile a fattori esterni.
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Il secondo vantaggio si riscontra nel fatto che il MELD è una variabile continua che aiuta a
classificare con appropriatezza e precisione i pazienti. Il terzo, è l’inclusione del marker di
funzione renale nel valutare il paziente.
Il quarto è rappresentato dal fatto che la scelta delle variabili è stata effettuata sulla base di
analisi statistiche atte a ponderare la loro effettiva influenza sulla prognosi (Tabella 4).
Le attuali indicazioni a LT nell’adulto si possono raggruppare in 4 categorie:
Cirrosi colestatiche
CIRROSI BILIARE PRIMITIVA E COLANGITE SCLEROSANTE.
Rappresentano due malattie croniche di deterioramento epatico ad impronta colestatica, la
cui eziologia è tutt’oggi sconosciuta. Clinicamente presentano segni e sintomi caratteristici
delle patologie croniche delle vie biliari (prurito e ittero) con conseguente aumento degli
indici di colestasi.
Il meccanismo patogenetico alla base di queste due condizioni consiste nella distruzione
dei dotti biliari ad opera di autoanticorpi prodotti in circolo, nel caso della cirrosi biliare
primitiva vengono coinvolti soprattutto i dotti di calibro minore quindi intraepatici, mentre
la colangite sclerosante colpisce i dotti intraepatici, extraepatici e talvolta anche il coledoco
e la colecisti.
In entrambe le malattie l’indicazione a LT è basata sulla qualità della vita del paziente
(prurito, osteoporosi, ripetuti ricoveri) e sulle complicanze della malattia di base (ascite,
encefalopatia, emorragia). Il trapianto rappresenta l’intervento risolutivo con una elevata
percentuale di sopravvivenza sebbene con persistenza, dopo trapianto, di anticorpi antimitocondri responsabili della distruzione delle vie biliari(37).
Cirrosi croniche da danno vascolare
SINDROME DI BUDD-CHIARI. La sindrome di Budd-Chiari(38) è dovuta ad una
ostruzione del deflusso venoso epatico (più frequentemente su base trombotica), che può
realizzarsi a livello di venule epatiche, vene sovraepatiche, vena cava inferiore, o atrio
destro; ne conseguono ipertensione portale e necrosi epatica centrolobulare, con possibilità
di evoluzione cirrotica.
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La causa più comune di tale sindrome è rappresentata dagli stati ipercoagulativi, che
possono essere ereditari (deficit di antitrombina III, deficit di proteina C, deficit di proteina
S, mutazione del fattore V di Leiden, mutazioni della protrombina) o acquisiti (disordini
mieloproliferativi,
emoglobinuria
parossistica
notturna,
sindrome
da
anticorpi
antifosfolipidi, cancro, gravidanza, contraccettivi orali).
Altre cause meno frequenti comprendono l’invasione tumorale (carcinoma epatocellulare,
carcinoma del rene e del surrene) e forme miscellanee (aspergillosi, trauma etc); in circa il
25% dei pazienti non è identificabile una causa.
La malattia può esordire con un quadro di epatopatia fulminante, acuta, subacuta o cronica.
Il trattamento, oltre alla gestione delle complicanze, include:
• terapia della causa sottostante;
• terapia anticoagulante per prevenire l’estensione della trombosi venosa;
• rimozione dell’ostruzione al deflusso venoso epatico: terapia trombolitica nelle forme
acute; angioplastica nelle forme su base stenotica; shunt porto-sistemico per via
transgiugulare (TIPS) o chirurgica;
LT trova indicazione in caso di insufficienza epatica fulminante, cirrosi e fallimento dello
shunt porto-sistemico. Nel trapianto di fegato per sindrome di Budd-Chiari è di
fondamentale importanza considerare due aspetti: prognosi a lungo termine della malattia
sottostante, riservando il trapianto solo ai pazienti con malattie a prognosi favorevole, e la
necessità di trattamento anticoagulante a lungo termine per prevenire trombosi arteriose e
venose nel post-LT; tale trattamento potrebbe non essere indicato nei pazienti con stati
trombofilici a genesi epatica in quanto corretti da LT.
Cirrosi cronica da causa alcolica
CIRROSI
ALCOLICA.
L’epatopatia
alcolica,
in
passato
considerata
controindicazione relativa a LT, rappresenta una delle indicazioni sempre più prevalenti
nei paesi industrializzati.
Il danno epatico da alcool deriva dall’effetto tossico dell’etanolo sull’epatocita,
dall’accumulo di acidi grassi all’interno delle cellule con conseguente degenerazione e
necrosi. L’intensità di degenerazione è in diretta relazione con la quantità di alcool ingerita
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infatti la sospensione del consumo di alcool può fermare la distruzione dell’epatocita e
permetterne la rigenerazione mantenendo una cirrosi compensata.
La cirrosi epatica alcolica è un’indicazione consolidata a LT(39). Secondo i dati riportati dal
ELTR, relativi a circa 33845 trapianti totali eseguiti per cirrosi epatica nel periodo 19882005, il 33% dei pazienti era affetto da malattia epatica alcol correlata; la sopravvivenza
del paziente con cirrosi alcolica è risultata del 82% a 1 anno, del 72% a 5 anni,
comparabile con i risultati ottenuti per altre indicazioni all’intervento.
L’indicazione a LT per questa patologia richiede una accurata valutazione dell’idoneità del
ricevente, sia per motivi etici che clinici, data l’alta incidenza di ripresa dell’abuso alcolico
dopo l’intervento, segnalata fino al 95% dei casi(39,40). La recidiva di epatopatia alcolica
rappresenta la causa più frequente di morte 87.5% dopo LT, mentre le neoplasie maligne,
le malattie cardiovascolari e le infezioni, rappresentano il rischio maggiore di mortalità nei
pazienti che si mantengono astinenti(41). La maggior parte dei Centri trapianto
internazionali ritiene indispensabile, per l’inserimento in lista d’attesa, almeno sei mesi di
documentata astinenza alcolica(42,43). In questo ambito è importante sottolineare che alcuni
fattori quali: età, stabilità socio-economica, assenza di conviventi con assunzione abituale
di alcool, assenza di abuso di altre sostanze, sono risultati fattori prognostici positivi per il
mantenimento della astinenza post-trapianto. E’ auspicabile la presenza nei Centri di
riferimento di personale specializzato in questa problematica, per migliorare i criteri di
selezione ed approntare specifici protocolli di selezione e follow-up clinico nel periodo pre
e post-trapianto.
Un capitolo ancora oggetto di controversia nell’ambito delle indicazioni a trapianto epatico
in corso di malattia alcolica è rappresentato dalla epatite acuta alcolica. Tale condizione è
associata ad una prognosi sfavorevole con l’impiego della sola terapia medica di supporto,
con una mortalità riportata variabile tra il 35% e il 46%(44). Gli scarsi dati della letteratura
sembrerebbero dimostrare, sulla base dell’analisi istologica del fegato espiantato, come la
presenza di una epatite acuta alcolica su cirrosi non influenzi negativamente la
sopravvivenza dei pazienti sottoposti a trapianto e come questa sia sovrapponibile a quella
ottenuta nel trapianto in presenza di cirrosi alcolica non associata ad epatite acuta
(45)
.
Alcuni autori hanno evidenziato come in assenza di un tangibile miglioramento clinico
della epatite acuta alcolica dopo 3 mesi di assoluta astensione dal consumo di alcol sia
molto improbabile un recupero ulteriore della funzione epatica e pertanto questa categoria
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di pazienti può essere presa in considerazione per trapianto epatico dopo solo 3 mesi di
astinenza certificata dalle bevande alcoliche(46).
Attualmente non appare giustificato estendere l’indicazione al trapianto epatico nei
pazienti con cirrosi associata ad epatite acuta alcolica, se non nell’ambito di un protocollo
sperimentale condiviso dalla maggior parte dei Centri trapianto.
Dal punto di vista strettamente clinico, inoltre, debbono essere attentamente esclusi vari
fattori di comorbilità da abuso cronico di alcol che possono influenzare negativamente la
prognosi sia a breve che a lungo termine, quali:
• danno organico cerebrale
• cardiomiopatia
• pancreatite cronica
• neoplasie maligne (esofago, oro-faringe, etc.)(47,48)
Cirrosi croniche virali post necrotiche
HBV E HDV CORRELATA. La cirrosi epatica da virus B (sia HBeAg positiva che
HBeAg negativa) è un’indicazione consolidata al trapianto di fegato. Secondo i dati
riportati dal ELTR, la sopravvivenza a 5 anni e 10 anni è risultata rispettivamente del 74%
e 69 %. Questi ottimi risultati sono frutto da un lato, della migliore selezione del paziente
candidato a trapianto e dall’altro dalla possibilità di attuare una attiva prevenzione della
recidiva di malattia dopo il trapianto, grazie alla disponibilità, oltre che di
immunoglobuline (IgG) specifiche per la immunoprofilassi, di nuovi farmaci antivirali
(analoghi nucleos(t)idici)(49,50).
Nonostante i notevoli progressi compiuti negli ultimi dieci anni in tema di prevenzione e
trattamento dell’epatopatia da virus B, rimane ancora aperto il problema della ricorrenza di
malattia post-trapianto, infatti è accertato che l’HBV possieda sedi di replicazione
extraepatiche che pregiudicano l’eradicazione totale del virus nel ricevente. L’affinamento
delle metodiche di biologia molecolare ha permesso di migliorare la sensibilità della
determinazione della attività replicativa del virus B, così da definire il profilo genotipico e
fenotipico del candidato a trapianto e monitorare la risposta alla terapia antivirale nel
periodo precedente il trapianto.
La riattivazione virale è predetta dalla presenza di livelli sierici pre-operatori di HBV-DNA
elevati (>50.000 copie/ml o 20.000 UI/ml, determinati con metodica PCR)(51).
14
L’introduzione degli analoghi nucleos(t)idici (Lamivudina/Adefovir e, più recentemente
Entecavir e Telbivudina) capaci di abbattere anche in tempi rapidi la viremia HBV prima
del trapianto, ha virtualmente esteso l’accessibilità al trapianto a tutti i pazienti con cirrosi
HBV-correlata che ne abbiano indicazione, indipendentemente dalla carica virale iniziale.
É tuttavia indispensabile che l’indicazione alla terapia antivirale pre-trapianto sia posta in
accordo con il Centro trapianto di riferimento, soprattutto in relazione alla prevedibile
tempistica del trapianto stesso ed al rischio di insorgenza di mutanti virali farmacoresistenti.
I pazienti con cirrosi HDV correlata seguono gli stessi criteri di selezione e profilassi
indicati per l’etiologia HBV(51). In genere questi pazienti hanno bassi livelli di viremia
HBV o sono HBV-DNA negativi ed il trattamento con analoghi nucleos(t)idici nel periodo
pre-trapianto non è indicato.
La sopravvivenza dopo trapianto dei pazienti affetti da epatopatia da virus B senza
evidenza di replica attiva (anti-HBe positivi e HBV-DNA negativi con PCR) è attorno al
70-80% ad un anno, rispetto al 45-50 % circa per i pazienti con segni di replica attiva
oppure rispetto a pazienti dove non è stata effettuata adeguata prevenzione di recidiva con
immunoglobuline antiHBs.
CIRROSI HCV CORRELATA. La cirrosi da virus C è l’indicazione più frequente
al trapianto di fegato; secondo i dati riportati dal ELTR1, questa rappresenta fino al 63%
delle indicazioni al trapianto.
L’appropriatezza dell’indicazione è giustificata sia dalla frequente associazione con
epatocarcinoma (HCC) che dall’elevato numero di decessi per cirrosi legati a questa
etiologia(52,53).A differenza di quanto accade per l’infezione da HBV, ad oggi non è stato
dimostrata in maniera solida una correlazione diretta tra la carica virale di HCV pre
trapianto e la severità della ricorrenza di malattia nel post trapianto(54). Nonostante alcune
segnalazioni della letteratura indichino come l’ottenimento di una negativizzazione della
carica virale di HCV al momento del trapianto, perseguibile mediante la terapia di
associazione con interferone standard o peghilato e ribavirina, riduca la probabilità di
insorgenza della epatite ricorrente da HCV nel graft(55,56), in pazienti con malattia di fegato
scompensata candidabili al trapianto, l’utilizzo della terapia antivirale è associato ad elevati
15
rischi(57,58) e non dovrebbe essere intrapreso se non in accordo con il Centro trapianto di
riferimento.
L’elevata percentuale di recidiva di epatite nel graft e le sue complicanze, influenzano
marcatamente la sopravvivenza post-trapianto rispetto alle altre patologie virali e non
virali, risultando compresa tra 81% al 1° anno post-trapianto e 52% a 10 anni
rispettivamente.
Neoplasie
CARCINOMA EPATOCELLULARE. L’HCC rappresenta la quinta neoplasia
più frequente al mondo e la terza causa di morte per neoplasia.
L’80% degli HCC compare su fegato cirrotico. Il trapianto di fegato è attualmente
considerato, in pazienti selezionati, il miglior trattamento del HCC su cirrosi in quanto
consente il trattamento contemporaneo della cirrosi e della neoplasia.
I criteri minimi per la diagnosi di epatocarcinoma sono quelli definiti dalla conferenza
EASL di Barcellona del 2001(59).
I potenziali candidati a trapianto per HCC su cirrosi, non resecabili, debbono avere le
seguenti caratteristiche:
• presenza di un singolo nodulo di HCC (con diametro massino di 5 cm) oppure fino a tre
noduli, ciascuno di diametro non superiore a 3 cm
• assenza di localizzazioni tumorali extraepatiche (linfonodali o in altre sedi metastatiche)
• assenza di invasione vascolare neoplastica dei principali rami venosi intraepatici (portali,
sovraepatici) o extraepatici (vena porta, vena cava) confermata o sospettata alle valutazioni
di imaging pre-operatorie.
Tali criteri sono noti come Criteri di Milano e rimangono gli unici parametri validati in
studi prospettici e nell’esperienza dei maggiori Centri. L’utilizzo di tali criteri comporta
una sopravvivenza attesa del paziente a 5 anni pari a circa il 70% con una percentuale di
recidiva tumorale inferiore al 25%.
ERRORI CONGENITI DEL METABOLISMO. L’indicazione al trapianto nei
pazienti con queste patologie può risultare da:
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a) epatopatia cronica direttamente conseguente al difetto metabolico;
b) epatopatia nel quadro di una sindrome che colpisce diversi organi;
c) insufficienza di altro organo vitale come risultato di difetto congenito peculiare del
fegato, ma senza epatopatia macroscopicamente evidente
Nel primo caso il trapianto corregge il difetto metabolico inerente al fegato con il restauro
della funzione enzimatica geneticamente carente.
Nel secondo caso il trapianto di fegato non elimina il difetto metabolico, in quanto
dipendente anche da altri organi i cui trapianti devono essere associati per ottenere dei
risultati soddisfacenti.
Nel terzo caso la malattia epatica è macroscopicamente assente ed il difetto metabolico si
ripercuote su altri organi vitali quali cuore, polmone o rene.
Esempi sono: l’ipercolesterolemia familiare, la deficienza di alfa-1-antitrispina, errori
congeniti nel metabolismo dell’urea, l’ossalosi e il deficit di lipoproteina tipo II,
l’amiloidosi. La malattia di Wilson è un difetto autosomico recessivo dell’escrezione
epatica di rame il quale si accumula in diversi organi, tra cui fegato e nuclei lenticolari del
SNC portando a morte se non trattata con agenti chelanti.
Le indicazioni al trapianto di fegato si pongono quando la malattia si presenta nella sua
forma fulminante oppure quando non vi sia risposta alla terapia medica con un progressivo
danno neurologico e/o epatico. Dopo trapianto di fegato il difetto escretorio viene corretto
e il danno neurologico in genere è reversibile sebbene in grado variabile(1,2).
17
1.3 TECNICA CHIRURGICA
Il prelievo di fegato. Il successo di un LT è in gran parte dipendente dalle modalità di
prelievo e di conservazione dell’organo. La tecnica di prelievo prevede per lo stesso
donatore, l’avvicendarsi di più equipes al tavolo operatorio per il prelievo cardiaco,
polmonare, renale, pancreatico, epatico, e recentemente intestinale. I tempi di successione
sono ben codificati ed il prelievo di fegato precede quello di tutti gli altri organi
addominali.
Tre sono i punti fondamentali da rispettare:
a) il mantenimento dell’integrità anatomica dell’organo, come condizione necessaria
per il successivo ripristino della continuità vascolare e biliare;
b) il riconoscimento della tipologia dell’apporto vascolare, riferito soprattutto alle
ramificazioni arteriose, in quanto le anomalie anatomiche sono molto frequenti ed è
molto frequente una loro lesione iatrogena accidentale se non riconosciute;
c) la perfrigerazione a 4°C dell’organo in tempi brevi e con soluzioni idonee.
L’intervento chirurgico di prelievo viene eseguito secondo le stesse modalità tecniche di
Starzl che nel 1984 e nel 1987 descrisse al tecnica “classica” e la tecnica “rapida”
rispettivamente(60,61). Quella standard risulta maggiormente idonea in condizioni di
elezione e qualora sia prevedibile la stabilità emodinamica del donatore, in quanto prevede
una più lenta dissezione delle strutture vascolari ed una più accurata scheletrizzazione
dell’ilo epatico(62,63). Per la tecnica rapida, invece, non è prevista nessuna
scheletrizzazione, ma solo la cannulazione vascolare, pertanto, per la sua velocità di
esecuzione trova una sua giustificazione qualora il donatore, durante il periodo di
osservazione o nel corso dell’intervento, mostri segni di instabilità emodinamica.
L’intervento inizia con una sterno-laparotomia mediana che partendo dal giugulo
raggiunge la regione pubica. Attraverso l’accesso toracico le equipes dedicate al prelievo
di cuore e polmoni, possono giudicare l’idoneità dei relativi organi.
Il tempo addominale inizia con la sezione del legamento rotondo e falciforme del fegato in
modo da agevolare il posizionamento di un ampio divaricatore addominale che garantisca
una adeguata esposizione dei visceri addominali per una preliminare esplorazione della
cavità peritoneale.
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Esclusa la presenza di lesioni neoplastiche macroscopicamente evidenti, si effettua la
valutazione macroscopica del fegato considerandone aspetto, colore, forma, taglia e
consistenza, inoltre un’attenta valutazione del legamento gastroepatico permette di
identificare la presenza di una branca arteriosa anomala sinistra proveniente dall’arteria
gastrica sinistra, mentre la presenza di una branca arteriosa anomala destra derivante
dall’arteria mesenterica superiore, è rilevabile al di sotto della vena porta con la palpazione
dell’ilo epatico.
L’intervento procede con l’isolamento dell’aorta addominale sottorenale e con la sezione
dell’arteria mesenterica inferiore, si prosegue quindi con la mobilizzazione epatica
mediante sezione del legamento coronarico di sinistra e con la dissezione dell’aorta
sopraceliaca che viene sospesa su fettuccia per il successivo clampaggio al fine di impedire
la fuga del liquido di preservazione in torace al momento della perfrigerazione ipotermica.
Il tempo ilare prevede il riconoscimento e la scheletrizzazione dei peduncoli vascolari e
biliari, si procede con la sezione fra lacci delle arterie gastrica destra, sinistra,
gastroduodenale e splenica. Il colodeco viene legato e reciso a livello del margine
superiore del duodeno mentre il tronco portale viene isolato in direzione caudale fino alla
confluenza spleno-mesenterica che viene incannulata (tecnica facoltativa) mediante un
catetere da 10 fr introdotto nella vena mesenterica inferiore.
Si procede all’eparinizzazione sistemica del donatore con 300-500 U/Kg di eparina sodica,
alla legatura dell’aorta al carrefour iliaco ed all’incanulazione del vaso mediante una
adeguata aortotomia anteriore.
A questo punto tutti i team chirurgici possono procedere all’avvio delle perfusioni
(crossclamp), con il liquido di preservazione appropriato dando il via alla cosiddetta
ischemia fredda del fegato.
La tecnica rapida non prevede nessuna procedura preliminare a carico dell’ilo epatico
limitandosi al solo isolamento dell’aorta per la cannulazione e riservando l’isolamento
delle strutture nobili ilari a perfusione avvenuta.
Simultaneamente all’avvio della perfusione aortica si procede al dissanguamento rapido
del cadavere mediante sezione della vena cava inferiore intrapericardica riempiendo il
cavo toracico ed addominale con ghiaccio e soluzione fisiologica sterili a 4°C. Terminate
le perfusioni cardioplegica e pneumoplegica le equipes toraciche provvedono al prelievo
degli organi di competenza.
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In caso di tecnica standard si completa il prelievo di fegato mediante sezione delle ultime
connessioni epatiche diaframmatiche, della vena cava inferiore in sede soprarenale e del
segmento di aorta addominale comprendente l’emergenza del tripode celiaco e dell’arteria
mesenterica superiore.
In caso di tecnica rapida si esegue invece la sezione di tutti i peduncoli che viene eseguita
seguendo un ordine di approccio ai diversi vasi ben preciso: coledoco, arterie
gastroduodenali, gastrica sinistra e splenica, tronco portale ed arteria mesenterica superiore
all’interno della radice del mesentere.
La dissezione dell’arteria mesenterica superiore viene effettuata, partendo da una posizione
distale fino al raggiungimento dell’emergenza aortica in modo da identificare la possibile
presenza di una branca epatica destra accessoria di pertinenza mesenterica. In tale caso la
sezione della mesenterica avviene distalmente in moda da includere il ramo anomalo nel
graft da asportare. Interrotta l’aorta a livello sopra e sotto celiaco si procede alla dissezione
della vena cava inferiore sottoepatica a monte della confluenza delle vene renali.
L’interruzione del pericardio e del diaframma con ampio margine attorno alla vena cava e
la recisione dei pilastri diaframmatici destro e sinistro, completano la liberazione del
fegato, che può essere asportato.
Al momento della cardioplegia si infonde una quantità totale di soluzione di preservazione
(Celsior o Belzer) compresa tra i 4 e i 6 litri, in rapporto anche ai tempi di prelievo. Una
seconda perfusione del graft viene effettuata al banco immediatamente dopo l’asportazione
del fegato infondendo ulteriore 700 ml di perfusione per via portale e circa 250 ml
attraverso l’asse arterioso.
Successivamente il graft epatico viene avvolto in tre sacchi di Mayo per organi deposto nel
contenitore per il trasporto ricoprendolo completamente con ghiaccio non sterile.
Nella fase finale, dopo prelievo en bloc dei reni, l’equipe epatica provvede al prelievo dei
segmenti vascolari arteriosi e venosi iliaci per un loro eventuale utilizzo come omoinnesti
al momento del trapianto(64,65,66,67).
20
Chirurgia da tavolo (Back Table Surgery). Consiste nella preparazione del graft
prelevato: viene eseguita , una volta rientrati in sede, dalla stessa equipes che effettua il
prelievo. Il fegato viene mantenuto in immersione nel liquido di conservazione, circondato
da ghiaccio, in modo tale che la temperatura del bagno si mantenga intorno a 4°C durante
tutta la procedura, che consiste in:
a) preparazione dei vasi venosi per la successiva anastomosi (cava sovra epatica, cava
sottoepatica, vena porta);
b) preparazione dei vasi arteriosi ed eventuale ricostruzione delle anomalie;
c) riparazione delle lesioni traumatiche o iatrogene eventualmente presenti;
d) preparazione dei graft arteriosi iliaci;
e) preparazione dei graft venosi iliaci.
Anomalie anatomiche dell’arteria epatica. La presenza di rami arteriosi anomali
è rilevabile in una percentuale di circa il 35% dei casi, valutata in base a studi effettuati sui
donatori di fegato. Le più frequenti risultano:
a) epatica sinistra dalla gastrica sinistra
b) epatica destra dalla mesenterica superiore
c) epatica comune dalla mesenterica superiore
d) doppia anomalia (arteria epatica sinistra da arteria gastrica sinistra e arteria epatica
destra da arteria mesenterica superiore)
In caso di presenza si un’arteria epatica sinistra dalla gastrica sinistra, si lega quest’ultima
distalmente rispetto al ramo anomalo e quindi si preleva in blocco con il tronco celiaco,
che abitualmente viene preservato con il patch di Carrel. Nel caso sia presente un’arteria
epatica destra o un’arteria epatica comune dalla mesenterica superiore, il patch aortico di
Carrel viene prelevato più ampiamente, comprendendo anche l’origine della arteria
mesenterica superiore.
Durante il “back-table” si provvede alla ricostruzione di un inflow arterioso unico
anastomizzato le arterie accessorie, a seconda del calibro al moncone dell’arteria splenica e
dell’arteria gastroduodenale. Una ulteriore alternativa, in presenza di anomalie più
complesse, consiste nella confezione di un tronco epatico comune anastomizzando i singoli
21
rami arteriosi su un tratto di graft arterioso iliaco del donatore, con utilizzo della
biforcazione iliaca(64,65,66,67).
Tecnica tradizionale. Consiste nella rimozione del fegato unitamente a tutta la vena
cava retro epatica. La procedura prevede la preparazione di un ampio campo chirurgico
comprendente l’ascella e l’inguine di sinistra per un eventuale utilizzo degli accessi venosi
ascellare e femorale per il bypass veno-venoso.
L’incisione addominale più utilizzata è la classica bisottocostale allungata sulla linea
mediana (a stella Mercedes) estesa a sinistra fino alla linea emiclaveare, a destra fino alla
ascellare media e cranialmente al processo xifoideo. Più raramente l’accesso è sottocostale
destro (J incision) con l’intento di limitare le complicanze respiratorie post-chirurgiche e la
comparsa di ernie addominali post-incisionali.
Il posizionamento di un divaricatore costale di Rochard o di Kent permette una ampia
visione della loggia epatica.
La mobilizzazione del fegato mediante sezione del legamento rotondo e falciforme è
seguita dal tempo ilare con l’incisione della pagina anteriore del peritoneo del legamento
epatoduodenale. E’ possibile così isolare e sezionare il coledoco e successivamente le due
branche di divisione dell’arteria epatica propria. Il tronco di quest’ultima viene
scheletrizzato fino all’emergenza dell’arteria gastroduodenale che, a sua volta viene
sezionata.
Si procede con la scheletrizzazione de tronco portale che viene liberato dal tessuto linfatico
circostante fino al margine pancreatico.
Mediante sezione dei legamenti triangolare destro e sinistro con elettrobisturi risulterà
possibile il progressivo distacco del lobo epatico destro dal diaframma e dalla ghiandola
surrenale evitando ogni suo possibile traumatismo. La vena cava sovra epatica ed
infraepatica saranno successivamente sospese su fettucce in modo da agevolarne il suo
clampaggio trasversale a tali livelli. Prima del completamento dell’epatectomia è
necessario preparare per il bypass veno-venoso (non sempre obbligatorio) ai fini di
decomprimere il sistema venoso splancnico e consentire il ritorno venoso dagli arti
inferiori. Il bypass trova indicazione soprattutto nei casi di instabilità emodinamica legata
ai clampaggi cavali o nei casi di abbondante sanguinamento determinato dalla presenza di
una ipertensione portale severa.
22
La circolazione extracorporea richiede l’incannulamento di una vena dell’arto inferiore,
solitamente la vena safeno-femorale sinistra e della vena porta. Da queste il flusso viene
convogliato con apposite cannule eparinate all’interno di una pompa centrifuga e da qui
sospinto nella vena ascellare sinistra precedentemente incannulata(68,69).
Il trapianto procede con il clampaggio cavale sovra e sotto epatico seguito dall’epatectomia
e da una accurata emostasi delle aree cruentate con riperitoneizzazione dell’impronta
dell’area nuda.
Con il neo-fegato in addome (fine dell’ischemia fredda ed inizio dell’ischemia calda) si
esegue un’anastomosi cavale superiore con sutura continua estroflettente in monofilamento
non riassorbibile 4/0. Durante il completamento di tale anastomosi viene eseguito un
lavaggio del graft per via portale con 500 ml di soluzione fisiologica ed albumina a 4°C
con lo scopo di eluire i residui di soluzione perfusionale limitandone l’ingresso in circolo
alla riperfusione ematica.
Si esegue successivamente con la tecnica precedente l’anastomosi cavo-cavale inferiore.
Previa eventuale chiusura della branca portale del bypass, viene poi eseguita l’anastomosi
porto-portale termino-terminale con sutura continua estroflettente in monofilamento non
riassorbibile 6/0 avendo cura di non serrare completamente il nodo lasciandolo distante
dalla parete vascolare per una distanza pari al 50% del calibro del vaso (growth-factor).
Tale accorgimento permette la completa distensione della sutura ed il raggiungimento di un
adeguato calibro dell’anastomosi al momento del declampaggio. In presenza di trombosi
della vena porta del ricevente è conveniente tentare la trombectomia del vaso prima di
optare per una ricostruzione l’inflow venoso mediante un innesto venoso iliaco del
donatore anastomizzato a monte della trombosi, solitamente sulla vena mesenterica
superiore.
In presenza di trombosi non suscettibile di trattamento con trombectomia, qualora non sia
tecnicamente possibile ripristinare l’inflow portale con l’ausilio di un graft venoso da
cadavere può essere necessario adottare la tecnica di impianto con trasposizione portocavale. In questa evenienza la vena porta del graft viene anastomizzata alla vena cava
infraepatica. Al fine di ottenere un adeguato flusso venoso è necessario confezionare un
bendaggio cavale a valle dell’anastomosi porto-cava T-L (emitrasposizione porto-cavale
parziale) o derivare completamente il sangue cavale nella porta del graft (emitrasposizione
porto-cavale parziale).
23
In ogni caso tali metodiche possiedono una elevata mortalità intra e perioperatoria e non
consentono, nonostante il recupero della funzionalità epatica, di eliminare il rischio di
sanguinamento da varici esofagee in quanto non risolvono l’ipertensione portale.
La presenza di una TIPSS richiede la sua totale rimozione dal tronco portale evitando di
danneggiare l’intima del vaso.
Ad anastomosi portale completata, la rimozione delle clamp cavali e portale consente la
riperfusione del graft (fine dell’ischemia calda). In tale fase si può osservare la comparsa
di una “sindrome da riperfusione” che consiste in una insufficienza ventricolare destra con
alte pressioni di riempimento ed ipotensione sistemica. Tale evento di gravità variabile e
solitamente transitorio è legato all’immissione in circolo dei residui del liquido di
conservazione unitamente al carico di metaboliti acidi e di potassio dal circolo splancnico e
dagli arti inferiori rimasti congesti durante la fase anepatica. La sindrome da riperfusione
richiede una gestione anestesiologica esperta delle alterazioni elettrocardiografiche, degli
squilibri elettrolitici e delle turbe coagulative. L’anastomosi dell’arteria epatica deve essere
condotta fra l’arteria epatica nativa alla emergenza della gastroduodenale e l’arteria del
graft mantenendo i due capi rettilinei evitando il kinking e torsioni anastomotiche. La
sutura è continua in monofilamento non riassorbibile 7-8/0. Nel 15-20 % dei casi, per la
presenza di anomalie arteriose del graft è necessario adottare diverse tecniche
anastomotiche al fine di riva scolarizzare ogni branca presente. In taluni casi, l’afflusso di
sangue proveniente dall’arteria epatica del ricevente è inadeguato e non garantisce una
adeguata perfusione. In questi casi è necessario confezionare un pontaggio aorto-epatico
utilizzando uno dei segmenti arteriosi iliaci del donatore ed anastomizzandolo alla
superficie anteriore dell’aorta infrarenale. Tale condotto viene portato in sede sottoepatica
mediante un tunnel transmesocolico retro gastrico. Sulla sua estremità craniale verrà
confenzionata la ricostruzione arteriosa. In altri il pontaggio può avere configurazioni
diverse o giungere dall’aorta sopraceliaca (1,2,3). Dopo aver verificato la pervietà delle
anastomosi vascolari e completato l’emostasi si procede alla ricostruzione del deflusso
biliare. Quest’ultimo può essere portato a termine mediante epatico-coledoco anastomosi
con o senza tubo a T di Kehr o mediante coledoco-digiunostomia a Y sec. Roux con o
senza stent interno utilizzando monofilamenti riassorbibili 6/0(70).
24
Le correnti indicazioni al confezionamento di anatomosi biliodigestiva sono:
a) discrepanza di calibro fra dotto epatico del donatore e coledoco del ricevente;
b) patologie delle vie biliari;
c) cirrosi biliare secondaria;
d) colangite sclerosante;
e) coledoco litiasi;
f) atresia biliare;
g) coinvolgimento neoplastico del coledoco;
h) segni di ischemia del coledoco;
i) stenosi dell’ampolla di Vater;
j) anastomosi arteriosa su arteria accessoria destra.
E’ tutt’ora oggetto di discussione la necessità del tubo a T a causa di un aumento di
incidenza di complicanze biliari legate alla sua rimozione o al dislocamento. Per contro, la
presenza del tubo di Kehr consente un continuo monitoraggio della quantità e qualità del
flusso biliare e rappresenta un vantaggioso accesso col angiografico(70).
Tecnica piggy-back. Nella maggior parte dei casi l’epatectomia può venire condotta
lasciando in situ la vena cava retro-epatica secondo la cosiddetta tecnica piggy-back(71).
La mobilizzazione del fegato ed il tempo ilare sono gli stessi della tecnica standard. Il
fegato viene progressivamente liberato dalla cava mediante sezione fra legature di tutte le
sue collaterali venose fino a lasciarlo connesso alla porta ed ala cuffia delle vene sovra
epatiche. Dopo clampaggio portale e dell’ilo sovra epatico è possibile completare
l’epatectomia senza compromettere il ritorno venoso al cuore. Gli osti delle vene sovra
epatiche vengono modellati in modo da ottenere una bocca unica su cui anastomizzare la
vena cava sovra epatica con la tecnica sopra descritta. Il “cul de sac” cavale inferiore viene
legato mentre la ricostruzione ilare segue le tappe descritta per la tecnica standard.
Qualora il clampaggio delle vene sovra epatiche risulti difficoltoso o fonte di pesanti turbe
emodinamiche esistono alcune esistono alcune soluzioni tecniche che permettono di
ripristinare ugualmente l’outflow venoso sovra epatico.
Una di esse prevede la chiusura della cuffia delle vene sovra epatiche del ricevente, la
chiusura delle estremità cavali sovra e sottoepatiche del graft seguita dall’anastomosi
25
latero-laterale fra la vena cava di quest’ultima o e quella nativa secondo
la tecnica
descritta da Belghiti(72). La seconda prevede, dopo la chiusura della cuffia delle vene sovra
epatiche del ricevente, l’anastomosi termino-laterale della cava del graft sulla vena cava
nativa. In caso di incompetenza di calibro delle anastomosi cavali eseguite, in presenza di
un cul de sac infraepatico esiste la possibilità di un suo utilizzo di salvataggio per il
confezionamento di un’ulteriore anastomosi di fuga accessoria(73).
Tecnica fegato ridotto. Trova indicazione in riceventi adulti di piccole dimensioni od
in pazienti pediatrici che richiedano un trapianto urgente in assenza di donatori di piccola
taglia. Le opzioni previste sono il trapianto dell’intero emifegato destro, dell’emifegato
sinistro o solamente del segmento laterale sinistro. Le procedure sul donatore sono
analoghe a quelle descritte in precedenza mentre si diversifica la chirurgia di banco.
Mantenendo il fegato immerso nella soluzione di preservazione si effettua una estesa
dissezione degli elementi ilari identificando le strutture vascolari e biliari di destra e
sinistra. Dopo aver stabilito il piano di sezione, la transezione parenchimale viene eseguita
mediante kellyclasia o con dissettore armonico avendo cura di suturare tutte le branche
vascolari incontrate sulla trancia di sezione. Il reimpianto avviene con le usuali tecniche
descritte successivamente per lo split liver(74).
Tecnica “split liver”. Il passo successivo alla riduzione del fegato è stata la possibilità
di utilizzare un graft proveniente da un unico donatore per il trapianto di due riceventi.
La separazione dei due graft può essere effettuata in situ cioè al momento del prelievo sul
donatore cadavere, oppure ex situ, ossia al momento della chirurgia di banco.
I primi casi di split ex situ furono effettuati nel 1988 in Europa e Stati Uniti con buone
sopravvivenze a distanza dei riceventi. Attualmente la sopravvivenza totale dei pazienti
negli split ex situ finora condotti varia fra il 75 ed il 93 % con una sopravvivenza del graft
del 67-83 %. Da segnalare, rispetto alla procedura in situ, una maggiore incidenza di
complicanze biliari ed in particolare lesione della trancia di sezione legati la mancato
riconoscimento e legatura dei piccoli dotti biliari durante la fase di transezione
parenchimale.
La tecnica in situ proposta dal gruppo di Amburgo e successivamente dall’UCLA permette
di ottenere delle sopravvivenze globali comprese fra il 65 e l’84 % a seconda della gravità
26
del ricevente, con una sopravvivenza del graft variabile fra il 62 e il 73 %. Con questa
tecnica viene minimizzato il tempo di ischemia riducendo altresì l’incidenza di
complicanze biliari post-trapianto.
Le tecniche di splitting, inizialmente nate per soddisfare le necessità di riceventi pediatrici
o di piccola taglia, si sono molto perfezionate tanto da poter essere utilizzate per il
trapianto di due riceventi adulti di piccola corporatura.
La regola fondamentale da seguire indipendentemente dal tipo di procedura, è quella di
cercare di ottenere un graft di appropriata dimensione e quindi di appropriata funzione.
Uno split laterale sinistro dovrebbe essere rivolto ad un ricevente di peso non superiore ai
30 Kg. Uno split destro allargato può venire allocato come se si trattasse di un fegato intero
per riceventi fino a 85 Kg, mentre uno split destro/sinistro permette di ottenere due graft di
medie dimensioni adatti per riceventi di peso compreso tra 40-60 Kg. Dal punto di vista
tecnico devono essere rispettati alcuni punti chiave al fine di garantire la massima
funzionalità del graft ed in particolare: mantenere una adeguata perfusione portale ed
arteriosa nonché un completo drenaggio venoso di tutti i segmenti epatici trapiantati;
condurre le transezioni parenchimali lungo piani anatomici. Dal punto di vista della
donazione, il donatore ideale è rappresentato da un soggetto giovane di età inferiore ai 50
anni che all’anamnesi non presenti una storia di epatopatia. È preferibile una degenza in
terapia intensiva inferiore ai 2 giorni con una costante stabilità emodinamica in assenza di
alterazioni della funzionalità epatica e con un normale aspetto intraoperatorio del
parenchima. Quale che sia il tipo di split utilizzato, le fasi iniziali di prelievo sono
analoghe a quelle seguite per il prelievo di fegato intero. Nel caso di split ex situ, il graft
rimosso verrà separato al back table mentre in caso di procedura in situ, la separazione dei
due emifegati verrà eseguita a cuore battente dando via alla perfusione aortica solo a
divisione avvenuta limitando così al massimo i tempi di ischemia. La dissezione degli
elementi ilari permette di separare con sicurezza i peduncoli vascolari di destra e di
sinistra. Al back table è possibile eseguire una valutazione colangiografica per ottimizzare
il punto di sezione dell’albero biliare mentre nella tecnica in vivo si soprassiede a questa
valutazione. Dopo aver isolato anche gli elementi venosi sovraepatici si procede con la
sezione dei peduncoli che viene eseguita prima della sezione del parenchima nello split ex
vivo mentre in quella in situ, nella fase finale. La transezione del parenchima si completa
27
con dissettore armonico o con kellyclasia suturando con punti transfissi ogni vaso
interrotto.
Per il trapianto di graft ottenuti con metodica ex situ è necessario che due riceventi
appropriati (in termine di size-match con il donatore) siano disponibili nella stessa sede.
Viceversa per lo spilt in vivo i graft possono essere destinati a centri di trapianto diversi. In
questa ottica appare di fondamentale importanza una stretta collaborazione tecnica fra tutti
i Centri coinvolti nelle varie fasi descritte(75).
28
1.4-OUTCOME DEL TRAPIANTO DI FEGATO
In base ai dati forniti dal Collaborative Transplant Study (CTS) di Heidelberg, si può
affermare che il trapianto ha ormai raggiunto una validità terapeutica evidente. Se i
pazienti trapiantati prima del 1985 presentavano una sopravvivenza ad 1 anno del 34% e a
5 anni del 21%, oggi tali valori sono superiori rispettivamente all’85% ed al 70%. Tale
incremento della sopravvivenza appare evidente anche confrontando due periodi temporali
relativamente recenti (1990-1999 versus 2000-2013; Figura 1).
Pochi studi esistono sulle sopravvivenze a lungo termine dopo OLT
(76)
; Busuttil et al.
Hanno recentemente presentato un’ampia serie di 3200 OLT effettuati presso la University
of California di Los Angeles tra il 1984 ed il 2001(77): i dati da loro forniti hanno
evidenziato come, anche a lungo termine, il trapianto di fegato fornisca risultati ottimali,
con tassi di sopravvivenza ad 1, 5, 10 e 15 anni rispettivamente pari all’81%, 72%, 68% e
64%.
Suddividendo la popolazione dei pazienti retrospettivamente studiati in due ere, la seconda
(1992-2001), ha fornito risultati ancora più incoraggianti (83%, 75% e 71% ad 1, 5 e 10
anni rispettivamente), evidenziando come negli ultimi anni la tecnica del trapianto di
fegato abbia subito netti miglioramenti. Valutando i pazienti in base all’età ed alla
patologia di base sono emerse alcune differenze significative.
•
I pazienti pediatrici hanno presentato migliori sopravvivenze rispetto alle altre
categorie di pazienti (84%, 79% e 76% di sopravvivenza ad 1,5 e 10 anni nei
pazienti con età tra 1 e 18 anni rispetto a 82%, 70% e 59% nei pazienti con età
superiore ai 55anni).
•
La sopravvivenza nei pazienti non urgenti è stata nettamente superiore a quella dei
pazienti operati in urgenza (Figura 2).
•
L’atresia biliare presenta le migliori sopravvivenze tra le patologie pediatriche
(82%, 79% e 78% ad 1, 5 e 10 anni).
•
Negli adulti la cirrosi biliare primitiva, la colangite sclerosante e la cirrosi postalcolica presentano i migliori risultati (82%, 77% e 68%; 85%, 76% e 70%; 84%,
77% e 70% ad 1, 5 e 10 anni rispettivamente; Figura 3).
29
•
Le sopravvivenze per la cirrosi HBV-correlata sono state inferiori rispetto a quelle
per le patologie colestatiche, ma superiori rispetto a quelle per cirrosi HCVcorrelata, che sono state pari a 82%, 69% e 58% ad 1, 5 e 10 anni.
•
Nei periodi antecedenti al 1990, il trapianto di fegato per patologia neoplastica
presentava
risultati
ampiamente
insoddisfacenti.
Tale
tendenza
si
è
drammaticamente invertita nei periodi successivi, fino ad ottenere sopravvivenze
sovrapponibili ai riceventi trapiantati per altra indicazione (Figura 4). Ciò è
avvenuto principalmente per l’evoluzione della terapia immunosoppressiva e
l’adozione di criteri di selezione più stringenti. Per quanto riguarda l’HCC,
l’introduzione dei Criteri di Milano (MC) in vari centri ha fornito risultati
sovrapponibili a quelli per patologia non tumorale (sopravvivenza ad 1 e 5 anni
rispettivamente dell’85% e del 70%), con tassi di recidiva inferiori al 15%. Tuttavia
alcuni centri hanno provato ad allargare questi criteri: Gondolesi et al.(78) hanno
descritto una serie di 36 LDLT (living donor liver transplantation), dei quali il 33%
è stato effettuato su pazienti con HCC che superavano i MC, con dei risultati
ottimali sia per quanto riguarda la sopravvivenza libera da malattia (82% ad 1 anno
e 74% a 2 anni), sia per quanto concerne la sopravvivenza globale (75% ad 1 anno
e 60% a 2 anni).
30
CAPITOLO 2. LA VALUTAZIONE DELLA FUNZIONE
EPATICA POST OLT E COMPLICANZE
2.1 LE DISFUNZIONI PRIMITIVE DEL GRAFT
La qualità dell’organo da trapiantare è stato oggetto negli ultimi anni di sempre maggiore
attenzione sia per l’aumento della prevalenza di organi cosiddetti marginali nella
popolazione dei potenziali donatori, sia per l’accentuazione dello squilibrio tra offerta e
richiesta di organi.
Dall’analisi della letteratura emerge chiaramente che tra i fattori favorenti l’incremento
dell’attività trapiantologica risulta l’allargamento dei criteri di selezione dei donatori, i
quali sono alcuni anni fa non sarebbero stati giudicati idonei per età e altre caratteristiche.
In tale contesto, un inquadramento organico di questa tematica ed un consenso sulla
definizione di donazione non-standard o con criteri di accettazione allargati, a cui far
riferimento in maniera univoca, assumono particolare importanza al fine di:
1) stratificare dal punto di vista prognostico la qualità della donazione ai fini
dell’allocazione dell’organo e dei processi di attribuzione della priorità in lista;
2) stratificare dal punto di vista prognostico i riceventi tenendo in considerazione anche la
qualità della donazione ricevuta;
3) rendere uniformi i processi decisionali che portano alla selezione degli organi da
utilizzare o meno nei diversi Centri trapianto.
In generale, si ritiene opportuno sostituire il concetto di donatore non-standard con quello
di processo di donazione non-standard o con criteri di accettazione allargati, sottolineando
l’importanza di considerare la donazione come un evento multifase in cui possono
intervenire fattori molteplici, a volte persino indipendenti dall’organo o dal donatore
stesso, variamente interagenti tra loro, ma sempre con significativo impatto sull’esito del
trapianto.
Si definisce donazione non-standard o con criteri di accettazione allargati la condizione in
cui uno o più fattori caratterizzanti le diverse fasi del processo della donazione implichino
un aumentato rischio di morbilità o mortalità di un ricevente dopo trapianto.
31
La complicanza più temuta, ed anche più facilmente documentabile, è rappresentata dalla
primary non-function (PNF), con cui si intende la mancata ripresa funzionale del fegato
non secondaria a trombosi dell’arteria epatica, complicanze biliari, ripresa di malattia o
rigetto acuto, con necessità di ritrapianto entro 7 giorni per evitare la morte del paziente(79).
Nel corso degli anni, pur aumentando il numero di fegati non-standard utilizzati per
trapianto, il miglioramento sia delle tecniche chirurgiche e rianimatorie, sia delle procedure
organizzative di allocazione ha consentito di contenere, se non di ridurre, l’incidenza di
PNF.
Una condizione analoga che però si verifica tra i 7 ed i 30 giorni dal trapianto è definita
come delayed non-function (DNF)(80).
Se PNF/DNF rappresentano entità nosologiche ben delineate e, nel complesso, poco
frequenti, anche se drammatiche per le loro implicazioni, ben diversa è la situazione di una
serie di condizioni caratterizzate sostanzialmente da una disfunzione iniziale dell’organo
potenzialmente reversibile, definita come initial poor graft function (IPGF). Nel corso
degli anni sono state proposte numerose entità nosologiche nelle quali parametri di danno
epatico, di colestasi e di funzionalità epatica sono stati variamente utilizzati per indicare la
disfunzione del fegato nella fase iniziale dopo trapianto. La comparsa di IPGF ha un
impatto prognostico negativo in quanto si associa ad un aumentato rischio di insufficienza
renale, sepsi, rigetto acuto nelle prime settimane dopo trapianto e ad un incremento della
degenza ospedaliera e dei costi sanitari. Infine, alcuni studi indicano che l’IPGF si associ
ad una ridotta sopravvivenza dell’organo e del paziente non solo a breve, ma anche a lungo
termine.
Recentemente è stata introdotta una nuova definizione di disfunzione iniziale reversibile
del graft, denominata early allograft dysfunction (EAD), ovvero la presenza di una o più
caratteristiche laboratoristiche di seguito riportate: bilirubina totale > o uguale a 10 mg/dl
in settima giornata post-operatoria, INR (international normalized ratio) > o uguale a 1,6
in settima giornata post- operatoria e infine il valore dell’alanina aminotransferasi (ALT) o
dell’aspartato aminotransferasi (AST) > 2000 IU/L entro la prima settima post-operatoria.
Tale definizione si è dimostrata superiore a quelle utilizzate in studi precedenti nel
stratificare la prognosi a sei mesi dei pazienti sottoposti a trapianto, intesa come graft
failure non correlata a problemi tecnico-chirurgici o recidiva della patologia di base(81).
32
2.2 LA VALUTAZIONE DEL DONATORE, FATTORI DI RISCHIO E
SCORES PROGNOSTICI
I fattori in grado di influire sulla ripresa funzionale dell’organo sono molteplici e molti di
essi dipendono dal donatore. Le sottoelencate variabili sono state identificate quali fattori
di rischio legati al donatore:
Età del donatore. Rappresenta un fattore predittivo importante, anche se ormai i
donatori ultrasessantenni costituiscono la porzione in maggiore espansione del pool dei
donatori, sia per il progressivo invecchiamento della popolazione, sia perché la maggior
parte dei Centri trapianto ritiene che l’età del donatore non rappresenti di per sé una
controindicazione assoluta all’utilizzo del fegato. L’aumento del rischio appare aumentare
progressivamente per ogni decade a partire dai 40 anni, anche se un cut-off discriminante è
stato identificato tra i 60 ed i 70 anni(82)(Figura 5).
Deve essere comunque sottolineato che numerosi studi, incluso un multicentrico italiano in
ambito AIRT(83), hanno dimostrato la possibilità di trapiantare con successo fegati da
donatori ultrasettantenni ed ultraottantenni a condizione che venga minimizzato il tempo di
ischemia fredda ed effettuata un’accurata selezione del donatore al fine di escludere
patologie epatiche, lesioni ateromasiche dell’arteria epatica e neoplasie occulte.
Merita un discorso specifico l’utilizzo del fegato di un donatore anziano in un paziente
HCV-positivo.
Infatti, l’incremento dell’età del donatore, con un cut-off tra i 50 e i 60 anni a seconda
delle casistiche, si correla con il rischio di progressione in cirrosi della recidiva di epatite
HCV-relata(84). L’età del donatore superiore ai 60 anni costituisce uno dei principali
determinanti della donazione non-standard. L’impatto sfavorevole dei donatori
ultrasessantenni sulla sopravvivenza dei pazienti è particolarmente evidente nei riceventi
HCV-positivi.
Appare ragionevole, ove possibile in base ai criteri di allocazione, riservare gli organi di
questi ultimi preferenzialmente a riceventi HCV-negativi, soprattutto nel caso in cui
coesistano altri fattori prognostici sfavorevoli. Tuttavia, non esiste un limite di età per
l’utilizzo dei donatori anziani in quanto anche fegati prelevati da ultraottantenni possono
essere trapiantati con successo.
33
BMI. Per quanto concerne il trapianto da donatore cadavere, il body mass index (BMI)
appare correlato alla percentuale di steatosi epatica. Tuttavia, in un recente ed ampio studio
retrospettivo, nel quale i donatori sono stati stratificati sulla base del BMI (<25; 25-30; 3035; >35) non si sono riscontrate differenze statisticamente significative sull’esito del
trapianto in termini di incidenza di PNF, percentuale di retrapianto e sopravvivenza del
ricevente; va sottolineato, tuttavia, che in tale studio organi con steatosi >35% all’esame
bioptico non sono stati utilizzati indipendentemente dal BMI dei donatori(85).
Quindi, in presenza di donatori con BMI elevato, è consigliabile valutare sempre la
presenza ed il grado di steatosi attraverso l’esecuzione di una biopsia epatica.
Degenza in terapia intensiva e farmaci vasopressori. I dati della letteratura sui
fattori di rischio legati alla permanenza del donatore in terapia intensiva sono spesso
contradditori e/o di bassa qualità scientifica per diverse ragioni: assenza di studi prospettici
su ampia casistica, variabilità di gestione del donatore tra i centri, evoluzione delle
tecniche rianimatorie negli anni ed assenza di uniformità nella definizione di una stessa
variabile e/o tempistica rispetto al prelievo dell’organo. In generale la prolungata durata
del ricovero in terapia intensiva deve essere considerato come un indice indiretto di bassa
qualità del donatore, in quanto spesso si associa ad un massivo utilizzo di farmaci
vasopressori, all’ alterazioni dei parametri laboratoristici epatici (ad esempio, aumento
delle transaminasi), ad un aumentato rischio di trasmissione di agenti infettivi, ad
alterazioni emodinamiche (arresto cardiaco transitorio o ipotensione prolungata), ed
alterazione di parametri emogasanalitici (ipossiemia e acidosi). I fattori di rischio legati
alla permanenza in terapia intensiva non rappresentano da soli motivo di esclusione dal
processo di donazione anche se il loro impatto negativo sul risultato del trapianto è
documentato da modelli prognostici predittivi del rischio associato all’uso di un donatore
non-standard.
La corretta gestione del donatore in terapia intensiva, con particolare attenzione alla
prevenzione dell’insorgenza ed alla eventuale correzione dell’ipernatremia, costituisce un
obiettivo primario specialmente nelle donazioni con fattori di rischio non modificabili (ad
esempio, età avanzata).
Causa di morte. Con l’aumento dell’età media dei donatori, si è registrato un aumento
proporzionale delle morti cerebrali da cause non traumatiche (principalmente eventi
34
cerebro-vascolari). In uno ampio studio retrospettivo basato sui dati statunitensi dello
Scientific Registry of Transplant Recipients (SRTR), la morte cerebrale da causa non
traumatica è risultata associata ad un aumentato rischio di perdita dell’organo(86).
Ipersodiemia. Studi degli anni ’80 e ’90 hanno documentato come l’ipersodiemia (>155
mmol/L) costituisse un fattore predittivo indipendente di IPGF. Più recentemente, è stato
dimostrato che tale effetto sfavorevole può essere annullato se l’ipernatriemia viene
corretta adeguatamente prima del prelievo(87). Va comunque sottolineato che due recenti
studi retrospettivi non hanno riscontrato un’associazione tra ipersodiemia severa (>170
mm/L) e sopravvivenza dell’organo a lungo termine(88).
Steatosi. L’epatosteatosi rappresenta la più frequente alterazione del fegato nella
popolazione generale. In Italia, lo studio Dioniso ha dimostrato una prevalenza di steatosi
dimostrabile ecograficamente del 58% ed una stretta associazione con BMI >25 ed
anamnesi positiva per abuso alcolico acuto e cronico. Inoltre, in soggetti con BMI <25 ma
affetti da sindrome metabolica si rileva una possibilità maggiore di riscontrare steatosi
epatica(89). Comunque circa 1/5 dei potenziali donatori presenta steatosi dimostrabile
ecograficamente, anche in assenza di fattori di rischio.
Si distinguono classicamente due tipi istologici di steatosi: macrovescicolare e
microvescicolare, che possono anche coesistere. Il grado della steatosi macrovescicolare
viene suddiviso in lieve (<30% del volume del fegato) , moderata (dal 30 al 60%) e severa
(>60%).
Attualmente, è riconosciuto che la steatosi macrovescicolare di grado severo presenti un
rischio inaccettabile di PNF/DNF e rappresenti una controindicazione alla donazione. La
steatosi di grado lieve, in assenza di altri concomitanti fattori di rischio, consente di
ottenere risultati dopo trapianto comparabili a quelli di organi non steatosici(90,91). Tuttavia,
anche la steatosi lieve in presenza di altri fattori di rischio (condizione peraltro alquanto
frequente) influenza negativamente il risultato del trapianto.
A questo proposito, in un lavoro del Centro Trapianti di Torino, è stato dimostrato che la
steatosi macrovescicolare >15% si associa ad una ridotta sopravvivenza dell’organo e del
paziente in presenza di età del donatore maggiore di 65 anni, di ricevente HCV-positivo e
tempo di ischemia fredda >10 ore (92) . Infine, l’incidenza di IPGF dopo trapianto di fegati
con steatosi moderata raggiunge anche il 35% nelle diverse casistiche.
35
Non sorprende, quindi, che la maggioranza degli studi indica un cut-off di esclusione a
livelli di steatosi macrovescicolare tra il 30 e 40%(90,91).
Non esiste, invece, un’associazione certa tra steatosi microvescicolare, anche severa, e
disfunzione dell’organo dopo trapianto(93). Nei casi di steatosi mista, si fa riferimento alla
componente macrovescicolare per valutarne il rischio associato.
Nonostante quanto sopra descritto, la steatosi spesso non è inserita nei modelli prognostici
di rischio in quanto la biopsia epatica non viene sistematicamente eseguita su tutti i
donatori e, quindi, il dato istologico spesso non è riportato nei database dei singoli Centri o
dei grandi registri. Infatti, molti Centri ritengono adeguata la valutazione macroscopica del
chirurgo al momento del prelievo. Va comunque ribadito che la biopsia epatica rappresenta
attualmente il gold standard nella quantificazione della steatosi in quanto le tecniche di
imaging non sono risultate sufficientemente sensibili nei casi di steatosi lieve-moderata e
pur considerando i limiti legati al possibile errore di campionamento ed alla ridotta
accuratezza diagnostica delle tecniche istologiche utilizzabili nei tempi ristretti del
prelievo.
La steatosi epatica macrovescicolare è un fattore di rischio indipendente di disfunzione
epatica dopo trapianto la cui gravità aumenta all’aumentare del grado. L’esame istologico è
fortemente raccomandato nei donatori con steatosi riscontrata ecograficamente, BMI >25,
anamnesi positiva per abuso alcolico od uno dei criteri diagnostici per sindrome
metabolica. Poiché l’esito del trapianto dipende dalla interazione di molteplici fattori legati
al processo di donazione ed al ricevente, non è possibile stabilire criteri assoluti di
accettabilità dei fegati steatosici ed è possibile che organi rifiutati da un Centro possano
trovare favorevole utilizzo presso un altro Centro. A questo proposito, sarebbe opportuno
che tutti i Centri seguissero protocolli condivisi nell’assicurare la qualità tecnica, la
fattibilità e leggibilità delle biopsie nei ristretti tempi del contesto trapiantologico al fine di
raccogliere dati scientificamente validi su cui poter elaborare criteri oggettivi per l’utilizzo
di tali organi.
Infine, il fegato con steatosi esclusivamente microvescicolare può essere utilizzato per il
trapianto, possibilmente evitando l’effetto sinergico con altri fattori di rischio.
Altre variabili non legate in senso stretto al donatore ma piuttosto al processo di donazione
e all’atto chirurgico in grado di condizionare la qualità dell’organo da trapiantare sono:
36
Tempo di ischemia e danno da preservazione. La procedura di preservazione
comprende una serie di fasi che si susseguono dal momento in cui viene arrestato l’apporto
di sangue e ossigeno al fegato mediante il clampaggio dell’aorta addominale nel donatore
(cross-clamp) fino al ripristino dell’apporto di sangue e ossigeno nel ricevente
(riperfusione).
Durante questo intervallo di tempo (ischemia totale), l’organo prelevato dal donatore viene
perfuso con opportune soluzioni di preservazione, raffreddato a 4°C per ridurre al minimo
il metabolismo cellulare, conservato sterilmente in appositi contenitori-frigo e trasportato
presso la sede in cui verrà effettuato il trapianto. Infine, il fegato subirà un’ulteriore
operazione di perfusione e preparazione al banco (back-table) prima di essere
definitivamente impiantato sul ricevente. Tutte queste fasi sono ormai standardizzate e
strettamente controllate.
Il tempo che intercorre tra il cross-clamp e il posizionamento del graft nell’addome del
ricevente (per confezionare le anastomosi vascolari) rappresenta il tempo di ischemia
fredda (CIT: cold ischemia time) e gioca un ruolo determinante nella fisiopatologia del
danno da ischemia-riperfusione a carico sia della componente epatocitaria sia sinusoidale.
La comparsa di danno da preservazione si associa ad un aumentato rischio di PNF/DNF,
IPGF ed, in alcuni studi, anche di perdita dell’organo e mortalità del paziente a lungo
termine.
Sostanzialmente, l’entità del danno da preservazione dipende dall’interazione di due
fattori: la durata dell’ischemia fredda e la qualità del fegato.
In pratica, il danno da preservazione sarà maggiore quanto più lunga sarà l’ischemia
fredda, con la maggior parte degli studi che identificano un significativo aumento del
rischio dopo 10-12 ore di preservazione. A tale proposito, un recente studio italiano del
CNT ha dimostrato come un CIT superiore a 12 h raddoppi il rischio di PNF(94).
Deve essere, inoltre, ribadito che il cut-off per la comparsa di un significativo danno da
preservazione, pur variando da organo ad organo, dipende dalla qualità del fegato. Infatti,
appare evidente che fegati steatosici e da donatori ultrasessantenni (e verosimilmente da
donatori con fattori di rischio insorti durante la permanenza in terapia intensiva) presentano
una ridotta tolleranza al danno da ischemia ed il limite di sicurezza è nettamente inferiore
alle 10-12 ore. E’ stato dimostrato come la riduzione del tempo di ischemia fredda
costituisca una strategia efficace nel prevenire o, almeno, minimizzare il danno da
37
preservazione in fegati steatosici e da donatori anziani, garantendo, in tal modo, un esito
del trapianto comparabile o, comunque, accettabile, rispetto a quello osservato nei trapianti
con donatori non-standard.
Al fine di ridurre il danno da ischemia-riperfusione, sono state sviluppate diverse soluzioni
di preservazione (UW - University of Wisconsin solution; HTK - Histidine-TryptophanKetoglutarate solution; Celsior solution). La soluzione UW venne considerata per anni il
gold standard per la preservazione dell’organo in corso di trapianto epatico, ma alcuni
studi hanno riportato un elevato tasso di incidenza di lesioni biliari di tipo ischemico,
ipotizzando una non ottimale perfusione di UW a livello del microcircolo a causa della sua
elevata viscosità. Le altre due soluzioni in commercio, Celsior e HTK, a differenza di UW
hanno una composizione di tipo extracellulare (bassa concentrazione di K, elevata
concentrazione di Na) ed una minore viscosità che favorisce una maggiore perfusione del
microcircolo epatico. L’effetto di queste soluzioni sul danno da preservazione è stato
comparato in alcuni studi clinici multicentrici, anche in Italia, che hanno però dimostrato
una sostanziale pari efficacia(95,96).
Tra i fattori di rischio in grado di influenzare in maniera significativa la ripresa funzionale
del graft dopo trapianto epatico vanno inclusi quelli che si sviluppano durante l’intervento
chirurgico e strettamente correlati al tipo di procedura chirurgica.
Il tempo di ischemia calda è l’intervallo di tempo che intercorre tra il posizionamento del
fegato nella cavità addominale del ricevente (momento in cui passa da una temperatura di
4°C ad una temperatura di 37°C) e la riperfusione dell’organo al termine delle anastomosi
vascolari. Più sinteticamente è il tempo necessario al confezionamento delle anastomosi
vascolari che precedono la riperfusione dell’organo.
Un tempo di ischemia calda >45 minuti si associa ad un aumentato rischio di disfunzione
epatica dopo trapianto.
L’intervento chirurgico può influenzare indirettamente anche il tempo di ischemia fredda;
ad esempio, la presenza nel ricevente di pregressi interventi di chirurgia addominale o di
significativi deficit coagulativi possono rendere l’epatectomia particolarmente difficoltosa
e prolungata allungando, di conseguenza, il tempo di ischemia fredda.
Il tempo di ischemia calda e fredda sembrano influenzare in maniera sinergica l’esito del
trapianto.
38
In particolare, il rischio di perdita dell’organo aumenta significativamente nei casi in cui ad
un’ischemia fredda >12 ore segue un’ischemia calda >45 minuti(97) (Figura 6).
Altre variabili analizzate e strettamente correlate all’intervento chirurgico, quali
l’instabilità emodinamica e quantità di emoderivati trasfusi durante l’intervento, il tipo di
anastomosi vascolare e la durata complessiva dell’intervento, non sembrano influenzare in
maniera significativa la ripresa funzionale dell’organo dopo trapianto di fegato.
Effetto dell’interazione dei fattori di rischio e scores prognostici. Da quanto
sinora emerso dall’analisi dei singoli fattori di rischio del processo di donazione, alcune
osservazioni risultano incontrovertibili:
1.
la prevalenza di donazioni non-standard è progressivamente in aumento.
2.
la prevalenza di donazioni con una combinazione di almeno 2 o più fattori di rischio
è frequente.
3.
l’interazione dei fattori provoca un aumento del rischio di mortalità e morbilità dopo
trapianto e riduce i cut-off identificati per i singoli fattori (Figura 7).
Esistono notevoli differenze tra i molteplici studi nella determinazione dei fattori di rischio
per definizione delle singole variabili (ad esempio, utilizzo di cut-off differenti), tipo e
numero di variabili incluse nelle analisi multivariate, popolazione oggetto dello studio
(database di singoli centri o analisi di grandi registri nazionali) e approccio clinico al
problema e caratteristiche organizzative dei singoli Centri trapianto, che inevitabilmente
influenzano i risultati (ad esempio, quantificazione istologica o meno della steatosi, scelta
del ricevente, tempi di ischemia fredda).
Allo stato attuale, quindi, non esistono criteri univoci ed universalmente condivisi che
consentano di identificare e quantificare il rischio associato alla donazione non-standard,
che, di per sé, appare una condizione molto eterogenea.
Non sorprende, pertanto, che da qualche anno si sia cercato di dare un valore pesato ad
ognuno dei fattori di rischio e di elaborare indici di rischio numerici o modelli prognostici
in grado di predire, tenendo in considerazione l’interazione dei diversi fattori, la probabilità
di sopravvivenza post-trapianto dell’organo e del paziente a breve e lungo termine.
Per essere applicabili con successo alla particolare realtà clinica ed organizzativa del
trapianto, i modelli prognostici devono fornire informazioni utili al fine di ottimizzare:
39
1.
i tempi di ischemia fredda (includendo variabili disponibili prima dell’espianto)
2.
la scelta del ricevente (includendo anche il tempo di ischemia fredda, che può essere
stimato in anticipo con buona approssimazione nella maggioranza dei casi, e le
variabili legate al ricevente)
3.
la gestione terapeutica nell’immediato post-operatorio (includendo in questo caso
anche le variabili legate all’intervento chirurgico)
Nel 2002, Briceno et al. proposero un modello prognostico basato su cinque variabili
emerse all’analisi multivariata: steatosi macrovescicolare di grado moderato-severo,
permanenza in terapia intensiva >4 giorni, uso di vasopressori ad alto dosaggio, tempo di
ischemia fredda ed età del donatore. Il progressivo aumento del numero di fattori si
associava ad un parallelo incremento dell’incidenza di danno da preservazione severo e
DNF. Il fattore associato a maggiore rischio era rappresentato dalla steatosi, la cui
quantificazione istologica era disponibile in tutti i trapianti(80).
Negli anni successivi, altri modelli prognostici sono stati proposti da diversi autori(98). Nel
complesso, mentre l’età del donatore ed il tempo di ischemia fredda sono stati quasi
sempre inclusi in questi modelli, differenze si riscontrano nelle variabili legate alla
permanenza del donatore in terapia intensiva (durata, uso di vasopressori, ipersodemia),
all’intervento chirurgico (ischemia calda) ed all’inclusione o meno della steatosi in base
alla consuetudine del Centro di eseguire una biopsia di protocollo.
Nella maggioranza di questi modelli, veniva proposto un indice, basato sul numero di
fattori di rischio presenti, da utilizzare per predire il rischio di mortalità e morbilità postoperatoria.
Nel 2006, Feng et al. hanno introdotto il concetto di “donor risk index” (DRI) basato
sull’analisi retrospettiva dello Scientific Registry of Transplant Recipients (SRTR) di
20023 trapianti dal 1998 al 2002(86). Sono state individuate tre variabili legate al donatore
(età, sesso, razza), tre collegate a causa e tipo di morte del donatore (morte da accidente
cerebrovascolare, morte da altra causa non-traumatica, morte da arresto cardiaco) ed una
legata al tipo di intervento chirurgico (split-partial liver transplantation). Inoltre, nel
modello sono stati aggiunti altre due fattori prognostici indipendenti: il tempo di ischemia
fredda e la provenienza dell’organo da una regione di allocazione diversa da quella locale.
40
Il risultato è stata l’elaborazione di un modello con valori continui che vanno dal gruppo a
minor rischio (DRI: 0.0-1.0) ad un gruppo a rischio più alto (DRI: >2.0) a cui corrisponde
una progressiva riduzione della sopravvivenza dell’organo a 3 mesi, 1 e 3 anni.
Va detto che il modello non include variabili importanti, come il grado di steatosi in quanto
i dati istologici nel registro SRTR sono a tale riguardo incompleti e che alcune della
variabili incluse sono difficilmente utilizzabili al di fuori degli Stati Uniti, come la razza e
la morte del donatore da causa cardiaca. Tuttavia, il DRI rappresenta il prototipo di modelli
prognostici sulla donazione non-standard, che necessita, comunque, di studi di validazione
su altre casistiche e la cui impostazione metodologica rappresenta ragionevolmente la base
per lo sviluppo di nuovi modelli prognostici.
Il DRI viene ampiamente utilizzato, specialmente in USA, grazie alla sua interfaccia
intuitiva reperibile su numerosi siti web; va sottolineato però che il punteggio è di tipo
continuo, non esiste cioè, un cut-off uniformemente accettato per definire un donatore
marginale; diversi autori hanno suggerito come un punteggio > o uguale a 1,7 possa
identificare questa condizione(99).
41
2.3 INDICI DI FUNZIONALITA’ DEL FEGATO PRE E POST
TRAPIANTO
Allo scopo di massimizzare il beneficio tratto dal paziente sottoposto a LT è necessario
identificare nuovi markers di funzione epatica applicabili nel periodo pre e post-trapianto,
al fine di poter individualizzare la prognosi del paziente e consentire decisioni terapeutiche
tempestive. Tale necessità si è resa ancor più impellente dato l’esteso utilizzo degli
extended criteria donors, giudicati inutilizzabili in passato, ma che attualmente
rappresentano fino al 25-40% dei graft utilizzati.
Tradizionalmente la valutazione della funzionalità e del danno epatico si basa su test statici
e test dinamici: i primi valutano la presenza degli enzimi epatici nel siero, la sintesi
proteica (fattori della coagulazione) e l’escrezione dei cataboliti (la bilirubina). I test statici
vengono così definiti poiché permettono unicamente un controllo puntuale della
funzionalità epatica. I limite di questi test è rappresentato dal fatto di non descrivere i
rapidi cambiamenti dell’attività epatica, spesso necessario nel paziente critico. La stima
della bilirubina, degli enzimi epatici e la proteosintesi forniscono un’immagine statica della
funzione epatica e non sempre stimano correttamente la riserva funzionale dell’organo.
La bilirubina è un prodotto dell’eme, sottoposto a catalisi e coniugazione con acido
glucuronico (bilirubina indiretta) dopo captazione epatocellulare, e successivamente
escreto nella bile. L’iperbilirubinemia può esser causata da patologie pre-epatiche (es.
emolisi) o da ostruzione post-epatica (es. colestasi), rivelandosi a volte poco specifica per
le disfunzioni primitive del fegato(100).
Gli enzimi epatici, ALT e AST, posso riflettere l’estensione della necrosi epatocellulare,
sebbene siano presenti in altri organi come ad esempio nel muscolo scheletrico o nel cuore,
quindi un loro aumento non rappresenta con certezza un indice di danno epatico. Inoltre
tali enzimi sono inevitabilmente alterati nel post-LT, quindi non discriminano con certezza
una reale disfunzione iniziale del graft dalla naturale e transitoria espressione biochimica
del danno ischemico(101).
Per quanto riguarda la protidosintesi epatica, questa viene calcolata mediante parametri
della coagulazione (tempo di protrombina e di tromboplastina) o la concentrazione
plasmatica dell’albumina. Questi indicatori descrivono l’estensione della perdita di massa
epatica funzionante, poiché una riduzione dell’attività di sintesi comporta un calo nelle
42
concentrazioni dei fattori della coagulazione e di antitrombina e di conseguenza episodi
emorragici. Va sottolineato però che nel periodo perioperatorio tali markers sono
influenzati dalla terapia sostitutiva (plasma fresco concentrato o albumina) necessaria al
supporto coagulativo e volemico del paziente trapiantato, perdendo quindi di specificità
nella valutazione della reale funzionalità del neofegato(102).
Esistono inoltre tests dinamici basati, invece, sulla capacità del fegato di metabolizzare o
eliminare determinate sostanze che vengono effettuati tramite il calcolo della clearance del
verde di indocianina (ICG) e dei livelli monoetilglicinxilidide (MEGX) ovvero un
metabolita della lidocaina. Tali tests dinamici hanno il vantaggio di quantificare lo stato
funzionale al momento della valutazione e, se ripetuti ad intervalli di tempo relativamente
brevi, di evidenziare disfunzioni epatiche altrimenti inapparenti(103).
Il verde di indocianina (ICG) è un composto fluorescente a contenuto di ioduro, sicuro e
senza eventi avversi tranne nei pazienti con allergia allo ioduro o con tireotossicosi, il
quale dopo iniezione e.v., viene eliminato dal fegato nella bile senza un ricircolo
enteroepatico. In generale, l’eliminazione dell’ICG dal sangue dipende dal flusso ematico
epatico, dalla funzione delle cellule parenchimali e dall’escrezione biliare(104).
L’eliminazione dell’ICG può essere espressa tramite il valore dell’emivita, la clearance
ematica o la velocità di eliminazione dal plasma (ICG-PDR, plasma disappearance rate).
La ICG-PDR e la clearence del MEGX possono essere utili nel LT; infatti in fase di preLT tali valori sono risultati altamente predittivi di sopravvivenza del paziente
indipendentemente dalle patologie di base, sia negli adulti che nei pazienti pediatrici(105).
Inoltre è stata riscontrata una scarsa funzionalità dell’organo trapiantato quando i donatori
avevano un’ICG-PDR bassa, mentre un valore di ICG-PDR inferiore a 15% si associava ad
tasso più elevato di disfunzione dell’organo trapiantato. La clearance dell’ICG può quindi
rappresentare un utile strumento per testare la funzionalità del fegato da trapiantare sia
quando applicato sul donatore sia dopo l’intervento(106). Tuttavia più che un indicatore di
funzionalità cellulare, l’ICG-PDR è un marcatore di flusso ematico e le variazioni dei suoi
valori a breve termine probabilmente riflettono le variazioni del flusso sanguigno piuttosto
che la funzione epatocellulare; le valutazioni dinamiche appena citate non sono però
considerate indagini routinarie e risultano perciò scarsamente applicabili su larga scala,
data la loro complessità di esecuzione e la difficile interpretazione dei risultati.
43
Altri parametri importanti di valutazione sono la stima dell’acidosi metabolica e dei lattati
ematici, i cui valori, se non normalizzati nelle ore o giorni successivi al trapianto,
rappresentano un fattore prognostico negativo per la ripresa funzionale del graft. (107).
Le sopracitate indagini ematochimiche, (bilirubina, PT, ALT, AST, albumina), vengono
ovviamente considerate anche per valutare l’idoneità del fegato da trapiantare ma la loro
affidabilità può essere minata dalle pregresse patologie (non necessariamente epatiche) del
donatore o dal meccanismo che ha prodotto la morte cerebrale; basti pensare, ad esempio,
che la causa di morte di gran parte dei donatori italiani ed europei è rappresentata da eventi
emorragici cerebrali come conseguenza della terapia con anticoagulanti orali, che alterano
cronicamente i valori della coagulazione rendendoli indici inaffidabili della sintesi epatica.
Inoltre, per le cause di morte cerebrale ad eziologia post-anossica, l’incremento delle
transaminasi dovuto all’arresto di circolo è praticamente costante senza che ciò rifletta
necessariamente un danno epatico tale da precludere la donazione. Al contrario, in molte
delle analisi multivariate aventi come oggetto l’insorgenza di PNF, EAD o DNF, vengono
identificati come fattori di rischio la modalità del decesso, l’età del donatore, il tempo di
ischemia fredda e l’instabilità emodinamica trattata con cicli ripetuti di farmaci
vasopressori(108); non compaiono quindi come fattori predisponenti le alterazioni degli
ematochimiche degli indici di sintesi e citonecrosi epatica, che spesso risultano
perfettamente normali nei soggetti che svilupperanno tali complicanze.
Le analisi di laboratorio sopracitate si dimostrano efficaci nella valutazione della
funzionalità residua del fegato nel paziente cirrotico in attesa di trapianto, ma non
presentano una simile validità nel predire la funzionalità del potenziale graft nella
valutazione del donatore; inoltre, allo stato attuale, esistono pochi metodi o parametri
biochimici utili a predire lo sviluppo di PNF, DNF o EAD. Pertanto uno dei compiti della
medicina del laboratorio è mettere a markers alternativi per identificare anzitutto quali
organi siano più idonei al trapianto, specialmente tra quelli dei donatori “anziani” o
“marginali” e per monitorare in maniera precisa ed affidabile la funzione dell’organo
appena trapiantato al fine di fornire al chirurgo un dato altamente predittivo del recupero
funzionale e quindi utile nel consentire opzioni terapeutiche nei tempi ristretti imposti da
tali scenari clinici.
44
CAPITOLO 3.
STUDIO CLINICO: ASSE SOMATOTROPO E
FUNZIONALITA’ EPATICA
3.1 INTRODUZIONE ALLO STUDIO
Asse somatotropo GH/IGF-1. L’Ormone della crescita (GH) è un peptide
sintetizzato e secreto dalle cellule somatotrope ipofisarie e metabolizzato in gran parte a
livello epatico e in minor misura a livello renale. La secrezione di GH è controllata
principalmente da due ormoni ipotalamici, il GHRH e la somatostatina (il GHRH stimola
la sintesi e la secrezione di GH, mentre la somatostatina esercita un effetto inibitorio sulla
secrezione), ma può essere modulata da altri numerosi fattori fisiologici, farmacologici e
patologici agendo direttamente a livello ipotalamico sulla secrezione di GHRH e
somatostatina (Tabella 5). Il GH esercita azioni metaboliche (Tabella 6) e trofiche,
promuovendo la crescita corporea e inducendo l’ipertrofia e l’iperplasia di diversi organi,
mediate i fattori di crescita insulino-simili (IGF-I e IGF-II) e le loro proteine leganti.
I mediatori dell’ormone GH sono le somatomedine IGF-1 e IGF-2, quest’ultima
fondamentale durante la vita fetale e solo parzialmente suscettibile alle variazioni del GH;
questi agiscono prevalentemente sull’apparato scheletrico, pelle, cervello, midollo osseo e
proteosintesi. La maggiore fonte di IGF-1 è il fegato, tuttavia viene sintetizzato da
numerosi altri organi come il rene, l’ovaio, la placenta, il pancreas, la pelle e il
polmone(109) sotto lo stimolo del GH stesso. I livelli circolanti di IGF-1 sono inoltre
influenzati da numerosi fattori come l’età, lo stato nutrizionale e la presenza di malattie
croniche. Quasi la totalità dell’IGF-1 circolante è legato a delle specifiche proteine di
trasporto chiamate IGF-binding proteins (IGFBPs) mentre la restante quota, inferiore
all’1%, è libera e biologicamente attiva. Sono state descritte sei diverse IGFBP (da IGFBP1 a IGFBP-6) tuttavia, il 95% dell’IGF-1 circolante è legato alla IGFBP-3 la quale risulta
prodotta a livello epatico sia dagli epatociti che dalle cellule di Kupffer. Infine l’azione
dell’IGF-1 nei diversi organi o tessuti bersaglio si esplica mediante il suo legame con degli
specifici recettori di membrana (IGF-1R) appartenenti alla famiglia delle titosin-kinasi.
45
Asse somatotropo in cirrosi e post trapianto. Il primo studio presente in
letteratura che ha evidenziato una correlazione tra epatopatia e livelli sierici di IGF-1 risale
al 1986. Cuafriez aveva notato per la prima volta che i pazienti affetti da epatopatia cronica
presentavano bassi livelli di IGF-1 concludendo pertanto che l’IGF-1 poteva considerarsi
un affidabile marcatore di funzionalità epatica. In seguito sono stati pubblicati altri studi
che hanno confermato tale dato e valutato l’asse somatotropo nelle diverse fasi
dell’epatopatia fino alla cirrosi. Già nel 1987, come successivamente confermato da altri
studi(110,111), Salerno aveva osservato che i pazienti con malattia epatica cronica presentano
un’aumentata secrezione di GHRH e GH che risultava, tra l’altro, particolarmente elevata
nei pazienti affetti cirrosi epatica avanzata. Come giustificazione a tale dato l’autore
ipotizzava che la presenza di un accumulo di ammine o di altri suoi precursori a livello
cerebrale (cosa che si verifica nelle fasi avanzate della cirrosi a causa dell’encefalopatia e/o
dello shunt porto sistemico) potesse alterare le trasmissioni di segnale neuro-ormonali a
livello ipotalamico, provocando un ulteriore rilascio di GHRH e GH(112). Come già
osservato da Cuafriez tale rialzo non si accompagna tuttavia ad una adeguata risposta
epatica nella produzione di IGF-1(113) e IGFBP-3, che risultano quindi ridotti, provocando a
loro volta un ulteriore incremento del GH per mancanza del feed-back negativo che l’IGF1 stesso provoca a livello sia ipotalamico che ipofisario.
Il decremento dei livelli di IGF-1 nei pazienti affetti da cirrosi epatica è prevalentemente
dovuto alla ridotta funzionalità epatica per riduzione della massa epatocellulare (infatti si è
vista una correlazione negativa tra i livelli di IGF-1 e gli indicatori di funzionalità quali
AST, bilirubina, Fosfatasi alcalina e albumina)
(114)
, ma anche ad una riduzione dei
recettori del GH nel fegato cirrotico(115,116) ed ad una aumentata attività dell’IGFBP-1 e 2 i
quali hanno come azione primaria il blocco delle IGF(117). Altri fattori di comune riscontro
nei pazienti cirrotici che possono influenzare i livelli plasmatici di IGF-1 sono: 1) la
malnutrizione, anche se non tutti gli studi in merito hanno rilevato una correlazione tra i
livelli di IGF-1 e lo stato nutrizionale(118); 2) la peritonite batterica caratterizzata
dall’incremento dell’IL-6: è stata evidenziata una correlazione inversa tra i livelli di IGF-1
e IL-6 suggerendo la capacità dell’IL-6 di bloccare la produzione epatica di IGF-1(119).
Le alterazioni dell’asse GH/IGF-1/IGFBP sono dunque ben documentate nella cirrosi e le
alterazioni di tali peptidi sono stati proposte come markers di disfunzione epatocellulare,
malnutrizione e sopravvivenza: uno studio caso controllo-effettuato su 44 pazienti con
46
cirrosi epatica avanzata ha infatti evidenziato che il dosaggio di IGF-I, IGF-II e IGFBP-3
in combinazione con il Child-Pugh (CP-) score, rappresenta un fattore prognostico più
affidabile rispetto al solo CP-score(120). Numerosi altri studi hanno confermato la
correlazione tra IGF-1 e CP-score(121), che inoltre appare più forte nei pazienti che
presentavano anche ipertensione portale o malnutrizione, riflettendo dunque perfettamente
il grado di insufficienza epatica.
Infine, alcuni studi hanno valutato la risposta del GH al test di stimolo con GHRH nei
pazienti con cirrosi epatica: in particolare, da un lavoro condotto in 52 pazienti cirrotici
suddivisi in tre gruppi in base al CP-score, è emerso una maggiore risposta del GH in
pazienti cirrotici, indipendentemente dal CP-score, che raggiungeva la significatività
statistica se paragonata al gruppo di controllo costituito da pazienti non affetti da
epatopatia(122). Tale dato si conferma indipendentemente dal sesso(123).
Per quanto riguarda le variazioni dell’asse somatotropo dopo LT, gli studi presenti in
letteratura sono pochi.
Già dai primi dati a riguardo, risalenti ai primi anni novanta, si evidenziava una riduzione
dei livelli di GH, con progressiva normalizzazione dopo alcuni mesi dal LT(124,125). Tale
riduzione è tuttavia preceduta da un picco secretivo di GH dopo 30 minuti dalla perfusione
del graft che tende poi a decrescere progressivamente, fino a raggiungere livelli inferiori al
pre-LT, dopo una settimana. Come possibile spiegazione è stato supposto che,
l’incremento del GH durante le prime 24 ore dalla riperfusione del graft, sia secondario
prevalentemente allo stress chirurgico(126,127,128).
Contrariamente a quanto avviene per il GH, l’IGF-1 mostra un progressivo incremento
dopo LT. Uno studio condotto nel 2004 ha valutato le variazioni dell’asse GH/IGF-1 dopo
trapianto di fegato in 15 pazienti suddivisi in due gruppi in base all’insorgenza o meno di
una IPF del graft: in entrambi i gruppi si è osservato un netto e sovrapponibile incremento
di GH nelle prime 24 ore dal trapianto mentre l’IGF-1 è risultato significativamente più
elevato nel gruppo dei pazienti con IPF. Quest’ultimo dato sembrerebbe suggerire una
iniziale correlazione diretta tra l’entità del danno ischemico, al quale le cellule epatiche del
graft sono andate incontro, e i livelli di IGF-1circolanti: tanto più il graft ha subito un
danno ischemico durante le manovre di prelievo e conservazione, tanto maggiore sarà la
risposta delle cellule epatiche nella produzione di IGF-1. Dopo le 24 ore dalla riperfusione
si osserva invece un maggiore e più rapido incremento di IGF-1 nei pazienti con normale
47
funzionalità del graft (la totalità dei pazienti raggiunge normali livelli di IGF-1 dopo un
mese dall’LT), mentre solo il 30% dei soggetti che hanno presentato un IPF raggiungono
normali livelli di IGF-1 a causa del danno ischemico stesso.
Pertanto aumentati livelli di IGF-1 nelle prime 24 ore dal trapianto si correlano ad una
iniziale disfunzione del graft e tale dato sembra essere l’unica caratteristica laboratoristica
che differenzia i due gruppi in questa fase precoce tra i vari parametri valutati (AST, PT,
ATIII, acido lattico, albumina, bilirubina, GGT, ALT, WBC e piastrine)(128). Tale
preliminare esperienza suggerisce dunque il potenziale impiego dell’IGF-1 come marker di
funzionalità epatica nel periodo postoperatorio.
Tuttavia, la ripresa funzionale del graft epatico, immediata e nel lungo periodo, è
direttamente correlata alla qualità del donatore, così come a numerose variabili legate agli
eventi intraoperatori e al decorso postoperatorio del ricevente. Le misurazioni seriate dei
routinari tests di funzione epatica come ad esempio AST, ALT, attività protrombinica e
bilirubina, sono utili nell’identificare una IPF (o EAD) ma appaiono inadeguati nel
discriminare variazioni più sottili della riserva funzionale epatica e, dunque, nel predire
l’outcome a lungo termine del trapianto.
48
3.2 SCOPO DELLO STUDIO
Diversi studi presenti in letteratura hanno descritto le alterazioni della funzione endocrina,
e in particolare dell’asse somatotropo, nei pazienti epatopatici terminali mentre solo pochi
lavori hanno valutato tali modificazioni ormonali dopo trapianto di fegato, tra l’altro con
risultati discordanti tra loro.
Il nostro studio si propone di valutare il grado di alterazione dell’asse GH/IGF-1 in una
popolazione di pazienti cirrotici candidati al trapianto e di studiarne prospetticamente le
variazioni nell’anno successivo all’intervento chirurgico.
I valori medi di IGF-1 post-LT sono stati stratificati in base ai fattori di rischio intrinseci
del donatore (extended criteria donor score > o = a 2) e alle differenti variabili
trapiantologiche al fine di validare l’utilità di tale marker come indicatore della riserva
funzionale del fegato trapiantato. Attraverso un’ampia analisi di correlazione abbiamo
studiato il grado di associazione fra i valori postoperatori di IGF-1 e i tests di laboratorio
comunemente utilizzati nel follow-up clinico dei pazienti sottoposti a LT.
Attraverso un’analisi delle curve di sopravvivenza attuale dei pazienti in studio, abbiamo
verificato l’esistenza di una correlazione prognostica fra il ripristino della normale
funzionalità dell’asse somatotropo e la sopravvivenza dei pazienti dopo LT
49
3.3-MATERIALI E METODI
Da aprile 2010 ad aprile 2011, sono stati considerati prospetticamente 44 riceventi di
fegato adulti per l’arruolamento in questo studio. I soggetti affetti da infezione da virus
dell’immunodeficienza umana acquisita (HIV, 8 pazienti), sottoposti a trapianto per
insufficienza epatica acuta a decorso fulminante (3 pazienti) o portatori di endocrinopatie
preesistenti non correlate all’insufficienza epatica (1 paziente) sono stati esclusi dallo
studio. Abbiamo inoltre escluso dall’analisi un ulteriore paziente sottoposto a LT per
epatocarcinoma su fegato non cirrotico. Sono stati inoltre esclusi i pazienti candidati a retrapianto di fegato o a trapianto multi-organo. La popolazione oggetto dello studio è
dunque rappresentata da 31 pazienti cirrotici sottoposti a LT presso la Clinica di Chirurgia
dei Trapianti dell’A.O.U. “Ospedali Riuniti” di Ancona; l’analisi dei dati è stata fissata
dopo un follow-up minimo di 3 anni dall’intervento chirurgico.
Le caratteristiche cliniche e demografiche della popolazione studiata sono rappresentate
nella tabella 7. La severità della cirrosi è stata classificata in base alla classe Child-Pugh
(CP A, B o C) e secondo lo score MELD. Oltre alle caratteristiche clinico-demografiche
dei riceventi, sono stati raccolti i parametri necessari per la valutazione della qualità del
graft ricevuto; in particolare, la marginalità del donatore è stata definita secondo il numero
cumulativo dei fattori di rischio proposti da Gruttadauria e colleghi(129). Il donatore
marginale, o extended criteria donor (ECD), è stato definito dalla contemporanea presenza
di 2 o più delle seguenti caratteristiche: età superiore ai 60 anni, steatosi macrovescicolare
superiore al 30%, degenza prolungata in terapia intensiva (> 7 giorni), instabilità
emodinamica caratterizzata da ipotensione prolungata (<60 mmHg per più di 2 ore),
utilizzo di dopamina a dosaggio superiore a >10 µg/kg/minuto per più di 6 ore o necessità
di impiegare due diversi farmaci inotropi per mantenere la pressione arteriosa stabile per
più di 6 ore, tempo di ischemia fredda superiore alle 12 ore e picco di ipernatriemia
superiore ai 160 mEq/L prima del cross-clamp aortico. Oltre all’ECD-score i donatori sono
stati stratificati secondo il DRI proposto da Feng e lo score prognostico noto come
DMELD.
Ogni LT è stata eseguita preservando la vena cava nativa secondo la tecnica Piggyback; la
terapia immunosoppressiva è basata sulla somministrazione di Tacrolimus associato ad
50
Everolimus dalla 14° giornata postoperatoria e steroidi. La somministrazione di steroidi è
stata progressivamente scalata e sospesa dopo tre mesi dall’intervento chirurgico.
A tutti i pazienti sono stati effettuati prelievi ematici su sangue periferico ai seguenti tempi:
il giorno stesso del trapianto (entro 4-6 ore dall’inizio dell’intervento), dopo 15 giorni
dall’LT e a 1, 3, 6, 12 mesi dall’intervento. I test di laboratorio sono stati eseguiti entro 24
ore dal prelievo e sono stati valutati i seguenti parametri ormonali e biochimici di
funzionalità epatica: Tempo di Protrombina (PT), Bilirubina totale, aspartato
aminotrasferasi (AST), alanina aminotrasferasi (ALT), gamma-glutamyl trasferasi (gGT), e
Albumina. I dosaggi ormonali di GH e IGF-1 sono stati eseguiti con metodo
immunometrico mediante chemiluminescenza (Immulite 2000, Siemens). Il range di
riferimento per l’IGF-1 è definito dall’International Reference Reagent for IGF-I (87/518)
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo lo studio di Elmlinger e colleghi(130). Il
range di normalità per il GH è definito dall’International Reference Reagent for IGF-I
(98/574) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ed è fissato a 3 ng/mL per i soggetti
maschi e a 8 ng/mL per le femmine. Abbiamo condotto un’analisi di correlazione fra i
livelli postoperatori di IGF-1 e i tests epatici di routine ad ognuno degli intervalli previsti
dallo studio.
Sono state registrate le seguenti complicanze postoperatorie: data e causa di morte, rigetto
cellulare acuto (ACR), primary non-function (PNF), early allograft dysfunction (EAD) e
complicanze biliari (BC). Abbiamo analizzato l’impatto delle variabili postoperatorie
clinicamente rilevanti e delle caratteristiche del donatore sul normale ripristino dei valori
ormonali post-LT. L’analisi uni- e multivariata dei fattori prognostici di sopravvivenza ha
incluso le seguenti variabili: ripristino precoce dei valori di IGF-1 (entro 15 giorni), età del
ricevente, età del donatore, ECD-score, presenza di HCV-RNA rilevabile al trapianto,
presenza di epatocarcinoma, tempo di ischemia totale, evenienza di EAD, DRI e DMELD.
Il comitato etico dell’A.O.U. Ospedali Riuniti di Ancona ha approvato lo studio e ha
stabilito che il consenso informato scritto da parte del paziente non era necessario data la
natura non interventistica dello studio proposto e l’evidenza che i prelievi ematici
sarebbero stati eseguiti al momento dei controlli già previsti dalla normale pratica clinica.
Analisi statistica. Le variabili continue sono state riportate come media ed errore standard
della media (SEM) o come mediana e range, quando indicato. Le variabili categoriche
sono state riportate come numeri e percentuali, e confrontate con il test di Fischer. Le
51
differenze fra le variabili continue sono state confrontate con il t-test di Student per
campioni indipendenti. Il confronto tra le medie dei valori ormonali registrati ai vari time
points è stato effettuato mediante il t-test di Student per dati appaiati. L’analisi di
correlazione fra i livelli di IGF-1 e i valori dei principali parametri di funzione epatica è
stata effettuata mediante il test di Pearson.
La sopravvivenza è stata calcolata per ciascun paziente dal giorno dell'intervento alla data
di morte o alla data dell’ultima visita di follow-up prevista (36 mesi); l'impatto di ogni
singola variabile nel determinare la sopravvivenza è stato valutato mediante il metodo di
Kaplan-Meier e le differenze tra i sottogruppi sono state confrontate mediante il log-rank
test. I fattori di rischio per la sopravvivenza del paziente con valori di p uguali o inferiori a
0.2 dopo analisi univariata sono stati inclusi nel modello di regressione multivariata di Cox
per identificare i fattori prognostici indipendenti. Un valore ai due lati di p uguale o
inferiore a 0.05 è stato considerato statisticamente significativo in tutti i confronti
effettuati. L’analisi statistica è stata effettuata con il software MedCalc® version 9.3.2.0
(MedCalc
Software,
Broekstraat
52
52,
Belgium).
3.4 RISULTATI
Da aprile 2010 ad aprile 2011 sono stati effettuati 44 trapianti di fegato e di questi sono stati
arruolati un totale di 31 pazienti dei quali 25 maschi e 6 femmine (rapporto M/F paria a 4:1).
Tredici trapiantati sono stati esclusi per: infezione da HIV (n° 8); epatite a decorso
fulminante (n° 3); epatocarcinoma in fegato non cirrotico (n°1) ed endocrinopatia
preesistenti non correlata all’insufficienza epatica (n°1). La popolazione inclusa nello studio
è risultata quindi di 31 pazienti di età media al trapianto pari a 55.2 ± 1.4 anni (range da 37 a
65 anni).
L’eziologia della cirrosi nel nostro gruppo di pazienti era virale nel 64.5% dei casi (14
pazienti affetti da HCV e 6 pazienti da HBV), esotossica in 4 pazienti (26%), criptogenetica
in 4 pazienti (13%) e Cirrosi Biliare Primitiva in 3 pazienti (9%). Stratificando i pazienti per
gravità dell’epatopatia distinguiamo: 5 pazienti pre-LT con CP-A (16%), 16 pazienti CP-B
(51%) e i restanti 10 pazienti con CP-C (33%). Il MELD biochimico medio risulta di 15.3 ±
0.9 (range da 7 a 29).
I donatori presentavano un’età media di 67.2 ± 2.1 anni e, valutandone la marginalità, 16
(51.6%) grafts avevano 2 o più fattori di rischio (ECD score >= 2) mentre 15 (49.4%)
presentavano un ECD < a 2 (Tabella 7).
Livelli ormonali post-LT e correlazione con i tests di funzione epatica. Tutti i pazienti
cirrotici in attesa di trapianto presentavano livelli di IGF-1 nettamente al di sotto della
normalità (media±SEM: 29.5±2.1 ng/mL con v.n. 90-360ng/ml fino a 55 anni di età e 71290ng/ml oltre i 55 anni). Diciannove (61.3%) pazienti su 31 presentavano elevati livelli di
GH preoperatorio (media±SEM: 6.3±0.9 ng/mL). Stratificando i pazienti in base alla
classificazione di CP (CP-A e B vs CP-C) non si sono riscontrate differenze tra i due
gruppi sia per quanto riguarda i livelli di IGF-1 (29.4 ng/ml vs 29.5 ng/ml) che il del GH
(5.9 ng/ml vs 6.9 ng/ml). Tuttavia è emersa una correlazione inversa statisticamente
significativa fra lo score MELD e l’IGF-1 pre-LT (coefficiente r=- 0.3616; p=0.0456). I
livelli ormonali preoperatori (GH e IGF-1) non sono risultati correlati all’eziologia della
cirrosi. Quindici giorni dopo il trapianto si è assistito ad un drammatico rialzo dei valori
medi di IGF-1 (102.7±11.7 ng/mL; p<0.0001) con normalizzazione dei livelli in 18 dei 31
riceventi in studio. I livelli plasmatici medi di IGF-1 hanno continuato ad aumentare
raggiungendo un picco a 3 mesi dal trapianto (173.1±16.9 ng/mL); da quel momento in poi
53
si è assistito ad una progressiva diminuzione dei valori medi, con una stabilizzazione a 12
mesi a valori pari a 126.3±9.6 ng/mL (Figura 8B). Ventuno (87.5%) dei 24 pazienti
sopravvissuti presentavano valori di IGF-1 all’interno del range di riferimento ad un anno
dal trapianto (Figura 9). Il GH subisce una brusca riduzione subito dopo il trapianto (1.5 ±
0.2 ng/ml dopo 15 giorni) mantenendosi poi sostanzialmente costante per tutto il follow-up
(1.8 ng/ml a 12 mesi); 3 dei 24 pazienti sopravvissuti presentavano ancora elevati valori di
GH ad un anno dal trapianto (Figura 8A).
I risultati dell’analisi di correlazione fra i livelli plasmatici di IGF-1 e i parametri
biochimici di funzionalità epatica sono illustrati nella Tabella 8. Abbiamo evidenziato una
correlazione inversa statisticamente significativa a 15 (r=-0.392, p=0.0320) e 30 (r=-0.389,
p=0.0368) giorni dal LT tra i livelli di IGF-1 e la bilirubina totale. Inoltre abbiamo
riscontrato una correlazione diretta statisticamente significativa fra i livelli sierici di
albumina e IGF-1 a 30 (r=0.595 p=0.001) e 90 (r=0.555; p=0.003) giorni dal LT. Non sono
state trovate altre correlazione tra IGF-1 ed i restanti parametri epatici esaminati (AST,
gGT, e attività protrombinica).
Caratteristiche del donatore e livelli postoperatori di IGF-1. L’età media dei donatori è
risultata di 67.2±2.1 con 20 (64.5%) su 31 che presentavano un’età superiore ai 65 anni. A
partire dal primo mese dopo il LT, i livelli di IGF-1 sono apparsi significativamente più
elevati nei pazienti che hanno ricevuto un graft da donatore più giovane (età ≤ 65 anni).
Tale tendenza si evidenzia già dopo 15 giorni dal trapianto (124 ng/ml vs 93ng/ml) e si
mantiene fino al termine del follow-up (148 ng/ml vs 108 ng/ml) (Figura 10A).
Stratificando la popolazione dei donatori secondo l’ECD-score, 4 (12.9%) pazienti hanno
ricevuto un graft da donatore considerato ideale (ECD-score=0), 11 (35.5%) da donatori
con un fattore di rischio e i rimanenti 16 (51.6%) donatori presentavano 2 o più criteri di
marginalità. Come evidenziato dalla Figura 10B, i livelli plasmatici di IGF-1 nei due
gruppi (ECD-score < o ≥ a 2) sono risultati sovrapponibili fino ad un mese dal LT.
Successivamente, mentre il gruppo che ha ricevuto un graft marginale ha mostrato una fase
di plateau, i soggetti che hanno ricevuto un graft con ECD < 2 hanno mostrato un’ulteriore
crescita dell’IGF-1 raggiungendo un picco a tre mesi pari a 203 ng/ml contro 144 ng/ml
dell’altro gruppo. Dopo i tre mesi anche in questo gruppo si è osservata una riduzione
dell’IGF-1 che tuttavia risulta a lungo termine significativamente più elevato (148ng/ml vs
100ng/ml; p <0.01) rispetto ai livelli registrati dopo trapianto con donatore marginale. Non
54
sono emerse differenze statisticamente significative fra i valori postoperatori medi dei
soggetti che hanno ricevuto un donatore con DRI>1.7 o con punteggio DMELD > 1300.
Outcome clinico e livelli plasmatici di IGF-1. Il follow-up minimo dei pazienti inclusi
nello studio è risultato di 3 anni; nessuno dei pazienti è deceduto entro 15 giorni dal
trapianto o è stato re-trapiantato durante il periodo di osservazione. Ventinove (93.5%)
pazienti su 31 sono stati dimessi dopo una degenza mediana di 16 giorni (range: 8-70
giorni); la degenza ospedaliera è risultata più breve nei 18 pazienti con normalizzazione
precoce (entro 15 giorni) dei livelli sierici di IGF-1 (11 vs 18 giorni; p=0.0589). Secondo
la definizione di Olthoff e colleghi, 11 (35.5%) dei pazienti hanno sperimentato una EAD;
sebbene si sia registrata una tendenza verso livelli di IGF-1 inferiori nel sottogruppo di
pazienti che hanno sperimentato tale complicanza a 15 (86.7±18.4 vs 111.9±15.0 ng/mL;
p=0.3073) e 30 (126.3±21.5 vs 164.0±20.7 ng/mL; p=0.2580) giorni dal trapianto, la
differenza non è risultata statisticamente significativa a nessuno dei time-points
considerati. Il rigetto cellulare acuto (ACR) si è verificato in 6 (19.4%) dei 31 pazienti;
nella maggioranza (5 pazienti su 6) dei casi la severità istologica del rigetto è stata
classificata come lieve-moderata ed il trattamento si è basato sulla somministrazione di
boli steroidei. In 5 (16.1%) pazienti è stata diagnosticata una stenosi biliare a circa 98
giorni dal trapianto (range: 11-297); in tutti i casi la stenosi è stata trattata con successo
mediante colangiopancreatografia retrograda endoscopica. A 12 mesi dal trapianto né
l’evenienza di ACR (122.0±10.6 vs 142.6±23.4 ng/mL) né di BC (129.6±10.1 vs
103.3±33.2 ng/mL) hanno influito significativamente sui livelli plasmatici di IGF-1.
Alla fine dei 3 anni di follow-up previsti, la sopravvivenza attuale dell’intera coorte di
pazienti oggetto dello studio è risultata del 71%. Nove pazienti (6 maschi e 3 femmine)
sono deceduti durante il follow-up; le cause del decesso sono state la disfunzione del graft
complicata da sepsi (3 pazienti), recidiva di HCV (2 pazienti), disfunzione tardiva del graft
(2 pazienti), porpora trombotica trombocitopenica associata disfunzione del graft (1
paziente) e trombosi portale tardiva causata da una patologia trombofilica non specificata
(1 paziente). Va evidenziato come 7 dei 9 pazienti deceduti presentassero valori patologici
di IGF-1 all’ultima visita di controllo disponibile prima della morte. Confrontando le curve
di sopravvivenza dei pazienti con normali livelli di IGF-1 a 15 giorni dal trapianto e dei
pazienti con livelli di IGF-1 ancora ridotti dopo 15 giorni dall’intervento si è osservato che
55
un ripristino precoce dell’asse ormonale risulta associato ad un vantaggio significativo in
termini di sopravvivenza (83.3% vs 53.8%, p=0.0386; Figura 11). Dopo analisi
multivariata, la normalizzazione precoce (entro 15 giorni) dei livelli di IGF-1 è risultata
l’unico fattore prognostico indipendente di sopravvivenza [Exp(b): 3.913; p=0.0484;
Tabella 9].
56
CONCLUSIONI
Molteplici esperienze cliniche hanno documentato le alterazioni dell’asse GH / IGF-1 nei
pazienti affetti da cirrosi epatica, e i peptidi coinvolti sono stati proposti come marcatori di
disfunzione epatocellulare, malnutrizione e sopravvivenza(119,131,132). I bassi livelli
circolanti di IGF-1 riscontrati nell’ insufficienza epatica terminale sono principalmente
riconducibili ad una ridotta sintesi ormonale associata ad una severa resistenza al GH a
livello epatocitario(112,115). Il nostro studio prospettico ha dimostrato che il LT ripristina i
fisiologici livelli sierici di GH e IGF-1 nella maggior parte dei pazienti entro il primo anno
dall'intervento chirurgico. Inoltre, l’IGF-1 riflette accuratamente la riserva funzionale del
graft nel periodo postoperatorio e, per la prima volta, è stato dimostrato il ruolo
prognostico del recupero ormonale sulla sopravvivenza del paziente.
Diversi studi condotti su pazienti cirrotici hanno messo in evidenza la forte correlazione tra
livelli sierici di IGF-1 ed il grado di insufficienza epatica, espresso dal punteggio Child
Pugh(119, 121) e MELD(112) o dai valori di albumina sierica o INR. Tutti i pazienti inclusi nel
nostro studio presentavano bassi livelli plasmatici di IGF-1 e, come recentemente osservato
da Castro e colleghi(133), è emersa una significativa correlazione inversa fra i valori
preoperatori e il MELD biochimico. Nel nostro studio, né l'eziologia della malattia epatica,
né il punteggio di Child-Pugh correla in modo significativo con valori preoperatori IGF-1.
Il drammatico cambiamento metabolico rappresentato dal trapianto porta ad un recupero
completo dell’asse GH / IGF-1 nei riceventi adulti e pediatrici con malattia del fegato allo
stadio terminale(123 133-136). La nostra esperienza indica che l'aumento dei livelli plasmatici
di IGF-1 è direttamente correlato con il recupero funzionale dell’organo trapiantato. A
dimostrazione di ciò, va evidenziata una significativa correlazione con i comuni indicatori
biochimici della funzionalità epatica, quali bilirubina sierica e albumina, durante i primi
mesi dopo LT. Anche se alcuni autori suggeriscono che questo aumento ormonale potrebbe
essere espressione del danno epatocitario o di una iperstimolazione del GH causata dallo
stress chirurgico(137), nel nostro studio non è emersa alcuna correlazione significativa fra
IGF-1 e AST o GH nei time-points considerati. Durante il follow-up dei nostri pazienti,
non abbiamo indagato l'attività di modulazione delle proteine leganti l’IGF-1 (IGFBP)
57
dopo LT; tuttavia, due precedenti esperienze riportano che i valori medi di IGFBP-3, che è
la proteina legante più rappresentata, subiscono un rialzo proporzionale al ripristino
dell’IGF-1(133,138). Ciò suggerisce che la quantità totale di IGF-1 in circolazione
determinato dal test di laboratorio rappresenti un multiplo pressoché esatto della quota di
IGF-1 attivo (non legato). Nel contesto del trapianto epatico, la maggior parte degli studi si
sono concentrati su campioni di sangue prelevati da mesi o anni dopo l'intervento
chirurgico; pertanto non è stato possibile dimostrare nel periodo postoperatorio alcuna
correlazione tra recupero ormonale e la riserva funzionale del fegato. Per la prima volta,
Bassanello colleghi hanno osservato un immediato aumento di IGF-1 dopo la riperfusione
del graft ed il raggiungimento di valori all’interno del range di normalità entro 1 mese
dall’'intervento(128). In questo studio, i 15 pazienti arruolati hanno mostrato un recupero
completo della funzionalità epatica. Come dichiarato dagli stessi autori, l'endpoint
principale dello studio era quello di esplorare la cinetica dell’IGF-1 nelle prime fasi dopo il
LT, dando le stesse possibilità a tutti i pazienti arruolati di ottenere un recupero completo
dell’asse GH / IGF-1. Di conseguenza, sono stati applicati rigorosi criteri di selezione
escludendo i riceventi con prolungato tempo di ischemia, elevata perdita intraoperatoria di
sangue ed i pazienti che hanno ricevuto un graft marginale. Per questo motivo e per il
breve periodo di follow-up considerato, non si potevano trarre conclusioni certe sulla reale
capacità dell’IGF-1 di riflettere la riserva funzionale del fegato trapiantato e prevedere
l'esito del trapianto nel medio termine.
Attualmente la carenza di organi utilizzabili per trapianto rappresenta un problema globale,
pertanto l'utilizzo di fegati "marginali" (prelevati da donatori anziani, steatosici o
emodinamicamente instabili) risulta indispensabile; l'affidabilità di un nuovo indicatore
della qualità del graft dovrebbe essere testato su una popolazione eterogenea di donatori,
tenendo conto delle principali variabili correlate al donatore, al ricevente e al decorso
postoperatorio. Nella nostra serie di pazienti, le caratteristiche dei donatori di fegato (età
media di 67.2 anni e più della metà con 2 o più criteri di marginalità) ci ha permesso di
riconoscere due diversi profili sierici di IGF-1 nel corso del primo anno dopo LT tra coloro
che hanno ricevuto grafts standard o marginali. La curva di ripristino dell’IGF-1 è stata più
sensibile nel distinguere la riserva funzionale del fegato trapiantato dal terzo mese fino ai
12 mesi dal LT rispetto agli altri test di funzionalità epatica che, progressivamente, sono
tornati alla normalità. Anche se un trapianto può essere eseguito con successo impiegando
58
un donatore marginale, nell’ottica di ridurre la mortalità globale in lista di attesa(139), è
ipotizzabile che la riserva funzionale epatica, e di conseguenza la sopravvivenza del graft a
lungo termine, potrebbe essere differente rispetto a quando viene utilizzato un donatore
ottimale. I nostri dati dimostrano che l’IGF-1 è un marker affidabile e di facile impiego
clinico per monitorare la funzione del graft in questa sottocategoria di pazienti. Nella
nostra esperienza, né le complicanze biliari né il rigetto cellulare acuto hanno influenzato
significativamente i livelli postoperatori di IGF-1. Come descritto, il rigetto è stata
classificato come lieve in 5 dei 6 pazienti, e in tutti i casi si è risolto esclusivamente con
terapia steroidea. Analogamente, le stenosi biliari sono state diagnosticate in 5 dei 31
pazienti arruolati nello studio ed il precoce trattamento endoscopico ha consentito il ritorno
alla normalità dei test di funzionalità epatica nel giro di pochi giorni. Il modesto impatto
clinico di tali complicanze può spiegare la mancanza di significative modifiche dell’IGF-1
queste sottocategorie di pazienti.
La valutazione della riserva funzionale epatica prima e dopo il trapianto rimane una
questione cruciale(140). I routinari test biochimici del fegato ed i criteri clinici possono
essere fuorvianti in questo periodo e sono necessari nuovi metodi non invasivi per la
valutazione della funzionalità dell’organo trapiantato e predire la prognosi del paziente.
Negli studi sperimentali e clinici, l’entità della produzione di bile è da tempo riconosciuta
come un importante parametro clinico per diagnosticare una EAD o una PNF e per
discriminare la funzionalità di un graft proveniente da un donatore anziano (o marginale) e
un donatore standard(141-143). Nel nostro studio non sono emerse differenze significative
nella quantità di bile prodotta nei pazienti trapiantati con grafts standard o marginali.
Recentemente, uno studio di Sutton e colleghi, focalizzato su fegati sottoposti a perfusione
normotermica, ha evidenziato una maggior escrezione di bilirubina da parte degli organi
che producevano una maggior quantità di bile. Questi risultati indicano che la qualità della
bile, non solo il volume, possa riflettere la qualità dei fegati trapiantati
(144)
. La
determinazione della concentrazione biliare di IGF-1 potrebbe dunque essere l’obiettivo
dei prossimi studi per valutare la riserva funzionale e la prognosi dei pazienti. Altri metodi
sperimentali, quali la determinazione della proteina legante gli acidi grassi (L-FABP)(145) e
del frammento 4d del complemento(146), possono essere utilizzati come indicatori del danno
agli epatociti e dunque essere in grado di predire una EAD dopo LT; sfortunatamente, la
maggior parte di queste tecniche sono difficilmente riproducibili, richiedono tempi
59
prolungati per la processazione dei campioni e non possono essere utilizzate quindi nella
pratica clinica quotidiana. Analogamente, nonostante diversi studi abbiano dimostrato che
un’alterata clearence del verde di indocianina sia in grado di prevedere le complicanze
postoperatorie e l’esito del trapianto, questo metodo non riesce a fornire informazioni
prognostiche affidabili in ogni singolo paziente poiché l'assorbimento e l'escrezione del
verde di indocianina è influenzata da molteplici fattori, tra i quali colestasi o
iperbilirubinemia, spesso presenti nel periodo perioperatorio(147-149). La misurazione
quantitativa
dell’IGF-1
sierico,
eseguita
con
metodica
immunometrica
in
chemiluminescenza, è una procedura standardizzata, riproducibile e i cui risultati sono
disponibili in tempi brevi. Inoltre, l’iperbilirubinemia coniugata e non coniugata non ha
alcun effetto sulla affidabilità della prova, ed il costo per ogni campione è di circa 9 euro.
Recentemente, Salso e colleghi hanno analizzato la cinetica del ripristino dell'IGF-1 in 30
pazienti trapiantati di fegato dimostrando una significativa correlazione con i livelli sierici
di colesterolo ed evidenziando il valore prognostico dell’IGF-1 sulla sopravvivenza a breve
termine (3 mesi) dopo LT
(150)
. Il notevole follow-up dei pazienti inclusi nel nostro studio
(3 anni) suggerisce che il ripristino di normali valori di IGF-1entro la seconda settimana
dall'intervento identifica i pazienti con prognosi favorevole anche a lungo termine. Inoltre,
l'analisi multivariata ha dimostrato che recupero precoce dell'IGF-1 è un fattore
prognostico indipendente dalla qualità del graft (ECD-score o DRI), dall’evenienza di una
EAD postoperatoria (secondo la definizione di Olthoff e colleghi) o da altri modelli
prognostici come il DMELD.
In conclusione, questo studio è il primo a dimostrare che un rapido recupero dei livelli
sierici dell’IGF-1 è associato con la sopravvivenza a lungo termine del paziente e ad una
degenza ospedaliera più breve nei riceventi di fegato. Questo indicatore si è inoltre
dimostrato un indice affidabile di riserva funzionale epatocellulare ed è in grado di
identificare diversi profili di recupero ormonale tra coloro che hanno ricevuto fegati
standard o marginali. Ovviamente, è necessario un numero maggiore di pazienti per
confermare il significato clinico e prognostico dell’asse GH / IGF-1 nel contesto del LT;
tuttavia, a titolo puramente speculativo, i nostri risultati suggeriscono che l'IGF-1 potrebbe
rappresentare un nuovo test qualitativo da utilizzare nei donatori di fegato, nella speranza
che possa identificare i grafts con riserva funzionale limitata, non in grado di sopportare lo
60
stress rappresentato dalle manovre chirurgiche di prelievo, la conservazione a freddo e la
riperfusione, costituendo dunque un fattore limitante per il successo della procedura.
61
TABELLE
Tabella 1. Indicazioni al trapianto epatico.
EPATOPATIA
EPATOPATIA
CRONICA
ACUTA
a) Natura colestatica:
•
Cirrosi biliare
•
•
Virale (HAV,
•
HBV, HCV,
primitiva
•
sclerosante primitiva •
Carcinoma
Metastasi
Farmaci (alotano,
epatiche da
disulfiram,
tumore
b) Danno
acetaminofene,
neuroendocrino
epatocellulare:
avvelenamento da
•
Epatite cronica
METABOLICHE
•
epatocellulare
HBV-HDV, altri)
Colangite
CAUSE
NEOPLASIE
antitripsina
•
Malattia di Wilson
•
Iperlipoproteinemia
di tipo II
•
funghi)
•
Epatopatia da
farmaci
•
Epatopatia alcoolcorrelata
•
•
Sindorme di
Crigler-Najjar di
virale(HBV,HBVHDV,HCV)
Deficit di alfa-1-
tipo I
Malattie
metaboliche
•
(Sindrome di
Protoporfiria
eritropoietica
Wilson acuto,
•
Sindorme di Reye)
Deficit enzimatico
del ciclo dell’urea
Epatopatia
autoimmune
•
Glicogenosi di tipo
I e IV
c) Danno vascolare:
•
Sindorme di BuddChiari
•
Tirosinemia
•
Emocromatosi
•
Polineuropatia
amiloidotica
familiare
62
Tabella 2. Punteggio Child-Turcotte.
Gruppo
A
B
C
Bilirubina (mg/dl)
<2
2-3
>3
Albumina (g/dL)
>3.5
3-3.5
<3
Ascite
Assente
Controllata
Refrattaria
Encefalopatia
Assente
Minima
Avanzata
Stato nutrizionale
Buono
Discreto
Scarso
Tabella 3. Punteggio Child-Pugh.
Punti
1
2
3
Encefalopatia
Assente
Minima
Avanzata (coma)
Ascite
Assente
Controllata
Refrattaria
Bilirubina (mgl/dl)
<2
2-3
>3
Albumina (gd/L)
>3.5
2.8-3.5
<2.8
Protrombina (s)
1-4
5-6
>6
INR
<1.7
1.8-2.3
>2.3
63
Tabella 4. Confronto tra punteggio Child-Pugh e MELD.
Child-Pugh
MELD
Numero di variabili
5
3
Variabili quantitative
3/5
3/3
Selezione variabili
Su base empirica
Su base statistica
No
Si
Trasformazione logaritmica delle variabili
No
Si
Necessita computazione
No
Si
Variabili indipendenti dal giudizio medico
No
Si
Tipo di punteggio
Discreto
Continuo
Variabili ponderate relativamente
all’influenza
64
Tabella 5. Condizioni che regolano la secrezione del GH.
Stimolanti
Inibenti
Sonno
Stress (fisico o psichico)
Fisiologiche
Iperammoniemia postprandiale
Iperglicemia postprandiale
Acidi grassi liberi elevati
Ipoglicemia post-prandiale
(relativa)
Denutrizione
Anoressia
Patologiche
IRC
Nell’acromegalia: TRH,
GnRH
Ormoni: Insulina, GHRH,
ACTH, Vasopressina,
Estrogeni
Farmacologiche
Obesità
Ipo-ipercortisolismo
Nell’acromegalia: agonisti
dopaminergici
Ormoni: Somatostatina, IGF1, Progesterone,
Glucocorticoidi
Neurotrasmettitori:
Neurotrasmettitori: Agonisti
Antagonisti dopaminergici,
dopaminergici, Precursori
Agonisti serotoninergici,
della serotonina, GABAAntagonisti colinergici
agonisti, Agonisti alfamuscarinici, Antagonisti alfaadrenergici, Agonisti betaadrenergici, Agonisti betaadrenergici
adrenergici.
65
Tabella 6. Effetti metabolici del GH.
Metabolismo delle proteine
-
Stimola la sintesi proteica
-
Favorisce la captazione degli aminoacidi
-
Promuove l’espressione genica, accelerando la trascrizione e
la traduzione di mRNA
Metabolismo dei carboidrati
-
effetto insulino-simile
-
effetto diabetogeno ritardato
Metabolismo lipidico
-
stimola la mobilizzazione di acidi grassi nel tessuto adiposo
-
stimola la conversione degli acidi grassi in acetil-CoA,
utilizzato come substrato energetico
-
promuove la normale espressione dei recettori epatici per le
LDL
Equilibrio elettrolitico e minerale
-
aumentando il flusso plasmatico renale
-
aumenta la filtrazione glomerulare
-
stimola il riassorbimento dei fosfati
-
stimola l’escrezione urinaria di cacio, sodio e potassio
-
stimola l’idrossilazione del 25OHD3 1,25(OH)2D3
66
Tabella 7. Caratteristiche clinico-demografiche dei donatori e dei riceventi della
popolazione in studio.
Variabile
Popolazione in studio (n° 31)
Età del Ricevente al LT (anni)
55.2 ± 1.4
Sesso Maschile del Ricevente (n°;%)
25 (80.6)
MELD-score biochimico
15.3 ± 0.9
Classe di Child-Pugh
A (n°;%)
5 (16.1)
B (n°;%)
16 (51.6)
C (n°;%)
10 (32.3)
Eziologia della Cirrosi
HCV (n°;%)
14 (45.2)
HBV (n°;%)
6 (19.3)
Esotossica (n°;%)
4 (12.9)
Criptogenetica (n°;%)
4 (12.9)
Cirrosi Biliare Primitiva (n°;%)
3 (9.7)
Presenza di HCC (n°;%)
11 (35.5)
Età del Donatore (anni)
67.2 ± 2.1
ECD-score ≥ 2 (n°;%)
16 (51.6)
Donor Risk Index
1.9 ± 0.04
Tempo di Ischemia Fredda (ore)
7.7±0.4
Tempo di Ischemia Calda (minuti)
32.8 ± 0.02
DMELD
1029.1 ± 78.3
NOTE: Le variabili continue sono espresse in media ed errore standard della media (SEM);
Abbreviazioni: LT, liver transplantation. MELD, Model for End-Stage Liver Disease. ECD, extended
criteria donor. DMELD, donor age x recipient MELD.
67
Tabella 8. Analisi di correlazione fra i livelli plasmatici di IGF-1 e i principali tests di funzione epatica ai vari time-points.
Preoperatorio
Test di
funzione
epatica
PT (%)
BT (mg/dL)
r value
(95% C.I.)
-0.260
(-0.562-0.104)
-0.071
(-0.415-0.290)
Albumina
-0.172
(g/dL)
(-0.496-0.194)
AST (U/L)
γGT (U/L)
0.240
(0.124-0.548)
-0.080
(-0.423-0.282)
p value
0.158
0.703
0.354
0.192
0.668
Giornata 15
r value
(95% C.I.)
0.316
(-0.049-0.607)
-0.392
(-0.659—0.037)
0.230
(-0.142-0.545)
-0.245
(-0.556-0.127)
-0.077
(-0.426-0.291)
Giornata 30
p value
0.088
0.032
0.230
0.192
0.684
r value
(95% C.I.)
0.185
(-0.195-0.516)
-0.389
(-0.661—0.027)
0.595
(0.293-0.790)
0.128
(-0.250-0.472)
-0.245
(-0.561-0.133)
Giornata 90
p value
0.338
0.037
0.001
0.508
0.199
r value
(95% C.I.)
0.352
(-0.032-0.646)
-0.166
(-0.508-0.220)
0.555
(0.213-0.775)
-0.281
(0.550-0.180)
-0.097
(-0.460-0.294)
p value
0.072
0.398
0.003
0.281
0.631
Giornata 180
r value
(95% C.I.)
0.323
(-0.131-0.645)
0.110
(-0.363-0.537)
0.235
(-0.207-0.597)
0.354
(-0.079-0.675)
-0.163
(-0.547-0.277)
p value
0.164
0.655
0.292
0.106
0.468
Giornata 365
r value
(95% C.I.)
0.323
(-0.103-0.649)
-0.097
(-0.490-0.328)
0.218
(-0.214-0.578)
-0.223
(-0.589-0.219)
-0.023
(-0.440-0.402)
p value
0.133
0.660
0.318
0.318
0.919
Abbreviazioni: IGF-1, insulin-like growth factor 1; C.I. confidence interval; PT, attività protrombinica; BT, bilirubina totale; AST, aspartato aminotrasferasi; γGT,
gamma-glutamyl trasferasi.
68
Tabella 9. Analisi uni- e multivariata dei fattori di rischio per la sopravvivenza del paziente.
Analisi Univariata
Fattori di Rischio
Analisi Multivariata
Sopravvivenza attuale a 3 anni
(%)
HR
(95% C.I.)
Log Rank
p value
Exp(b)
(95% C.I.)
p value
Età del Ricevente ≥ 60 anni
81.8 vs 65.0
0.5022
(0.129-1.954)
0.3806
DMELD-score ≥ 1300
57.1 vs 75.0
2.059
(0.396-10.698)
0.2956
HCV-RNA positivo al LT
58.3 vs 78.9
2.058
(0.535-7.916)
0.2715
Presenza di HCC
63.6 vs 75.0
1.410
(0.362-5.493)
0.6063
Tempo di Ischemia Totale > 600 minuti
70.8 vs 71.4
0.948
(0.202-4.461)
0.9481
Early Allograft Dysfunction
63.6 vs 75.0
1.735
(0.425-7.078)
0.4050
ECD-score ≥ 2
80.0 vs 62.5
2.035
(0.551-7.518)
0.3039
DRI-score ≥ 1.7
72.0 vs 66.7
0.790
(0.146-4.262)
0.7679
Età del Donatore > 65 anni
60.0 vs 90.9
5.587
(1.481-21.077)
0.0664
4.131
(0.492-34.652)
0.1912
Patologici livelli sierici di IGF-1 in 15° giornata
53.8 vs 83.3
3.858
(0.973-15.300)
0.0386
3.913
(1.012-15.749)
0.0484
Abbreviazioni: HR, hazard ratio; IGF-1, insulin-like growth factor 1; LT, liver transplantation; ECD, extended criteria donor; DMELD, donor age x Model for End
Stage Liver Disease; DRI, Donor Risk Index; HCV, hepatitis C virus; HCC, hepatocellular carcinoma.
69
FIGURE
Figura 1. Sopravvivenza del paziente in base all’epoca di trapianto (dati CTS)
70
Figura 2. Sopravvivenza del paziente in base all’urgenza del trapianto (dati CTS).
Figura 3. Sopravvivenza del paziente a seconda dell’indicazione al trapianto (dati CTS).
71
Figura 4. Sopravvivenza dei pazienti trapiantati per patologia neoplastica in base all’epoca
di trapianto (dati CTS).
Figura 5. Sopravvivenza del paziente in base all’età del donatore (dati CTS).
72
Figura 6. Sopravvivenza del paziente in base al tempo di ischemia fredda (dati CTS).
Figura 5. Sopravvivenza del paziente in base alla qualità del donatore (dati CTS).
73
Figura 8. Livelli sierici di A) ormone della crescita (GH) e B) insulin-like growth factor 1
(IGF-1) prima e dopo il trapianto di fegato. I valori sono espressi in media ± errore
standard della media. Per identificare le differenze statisticamente significative tra i valori
ormonali al passare del tempo è stato utilizzato il test t di Student per campioni appaiati. *
p <0.05 rispetto al valore precedente;
Ω
p <0.01 rispetto al valore basale (pre-LT).
Abbreviazioni: IGF-1, insulin-like growth factor 1; LT, liver transplantation; GH, growth
hormone.
74
Figura 9. Percentuale di pazienti con normali valori di IGF-1 prima e dopo il trapianto. Il
range di riferimento per l’IGF-1 è definito dall’International Reference Reagent for IGF-I
(87/518) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed è compreso tra 114 ng/mL e 492
ng/mL per i soggetti di età inferiore a 40 anni, tra 90 ng/mL e 360 ng/mL per i soggetti di
età compresa fra 41 e 55 anni e tra 71 ng/mL e 290 ng/mL per i soggetti di età superiore a
55 anni.
75
Figura 10. Livelli sierici postoperatori di insulin-like growth factor 1 (IGF-1) suddivisi in
base a A) età del donatore e B) extended criteria donor (ECD) score. I valori sono espressi
in media ± errore standard della media. Le differenze statisticamente significative fra i
valori ormonali postoperatori dei diversi sottogruppi sono state identificate mediante il test
t di Student per campioni non appaiati. Abbreviazioni: IGF-1, insulin-like growth factor 1;
LT, liver transplantation; ECD, extended criteria donor.
76
Figura 11. Analisi della sopravvivenza attuale a 3 anni dei pazienti con normali (linea
continua) o patologici (linea tratteggiata) livelli sierici di IGF-1 in 15° giornata
postoperatoria. La differenza di sopravvivenza è stata analizzata con il Log Rank test.
Abbreviazioni: IGF-1, insulin-like growth factor 1; LT, liver transplantation; POD,
postoperative day.
77
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