Il Laurus nobilis richiama un mito famoso, quello di Apollo e Dafne

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Il Laurus nobilis richiama un mito famoso, quello di Apollo e Dafne
ALLORO
Il Laurus nobilis richiama un mito famoso, quello di Apollo e Dafne, narrato da Ovidio nelle
Metamorfosi. Dafne era figlia e sacerdotessa di Gea, la Madre Terra. Era una giovane ninfa che
viveva serena nella quiete dei boschi, la cui vita fu stravolta a causa del capriccio di due divinità:
Apollo ed Eros. Un giorno Apollo, fiero di avere ucciso a colpi di freccia il gigantesco serpente
Pitone alla tenera età di quattro giorni, incontrato Eros che era intento a forgiare un nuovo arco, si
burlò di lui per il fatto che non aveva mai compiuto delle azioni degne di gloria. Il dio dell’amore,
profondamente ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò la sua
vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l'amore, che lanciò nel
cuore di Dafne, ed un'altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò
con violenza nel cuore di Apollo.Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi
alla ricerca della ninfa. Alla fine riuscì a trovarla, ma Dafne, appena lo vide, scappò
impaurita.Accortasi però che la sua corsa era vana, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa,
impietosita dalle richieste della figlia, iniziò a rallentare la sua corsa fino a fermarla e
contemporaneamente a trasformare il suo corpo. Così narra Ovidio
“Ha appena finito di pronunciare queste parole che un pesante torpore le invade le
membra: il morbido petto è racchiuso in una sottile corteccia; i capelli si allungano fino
a diventare fronde, le braccia rami; i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da
inerti radici; il viso diviene la cima dell’albero. Solo il suo splendore le resta.
Ma anche così Febo (Apollo) l’ama e ponendo la mano sul tronco sente battere ancora il
suo cuore sotto la corteccia appena spuntata, stringendo fra le braccia i rami come se
fossero membra dell’amata, copre di baci la pianta. La pianta tuttavia cerca di evitare
quei baci. Allora il dio così parla: "Poiché non puoi essere la mia consorte, ebbene sarai
il mio albero. La mia chioma, la mia cetra, la mia faretra saranno sempre inghirlandate
di te, o alloro!"
Ancor oggi si è soliti cingere il capo di coloro che compiono imprese memorabili con una corona di
alloro, un tempo riservata ai poeti..
Ovidio probabilmente aveva rielaborato la parte finale di un mito greco in cui si narrava della
passione del principe Leucippo per Dafne che, amante della caccia e della vita selvaggia, viveva sui
monti insieme alle sue compagne. Leucippo si travestì da fanciulla per starle vicino e le riuscì
talmente gradito che Dafne non se ne voleva mai allontanare. Apollo, per gelosia, ispirò alle
fanciulle il desiderio di bagnarsi in una fonte; naturalmente Leucippo non volle spogliarsi, ma le
giovani lo costrinsero con la forza e scoprirono il suo segreto; gli dei per salvarlo lo resero invisibile
e Apollo ne approfittò per avventarsi su Dafne, che riuscì a sfuggirgli e…
Pare che questo mito a sua volta risenta di un culto preellenico praticato nella valle di Tempe. Qui
regnava una dea “Dafenissa”, la sanguinaria, venerata dalle Menadi, orgiastiche masticatrici di
foglie d’alloro o d’edera, che ogni anno uccidevano il loro re Leucippo, cioè “lo stallone bianco”. Il
mito testimonia probabilmente la marcia trionfale, e violenta, di Apollo sui culti femminili
precedenti, anche se in realtà le caratteristiche della pianta non collimano affatto con quelle solari
del dio, poiché il suo fogliame è verde scuro, i frutti maturi sono neri, i fiori piccolissimi. A Delfi
comunque uno dei sei templi pare fosse interamente costruito con frasche d’alloro e che la Pizia,
coronata d’alloro, cadesse in trance dopo aver aspirato dal suo tripode il fumo delle foglie bruciate o
averle masticate: esse hanno effetti blandamente ipnotici e per questo l’albero era designato con il
nome di “mantikon phyton”.
Il monte Parnaso, che domina Delfi, era la dimora delle Muse, che portavano anch’esse un ramo
d’alloro. Così canta Esiodo all’inizio della sua Teogonia
“Esse una volta a Esiodo insegnarono un canto bello,
mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicona;
le Muse d'Olimpo, figlie dell'egioco Zeus:
"O pastori, cui la campagna è casa, mala genia, solo ventre,
noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero,
ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare".
Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare
e come scettro mi diedero un ramo d'alloro fiorito,
dopo averlo staccato, meraviglioso; e mi ispirarono il canto
divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è”
Secondo Elémire Zolla la pianta era sacra anche ad Asclepio, figlio di Apollo, insieme al più noto
serpente, e rappresentava la rinascita primaverile della natura. In effetti fu usata come pianta
medicinale, in particolare contro la peste e come difesa dai fulmini, credenza ripresa da Svetonio
che, a proposito dell’imperatore Tiberio, riferisce: "Quanto a cose di religione era molto incurante,
dedito qual era all'astrologia e convinto che tutto fosse mosso dal fato. Aveva però un'eccessiva
paura dei tuoni e, quando il cielo era scuro, non rinunciò mai a portare la corona d'alloro, poiché si
dice che questa pianta non sia mai colpita dalla folgore." Pare tuttavia che l’imperatore, per maggior
sicurezza, facesse anche scavare profondissime buche dove rifugiarsi per non sentire neppure il
rombo dei tuoni.
L’alloro era molto amato già dagli Etruschi, nel cui territorio erano diffusi i “laureti” ed erano
d’alloro le corone che ornavano la stanza triclinaria etrusca.
Anche i Romani conservavano sull’Aventino un bosco di allori sacri a scopo espiatorio e a Roma
l’alloro era considerato una delle piante fondamentali in un giardino, ma era anche simbolo di
gloria, tanto che le lettere che recavano la notizia di una vittoria erano dette “litterae laureatae”
perché venivano lette con un ramo d’alloro in mano. “Brandito in mezzo ai nemici armati è segno di
tregua” scrive a sua volta Plinio. Gli Auguri, invece, ne ricavavano i loro responsi, che erano fausti
solo se le foglie, gettate nel fuoco, crepitavano. Pare che questa usanza si sia mantenuta a lungo
nelle campagne.
L’alloro proteggeva anche i mercanti, se è vero che in occasione della festa di Mercurio il 15
maggio essi aspergevano le mercanzie con un ramo di alloro bagnato in una fontana.
Plinio racconta inoltre che Livia Drusilla, sposa di Augusto, un giorno vide cadersi in grembo una
gallina bianchissima che un’aquila aveva lasciato cadere senza che si ferisse; la gallina aveva nel
becco un ramoscello d’alloro carico di bacche. Gli aruspici ordinarono di allevare con ogni cura il
volatile e di piantare il ramo accanto alla casa di Augusto, che da allora venne chiamata “Ad
gallinas albas”. Ne nacque prodigiosamente un boschetto dal quale i generali prendevano i rametti
da tenere in mano durante le battaglie. Prosegue Plinio “Si trasmise così la consuetudine di piantare
i rami che essi avevano tenuto in mano, ed ancora esistono i boschetti con l’indicazione dei loro
nomi e si vide che alla morte di ciascuno di essi l’albero da lui piantato inaridiva." Lo storico
Svetonio riferisce poi “Nell’ultimo anno di Nerone la selva intera arse sino alle radici e tutte le
galline vi morirono"
Oggi si “laureano” gli studenti ed il termine francese “baccalauréat” rimanda all’uso medioevale di
incoronare i dottori con corone ornate di drupe d’alloro.
Dunque le due voci “alloro” e “lauro” convivono e la seconda ha sicuramente ispirato Petrarca nel
cantare l’amatissima Laura. Nel sogno, o nella visione, che ha ispirato il sonetto 190 delle “Rime
sparse”, l’alloro simboleggia l’aspirazione alla gloria che, unita all’amore, segnò l’esistenza del
poeta, due passioni effimere, ma le più nobili che l’uomo possa perseguire.
Una candida cerva sopra l’erba
verde m’apparve, con duo corna d’oro,
fra due riviere, all’ombra d’un alloro,
levando ’l sole a la stagione acerba.
Era sua vista sí dolce superba,
ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro:
come l’avaro che ’n cercar tesoro
con diletto l’affanno disacerba.
" Nessun mi tocchi - al bel collo d’intorno
scritto avea di diamanti et di topazi - :
libera farmi al mio Cesare parve ".
Et era ’l sol già vòlto al mezzo giorno,
gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi,
quand’io caddi ne l’acqua, et ella sparve.
L’etimologia del nome Laurus non è certa. Alcuni studiosi la riferiscono al latino “laus” per le
innumerevoli proprietà della pianta, altri ad un termine celtico che significa “verdeggiante”.
Dal punto di vista botanico non bisogna confondere il “Laurus nobilis” con il lauroceraso (Prunus
laurocerasus), una Rosacea, mentre l’alloro è una Lauracea, l’unico rappresentante europeo di
questa famiglia, che annovera alberi importanti, ma non autoctoni, come la canfora (Cynnamomum
camphora), la cannella (Cynnamomum zeylanicum), la cassia e l’avocado (Persea americana).
L’alloro è un vero e proprio albero, tipico delle zone meno aride del Mediterraneo.
Le foglie sono scure, coriacee, lucide nella parte superiore e opache in quella inferiore, ellittiche
con il margine ondulato e molto profumate.
L'alloro è una pianta dioica che porta cioè fiori maschili e fiori femminili su piante separate, ma nei
fiori femminili sono presenti 2-4 staminoidi (cioè petali modificati che sono residui di stami non più
funzionali), il che fa pensare che originariamente i fiori non fossero unisessuali, ma che questa sia
una caratteristica dovuta all’evoluzione.
I fiori ermafroditi infatti rischiano l’autoimpollinazione, cioè il processo nel quale il polline cade
dalle antere sugli stimmi dello stesso fiore, ostacolando così la mescolanza dei geni. Per impedirla i
fiori hanno sviluppato diverse strategie, una delle quali è appunto la produzione di fiori unisessuali,
un’altra è la dislocazione in tempi diversi della maturazione di polline ed ovuli, un’altra ancora è la
nascita di un gene che provoca l’autoincompatibilità.
I fiori dell’alloro, di colore giallo avorio, sono riuniti a formare una infiorescenza ad ombrella.
I frutti sono drupe con un solo seme, nere e lucide quando sono mature.
L’alloro ha svariate proprietà, ad esempio le foglie contribuiscono ad allontanare i parassiti, tanto
che un tempo erano utilizzate per preservare le pergamene, rendono tonificante l’acqua del bagno,
danno sollievo in caso di punture di api e vespe. Tradizionalmente si usava l’unguento laurino,
ottenuto con olio mescolato ad una pasta ricavata dalle drupe, per attenuare i dolori reumatici.
In cucina poi gli usi vanno dalla marinatura delle carni all’aromatizzazione dei legumi in cottura,
delle verdure sott’olio e degli insaccati di maiale. I fichi secchi e i formaggi possono essere
racchiusi nelle foglie d’alloro, i frutti essiccati possono essere polverizzati come si fa con la noce
moscata. Occorre solo prestare attenzione alle dosi, perché un uso eccessivo potrebbe dare un
sapore amarognolo alle preparazioni. Le foglie e i frutti sono utilizzati in liquoristica per le loro
proprietà aromatiche e digestive
Linneo pose l’alloro, insieme al garofano, al primo posto nella scala dei sette toni delle vibrazioni
odorose, ritenendolo particolarmente gradevole. Linneo suddivise così gli odori
- aromatico, come il garofano e l’alloro
- fragrante come il giglio o il gelsomino
- muschioso
- agliaceo
- fetido come la valeriana
- ripugnante come le solanacee
- nauseabondo come la carne in putrefazione ma anche le cucurbitacee
Il pregiato sapone d’Aleppo, progenitore del più diffuso Marsiglia, contiene fino al 60% di olio di
alloro. Conserva giustamente il nome della città siriana perché i suoi primi fabbricanti erano Arabi,
anzi furono i primi a produrre un sapone solido, che arrivò in Europa all’epoca delle Crociate. Alla
fine del processo di saponificazione si aggiunge olio d’alloro, che dà una colorazione verdastra. Il
sapone viene commercializzato dopo 12 mesi circa, quando ha assunto un più gradevole tono
dorato.
All’alloro sono dedicate anche feste tradizionali. Per la prima ascoltiamo il racconto di Giuseppe
Pitré
“E’ la domenica precedente il 19 marzo, festa di S. Giuseppe, e le campane di Ribera suonano
mezzogiorno. Un’immensa folla è accorsa all’”entrata dell’alloro”. Ed ecco due lunghe file di
cavalieri farsi innanzi giubilanti con un grosso ramo d’alloro ciascuno, che, ossequienti alla vecchia
usanza, sono andati a raccogliere in un vicino bosco e che portano per la stragula. Il loro arrivo è
accolto con liete grida, con razzi lanciati in aria e con pezzi musicali. E girano in vero trionfo il
paese, fino a ridursi alla casa del governatore, dove vengono trattati con generose offerte di vino.
Da questo momento la festa può dirsi cominciata e non si perde un istante ad allestire la stragula,
una torre alta una decina di metri, dall’estremità a forma di corona. Il rivestimento è di rami d’alloro
e tutta la superficie è coperta di grossi buccellati di pane. La quantità è tale che rappresenta
l’abbondanza, mentre l’alloro la gloria del taumaturgo. Nel davanti è collocato un quadro di S.
Giuseppe, il padre della Provvidenza.”
La seconda festa si svolge tuttora a Dolceacqua la domenica più vicina al 20 gennaio, S. Sebastiano.
Nel pomeriggio di snoda la processione con la statua del santo e un bell’albero di alloro ornato con
grandi ostie, portato a turno dai membri delle Confraternite che sfilano nei costumi tradizionali. E’
particolarmente suggestivo l’attraversamento del rio sul vecchio ponte a schiena di mulo. Il legame
con S. Sebastiano nasce dalle rappresentazioni del suo martirio poiché il santo è legato al tronco di
un alloro. Un’altra interpretazione vede nella scelta dell’alloro una pianta che mantiene il suo verde
anche d’inverno, mentre le ostie simboleggerebbero l’arrivo della primavera.
Chiediamoci infine “Perché non è salutare dormire sugli allori?” Nel momento dell’esaltazione per
una vittoria si abbassano le difese e se, come capita, ci è riservata una nuova prova, ci troviamo
impreparati.