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Marina Guglielmi – Mauro Pala
(a cura di)
FRONTIERE CONFINI
LIMITI
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione. I limiti, le parole e le cose
7
MARINA GUGLIELMI, MAURO PALA
Luoghi, cose, persone
21
MASSIMO ARCANGELI
Spazio, luogo, frontiera. Dante e l’orizzonte
37
BERTRAND WESTPHAL
Dante e il pinguino.
Sulla linea di Bertrand Westphal
49
GIULIO IACOLI
La letteratura necessaria. Sul confine
tra letterature ed evoluzione
57
MICHELE COMETA
Per un’archeologia della biopoetica.
Response a Michele Cometa
89
MAURO PALA
Nature et culture dans Tess d’Urberville de Thomas Hardy
97
ELISABETH RALLO-DITCHE
“L’esiliato rientrava nel paese incorrotto”. La terra, il mare,
109
la costa in Mediterraneo, di Eugenio Montale
SANDRO MAXIA
Montale o della malinconia. Response a Sandro Maxia
133
MARIA CARLA PAPINI
Trasgressori e assassini di bussole: scrittori sul confine
139
SILVIA ALBERTAZZI
Mappe transizionali in Shadow Lines.
Response a Silvia Albertazzi
155
MARINA GUGLIELMI
Frontières du comparatisme
163
ANNE TOMICHE
Les “Frontières du Comparatisme” de Anne Tomiche
179
RADHOUAN BEN AMARA
Confine orientale: di linee, aree e volumi
191
IVAN VERČ
Niente di nuovo sul fronte orientale? Semiosi e struttura
profonda del confine triestino. Response a Ivan Verč
211
MATTEO COLOMBI
I confini tra linea di demarcazione e porosità
221
SILVANO TAGLIAGAMBE
Del reale, dell’immaginario, delle rappresentazioni come
forma dell’esperienza. Response a Silvano Tagliagambe
245
MARIO DOMENICHELLI
Indice dei nomi
252
Introduzione. I limiti, le parole e le cose1
Marina Guglielmi, Mauro Pala
«Deutlichheit ist eine gehörige Verteilung von Licht und Schatten». «La chiarezza è una suddivisione appropriata di luce e ombre»: con questo detto il filosofo prussiano Johann Georg Hamann
costruiva sul limite un’intera teoria gnoseologica, aggiungendo
alla sua massima “hört!”, ovvero “ascolta!”; la scelta di non raccomandare “osserva!”, ma piuttosto “ascolta!” segnala per Hamann
l’accesso ad una seconda fase, successiva alla percezione empirica, quella in cui si introietta, facendone la base di future elaborazioni, la nozione del confine e del limite. Coerentemente, il confine non va visto come una pratica desumibile dal quotidiano, quanto a sostegno di logiche che spiegano e pervadono il quotidiano.
In questo nodo-pratica crediamo di poter individuare la ragione
prima della scelta tematica per il convegno dell’Associazione per
gli Studi di Teoria e Storia comparata della Letteratura del 2009,
tenutosi dal 15 al 17 ottobre a Cagliari.
Già il dibattito, nelle riunioni preliminari, si era sostanzialmente sviluppato nel segno della continuità con le precedenti edizioni del convegno (in particolare Oriente Occidente, Napoli 2008),
dove la geografia era stata assunta come parametro essenziale per
comprendere una qualsiasi forma di rappresentazione, che andrà dunque valutata non in base al quesito “cos’è?” ma piuttosto
“come, e in quali condizioni si manifesta?”. Coerentemente con
1 Pur nel confronto e nella stesura congiunta, la parte 1 di questa introduzio-
ne è stata scritta da Marina Guglielmi e la parte 2 da Mauro Pala.
7
questa prospettiva ci si è concentrati – e non soltanto in ambito letterario – sull’interazione fra quei poli che Wellek designava come
“monumento” e “documento”, identificando quella dialettica tra
testo e contesto a partire da elementi come la giunzione e la cesura
ovvero, a seconda di come li si osservi, la frontiera e il confine.
Le giornate cagliaritane hanno visto susseguirsi sia gli studiosi
in gran parte qui presentati sia un importante numero di partecipanti suddivisi all’interno di tre seminari: Geocritica, geopolitica:
lo sguardo dell’altro (coordinato da Mario Domenichelli e Marina
Polacco), Miti e temi di superamento (coordinato da Clotilde Bertoni e Chiara Lombardi), Scrittura e visioni: passaggi di soglia
(coordinato da Massimo Fusillo e Gian Piero Piretto). Tutti gli
interventi presentati al convegno sono stati pubblicati nel giugno
2011 sul primo numero di «Between. Rivista dell’Associazione di
Teoria e Storia Comparata della Letteratura» (http://ojs.unica.it/
index.php/between).
1. L’apertura tematica e l’eterogeneità dei discorsi non ha mai
obliterato, in questo volume, un comune presupposto critico-teorico: spazio e tempo, correlativi di uno stesso raccontare, si sono
intersecati nel pensiero sulle opere e sulle questioni vedendosi attribuiti, ora l’uno ora l’altro, modelli diversi di strategie interpretative dei testi. La ripresa importante dell’elemento spaziale e liminale come possibilità espressiva e dunque interpretativa del fatto
letterario è stata decisiva nell’attribuzione di qualità al discorso
sulla relazione fra spazio e tempo, a partire dalla definizione di
cronotopo letterario di bachtiniana memoria.
L’antagonismo fra le due categorie dello spazio e del tempo,
che è in realtà più produttivo di quanto si pensi comunemente, è
sempre stato – e destinato a rimanere – irrisolto, a causa dell’alternarsi storico e generazionale fra supposte dominanze dell’una o
dell’altra. Nella prefazione al volume dedicato, appunto, al tempo
e al nesso memoria/oblio, Niccolò Scaffai ribadiva la permanenza
delle “scritture del tempo” (autobiografia, autofinzione, etc.) pro8
prio e anche a partire dalla riaffermazione della categoria dello
spazio (Scaffai 2004).
La misurabilità empirica dello spazio e la convinzione umana
della rinnovabile possibilità di dominio su natura, paesaggio e spazio sono state sottoposte a incrinature sostanziali, decisive perché
si affermasse invece l’idea di una possibile inafferrabilità – e dunque sempre rinnovabile interpretabilità – proprio dello spazio che
circonda e comprende tanto l’esperienza del vissuto umano quanto
la sua resa letteraria.
Si pensi ad esempio alla rappresentazione beckettiana di spazi sociali come il cilindro descritto nella prosa de Le dépleupleur
(1970) (Lo spopolatore): un’umanità scarnificata in corpi silenziosi si aggira in quel misterioso cilindro di cui il narratore ci fornisce
coordinate e misure esatte, temperature e luminosità. Il tentativo di
delimitare scientificamente la cavità sfugge invece ai personaggi
che la abitano, eterni chercheurs che misurano incessantemente
lo spazio che li circonda giungendo fino all’estinzione della vita
stessa, servendosi unicamente dell’unità di misura del loro corpo e
delle loro membra. Misurare iterativamente, senza certezze, quello
che apparirebbe come un luogo delimitato e certo, scoperchia una
dimensione vissuta dello spazio in cui certezza e dubbio umani
convivono cronologicamente nell’atto stesso dell’attraversamento
dell’allegorico cilindro (che tutti potrebbe contenerci).
Negli ultimi anni si è progressivamente affermata un’attenzione crescente per la geografia letteraria e per i nessi tra letteratura e
spazialità, a volte complementare, a volte invece antagonista, alla
storia letteraria. Michel Collot, animatore con Julien Knebusch di
un progetto di ricerca e di un blog sulle questioni che associano letteratura e spazialità (http://geographielitteraire.hypotheses.
org), rimarca come l’interesse della geocritica, della geopoetica
e della geografia letteraria per la rappresentazione dello spazio in
letteratura non sia altro che una risposta ad una pratica letteraria.
Nella letteratura e nell’arte contemporanea genere, tema e forma
interagiscono nell’istituzione di un legame con lo spazio, come accade nella Land Art. I due studiosi articolano le ricerche in questo
9
campo su tre assi: la geografia della letteratura, per affrontare il
contesto geografico storico e sociale nel quale sono prodotte e diffuse le opere; la geocritica, per rivolgersi allo studio della rappresentazione dello spazio, anche a livello tematico, nei testi letterari,
e la geopoetica, indirizzata a mettere al centro le forme e i generi
per analizzare il piano stilistico e poetico delle opere in relazione
allo spazio.
Ma non di solo rapporto con il referente vive lo studio della
spazialità nei testi – ove il termine “testi” deve intendersi anche
in senso ampio, lotmaniano – non di sola geografia. Certo, gli elementi di frontiere, confini, limiti sono stati assunti soprattutto in
relazione ai loro referenti più immediati, più diretti che, però, rimangono spesso incomprensibili se non ci si interroga anche sul
senso che acquisiscono per l’osservatore; i testi allora devono essere interpretati tenendo conto del rapporto che istituiscono con i
loro referenti; ma i testi sono a loro volta agenti attivi della costruzione del senso di quegli stessi referenti spaziali che solo un pensiero ingenuo può pensare come “obiettivi”. Questa bidirezionalità
e reciprocità è stata accolta e assunta dai saggi qui presentati.
Ed è proprio l’animatore della teoria geocritica, Bertrand
Westphal, ad aprire il volume con una relazione dedicata all’idea
di orizzonte. L’indagine etimologica sulla linea fittizia che da una
parte separa e dall’altra delimita, si interseca fruttuosamente con
il senso escatologico del tendere e del desiderare. Il (geo)critico si
concentra sulla geografia e sull’architettura dell’oltretomba dantesco (non estraneo a ricognizioni critiche geografiche, come ricorda
Giulio Iacoli nel suo intervento da respondent), per mettere in primo piano l’uso originale del termine “orizzonte” che Dante attua
nel Purgatorio.
Tematicamente affine, nel suo intervento, a quello di Westphal,
Sandro Maxia coglie in Mediterraneo di Eugenio Montale i segni
del progressivo avvicinamento e della preparazione del soggetto
al mondo naturale del mare, rappresentandolo poeticamente prima
come soglia dell’accoglienza nel mondo dell’infanzia, poi come
limite invalicabile e problematico nell’età adulta. La contrappo10
sizione liminale tra mare e terra intesa come destino (personale)
di scissione fra i due elementi viene sancita in contrapposizione
all’ipotesi della scelta etica. La distesa equorea è preludio in Montale alla filosofia del limen, ripercorsa qui sia nel poeta ligure sia in
altri autori. L’ossimoro montaliano del mare fisso e diverso, messo
in evidenza da Maxia, è sottolineato dalla respondent Maria Carla Papini come possibile trait d’union con un’affinità tematicoespressiva di Michelstaedter (ma anche di Ungaretti), nell’esito
tuttavia opposto in questi ultimi del recupero possibile di una pur
labile o effimera armonia e salvezza esistenziale.
Nell’intervento di Elisabeth Rallo Ditche il testo di Tess è il
terreno per una lettura tesa a ripristinare il valore del pensiero animista in Thomas Hardy. Mettendo in evidenza i passaggi narrativi
in cui prevale la descrizione della simbiosi fra mondo naturale e
personaggi, l’autrice del saggio indaga le modalità con cui Hardy
da una parte costruisce un ruolo narrativo agli esseri non umani che popolano il romanzo, e dall’altra disegna la relazione fra
questi e la sua eroina. Su questo nesso complesso e frastagliato
fra natura e cultura si era soffermato, durante la giornata del convegno cagliaritano, anche il respondent Daniele Giglioli evidenziando come, nelle scene romanzesche in cui è preda del sonno,
Tess diventi significativamente – come un animale caduto in una
trappola – anche preda di uomini che la “agiscono” senza che ne
abbia coscienza (la scena dello stupro nel bosco e la scena finale a
Stonehenge). Su tale crinale narrativo si fronteggiano da una parte
l’elemento istintuale della protagonista, dall’altra la componente
culturale (e maschile) della dominanza del sesso e della legge. Su
questo stesso limine natura/cultura interviene però anche l’atto che
riporta il “personaggio di natura” Tess a una scelta sul versante
della cultura: la vendetta e l’assassinio.
Anne Tomiche ha riportato l’attenzione sull’oggetto, la cosa:
la letteratura cosiddetta europea o mondiale o generale e la sua
relazione, al di là della definizione, con gli spazi geografico-culturali. Se l’Europa sia un’ideale comunità letteraria (l’idea di una
letteratura europea, appunto) oppure un insieme di frontiere che
11
segnano comunità letterarie differenti è da lungo tempo un cruccio
della comparatistica. Il passaggio dall’idea goethiana e romantica
di Weltliteratur come superamento dei nazionalismi ma, al tempo
stesso, ripiegamento sull’eurocentrismo, alla concezione di una
letteratura mondiale ha visto susseguirsi nel tempo diverse posizioni critiche nei confronti del “dominio” e colonialismo europeo.
La questione liminale si pone in questo caso come paradigma di
inclusione o esclusione canonica delle diverse produzioni letterarie del mondo, ma anche come confronto ideale e auspicabile
fra fenomeni letterari (come il modernismo) troppo a lungo interpretati sotto il ristretto cono di luce delle letterature europee. La
difficile equazione fra i tre termini di letteratura mondiale, europea
e comparata ripropone gli elementi di riflessione cui molti comparatisti hanno dedicato ampia bibliografia, fra quali Erich Auerbach
che negli anni Cinquanta, riconoscendo il dono prezioso della lingua, della cultura e della nazione che ognuno riceve, dichiarava
che «solo separandosene e superandole queste divengono efficaci»
(Auerbach 1984: 121).
2. Le accezioni comprese sotto le “parole chiave” di frontiera,
confine e limite negli interventi di questo volume sono dunque
molteplici, a riprova di una loro spiccata produttività: si va da una
connotazione geopolitica ad una squisitamente teorico-ermeneutica. Ma ciò che accomuna campi così disparati è la funzione del limite, il quale, oltre a dividere, si fa catalizzatore di ciò che Edward
Soja (Soja 2000: 11) designa, rifacendosi a Bhabha (Bhabha 1990:
207), come “third space”, ovvero un fattore che trascende, pur
compendiandole, le circostanze in cui un’opera si manifesta. Capire le condizioni in cui una certa espressione si attua e riuscire
ad andare oltre significa per Soja attivare un potenziale critico,
ovvero immaginare un’altra dimensione – terza appunto – da cui
ricostruire un intero processo, sociale ed estetico insieme, e comprendere così sia un singolo fenomeno che un’intera fase sociale.
Immaginare partendo dal limite: si tratta in fondo della “suddi12
visione appropriata” auspicata da Hamann, il punto di partenza
per superare quella che Raymond Williams prima e Bourdieu poi
denunciavano rispettivamente come la “coscienza divisa di arte e
società” (Williams 1976: 28) e la tendenza “purista” dell’estetica
(Bourdieu 2004: 492); ricapitolare la connotazione materiale del
limite non per appiattirsi su questa fase, ma per seguire le associazioni simboliche cui limiti e frontiere danno vita.
In questo senso abbiamo assistito nell’ultimo trentennio alla
progressiva dissoluzione dei confini nelle “città senza porte”, dove
«l’immediatezza dell’ubiquità conduce all’atopia dell’interfaccia
unica» (Virilio 1988: 15), e dove dunque lo spazio come insieme
di differenti ubicazioni viene annichilito dalla tecnologia. Parallelamente, in un tragico processo inverso, i confini fra comunità,
Stati e continenti sono andati irrigidendosi secondo discriminanti
razziali ed economiche, con un continuo ricorso all’“eccezione”
(Agamben 1995) che, diventando nella prassi regola giuridica, ha
finito per sancire la discontinuità dello spazio e del diritto. Evidente la valenza immediatamente etica cui rinviano anche le espressioni artistiche incentrate o anche solo pertinenti alla nozione di
confine. Eppure, in questa fase, proprio la capacità di avvicinarsi
al margine e trasformarlo in qualcosa d’altro diventa un’esperienza di apprendimento indispensabile per «conoscere quali relazioni
di prossimità, che tipo di circolazione, di approvvigionamento, di
classificazione degli elementi umani deve essere considerato primariamente in questa o quella situazione per conseguire un certo
fine» (Foucault 2001: 21). In un’epoca in cui lo spazio si offre sotto quelle che Foucault qualifica come “relazioni di dislocazione”
diventa ancora più urgente accettare di vivere la liminarità.
In questo spirito si colloca l’esortazione di Silvia Albertazzi a
concepire la scrittura come atto di confine, ovvero come capacità
di mettersi in gioco, consapevoli, anche sulla scia di Salman Rushdie, che siamo «condannati a vagare criticamente, emotivamente,
politicamente… appassionatamente – in un mondo caratterizzato
da un eccesso di senso che, se da una parte offre la possibilità di
significato, dall’altra continua a sfuggirci» (Chambers 1995: 22).
13
La narrativa è la qualità che consente di attribuire senso alla
condizione contemporanea, e questa operazione dovrebbe porsi
come obiettivo quello di superare confini basati su un pensiero
unico omologante, quello stesso che produce gli scontri di civiltà
di Huntington o la fine della storia di Fukuyama; al contrario, la
linea lungo la quale si dovrebbe muovere l’odierna comparatistica
è quella di «mettere in comunicazione tutte le culture del mondo»
e, allo stesso tempo, «mettere a fuoco la relazione fra letteratura
e mondo, secondo l’unità infinita della reciprocità» (Gnisci 1998:
25).
Questa direzione era già esplicita nell’idea, affermatasi negli
anni Ottanta, di un sistema interpretativo che coesistesse e interagisse con chi se ne serve, creando uno «spazio fluido di alleanze
trasversali rispetto alle nozioni di classe e famiglia» (Bernheimer
1995: 12). È così originata una comparatistica attenta non solo
ai luoghi – lo spazio fluido – ma alle metafore produttive che ai
luoghi vengono associate, una disciplina che nella sua fase postcanonica e post-Wellek ha privilegiato «una poetica del frammento,
una resistenza totalizzante alla totalità» (Saussy 2006: X).
Questa fase ha coinciso, a livello globale, con una esplosione
dei confini, sistematicamente analizzata in un’affatto inquietante
rassegna da Massimo Arcangeli. Una diagnosi, attraverso “parole
chiave”, del «rischio percepito della globalizzazione come dominio
di un cosiddetto pensiero unico, uscito apparentemente trionfante
dalla sconfitta del socialismo reale» (Della Porta - Mosca 2003:
11). Si parte dalla crescente incapacità da parte degli Stati nazionali di assicurare un livello di benessere soddisfacente nell’ambito
dei rispettivi confini, a causa dell’erosione della propria giurisdizione che gli Stati oggigiorno subiscono, ad opera di movimenti
regionalistici da un lato ed entità sopranazionali sempre più potenti e pervasive dall’altro. Intanto, anche sulla spinta emotiva
dell’11 settembre, l’affermarsi di spazi sempre più condivisibili
anche nella progettazione urbana ha conosciuto un’improvvisa e
preoccupante inversione di tendenza: dai muri della Cisgiordania
ai blocchi di cemento che proteggono potenziali obiettivi sensibili
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in caso di attentato, si è assistito al ritrarsi dell’architettura in una
dimensione chiusa e protetta, come, nella prassi di tutti i giorni,
quella dei centri commerciali che si negano all’interazione con la
polis, e tutto ciò per timore dell’imprevedibilità insita nell’esperienza genuinamente politica.
Il flusso dei migranti è percepito come una di queste minacce
in quanto insidia l’inviolabilità del confine, dove questo è inteso
come limite comune, separazione fra spazi contigui, ma soprattutto sanzione della proprietà su un luogo. In questo caso tutti gli
spazi coinvolti da un lato o l’altro del confine sono potenzialmente
fruibili per quei processi simbolici attraverso i quali si costituisce
una comunità, immaginandola «come insieme limitata e sovrana»
(Anderson 1996: 25). Il confine diventa frontiera, ovvero spazio
ultimo, invalicabile, quando non si limita a separare ambiti diversi,
ma ne sottolinea l’opposizione; la frontiera, però, a differenza del
confine, è instabile, mobile, allude ad un’aspirazione, uno slancio
invece congelato dal confine. La distinzione fra “border” e “frontier” tende ad indebolirsi quando si vuole designare un territorio
di frontiera che resta nei limiti del confine: ad esempio, l’idea di
“Mark” nella lingua tedesca designava aree che, seppure sulla
frontiera, restavano all’interno della zona di pertinenza dell’etnia
teutonica.
Abbiamo così passato in rassegna diverse variazioni sul tema
del confine, e tutte rientrano in quel racconto del confine orientale
italiano ad opera di Ivan Verč, dove alla cangiante conformazione
geopolitica si somma la variabile temporale: per riassumere dunque non solo ciò che questo confine rappresenta, ma anche ciò che
ha rappresentato e come esso si potrebbe configurare in futuro.
La storia del confine orientale, nella sua asciutta oggettività, è un
esempio di decostruzione dell’idea di confine; oltre che un’esposizione esemplare delle aberrazioni che hanno accompagnato la
nascita e l’affermazione del nazionalismo moderno, considerato
nella sua doppia natura, già teorizzata da Renan, di ricettacolo
di memoria e costruzione di consenso. Il primo aspetto di questo
dualismo è ovviamente statico, mentre il secondo, indispensabile
15
all’attivazione del primo, è dinamico, ma fino a un certo punto.
Oltre questo punto (il cui superamento può essere determinato,
ad esempio, da un crollo del consenso) il carattere violentemente
ambiguo del confine, come funzione sia della soglia (un accesso)
che del contenimento (un limite) finisce per collassare, lasciando
emergere la nazione come «formazione discorsiva: non una semplice allegoria o una visione immaginativa, ma una ricca struttura
politica» (Brennan 1997: 99).
Per cogliere l’immediata pertinenza di questi contributi al vaglio della letteratura oggi è sufficiente ricordare l’importanza del
fattore nazionale nell’economia del fenomeno – letteratura, ma
anche arte, cinema, musica – postcoloniale, oltre che il nesso sempre più stretto che i cultural studies hanno stabilito, producendo
un’ampia rassegna di revisioni storiche e storiografiche, tra l’idea
di “nation-ness” e i concetti di “folklore”, “tradizione” o “comunità”, senza dimenticare la genealogia che accomuna nazione e
sistemi di comunicazione di massa, a cominciare dalla stampa e,
soprattutto, dal romanzo. Leggere un romanzo e percepire l’idea,
spiccatamente dialogica, di identità nazionale che esso comunica
significa partecipare ad un meccanismo di consenso o a un movimento egemonico dal basso, come ben aveva intuito Gramsci nella sua diagnosi dell’assenza di un carattere nazional popolare nella
letteratura italiana. «I romanzi esercitano una potente influenza
[…] proprio perché sono privi di una sanzione ufficiale. La loro
autorità deriva dai lettori e non dagli apparati culturali dello stato»
(Parrinder 2006: 9).
Processi identitari, pratiche egemoniche iscritte nelle formidabili potenzialità della letteratura ci conducono ad una dimensione che, oltre che metanarrativa, contiene un importante insegnamento epistemologico. In questo senso, la translucidità esplorata
da Silvano Tagliagambe si costituisce come nesso fra il reale e
l’immaginario a partire dall’intuizione delle forme, senza la chiara
percezione dei contorni. Un’ipotesi che rende attuale una vivace
discussione sulla modernità suscitata da Benjamin a proposito del
vetro dell’international style; lo stile modernista in architettura,
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caratterizzato dalla sintesi asettica di vetro e acciaio, rappresenterebbe per Benjamin la liquidazione programmatica delle condizioni stesse dell’esperienza, in quanto il suo fine esplicito consisterebbe nel rendere impossibile il lasciar tracce. Ma il vetro, nella
prospettiva di Loos e Scheerbart, non è solo perdita di aura: esso
«porta il suo attacco all’idea stessa di interno, opponendosi così
a un’idea di possesso inalienabile». Nella chiosa di Cacciari «il
vetro dilata l’interno in una lunga pausa, in un indugio sofferto. In
quest’indugio riflette se stesso nella sua differenza e fa riflettere su
un possibile luogo dell’esperienza, su un suo possibile non ancora» (Cacciari 1980: 129).
Ancora un confine, in questo caso spazio-temporale, il quale –
come precisa Mario Domenichelli in veste di respondent –, mette
letteralmente in luce il reale nella sua fase di trapasso al simbolico;
traducendo la translucidità dell’esperienza postulata da Florenskij
nell’idea opaca di diaframma, consapevolezza di una soglia – per
usare un termine benjaminiano – che non esclude il contatto, ma lo
problematizza proprio in limine. E la scrittura, intesa come interrogazione lacaniana dello spazio ermeneutico, diviene il luogo in
cui “il pensiero si scardina”, ovvero la realtà dell’oltre (lo jenseits)
riuscirà a risuonare dal simbolo alla coscienza attraverso «una finestra verso un’altra essenza che non è data direttamente».
Nel suo suggestivo intervento, Tagliagambe allude all’alterità
e all’“ulteriorità”. In questo segno si colloca l’appello di Michele Cometa per un’apertura agli stimoli della biopoetica, coniugata non secondo le mode statunitensi, ma riassorbita e rielaborata all’interno di un dibattito stratificato in area esistenzialista, da
Husserl, ad Heidegger, per approdare a Paci. E valorizzare in tal
modo, nel riconoscimento di costanti intersoggettive, le intuizioni
foucaultiane sviluppate nell’antropologia italiana da De Martino,
che vedeva l’emergere della natura nella cultura «in quanto fedeltà
immediata a iniziative di generazioni passate, o del nostro passato e di quanto vi si lega attraverso la nostra biografia culturale»
(De Martino 1977: 648). Tale «rinegoziazione di categorie apparentemente ontologiche come natura e cultura» (Cometa 2010:
17
186), a partire da abitudini che definiscono la nostra socialità nel
quotidiano non escluderebbe, ma anzi spingerebbe, a partire dalle
intuizioni di Raymond Williams nella categoria di «structure of
feeling», ad una «etnologizzazione delle arti» (De Certeau 2001:
109), e con essa una valorizzazione della dimensione integrale del
corpo. Più in generale, su questo umanesimo materialista a tutto tondo, antidoto alle generalizzazioni della globalizzazione, si
profila anche la sfida della comparatistica contemporanea, sempre
più radicata nel materiale attraverso una fruttuosa contaminazione
interdisciplinare in cui il paradigma si apre ad approcci – ben presenti in questa breve rassegna, dal postcoloniale agli studi culturali
– diversificati, flessibili, ma sempre politici, e che trovano nella
teoria quel «discorso, nel senso antico e classico del termine, che
significava “vedere, far vedere” o “contemplare” (theorein)» (De
Certeau 2001: 118). Per l’appunto, una ripartizione appropriata di
luce ed ombre.
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