N.3-2006 Maggio - Giugno

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N.3-2006 Maggio - Giugno
ALLENATRI
A cura di:
Mario Miglio, Responsabile Didattico SIT Fitri
Costantino Bertucelli, Responsabile Centro Studi e Ricerche Fitri
Roberto Tamburri, Direttore Tecnico Fitri
Chiara Casagrande, Responsabile Organizzativo SIT Fitri
RIVISTA TECNICO SCIENTIFICA DELLA
FEDERAZIONE ITALIANA TRIATHLON
In questo numero hanno collaborato:
Costantino Bertucelli - Responsabile
Centro Studi e Ricerche Fitri
Pietro Trabucchi - Psicologo squadre
Nazionali Federazione Italiana Triathlon
Giacomo Vinci - Tecnico Fitri
Maggio 2006
Il controllo del carico
d’allenamento
di Costantino Bertucelli
Abstract
Il sovrallenamento o “overtraining” è una delle
conseguenze più temute di un programma
d’allenamento che non sia coerente, coordinato e controllato. Un eccesso di carichi allenanti, invece di elevare il livello prestativo dell’atleta, può provocarne uno scadimento. Tale decremento, a volte subdolo, può sembrare senza apparenti motivazioni razionali. Obiettivo
dell’ articolo è di descriverne le caratteristiche
al fine di poterlo prevenire.
Il sovrallenamento (overtraining) – definizione
Il sovrallenamento è stato definito, da diversi
autori, come
♣ "uno squilibrio tra allenamenti, competizioni e tempi di recupero", ossia un eccesso di allenamenti e di gare, associato a tempi di recupero insufficienti
♣ “condizione nella quale la somma degli
effetti biologici negativi provocati da allenamenti troppo intensi e/o gare ravvicinate si traduce in una incompleta rigenerazione funzionale di tutti i sistemi
cellulari"
♣ termine generale indicante che l’individuo è stato sottoposto a stress, derivanti dall’allenamento e da altri eventi
estranei (es. stile di vita), al punto da
non essere in grado di esprimere una
prestazione di livello ottimale dopo un
appropriato periodo di rigenerazione;
per una diagnosi di sovrallenamento è
necessaria una caduta della prestazione
Kuipers definisce l'overtraining come uno squilibrio tra allenamento e recupero provocante
una disfunzione del sistema neuroendocrino a
livello ipotalamico.
Fry, parla di un abnorme aumento del volume o
dell'intensità d'allenamento con decremento
della performance. Furono soprattutto Fry et
coll. a mettere l’accento sul fatto che è indispensabile il riscontro di un calo prestativo, in
aggiunta agli altri elementi, per potere affermare che un atleta si trova in una situazione di
sovrallenamento.
Definizione del problema
In merito agli elementi della struttura dell’allenamento che favoriscono l’insorgenza del sovrallenamento, si è portati a ritenere che incida
maggiormente il volume di lavoro (specie quello caratterizzato da intensità relativamente elevate), rispetto all’intensità di per sé. Infatti
l’elevazione del volume allenante porta come
conseguenza una contrazione delle giornate
dedicate al recupero
Il rischio di overtraining, tuttavia, è soprattutto
in relazione con gli squilibri tra i rapporti di carico e scarico nel programma d’allenamento
Infatti, forti carichi di lavoro possono essere
tollerati anche per lunghi periodi di tempo senza arrivare all' overtraining applicando i corretti
principi dell’alternanza del carico. Il termine
"sovrallenamento" è tuttora discusso e alcuni
lo ritengono improprio, in quanto indicherebbe
che la causa del calo prestativo debba essere
ricercata esclusivamente nell’ eccessiva quantità dei carichi allenanti. In realtà, si è potuto
osservare che le cause dello scarso rendimento sono molteplici e non correlate esclusivamente a errori nella pianificazione degli allenamenti
Non esiste una netta demarcazione tra la normale fatica risultante dall’allenamento e il sovrallenamento (overtraining); vi è tuttavia una
fase intermedia, rappresentata dal sovraffaticamento (overreaching o sovrallenamento a
breve termine). Una delle caratteristiche che
distinguono il sovrallenamento a breve termine
da quello a lungo termine, è la constatazione
che dal primo, dopo un adeguato recupero, è
possibile ottenere dei miglioramenti prestativi,
mentre una volta incorsi nel secondo, l’unica
via di uscita è una fase di recupero che si protragga per diverse settimane, la quale non
comporterà comunque miglioramenti della performance, bensì la necessità di ripartire da una
bassa condizione fisica.
stato di fatica \ stress da allenamento
Dopo alcuni allenamenti pesanti per intensità e
durata, è fisiologico che compaia uno stato di
fatica, di stress; se vengono rispettati i tempi di
recupero, la fatica scompare e la supercompensazione favorisce il ripristino e, anzi, il miglioramento delle capacità prestative. In tal
senso sono sufficienti uno o due giorni di recupero o, al massimo, un periodo di sette giorni (microciclo di scarico o rigenerazione), in cui
vengono effettuati allenamenti di scarico blandi
perché la sintomatologia scompaia. Siamo all’interno di un normale andamento dei processi
adattativi dell’organismo sottoposto a un programma di allenamento.
Overreaching (short-term overtraining)
definizione
Transitoria riduzione delle capacità prestative,
la cui durata abbraccia un periodo di tempo
relativamente breve (da alcuni giorni fino a due
settimane) L’atleta avverte uno stato di fatica
superiore a quello che dovrebbe derivare da un
normale carico allenante e non va confuso con
le normali fluttuazioni prestative che si verificano nell’atleta di giorno in giorno, tuttavia la fatica può essere smaltita con un adeguato recupero e ciò non compromette i processi di
supercompensazione. Si traduce in una riduzione o mancato incremento della capacità di
prestazione intorno alle 4mM\L di lattato
caratteristiche
Sovrallenamento o Overtraining
Quando l’atleta viene esposto acutamente ad
allenamenti estenuanti, a competizioni ripetute
e, non di meno, ad altri tipi di stress (ambiente
lavorativo e familiare) tanto da non essere più
in grado di esprimersi a livelli di rendimento
ottimali, nemmeno dopo un appropriato periodo di scarico e di recupero, allora è giusto parlare di sovrallenamento o di "overtraining". Va
sottolineato che, per poter diagnosticare con
sicurezza uno stato di sovrallenamento, è indispensabile documentare un calo delle capacità
prestative. Nell’ambito del sovrallenamento,
occorre poi distinguere due diverse forme: il
sovrallenamento a breve termine (short-term
overtraining) o "overreaching" e il sovrallenamento a lungo termine (long-term overtraining)
o "overtraining sindrome".
A volte tale situazione viene espressamente
ricercata dagli allenatori che la ritengono una
componente normale dell’allenamento, specie
se indirizzato alla ricerca di adattamenti massimi in funzione di una competizione. Alla base
dell’overreaching sembra esservi una fatica di
tipo "periferico" e, quindi, più tipicamente
muscolare. Qualora una prestazione negativa,
dovuta a uno stato di overreaching, non venisse riconosciuta immediatamente, l’allenatore
potrebbe essere indotto ad aumentare ancora i
carichi di lavoro, con l’intento di compensare il
gap prestativo: in tal caso il risultato sarà di
peggiorare la situazione, facendo scivolare
l’atleta verso l’ "overtraining sindrome". Quella
dell’overreaching è pertanto una fase molto
delicata, che deve essere riconosciuta onde
evitare il rischio di peggiorare il quadro.
Overtraining sindrome (long-term overtraining)
definizione
sindrome caratterizzata da uno stato di esaurimento psicofisico di tipo cronico (prolungata
nel tempo), che si associa a un calo della "performance" associata a sintomi di tipo
♣ organico (senso di fatica sia a riposo
che in esercizio, stasi della capacità
d’adattamento, riduzione della capacità
di prestazione intorno alle 4mM\L di lattato)
♣ muscolare (dolenzia, faticabilità eccessiva),
♣ psichico (sbalzi del tono dell’umore,
inappetenza, disturbi del sonno, diminuzione della motivazione)
La prognosi è più severa: tale sindrome può
durare settimane o mesi
caratteristiche
Una volta instauratasi, a differenza dell’overreaching, compromette i processi di supercompensazione. L’atleta appare svuotato, demotivato e nell’assoluta impossibilità di reagire positivamente agli stimoli indotti dall’allenamento.
Implica uno stato di fatica di tipo "centrale",
caratterizzata da alterazioni delle capacità di
concentrazione e di motivazione.
Nell’ ambito dell’ overtraining vanno differenziate due forme:
 overtraining di tipo
"simpatico"
caratterizzato da un’aumentata attività, in condizioni di riposo, del sistema nervoso simpatico, che implica accelerazione del battito cardiaco, eccitazione e irrequietezza. È più frequente negli sport a prevalente componente
esplosiva, quindi di tipo anaerobico, e colpisce
più frequentemente gli atleti giovani.
Nel determinarlo, agli stress indotti dall’allenamento, si uniscono fattori socio-lavorativi ed
ambientali. Riveste notevole importanza, nel
determinismo della forma simpatica, anche la
monotonia legata agli allenamenti.
Sintomi caratteristici del sovrallenamento a
dominanza “simpatica”
a livello prestativo
o calo della performance
o diminuzione della forza
o diminuzione della potenza massima
o fatica generalizzata
o difficoltà di recupero
a livello cardiocircolatorio
o aumento della frequenza cardiaca a riposo
o aumento della pressione sanguigna a
riposo
o rallentamento della velocità di recupero
della fc al termine di un carico
a livello antropometrico
o diminuzione della massa corporea, associata a perdita di grasso corporeo e\o
a bilancio azotato negativo (calo tessuto
muscolare)
a livello immunologico
o aumento della suscettibilità alle infezioni
ed alle malattie, con modificazioni dei
profili ematici immunologici
o riattivazione di herpes virali
a livello emotivo e comportamentale
o demotivazione nei confronti dell’allenamento e della competizione
o disturbi del sonno
o instabilità emotiva
o diminuzione dell’appetito
o apatia e senso di depressione
o difficoltà di concentrazione
Si tratta di una serie molto vasta di sintomi
che, tuttavia, quando compaiono singolarmente, se non accompagnati da calo della performance, non possono essere imputati ad una
situazione di sovrallenamento
overtraining di tipo
"parasimpatico"
caratterizzato da una soppressione dell’attività
del simpatico e non da una vera e propria dominanza del parasimpatico. Ne deriva un tipico
atteggiamento apatico e depresso (ridotta
pressione sanguigna, ridotta fc a riposo, facilità nel sonno e nel riposo). Si riscontra prevalentemente negli sport di resistenza aerobici e
nei soggetti più anziani ed è più difficile da individuare, perché i sintomi sono meno eclatanti
e allarmanti.
Il soggetto, infatti, si presenta in condizioni di
buona salute, senza insonnia (piuttosto con la
tendenza a dormire di più) senza perdite di peso e con appetito normale.
E’ la forma più ingannevole: è infatti caratterizzata da una serie di elementi che facilmente
potrebbero essere confusi con le modificazioni
positive indotte dall’allenamento (per esempio,
una più bassa frequenza cardiaca a riposo e
un più rapido recupero della frequenza cardiaca stessa dopo sforzo)
Sintomi caratteristici del sovrallenamento a
dominanza “parasimpatica”
o abbassamento della fc a riposo
o più rapido recupero della fc al termine
dello sforzo
o decremento della concentrazione di lattato a carichi submassimali
o decremento della produzione di lattato
durante esercizio
o diminuzione livelli plasmatici di adrenalina e noradrenalina al termine di sforzo
incrementale condotto fino a livelli massimali
o facilità d’affaticamento
o ipoglicemia durante esercizio
o comportamento flemmatico o depresso
Diagnosi di Overtraining - markers per la diagnosi precoce e preventiva
Non esiste “il test” o “il marker” che rivela lo
stato di sovrallenamento; per un sicuro riconoscimento del problema, occorre incrociare diverse informazioni, riguardanti innanzitutto il
livello prestativo del soggetto ( non si può parlare di sovrallenamento se la prestazione non è
peggiorata), quindi parametri ematochimici e
psicologici. L’alterazione di alcuni importanti
parametri, insieme ai segni e ai sintomi della
sindrome, possono rendere più facile la diagnosi di overtraining.
L’elemento centrale della sindrome è naturalmente la riduzione della "performance", che
dovrebbe essere quantificata attraverso il ri-
corso a test funzionali più o meno complessi e
precisi (determinazione del massimo consumo
di ossigeno, della massima produzione di lattato, ecc.), ma che spesso appare chiara già dalla semplice analisi dei risultati ottenuti nelle gare o dal comportamento dell’atleta.
Per facilitare la diagnosi sono stati proposti e
utilizzati numerosi indicatori biochimico-umorali, tuttavia la sensazione generale è che nessuno di questi indicatori da solo è in grado di
consentire una diagnosi di certezza, e per tale
motivo, essa deve scaturire da un’analisi complessiva dello stato psicofisico dell’atleta e da
una corretta interpretazione di tutti i parametri
funzionali ed ematochimici disponibili. Quando
i segni di OT si rendono evidenti è già troppo
tardi, per cui è necessario prevenirli.
Gli studi fatti per identificare markers in grado
di monitorare precocemente la sindrome sono
numerosi e spesso contrastanti ma emergono
alcuni aspetti di particolare interesse che di
seguito vengono trattati
Glutamina
E’ noto che il sistema immunitario prende parte
importante nel meccanismo d’insorgenza del
sovrallenamento. L’atleta sovrallenato può subire una significativa diminuzione delle difese
immunitarie, responsabili di una maggiore vulnerabilità alle infezioni, particolarmente delle
prime vie respiratorie. Fra le ipotesi di depressione del sistema immunitario vi è una diminuzione "da consumo" dei livelli ematici di glutamina, amminoacido essenziale per le sintesi
proteiche che avvengono all’interno del sistema immunitario.
È interessante notare che il calo della glutamina si verifica solo per sforzi esaustivi e prolungati (es. maratona), e non per esercizi anche
intensi, ma di durata minore. Mackinnon e Parry-Billings hanno studiato a fondo la cinetica
della glutamina notando che durante l'esercizio
gli aminoacidi, glutamina compresa, aumentano in circolo dal 30 fino al 300 %.
Va tenuta presente la funzione tampone degli
aminoacidi (in particolare dell’alanina) così come il ruolo energetico del glutamato che può
essere trasformato in succinato ed entrare nel
ciclo di Krebs.
Durante l'esercizio fisico i livelli plasmatici di
glutamina aumentano per poi diminuire durante il riposo e tornare al livello pre-esercizio dopo qualche ora.
In condizioni di stress la glutamina diminuisce
soprattutto nel muscolo scheletrico.
Nell'OT la glutamina sembra significativamente
diminuita e a questo deficit viene attribuito
l'aumento della frequenza delle infezioni delle
vie respiratorie.
Eccitabilità Neuromuscolare
Lehmann indica la ridotta eccitabilità neuromuscolare (NME) come marker di OT.
La minima corrente pulsata rettangolare in
grado di generare una singola contrazione muscolare (con differenti valori di durata della pulsazione) viene indicata come indice della eccitabilità neuromuscolare (NME ) La NME è migliore nel soggetto ben allenato mentre deteriora notevolmente nelle prime fasi dell'OT; infine, dopo due settimane di riposo (rigenerazione dell'OT), mentre la NME ritorna ai livelli
normali, i sintomi dell'OT permangono. Quindi
la NME può essere un marker di inizio dell'OT ,
ma non del ripristino della condizione fisiologica.
Ferro e ferritina
La ferritina è un indice della consistenza dei
depositi del ferro nell’organismo. Quando il ferro viene consumato in grande misura per un
aumentato fabbisogno in relazione ai carichi di
allenamento o per aumento delle perdite con la
sudorazione, è necessario che le riserve contenute nei depositi vengano ricostituite rapidamente. La carenza di ferro nel sangue e nei
depositi può essere determinata, oltre che da
un aumento dei consumi, anche da un insufficiente apporto con la dieta o da una scarsa
assimilazione attraverso il tubo digerente. È
consolidata la convinzione che livelli soddisfacenti del ferro nel sangue (sideremia) e nei depositi (ferritinemia) consentano migliori prestazioni atletiche, anche perché mantengono elevata la concentrazione dell’emoglobina. Non è
provato il contrario, ma è pur vero che atleti
che manifestano un calo delle prestazioni presentano, a volte, un metabolismo del ferro deficitario. Anche un aumento dei valori della ferritina, e non solo un calo, potrebbe rappresentare un marker di uno stato di affaticamento, in
quanto una significativa elevazione del valore
di questo parametro si riscontra nel corso di
malattie infiammatorie o di malattie infettive.
Emoglobina ed ematocrito
L’emodiluizione, causata dall’espansione del
volume del plasma, conduce inevitabilmente a
una diminuzione dei valori di concentrazione
dell’ematocrito e dell’emoglobina. In realtà,
non si registra una vera e propria diminuzione
della parte corpuscolata del sangue (globuli
rossi, bianchi e piastrine), ma solo una sua diluizione. L’espansione del volume plasmatico,
che determina l’emodiluizione, rappresenta un
adattamento positivo tipico delle attività sportive di tipo aerobico come il ciclismo, e il calo
dei valori di concentrazione dell’ematocrito e
dell’emoglobina non comporta un calo delle
"performance", almeno fino a quando non si
associno anche deficienze di ferro, distruzione
dei globuli rossi durante esercizio fisico (emolisi) e disturbi della formazione dei globuli rossi
da parte del midollo osseo. In tal caso si instaura un’anemia che dallo stato prelatente
può passare al latente e, infine, all’anemia
conclamata.
Peso corporeo
Nel pieno della stagione agonistica, oltre al
massimo livello di prestazione, si raggiunge la
stabilità del peso ponderale. Tutto il lavoro
svolto in precedenza ci ha infatti consentito di
abbassare la percentuale di grasso fino ai livelli
minimi individuali, mantenendo tuttavia inalterati i valori di massa magra (la percentuale di
muscolo). Quindi, in questo momento dell’anno, un calo del peso corporeo può essere indice di una riduzione della massa muscolare
probabilmente derivata da un eccessivo carico
di lavoro. Ecco la necessità di controllare periodicamente, almeno ogni due-tre giorni il nostro peso, nelle medesime condizioni (la mattina appena alzati) per verificare se ci sono variazioni significative.
Frequenza cardiaca
Un altro importante campanello di allarme della
sindrome da sovrallenamento è l’andamento
della frequenza cardiaca, sia a riposo che sotto
sforzo.
Se riscontriamo che, nei giorni successivi a
uno sforzo intenso, la frequenza cardiaca a riposo è superiore rispetto a quella normale di
questo periodo, dobbiamo sospettare un inizio
di overtraining. Jeukendrup nel corso di uno
studio effettuato su ciclisti professionisti mette
in rilievo un significativo aumento della frequenza cardiaca nel sonno in corso di overreaching. Tale osservazione necessita di ulteriore
convalida, dato il numero ristretto (7 atleti) del
campione soggetto della ricerca.
Anche sotto sforzo, la frequenza cardiaca può
dare segnali importanti per evitare l’affaticamento. Può accadere che, seguendo una tabella di allenamento impostata con ritmi individuali definiti proprio dalla frequenza cardiaca,
non riusciamo, pur correndo o spingendo rapporti impegnativi e andando a una velocità elevata, a innalzare i battiti del cuore fino ai valori
richiesti dalla tabella. È come se il nostro cuore
perdesse la propria brillantezza, probabilmente
a causa di uno scarso recupero nei giorni precedenti, oppure perché l’uscita di allenamento
risulta troppo impegnativa per le nostre capacità. In una simile situazione è importante interrompere il programma previsto ed optare per
un’uscita ad andatura costante non troppo impegnativa.
Altri sintomi
Innanzitutto il dolore muscolare e la spossatezza generale, sensazioni che permangono
anche a riposo. Questi sintomi sono accompagnati da una riduzione dell’appetito e della
quantità (numero di ore) e della qualità del
sonno. L’indolenzimento degli arti e la debolezza sono derivati da una forte carenza di alcune sostanze essenziali per la prestazione
sportiva, come il ferro, i sali minerali (in particolare il potassio), gli zuccheri (glicogeno muscolare) e le proteine. Questa condizione viene
aggravata dal fatto che, a causa della inappetenza, andiamo a ridurre la possibilità di reintegrare proprio quelle sostanze di cui avremmo
bisogno. Il malessere diffuso provocato dalla
stanchezza generale comporta un sonno breve
e agitato, che va a scapito delle possibilità di
recupero dell’organismo.
Overtraining e sistema ormonale
¬ Catecolamine urinarie
Mackinnon durante uno studio eseguito su 24
campioni di nuoto rileva che, nel corso di programmi di allenamento intensi ma di breve durata, la comparsa di OT può essere segnalata
da una diminuzione del livello urinario delle catecolamine (già 2 - 4 settimane prima della
comparsa dei sintomi di OT ).
Alle stesse conclusioni era giunto in precedenza Lehmann che aveva notato una diminuita
escrezione notturna di catecolamine correlata
ad un esaurimento del sistema simpatico. Ho-
oper, pur confermando la diminuita escrezione
urinaria di catecolamine in corso di OT, nega il
significato di esaurimento del sistema adrenergico in quanto i livelli ematici di catecolamine
permangono normali o aumentati.
¬ Testosterone e cortisolo
Un altro apparato che viene a essere interessato in caso di "overtraining" è sicuramente quello endocrino. L’aspetto più noto e studiato è
quello riguardante l’equilibrio tra i livelli di cortisolo e di testosterone. Il cortisolo, considerato come espressione tipica della risposta allo
stress, è un ormone con funzioni prevalentemente cataboliche, mentre il testosterone ha
funzioni essenzialmente anaboliche. Il rapporto
testosterone (totale o libero)/cortisolo viene
considerato un indice indiretto del bilancio
"proteico" dell’organismo e in particolare dei
muscoli scheletrici. Secondo la maggioranza
degli autori, uno spostamento in senso catabolico, indicato da un aumento del cortisolo e/o
da una riduzione del testosterone, dovrebbe
essere considerato un indice affidabile di sovrallenamento o quantomeno di un incompleto
recupero dalla fatica. Adlercreutz e coll. ipotizzarono che una diminuzione del rapporto testosterone libero/cortisolo superiore al 30%
rispetto alla norma del soggetto avrebbe potuto essere rilevatrice di una situazione di sovrallenamento. Secondo le osservazioni più recenti, invece, tale rapporto sembrerebbe più indicativo dello stato contingente di sopportazione
del carico di lavoro, che potenziale marker di
una sindrome da sovrallenamento propriamente detta
Overtraining e sistema immunitario
La disfunzione del sistema immunitario può
non consentire il buon costituirsi della protezione contro sostanze estranee patogene (stato di immunodeficienza), ma anche essere a
sua volta una causa di malattia; si vengono
così a riconoscere le malattie autoimmuni
quando l'organismo reagisce contro il "self"
con manifestazioni sistemiche
(es.collagenopatie, cioè le malattie del tessuto
connettivo) o patologie d'organo (es. nefropatie, neuropatie ecc.), le malattie iperergiche (allergopatie), nonché le neoplasie dello stesso
sistema immunitario (le malattie immunoproliferative).
Negli ultimi anni un certo numero di Autori ha
indagato anche le funzioni immunitarie degli
atleti, interessandosi soprattutto alle alterazioni
che si verificano subito dopo lo sforzo fisico
intenso. Sebbene la competizione sportiva sia
stata tradizionalmente considerata come una
condizione recante benefici alla salute, gli studi
condotti dimostrano che almeno per quanto
riguarda il sistema immunitario i dati fin qui
raccolti non orientano sempre in questo senso.
Infatti si assiste, in quasi tutti i test eseguiti,
alla comparsa dopo la prestazione sportiva di
un quadro che ricorda quello delle immunodeficienze; tale condizione è sicuramente transitoria perché l'assetto immunitario è generalmente normale negli atleti a riposo.
Esiste un aspetto che gli allenatori ben conoscono: quello della ridotta efficienza atletica
dei soggetti “superallenati” che accusano
un'aumentata suscettibilità alle infezioni.
Questo ragionamento focalizza il problema dell'influenza dell'attività sportiva sul sistema immunitario; una buona difesa immunitaria rende
un atleta meno suscettibile ai processi infettivi,
così come una valida costituzione fisica rende
meno probabili gli incidenti muscolo-scheletrici.
È evidente che i processi infettivi sono nocivi
non solo nell'imminenza delle competizioni, ma
anche durante la fase di preparazione, perché
alterano un programma di lavoro accuratamente preparato per mesi o addirittura per anni,
come avviene nel caso dei Giochi Olimpici.
Sono stati condotti numerosi studi sulla risposta del sistema immunitario allo sforzo fisico,
senza che questi però abbiano avuto criteri di
omogeneità e riproducibilità. Molte variabili infatti interferiscono su indagini di questa natura:
in primo luogo il tipo di sforzo fatto praticare
per caratteristiche di intensità, durata e vie metaboliche utilizzate; inoltre, è diverso il valore di
una prestazione fisica se effettuata da un soggetto non allenato, da un praticante o da un
atleta di livello internazionale. Un'ultima considerazione riguarda anche le tecniche immunologiche utilizzate nello studio, che sono state
spesso diverse e legate anche al tumultuoso
evolversi che queste hanno avuto negli ultimi
anni.
Le manifestazioni cliniche possono essere
rappresentate da infezioni di varia natura per lo
più virali, da forme banali quali quelle erpetiche, a malattie delle prime vie respiratorie, tonsilliti, gastroenteriti, fino a forme più gravi, tal-
volta etichettate come "febbre ghiandolare",
ma riconducibili a malattie quale la toxoplasmosi.
In tutti gli studi è comparsa, immediatamente
dopo lo sforzo fisico, leucocitosi coinvolgente
tutte le subpopolazioni cellulari, comprese
quelle linfocitarie
La maggior parte dei ricercatori concorda nel
rilevare un aumento più spiccato dei linfociti
CD8 ("suppressor"), rispetto a quelli ai CD4
("helper"); questo determina una riduzione del
rapporto CD4+/CD8+ che rappresenta un primo segno di squilibrio immunitario.
Anche le cellule "natural killer" (NK) sembrano
essere modificate dall'esercizio fisico con aumento delle cellule del fenotipo CD16 e una
alterata attività funzionale; sembra che l'attività
NK raggiunga un massimo immediatamente
dopo l'esercizio fisico, si riduca dopo due ore e
non si sia ancora normalizzata dopo venti ore.
Alcuni Autori sostengono addirittura che l'attività sportiva protratta a lungo deprima l'immunità aspecifica, rendendo così chi ha praticato
a lungo sport, come chi ha fatto attività agonistica per anni, più suscettibile alle infezioni.
Del resto in molti atleti di primo piano, anche il
livello di immunoglobuline-G circolanti sembra
essere più basso alla fine della stagione agonistica rispetto all'inizio.
Alcuni ricercatori polacchi sostengono che la
maggior parte dei parametri immunologici si
rinormalizzerebbe nel giro di due ore, ma gli
studi sul tempo di recupero attualmente sono
pochi. In altri lavori non sono state riportate
alterazioni a carico delle subpopolazioni linfocitarie a distanza di 24 e 72 ore dalla prestazione fisica
La fase in cui il sistema immunitario è più vulnerabile è quella immediatamente seguente
alla prestazione fisica
Durante lo sforzo fisico una grande quantità di
ormoni e mediatori sono liberati, per cui non è
facile risalire ai meccanismi con cui essi interagiscono; lo stesso tipo di metabolismo coinvolto, aerobico o anaerobico lattacido, potrebbe avere influenza sul grado di coinvolgimento
sul sistema immunitario.
I tre fattori classicamente ritenuti responsabili
della leucocitosi, emoconcentrazione per perdita di liquidi extracellulari, secrezione di catecolamine e incremento dei livelli sierici di cortisolo, appaiono essere abbastanza restrittivi.
Importanti sono anche i neuropeptidi, visto che
lo stress psichico intenso può determinare
modificazioni immunologiche simili ed evolvere
in forme larvate di immunodeficienza.
Negli atleti ad alto livello i due meccanismi di
stress fisico e psichico possono coesistere;
questa ipotesi sembrerebbe avvalorata anche
dalle osservazioni di alcuni ricercatori che hanno rilevato una maggiore alterazione nei parametri immunologici dei soggetti a più elevato
rendimento agonistico.
Tutto questo fa comunque pensare che la patogenesi delle modificazioni immunologiche
indotte dall'esercizio fisico non è monofattoriale, ma legata allo sbilanciamento di quei fattori,
stimolanti ed inibenti, che regolano nel suo insieme la risposta immunitaria.
Molto poco sappiamo sui meccanismi con cui
questo si realizza. Appare comunque consigliabile aggiungere ai controlli che si eseguono
nel corso della pratica sportiva, specie negli
atleti a più elevato livello competitivo, anche
una valutazione delle funzioni immunitarie in
modo da modulare la preparazione anche in
funzione di una prevenzione di quelle manifestazioni infettive che pur essendo nella maggior parte dei casi banali, spesso impediscono
al soggetto di fornire la miglior prestazione
agonistica nel momento in cui questa è stata
prefissata.
La resilienza nel giovane
Triathleta:
cos’è e come costruirla
di Pietro Trabucchi
“La resilienza non è una condizione ma
un processo: la si costruisce lottando”
George Vaillant
1- Cos’è la resilienza
Oggigiorno si tende a considerare le prestazioni sportive di vertice come la risultante di tre
fattori: una genetica superiore, una preparazione atletica ottimale, il possesso di competenze
psicologiche non comuni.
La RESILIENZA appare sempre di più essere la
competenza psicologica fondamentale degli
atleti di vertice in tutte le discipline: ed in particolare in quelle di endurance .
In senso lato il termine “resilienza” designa la
resistenza psicologica: il vocabolo deriva dalla
metallurgia ove designa la resistenza ai carichi
di rottura di un metallo. Prima di arrivare ad
una definizione precisa di resilienza, va premesso che si tende sempre di più a considerare l’atleta non solo come “uomo di fatica”, ma
sempre maggiormente come un “risolutore di
difficoltà”. Durante la sua intera carriera, infatti,
lo sportivo deve confrontarsi con una serie
enorme di problemi e ostacoli: fallimenti, sconfitte ed insuccessi –inevitabili anche per i più
talentuosi; infortuni; demotivazione; sovraccarico di fatica, rinunce, sacrifici, stress; paura,
ansia ed emozioni negative; difficoltà di rapporti interpersonali; incertezza sugli obiettivi e
sul futuro; errori etc…
Molto spesso gli atleti perdono –e “si perdono”- proprio su questi fronti, molto prima di
essere smarriti sui campi di gara. Lo sport di
alto livello necessita quindi di grande resistenza psicologica per fare fronte a tutto questo.
Se definiamo la resilienza come la capacità di
persistere nel raggiungere obiettivi sfidanti,
fronteggiando in maniera efficace difficoltà ed
eventi negativi, ecco che questa competenza
si rivela essere fondamentale.
2- Il tecnico e lo sviluppo della resilienza
nell’atleta giovane e maturo
La resilienza è considerata una competenza
psicologica, cioè una capacità acquisibile nel
tempo e non semplicemente innata. L’età giovanile è l’epoca più adatta per “costruire” (forse è meglio dire : “aiutare lo sviluppo di”) questo tipo di competenza: più tardi, in atleti più
maturi, cambiare le caratteristiche psicologiche
diventa molto più difficile. Purtroppo però, la
realtà ci propone spesso figure di atleti adulti
carenti proprio in termini di resilienza: sempre
alla ricerca dell’alibi, incapaci di assumersi la
responsabilità delle proprie scelte e dei propri
risultati, fragili di fronte a qualsiasi difficoltà.
Una sorta di ”talentuosi bambinoni muscolati”.
Sebbene questo sia un problema importante e
diffuso, i tecnici e le federazioni spesso non
sono “attrezzati” a gestirlo. L’errore che viene
compiuto in molti casi è quello di cercare di
gratificare e motivare l’atleta di questo tipo fornendogli ogni tipo di facilitazione ed incentivo,
cedendo ad ogni suo desiderio o “ricatto”.
Come vedremo più avanti si tratta di una strategia perdente perché contribuisce a indebolire
ulteriormente il suo punto debole, la sua ridotta
resilienza. Del resto, esperienze mutuate dai
grandi club di calcio hanno dimostrato che la
fornitura di gratificazioni e di incentivi ai giocatori facilita il rendimento fino ad un certo livello:
oltre questo tende a ritorcersi contro la prestazione.
Una sfida del futuro è perciò rappresentata
dalla possibilità di fornire mezzi e strumenti ai
tecnici –in primis a quelli che si occupano del
settore giovanile- per agire sullo sviluppo delle
competenze psicologiche dell’atleta.
3- Senso di controllo
Per passare da una definizione teorica ad uno
strumento operativo, ho proposto un modello
di resilienza che si basa su quattro dimensioni:
1. Senso di controllo;
2. Tolleranza alla frustrazione;
3. Ottimismo;
4. Challenge
Le dimensioni sono distinte in maniera analitica
come indipendenti tra loro, ma nella realtà
quotidiana esse si presentano con molti punti
di sovrapposizione.
Con la locuzione “senso di controllo” si indica
la percezione da parte del soggetto di avere
controllo su di sé e sull’ambiente. Si tratta –ripeto- di una percezione e non del reale controllo. Ad esempio un soggetto può percepirsi
come in grado di fare qualcosa, pur senza esserlo oggettivamente. Il senso di controllo è
una delle fonti motivazionali più importanti. Un
giovane si impegnerà a fondo nella pratica del
triathlon se sarà convinto di potercela fare ad
ottenere qualche risultato; se invece –indipendentemente dalle sue possibilità reali –si sentirà “negato”, sarà ben difficile che sia disposto
a impegnarsi e a soffrire per ottenere quel risultato.
Le persone che ottengono grandi risultati sono
sempre persone con un forte senso di controllo. I grandi leader o i grandi manager sono coloro in grado di aumentare il senso di controllo
nei propri collaboratori. Nella mia esperienza
personale con atleti, il loro senso di controllo si
è rivelato un fattore psicologico cruciale per il
raggiungimento degli obiettivi. E’ qualcosa che
per esempio ho potuto osservare specialmente
nel lavoro con Bruno Brunod per l’ottenimento
dei record di ascensione delle montagne più
alte di ogni continente sino al tentativo sull’Everest: senza una forte convinzione di essere in grado di “farcela”- l’atleta non riesce a
fronteggiare i rischi e l’impegno emotivo e fisico che la preparazione e la prestazione richiedono. Quindi il senso di controllo è un parametro da monitorare, cosa che è stata effettivamente fatta durante alcune spedizioni.
Diversamente, in presenza di basso senso di
controllo si riscontra negli atleti:
• Dipendenza dal tecnico e dalle situazioni logistiche
L’atleta con basso senso di controllo
tende a non assumersi la responsabilità dei propri obiettivi o dei propri
allenamenti. Con il vantaggio di poter usufruire quindi di una serie di
alibi. Alcuni episodi: l’atleta di vertice
che prima di un mondiale all’estero
si lamenta perché la pasta lì non è
cucinata come a casa; atleti della
Nazionale (quindi ‘professionisti’….)
in palestra durante un collegiale non
si allenano per aspettare il tecnico e
chiedergli: “ma devo fare il ‘mio’ allenamento o quello che mi dirai tu?”.
Nello sci di fondo, i casi diffusi degli
atleti che ritiengono lo skiman responsabile dei suoi risultati.
• Controllo rigido e onnipotente
L’atleta con basso senso di controllo
sopperisce tentando di realizzare un
controllo rigido e onnipotente (illusorio)
sulla realtà circostante; cosa che invece
lo rende più vulnerabile poichè “il vero
controllo è la rinuncia al controllo”. Si
vedano gli atleti rigidissimi e “fissati” nel
seguire un regime dietetico a tutti i costi,
o che vanno in crisi se costretti da cause di forza maggiore a saltare un allenamento previsto. Il senso di controllo
elevato permette invece flessibilità e
spirito di adattamento.
• Basso coinvolgimento motivazionale
Se non controllo nulla, se nulla dipende
da me e non ho prospettive di crescita e
di progresso, sono poco motivato ad
impegnarmi ed a soffrire.
Il tecnico possiede una serie di strumenti da
utilizzare per favorire la crescita del senso di
controllo nei giovani atleti. Li elenco, accennando brevemente a ciascuno di essi, perché
per esaminarli in profondità la lettura di un testo non è sufficiente:
• stile di relazione
Uno stile di relazione autoritario tende a
creare semplici esecutori, robot in attesa
di ordini e privi di iniziativa. Uno stile di
relazione autorevole, che pone dei limiti
ma incoraggia l’autonomia, è uno strumento che favorisce fortemente la crescita del senso di controllo nei propri
atleti.
• accorgimenti comunicativi
Poca attenzione viene prestata da parte
dei tecnici agli stili comunicativi nei con-
fronti degli atleti: eppure la comunicazione verbale e non verbale rappresenta
un punto strategicamente fondamentale.
Le parole hanno “un peso” e non solo in
senso metaforico: gli studi di Holroyd,
1984; litt, 1988 , Litt, Nye e Shaker,1993
e 95 sulla percezione del dolore hanno
dimostrato che semplici parole possono
modificare il funzionamento fisiologico
nell’ascoltatore. Il tecnico ha necessità
di offrire molti feedbacks all’allievo: però
esiste un momento giusto per fornire
questo tipo di comunicazione, come
esistono delle modalità corrette per
eseguirlo. Feedbacks distruttivi o svalutativi (o segni velati di svalutazione come lodi eccessive o assegnazione di
compiti troppo facili) minano il senso di
controllo e la fiducia in sé stessi degli
allievi.
• utilizzo di modelli
I giovanissimi sono spesso attratti da
modelli con caratteristiche mitiche, i
“Grandi Campioni”, fonte di ispirazione
inesauribile, ma allo stesso tempo pericolosamente distanti dalla propria realtà.
L’utilizzo continuo di modelli del genere
può però risultare controproducente fino
a minare il senso di controllo, se utilizzati come esempi da seguire alla lettera; o
se il ragazzo li vive come eccessivamente lontani e irraggiungibili, e non come
qualcuno che può convincersi di poter
un giorno eguagliare.
• costruzione di situazioni di padroneggiamento
Questo strumento è il più complesso a
disposizione del tecnico, ma anche il più
efficace. Senza pretendere di essere
esaustivo, ricordo alcuni punti centrali: il
senso di controllo si costruisce negli allenamenti e nelle gare. Occorre proporre
situazioni ed obiettivi un po’ sfidanti, ma
raggiungibili dal ragazzo (se irraggiungibili diminuiscono il senso di controllo).
Nella fase di costruzione dell’autoefficacia, se si usa la gara come obiettivo,
mettere in secondo piano vittorie e
sconfitte, in favore dello sviluppo delle
abilità e delle capacità prestative. Conta
l’impegno e la qualità della prestazione –
in altre parole- molto meno il risultato.
Quindi utilizzare molti obiettivi specifici,
a breve termine, raggiungibili, un po’
sfidanti. Dare molti feedbacks rispetto a
questiobiettivi (feedbacks positivi e correttivi sul come migliorare la prestazione, non giudizi sulla persona).
4- Tolleranza alla frustrazione
Il successo nel mondo sportivo è frutto di un
processo lungo e faticoso, che richiede tutto
l’impegno possibile. L’allenamento è il paradigma di questa visione del mondo, dove le
cose si raggiungono passo dopo passo, attraverso le difficoltà e con grande fatica. Inevitabilmente questo cammino è costellato di sconfitte, di imprevisti, di errori: in una parola di frustrazioni. Saper tollerare e superare le frustrazioni, le delusioni e i disagi rappresenta un’altra competenza psicologica fondamentale nell’atleta ed una dimensione fondamentale della
resilienza.
Da un punto di vista cognitivo, la frustrazione è
riconducibile alla delusione di aspettative irrealistiche e\o esagerate. E’ il caso, ad esempio,
di quei ragazzini che entrati nelle squadre nazionali giovanili di triathlon aspettandosi vittorie
facili e senza fatica, perché –prima di loro- le
“avevano viste ottenere” da compagni di
squadra più grandi. In realtà, anche a livello
giovanile, ci si auto-inganna se si pensa che le
cose “andranno facili e lisce”. Lo scontro con
la realtà determina il crollo delle aspettative ed
una frustrazione intollerabile, per cui ci sono
stati giovani atleti molto promettenti che hanno
smesso. Un tecnico racconta di aver portato i
suoi ragazzi ad un raduno della nazionale giovanile e la cosa era vissuta dagli atleti con molta attesa; ma il confronto con gli altri, sentiti
come troppo superiori ed irraggiungibili, li ha
fatti sentire inadeguati e li ha spaventati, inducendone l’abbandono dell’attività a livello agonistico.
Ulteriore esempio, il ragazzino che in piscina,
presso la sua società, primeggia con facilità su
tutti. In occasione dei raduni della nazionale
giovanile, però, si trova a prendere secondi da
tutti gli altri pari-livello. Ogni volta, racconta il
suo tecnico, è un dramma: si demoralizza e
vuole smettere.
Le aspettative condizionano anche la percezione dell’affaticamento. Intorno a questo tema
esiste un famoso esperimento eseguito alla
Wake University: la fatica percepita è tanto più
intensa quanto inaspettata. Ma è anche il caso
pratico del ragazzo che si ritira all’inizio della
gara, inspiegabilmente, senza un motivo apparente. Poiché si aspettava di fare meno fatica
nel tenere i primi; o almeno, si aspettava una
tale fatica solo in fasi più avanzate della competizione.
I mezzi a disposizione del tecnico per lavorare
sulla tolleranza alla frustrazione sono essenzialmente tre: la verifica delle aspettative, la
gestione e l’apprendimento dalle frustrazioni e
la loro ristrutturazione. Accenno brevemente a
ciascuno di essi: la verifica delle aspettative
dell’atleta –effettuata insieme al tecnico- consente di prendere consapevolezza delle immagini irrealistiche del mondo e degli eventi che il
ragazzo porta con sé; riportarle alla realtà aiuta
ad evitare di andare incontro a livelli di frustrazione intollerabili. Insegnare a gestire la frustrazione vuol dire insegnare al ragazzo a capire
quali leve positive e quali negative egli abbia
usato nel determinare un risultato sfavorevole.
Si apre qui un tema ampio e complesso che
esula dalle possibilità di questa trattazione: in
ogni caso quello che si vuole ottenere è che il
giovane impari a giudicare autonomamente il
proprio operato, imparando dall’esperienza,
evitando auto-criticismi eccessivi, salvando il
positivo del suo prodotto. E’ altrettanto importante che gli venga insegnato a separare il suo
valore personale dal risultato; imparando caso
mai che ciò che conta per l’auto-stima è più
l’impegno profuso, che il risultato finale.
Ristrutturare le frustrazioni significa imparare a
vederle in maniera completamente diversa: ad
esempio come uno strumento doloroso ma
molto utile per crescere. Ci sono atleti che
hanno appreso a “vedere” situazioni sfavorevoli ai fini dell’allenamento come altrettante
occasioni per crescere mentalmente: per
esempio un atleta che svolgeva un lavoro fisicamente pesante tra i due allenamenti giornalieri non vedeva la sua situazione come una
disgrazia dal punto di vista sportivo. Anzi, aveva ristrutturato nella sua mente la situazione
come un vantaggio, perché lo abituava a sopportare molto di più la sofferenza rispetto ai
suoi colleghi “più fortunati”.
5- Ottimismo
C’è un ottimismo irrealistico e magico, come
un’arte di raccontarsi balle; è l’ottimismo idio-
ta, che ignora i dati di realtà a beneficio del
famigerato “positive thinking”: un’americanata
che vi invito ad applicare al 35° della maratona
quando siete in crisi, per vedere se basta
“pensare positivo” per andare avanti.
C’è, fortunatamente, un altro ottimismo, di genere completamente diverso. Questo ha a che
vedere con la speranza interna: cioè con la
convinzione che gli eventi o le circostanze negative cambieranno; e che dunque occorre
perseverare ed andare avanti fiduciosi. Questo
è l’ottimismo che serve agli atleti.
Per quanto l’ottimismo possa apparentemente
avere molti punti di sovrapposizione concettuale con la tolleranza alla frustrazione, non è
esattamente la stessa cosa. La tolleranza alla
frustrazione riguarda il presente, il superamento di uno stato di disagio; l’ottimismo vero e
proprio concerne il futuro.
L’ottimismo non è un tratto di personalità stabile, altrimenti saremmo condannati a vedere
eternamente il bicchiere o mezzo pieno o mezzo vuoto; è uno stile cognitivo, cioè un modo
di pensare il mondo, che può essere appreso.
Vediamo brevemente alcuni esempi dello stile
cognitivo dell’ottimista, contrapposto a quello
del pessimista: l’ottimista tende a vedere
sconfitte o eventi negativi come momentanei e
isolati invece che come un destino costante ed
immutabile. E’ il pessimista che tende a codificarli in questo secondo modo: in questo senso
si dice che spiega gli eventi usando il fattore
“permanenza”. Cioè, se fin’ora ho nuotato male, lo farò per sempre. Il negativo diventa permanente, all’interno nel pensiero pessimistico.
L’ottimista invece usa maggiormente, nel leggere gli eventi, la “temporaneità”. Come dire:
se ho sempre nuotato male, non c’è ragione al
mondo per cui non possa migliorare la mia
tecnica.
Un altro esempio di stile cognitivo pessimista
ed ottimista: i pessimisti tendono a “generalizzare”. Cioè, ad estendere il negativo dal contesto di origine a tutta la loro sfera di esistenza.
Per esempio, se una gara va male, è più facile
per loro dirsi “sono un incapace” (generalizzando il negativo ad ogni ambito di vita) piuttosto che –come l’ottimista- leggere la sconfitta
come un evento contestualizzato: “questa gara
(ma non necessariamente tutte le altre) è andata male”.
Questi sono alcuni esempi generali. Il problema che uno stile distorto di interpretazione del-
la realtà dà luogo ad atteggiamenti e comportamenti spesso disfunzionali.
Ovviamente non si chiede al tecnico di fare lo
psicologo: piuttosto di aiutare il ragazzo a leggere correttamente gli eventi, evitando le distorsioni che possono avere ripercussioni in
chiave di atteggiamenti, decisioni, comportamenti.
6- Challenge
Con il termine “challenge” si indica convenzionalmente la capacità di accettare gli imprevisti,
i problemi, le novità vivendoli come sfida e opportunità per nuovi apprendimenti invece che
soltanto come difficoltà. Gli sportivi gonfiano
già il petto: chi meglio di noi…? Eppure…
Mi è capitato un paio di anni fa di fare un’interessante verifica sulla questione: ho potuto
somministrare un questionario che misura la
capacità di “challenge” a due gruppi di persone, diversi tra loro ed entrambi un po’ speciali.
Da un lato un gruppo di giovani laureati rampanti – nella maggior parte ingegneri – che frequenta corsi di formazione presso l’università
privata di una multinazionale petrolifera. Dall’altro una delle squadre di nuoto più forti d’Italia, che annovera nel gruppo diversi atleti olimpici, tra cui la medaglia d’argento ad Atene Federica Pellegrini. Il confronto tra i due gruppi
ha dato risultati sorprendenti. Il “challenge” è
risultato significativamente più basso negli
atleti. Strano? Forse non troppo. Spesso si
cresce sportivamente dimenticando di essere
atleti in senso universale, prima che specialisti
della propria disciplina. L’atleta – in senso generale – deve essere un individuo adattabile,
mentalmente disponibile al confronto, alla sfida. Qualcuno che non si tira mai indietro. Se
uno preferisce diventare un”impiegato” della
sua disciplina, sceglie di limitarsi a coltivare al
meglio il suo orticello, lasciando tutto il resto
fuori. Spesso, purtroppo, succede. Però spesso questo atteggiamento non mette in salvo
nessuno: prima o poi l’imprevisto, il fulmine a
ciel sereno, la novità irrompono anche nelle più
tranquille e routinarie carriere sportive. E specialmente nelle gare di triathlon. E possono
condizionare fortemente la prestazione, se non
ci si è abituati prima a gestirli.
Non esiste una formuletta pratica a beneficio
dei tecnici che vogliono migliorare la capacità
di challenge dei propri allievi. Si può cominciare dall’abituare i ragazzi ad affrontare novità e
cambiamenti in allenamento e nello stile di vita:
la squadra di nuotatori di cui sopra organizzava dei collegiali in Cadore durissimi dal punto
di vista fisico e mentale ma dove si faceva tutto meno che nuotare; i routinari nuotatori erano
costretti a cimentarsi con attività di cui dominavano ben poco. La nazionale junior di
Triathlon ha organizzato, poco più di un anno
fa, un collegiale in montagna dove non si allenava nessuna delle tre discipline canoniche,
ma dove i ragazzi –in gruppo- si confrontavano
con difficoltà fisiche ed emotive come salire
ferrate, calarsi nel vuoto, dover compiere lunghi percorsi in orientamento.
Note
1. P.Trabucchi, “The Resilent Group, Cognitive
and behavioural modifications in climbers performing in extreme environmental conditions”,
proceedings of “Mountain & Sport. Updating
Study and Research from laboratory to Field”,
International Congress, November 2005.
2. P.Trabucchi, cit.
3. Informazioni sul progetto Resilienza della
Fitri sono riportate sul numero 146 di Triathlete,
maggio 2006.
4. P.Trabucchi, cit.
Per i tecnici che volessero porre quesiti o casi
sul tema lascio a disposizione il mio indirizzo
mail:
[email protected]
www.psycoendurance.com
Il metabolismo
dei carboidrati
di Giacomo Vinci
L’attività di endurance è sostenuta dalle riserve energetiche che il corpo riesce a mobilizzare. Principalmente, tali riserve sono
costituite dai carboidrati che vengono immagazzinati sotto forma di glicogeno e poi
convertiti in ATP, per permettere le contrazioni muscolari necessarie per l’avanzamento.
La trasformazione di glicogeno in ATP e la
sua distribuzione fanno parte di un meccanismo estremamente complesso, studiata
dalla scienza del metabolismo dei carboidrati. Data l’enorme importanza che tali
studi rivestono, c’è una grande messe di
studi ed articoli scientifici che trattano l’argomento. Oggetto del presente scritto è
cercare di compendiare quanto trovato su
diverse fonti in un unico lavoro, in modo da
fornire nozioni scientifiche e trasformarle in
strategie che consentano al corpo di lavorare al meglio.
Nella sua forma chimica più semplice, la
molecola di carboidrato formata da 6 atomi
di carbonio, 12 di idrogeno e 6 di ossigeno
(C6H12O6, o abbreviata in CHO o, più propriamente, in CH2O) è detta glucosio.
Si sono tentati diversi modi per classificare
i carboidrati; probabilmente uno dei più efficaci per descriverne le modalità d’accumulo e di funzionamento nella fisiologia del
movimento è quello basato sull’indice glicemico (GI). In quanto fonte energetica
primaria per lo sport di endurance, il GI riesce a classificare i carboidrati sulla base di
un fattore estremamente importante, che è
la rapidità con la quale il corpo riesce a farli
passare nel sangue e la successiva risposta
del pancreas, attraverso il rilascio di insulina.
In breve, se un carboidrato ha un alto valore di GI, il valore di zuccheri nel sangue
cresce molto rapidamente e la risposta insulinica sarà altrettanto rapida. Il valore al
quale ci si riferisce, in letteratura, è quello
del glucosio puro, al quale è stato dato, per
ipotesi, il valore GI=100. In questo modo,
tutti gli alimenti sono esprimibili con valori
di GI maggiori o minori di 100 a seconda
che inducano aumento di glicemia e rilascio
d’insulina più o meno rapidi del carboidrato
di riferimento.
Tabelle che indichino il valore di GI degli
alimenti più comuni sono molto diffuse; in
generale, vengono definiti carboidrati semplici quelli con GI elevato, e complessi
quelli con GI più basso. I cibi meno elaborati hanno, generalmente, GI più basso, richiedendo un tempo maggiore perchè il
corpo riesca a metabolizzarli.
E’ importante capire che non necessariamente i carboidrati con GI più basso siano
migliori di quelli con GI più alto: comprendendo come il corpo utilizza queste fonti
energetiche nell’esercizio, è possibile stabilire la tempistica secondo la quale si dovrebbe scegliere un tipo di carboidrato rispetto ad un altro.
Il processo di trasformazione dei carboidrati in energia è tutt’altro che semplice: volendolo riassumere in poche parole, i carboidrati si combinano con l’ossigeno producendo energia, ed anche anidride carbonica ed acqua come sottoprodotti.
Figura 1: il metabolismo energetico
Il metabolismo degli zuccheri, se avviene in
presenza di ossigeno, viene definito metabolismo aerobico. Il massimo rendimento si
ha con il metabolismo aerobico, che ha diversi meccanismi di produzione dell’ATP,
uno dei quali è la glicolisi.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Catabolismo proteico
Catabolismo dei grassi
Carboidrati
Aminoacidi
Acetil-CoA
Piruvato
Ciclo dell’acido citrico
Fig.2: Le principali vie metaboliche che convergono
sul "ciclo di Krebs"
La glicolisi è il modo in cui il glucosio accumulato nelle riserve corporee o nei cibi è
convertito nella molecola di piruvato attraverso la glicogenolisi: in questo modo si
producono due molecole di ATP. In condizioni aerobiche, il piruvato entra nel cosiddetto ciclo dell’acido citrico: esso, nel noto
ciclo di Krebs (o ciclo TCA), genera 12 molecole di ATP nella conversione del piruvato. Oltre alla produzione energetica, il ciclo
dell’acido citrico vede anche l’intervento
degli aminoacidi: ciò, essendo questi proteine presenti nella muscolatura, induce catabolismo muscolare. In questa situazione,
la perdita di peso che può ottenersi sarebbe a discapito della massa muscolare piuttosto che grazie al metabolismo lipidico.
In assenza di ossigeno, o in presenza di
quantità di ossigeno stechiometricamente
insufficienti al procedere della reazione
chimica, il glucosio viene trasformato in piruvato, che a sua volta è convertito in lattato. Trasportato, via circolo sanguigno, al
fegato per la sintesi del glucosio, che viene
poi reimmesso nello stesso circolo perchè
sia distribuito alla muscolatura impegnata.
La gluconeogenesi
Il glucosio, dopo l’assorbimento da parte
dell’intestino, può essere conservato sotto
forma di glicogeno nei muscoli e nel fegato,
come lunghe catene di glucosio, o utilizzato
quando è ancora nel sangue. Sarà il tipo di
esercizio, come intensità e durata, oltre alle
caratteristiche individuali dell’atleta, a far
propendere verso il primo o il secondo tipo
d’immagazzinamento.
Iniziato il lavoro, si osserva un innalzamento
nel glucosio ematico, provocato dalla mobilizzazione delle riserve di glicogeno, derivata dal processo di glicogenolisi. La deplezione di tali riserve, che può avvenire già in
meno di due ore, è alla base del tristemente
noto “muro” del maratoneta. Il glicogeno
muscolare può produrre glucosio soltanto
all’interno dello stesso muscolo; quello del
fegato viene rilasciato nel sangue. Quando
entrambe le fonti sono esaurite, la glicogenolisi si arresta ed il livello di zuccheri nel
sangue scende.
Un’altra fonte energetica deriva dai sottoprodotti della gluconeogenesi, che è il metabolismo di glucosio e proteine, alla base
della quale ci sono il piruvato, il lattato, il
glicerolo e l’alanina. E’ stato stimato che
circa il 60% dell’energia utilizzata per un
esercizio di media intensità (58% VO2max)
può derivare dalla gluconeogenesi. Al proseguire del lavoro, l’aumento di tale processo richiede l’utilizzo delle riserve proteiche del corpo (i muscoli): è stato dimostrato, tuttavia, che partire con riserve di glicogeno adeguatamente cariche ed, eventualmente, fornire glucosio esogeno nel
corso dell’esercizio può ridurre l’impiego
delle proteine muscolari.
Il controllo ormonale del metabolismo
dei carboidrati
Lo stress acuto dell’esercizio induce la produzione ed il rilascio di diversi ormoni.
Alcuni aiuti ergogenici aumentano queste
risposte ormonali. Ad esempio, la caffeina
interviene nel rilascio di glucosio senza
l’aumento dei livelli ormonali; anche l’efedrina, la pseudoefedrina e le amfetamine
inducono lo stesso effetto dell’epinefrina,
l’ormone che interviene su muscoli e fegato
per il rilascio del glicogeno e sulle scorte
adipose per l’impiego degli acidi grassi.
I livelli d’insulina, che tende a ridurre la
quantità di zuccheri in circolo e che può
essere, dunque, avversaria dei processi di
glicogenolisi e gluconeogenesi, sono bassi;
il livello di glucagone, che invece favorisce
tali processi, s’innalza.
L’esercizio ha un effetto simil-insulinico,
provocando l’entrata del glucosio nella muscolatura senza la secrezione d’insulina. Se
viene ingerita una forte quantità di glucosio
prima dell’inizio del lavoro (30’-60’), si provocherà una risposta insulinica, che abbassa la glicemia nel sangue. Dopo circa 15’ di
impegno, l’effetto simil-insulinico dell’esercizio induce un ulteriore calo di glicemia,
che lascia il corpo svuotato di energie finchè non inizia la glicogenolisi (1).
Accumulo di glicogeno e suo utilizzo
La quantità di glicogeno muscolare ed epatico non è mai molto più alto del quantitativo che si può assumere nella normale alimentazione; tuttavia, essa può anche raddoppiare nel caso di diete particolarmente
ricche di carboidrati. Alcuni studi che hanno messo a confronto gruppi di ciclisti e
podisti che, seguendo un particolare regime dietetico, hanno aumentato le proprie
scorte di glicogeno, hanno visto un significativo aumento dei tempi di esaurimento e
delle velocità medie di percorrenza dei test
(2).
La velocità alla quale viene utilizzato il glicogeno muscolare dipende da diversi fattori, primo fra i quali è l’intensità dell’esercizio. Al 100% del VO2max si consuma 5 volte più glicogeno che al 50%; tuttavia, il
tempo di esaurimento deriva più dalla
quantità che era accumulata all’inizio dell’esercizio piuttosto che dal tasso di consumo. E’ stato dimostrato che l’ingestione
di carboidrati durante l’impegno consente il
risparmio delle scorte accumulate ed il prolungarsi del tempo di esaurimento (3). Durante l’esercizio, si può ingerire anche 1g di
carboidrati al minuto (4): ciò significa fino a
60g all’ora, o anche meno se il corpo utilizza le proprie scorte.
Perciò, per ottenere un aumento della prestazione sportiva di endurance richiede riserve energetiche colme all’inizio della prova, la riduzione dell’utilizzo del glicogeno e
l’ottimizzazione dell’impiego dei grassi come fonte energetica. Par tali fini, è stato visto che allenarsi per 7-10 giorni per due ore
al giorno provoca l’incremento degli enzimi
ossidativi e la riduzione dell’uso di glicogeno, grazie all’aumento del numero di mitocondri (5).
Il modo migliore per fornire glucosio è con
una soluzione acquosa concentrata al 6%:
ingerendo un litro di questa soluzione ogni
ora, l’atleta riesce ad assumere i 60g di
zuccheri necessari.
La finestra glicemica
La capacità del corpo di sintetizzare glicogeno dipende da diversi fattori: innanzitutto
il grado di esaurimento finale; inoltre il livello d’insulina (responsabile della sintesi); infine la quantità ed i tempi di assunzione dei
carboidrati dopo la conclusione dell’esercizio. Il 90% del glucosio ingerito al termine
della prova viene ritenuto come glicogeno
muscolare; una forte deplezione di riserve
muscolari fa innalzare il tasso di sintesi,
avendo indotto un’impennata nel valore
dell’insulina. Per massimizzarne il livello,
dovrebbero essere consumati carboidrati
con alto GI (6). Si è, inoltre, dimostrato che
il fruttosio è ottimo per la rigenerazione delle riserve epatiche, mentre glucosio e saccarosio per quelle muscolari. Il quantitativo
è più importante della modalità di assunzione; dopo l’esercizio, l’appetito è di solito
ridotto, e dunque risulta difficile riuscire a
consumare un pasto abbondante. E’ stato
dimostrato (7) che, ai sensi del ripristino
delle scorte energetiche, mangiare molto
frequentemente equivale a consumare
quattro pasti abbondanti nelle 24h successive all’impegno.
Anche la scelta del tempo è importantissima. La sintesi glicolitica è al suo massimo
durante la cosiddetta finestra glicemica. In
uno studio (8), nel periodo di 4h successivo
ad un impegno ad esaurimento si è osservata una sintesi del glicogeno più rapida del
43%; lo stesso studio ha visto un incremento del 13% in caso di esercizio d’intensità moderata e non esaustivo.
Altri studi hanno posto l’accento sull’importanza di consumare carboidrati all’inizio
dell’impegno e 2 e 4 ore dopo il termine. In
uno studio che ha messo a paragone l’ingestione immediata di carboidrati con quel-
la ritardata di 2h, le biopsie muscolari hanno evidenziato una differenza in negativo
del 67% per l’ingestione a +2h sulla presenza degli enzimi responsabili della sintesi
del glicogeno (9). Anche dopo aver iniziato
a consumare carboidrati, in ogni caso la
quantità di questi enzimi è rimasta più bassa del 43% anche al controllo a +4h. Dunque è della massima importanza iniziare il
ripristino delle riserve di glicogeno nelle
prime 2 ore dopo il termine dell’impegno.
Per quanto riguarda il quantitativo, la ricerca (10) dimostra che non c’è bisogno di ingerire più di 1,5g di carboidrati per Kg di
massa corporea: un quantitativo eccedente
questo valore non provoca effetti sulla sintesi del glicogeno (11).
Gli studi più recenti puntano all’analisi dell’azione combinata di diversi macronutrienti. A questo proposito, si ottengono risultati
contrastanti: mentre alcuni esperimenti non
evidenziano alcun beneficio (12), altri sono
favorevoli all’aggiunta di proteine ai carboidrati (13). In particolare, uno studio (14), in
cui è stato specificato che il mix post-esercizio era composto di 112g di carboidrati e
40g di proteine, ha visto un incremento della velocità di sintesi del glicogeno muscolare del 39%. Il motivo ipotizzato è la secrezione di insulina provocata dal maggior
contenuto calorico della soluzione. Nonostante i risultati siano contrastanti, tuttavia,
credo sia comunque il caso di aggiungere
proteine all’alimentazione che si segue nelle
fasi di recupero, non foss’altro per reintegrare gli aminoacidi che il corpo ha utilizzato per la produzione energetica.
La velocizzazione del ripristino delle scorte
energetiche è condizione necessaria, in
particolare, per gli atleti di livello più elevato
e per gli sportivi che s’impegnano in sedute
giornaliere multiple: come detto in precedenza, per ottenere i migliori risultati in allenamento e per ridurre il catabolismo muscolare, occorre iniziare l’impegno con le
riserve energetiche a posto. Dal punto di
vista enzimatico, l’enzima responsabile dell’immagazzinamento del glicogeno proveniente dall’alimentazione si chiama glicogeno-sintasi, presente in due forme di diversa
attività: D (meno attiva) ed I (più attiva).
L’insulina converte la forma D nella I: più è
alta, dunque, la risposta insulinemica e
maggiore sarà questo effetto. Questo è il
motivo per cui occorre preferire, nel recupero, carboidrati con GI più elevato: il fruttosio, non è la fonte ottimale di zuccheri
nelle prime fasi, nonostante sia comunque
valido per riuscire ad avere un’elevata assunzione calorica.
Il carico di carboidrati
La dieta dell’atleta di endurance richiede
che almeno il 60% delle calorie che assume
provenga dai carboidrati: per gli uomini,
dunque, circa 8-10g CHO/kg di peso corporeo/die; per le donne, circa 6-8g/Kg/die.
Il glicogeno epatico viene utilizzato per
mantenere costante la glicemia durante la
notte: dunque, per gli atleti la colazione riveste un’importanza notevole, in particolare
se è prevista una competizione o una sessione di allenamento impegnativa. Sarebbe
ottimale consumare un pasto 2-3 ore prima
dell’evento: in questo modo si evitano la
sensazione di fame e problemi gastrointestinali nel corso della prova; se l’atleta è
particolarmente ansioso, questi può anche
optare per l’assunzione dei macronutrienti
necessari assumendoli in forma liquida.
Uno studio (15) ha permesso a ciclisti, alimentati con un pasto per-test di 5g CHO/
Kg ed una supplementazione di una soluzione all’8% in CHO, di ottenere risultati
migliori di quelli riscontrati quando hanno
consumato il solo pasto, ed ancor più elevati di quando si sono affidati alla sola supplementazione.
Mentre, come detto, un carboidrato ad elevato GI è la migliore opzione per il recupero, per le fasi precedenti l’impegno occorre
prevedere l’impiego di zuccheri a basso GI.
Il carico di carboidrati tradizionale, che prevedeva un particolare regime dietetico per
la settimana pre-gara, interferiva con i programmi di allenamento: fu sviluppata, successivamente, una strategia di tre giorni ed,
infine di un solo giorno (16). Quest’ultimo
protocollo sfrutta l’aumentato tasso di ripristino delle scorte di glicogeno nella finestra
glicemica. Il giorno precedente la gara o
l’impegno di particolare importanza, l’atleta
s’impegna in un allenamento che prevede
una ripetuta da 2’30” sopra-soglia, seguita
da uno sprint da 30”. Dopo l’allenamento, e
nelle 24 ore successive, l’atleta assume
12g CHO/Kg di peso corporeo (o, se è noto
il peso della massa magra, 10g CHO/Kg di
massa magra). I risultati del test sono stati
molto lusinghieri, ed inoltre l’impegno brevissimo ed intenso il giorno precedente la
competizione s’inserisce bene in qualsiasi
programma di allenamento.