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Marina Guglielmi – Mauro Pala (a cura di) FRONTIERE CONFINI LIMITI ARMANDO EDITORE Sommario Introduzione. I limiti, le parole e le cose 7 MARINA GUGLIELMI, MAURO PALA Luoghi, cose, persone 21 MASSIMO ARCANGELI Spazio, luogo, frontiera. Dante e l’orizzonte 37 BERTRAND WESTPHAL Dante e il pinguino. Sulla linea di Bertrand Westphal 49 GIULIO IACOLI La letteratura necessaria. Sul confine tra letterature ed evoluzione 57 MICHELE COMETA Per un’archeologia della biopoetica. Response a Michele Cometa 89 MAURO PALA Nature et culture dans Tess d’Urberville de Thomas Hardy 97 ELISABETH RALLO-DITCHE “L’esiliato rientrava nel paese incorrotto”. La terra, il mare, 109 la costa in Mediterraneo, di Eugenio Montale SANDRO MAXIA Montale o della malinconia. Response a Sandro Maxia 133 MARIA CARLA PAPINI Trasgressori e assassini di bussole: scrittori sul confine 139 SILVIA ALBERTAZZI Mappe transizionali in Shadow Lines. Response a Silvia Albertazzi 155 MARINA GUGLIELMI Frontières du comparatisme 163 ANNE TOMICHE Les “Frontières du Comparatisme” de Anne Tomiche 179 RADHOUAN BEN AMARA Confine orientale: di linee, aree e volumi 191 IVAN VERČ Niente di nuovo sul fronte orientale? Semiosi e struttura profonda del confine triestino. Response a Ivan Verč 211 MATTEO COLOMBI I confini tra linea di demarcazione e porosità 221 SILVANO TAGLIAGAMBE Del reale, dell’immaginario, delle rappresentazioni come forma dell’esperienza. Response a Silvano Tagliagambe 245 MARIO DOMENICHELLI Indice dei nomi 252 Introduzione. I limiti, le parole e le cose1 Marina Guglielmi, Mauro Pala «Deutlichheit ist eine gehörige Verteilung von Licht und Schatten». «La chiarezza è una suddivisione appropriata di luce e ombre»: con questo detto il filosofo prussiano Johann Georg Hamann costruiva sul limite un’intera teoria gnoseologica, aggiungendo alla sua massima “hört!”, ovvero “ascolta!”; la scelta di non raccomandare “osserva!”, ma piuttosto “ascolta!” segnala per Hamann l’accesso ad una seconda fase, successiva alla percezione empirica, quella in cui si introietta, facendone la base di future elaborazioni, la nozione del confine e del limite. Coerentemente, il confine non va visto come una pratica desumibile dal quotidiano, quanto a sostegno di logiche che spiegano e pervadono il quotidiano. In questo nodo-pratica crediamo di poter individuare la ragione prima della scelta tematica per il convegno dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia comparata della Letteratura del 2009, tenutosi dal 15 al 17 ottobre a Cagliari. Già il dibattito, nelle riunioni preliminari, si era sostanzialmente sviluppato nel segno della continuità con le precedenti edizioni del convegno (in particolare Oriente Occidente, Napoli 2008), dove la geografia era stata assunta come parametro essenziale per comprendere una qualsiasi forma di rappresentazione, che andrà dunque valutata non in base al quesito “cos’è?” ma piuttosto “come, e in quali condizioni si manifesta?”. Coerentemente con 1 Pur nel confronto e nella stesura congiunta, la parte 1 di questa introduzio- ne è stata scritta da Marina Guglielmi e la parte 2 da Mauro Pala. 7 questa prospettiva ci si è concentrati – e non soltanto in ambito letterario – sull’interazione fra quei poli che Wellek designava come “monumento” e “documento”, identificando quella dialettica tra testo e contesto a partire da elementi come la giunzione e la cesura ovvero, a seconda di come li si osservi, la frontiera e il confine. Le giornate cagliaritane hanno visto susseguirsi sia gli studiosi in gran parte qui presentati sia un importante numero di partecipanti suddivisi all’interno di tre seminari: Geocritica, geopolitica: lo sguardo dell’altro (coordinato da Mario Domenichelli e Marina Polacco), Miti e temi di superamento (coordinato da Clotilde Bertoni e Chiara Lombardi), Scrittura e visioni: passaggi di soglia (coordinato da Massimo Fusillo e Gian Piero Piretto). Tutti gli interventi presentati al convegno sono stati pubblicati nel giugno 2011 sul primo numero di «Between. Rivista dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura» (http://ojs.unica.it/ index.php/between). 1. L’apertura tematica e l’eterogeneità dei discorsi non ha mai obliterato, in questo volume, un comune presupposto critico-teorico: spazio e tempo, correlativi di uno stesso raccontare, si sono intersecati nel pensiero sulle opere e sulle questioni vedendosi attribuiti, ora l’uno ora l’altro, modelli diversi di strategie interpretative dei testi. La ripresa importante dell’elemento spaziale e liminale come possibilità espressiva e dunque interpretativa del fatto letterario è stata decisiva nell’attribuzione di qualità al discorso sulla relazione fra spazio e tempo, a partire dalla definizione di cronotopo letterario di bachtiniana memoria. L’antagonismo fra le due categorie dello spazio e del tempo, che è in realtà più produttivo di quanto si pensi comunemente, è sempre stato – e destinato a rimanere – irrisolto, a causa dell’alternarsi storico e generazionale fra supposte dominanze dell’una o dell’altra. Nella prefazione al volume dedicato, appunto, al tempo e al nesso memoria/oblio, Niccolò Scaffai ribadiva la permanenza delle “scritture del tempo” (autobiografia, autofinzione, etc.) pro8 prio e anche a partire dalla riaffermazione della categoria dello spazio (Scaffai 2004). La misurabilità empirica dello spazio e la convinzione umana della rinnovabile possibilità di dominio su natura, paesaggio e spazio sono state sottoposte a incrinature sostanziali, decisive perché si affermasse invece l’idea di una possibile inafferrabilità – e dunque sempre rinnovabile interpretabilità – proprio dello spazio che circonda e comprende tanto l’esperienza del vissuto umano quanto la sua resa letteraria. Si pensi ad esempio alla rappresentazione beckettiana di spazi sociali come il cilindro descritto nella prosa de Le dépleupleur (1970) (Lo spopolatore): un’umanità scarnificata in corpi silenziosi si aggira in quel misterioso cilindro di cui il narratore ci fornisce coordinate e misure esatte, temperature e luminosità. Il tentativo di delimitare scientificamente la cavità sfugge invece ai personaggi che la abitano, eterni chercheurs che misurano incessantemente lo spazio che li circonda giungendo fino all’estinzione della vita stessa, servendosi unicamente dell’unità di misura del loro corpo e delle loro membra. Misurare iterativamente, senza certezze, quello che apparirebbe come un luogo delimitato e certo, scoperchia una dimensione vissuta dello spazio in cui certezza e dubbio umani convivono cronologicamente nell’atto stesso dell’attraversamento dell’allegorico cilindro (che tutti potrebbe contenerci). Negli ultimi anni si è progressivamente affermata un’attenzione crescente per la geografia letteraria e per i nessi tra letteratura e spazialità, a volte complementare, a volte invece antagonista, alla storia letteraria. Michel Collot, animatore con Julien Knebusch di un progetto di ricerca e di un blog sulle questioni che associano letteratura e spazialità (http://geographielitteraire.hypotheses. org), rimarca come l’interesse della geocritica, della geopoetica e della geografia letteraria per la rappresentazione dello spazio in letteratura non sia altro che una risposta ad una pratica letteraria. Nella letteratura e nell’arte contemporanea genere, tema e forma interagiscono nell’istituzione di un legame con lo spazio, come accade nella Land Art. I due studiosi articolano le ricerche in questo 9 campo su tre assi: la geografia della letteratura, per affrontare il contesto geografico storico e sociale nel quale sono prodotte e diffuse le opere; la geocritica, per rivolgersi allo studio della rappresentazione dello spazio, anche a livello tematico, nei testi letterari, e la geopoetica, indirizzata a mettere al centro le forme e i generi per analizzare il piano stilistico e poetico delle opere in relazione allo spazio. Ma non di solo rapporto con il referente vive lo studio della spazialità nei testi – ove il termine “testi” deve intendersi anche in senso ampio, lotmaniano – non di sola geografia. Certo, gli elementi di frontiere, confini, limiti sono stati assunti soprattutto in relazione ai loro referenti più immediati, più diretti che, però, rimangono spesso incomprensibili se non ci si interroga anche sul senso che acquisiscono per l’osservatore; i testi allora devono essere interpretati tenendo conto del rapporto che istituiscono con i loro referenti; ma i testi sono a loro volta agenti attivi della costruzione del senso di quegli stessi referenti spaziali che solo un pensiero ingenuo può pensare come “obiettivi”. Questa bidirezionalità e reciprocità è stata accolta e assunta dai saggi qui presentati. Ed è proprio l’animatore della teoria geocritica, Bertrand Westphal, ad aprire il volume con una relazione dedicata all’idea di orizzonte. L’indagine etimologica sulla linea fittizia che da una parte separa e dall’altra delimita, si interseca fruttuosamente con il senso escatologico del tendere e del desiderare. Il (geo)critico si concentra sulla geografia e sull’architettura dell’oltretomba dantesco (non estraneo a ricognizioni critiche geografiche, come ricorda Giulio Iacoli nel suo intervento da respondent), per mettere in primo piano l’uso originale del termine “orizzonte” che Dante attua nel Purgatorio. Tematicamente affine, nel suo intervento, a quello di Westphal, Sandro Maxia coglie in Mediterraneo di Eugenio Montale i segni del progressivo avvicinamento e della preparazione del soggetto al mondo naturale del mare, rappresentandolo poeticamente prima come soglia dell’accoglienza nel mondo dell’infanzia, poi come limite invalicabile e problematico nell’età adulta. La contrappo10 sizione liminale tra mare e terra intesa come destino (personale) di scissione fra i due elementi viene sancita in contrapposizione all’ipotesi della scelta etica. La distesa equorea è preludio in Montale alla filosofia del limen, ripercorsa qui sia nel poeta ligure sia in altri autori. L’ossimoro montaliano del mare fisso e diverso, messo in evidenza da Maxia, è sottolineato dalla respondent Maria Carla Papini come possibile trait d’union con un’affinità tematicoespressiva di Michelstaedter (ma anche di Ungaretti), nell’esito tuttavia opposto in questi ultimi del recupero possibile di una pur labile o effimera armonia e salvezza esistenziale. Nell’intervento di Elisabeth Rallo Ditche il testo di Tess è il terreno per una lettura tesa a ripristinare il valore del pensiero animista in Thomas Hardy. Mettendo in evidenza i passaggi narrativi in cui prevale la descrizione della simbiosi fra mondo naturale e personaggi, l’autrice del saggio indaga le modalità con cui Hardy da una parte costruisce un ruolo narrativo agli esseri non umani che popolano il romanzo, e dall’altra disegna la relazione fra questi e la sua eroina. Su questo nesso complesso e frastagliato fra natura e cultura si era soffermato, durante la giornata del convegno cagliaritano, anche il respondent Daniele Giglioli evidenziando come, nelle scene romanzesche in cui è preda del sonno, Tess diventi significativamente – come un animale caduto in una trappola – anche preda di uomini che la “agiscono” senza che ne abbia coscienza (la scena dello stupro nel bosco e la scena finale a Stonehenge). Su tale crinale narrativo si fronteggiano da una parte l’elemento istintuale della protagonista, dall’altra la componente culturale (e maschile) della dominanza del sesso e della legge. Su questo stesso limine natura/cultura interviene però anche l’atto che riporta il “personaggio di natura” Tess a una scelta sul versante della cultura: la vendetta e l’assassinio. Anne Tomiche ha riportato l’attenzione sull’oggetto, la cosa: la letteratura cosiddetta europea o mondiale o generale e la sua relazione, al di là della definizione, con gli spazi geografico-culturali. Se l’Europa sia un’ideale comunità letteraria (l’idea di una letteratura europea, appunto) oppure un insieme di frontiere che 11 segnano comunità letterarie differenti è da lungo tempo un cruccio della comparatistica. Il passaggio dall’idea goethiana e romantica di Weltliteratur come superamento dei nazionalismi ma, al tempo stesso, ripiegamento sull’eurocentrismo, alla concezione di una letteratura mondiale ha visto susseguirsi nel tempo diverse posizioni critiche nei confronti del “dominio” e colonialismo europeo. La questione liminale si pone in questo caso come paradigma di inclusione o esclusione canonica delle diverse produzioni letterarie del mondo, ma anche come confronto ideale e auspicabile fra fenomeni letterari (come il modernismo) troppo a lungo interpretati sotto il ristretto cono di luce delle letterature europee. La difficile equazione fra i tre termini di letteratura mondiale, europea e comparata ripropone gli elementi di riflessione cui molti comparatisti hanno dedicato ampia bibliografia, fra quali Erich Auerbach che negli anni Cinquanta, riconoscendo il dono prezioso della lingua, della cultura e della nazione che ognuno riceve, dichiarava che «solo separandosene e superandole queste divengono efficaci» (Auerbach 1984: 121). 2. Le accezioni comprese sotto le “parole chiave” di frontiera, confine e limite negli interventi di questo volume sono dunque molteplici, a riprova di una loro spiccata produttività: si va da una connotazione geopolitica ad una squisitamente teorico-ermeneutica. Ma ciò che accomuna campi così disparati è la funzione del limite, il quale, oltre a dividere, si fa catalizzatore di ciò che Edward Soja (Soja 2000: 11) designa, rifacendosi a Bhabha (Bhabha 1990: 207), come “third space”, ovvero un fattore che trascende, pur compendiandole, le circostanze in cui un’opera si manifesta. Capire le condizioni in cui una certa espressione si attua e riuscire ad andare oltre significa per Soja attivare un potenziale critico, ovvero immaginare un’altra dimensione – terza appunto – da cui ricostruire un intero processo, sociale ed estetico insieme, e comprendere così sia un singolo fenomeno che un’intera fase sociale. Immaginare partendo dal limite: si tratta in fondo della “suddi12 visione appropriata” auspicata da Hamann, il punto di partenza per superare quella che Raymond Williams prima e Bourdieu poi denunciavano rispettivamente come la “coscienza divisa di arte e società” (Williams 1976: 28) e la tendenza “purista” dell’estetica (Bourdieu 2004: 492); ricapitolare la connotazione materiale del limite non per appiattirsi su questa fase, ma per seguire le associazioni simboliche cui limiti e frontiere danno vita. In questo senso abbiamo assistito nell’ultimo trentennio alla progressiva dissoluzione dei confini nelle “città senza porte”, dove «l’immediatezza dell’ubiquità conduce all’atopia dell’interfaccia unica» (Virilio 1988: 15), e dove dunque lo spazio come insieme di differenti ubicazioni viene annichilito dalla tecnologia. Parallelamente, in un tragico processo inverso, i confini fra comunità, Stati e continenti sono andati irrigidendosi secondo discriminanti razziali ed economiche, con un continuo ricorso all’“eccezione” (Agamben 1995) che, diventando nella prassi regola giuridica, ha finito per sancire la discontinuità dello spazio e del diritto. Evidente la valenza immediatamente etica cui rinviano anche le espressioni artistiche incentrate o anche solo pertinenti alla nozione di confine. Eppure, in questa fase, proprio la capacità di avvicinarsi al margine e trasformarlo in qualcosa d’altro diventa un’esperienza di apprendimento indispensabile per «conoscere quali relazioni di prossimità, che tipo di circolazione, di approvvigionamento, di classificazione degli elementi umani deve essere considerato primariamente in questa o quella situazione per conseguire un certo fine» (Foucault 2001: 21). In un’epoca in cui lo spazio si offre sotto quelle che Foucault qualifica come “relazioni di dislocazione” diventa ancora più urgente accettare di vivere la liminarità. In questo spirito si colloca l’esortazione di Silvia Albertazzi a concepire la scrittura come atto di confine, ovvero come capacità di mettersi in gioco, consapevoli, anche sulla scia di Salman Rushdie, che siamo «condannati a vagare criticamente, emotivamente, politicamente… appassionatamente – in un mondo caratterizzato da un eccesso di senso che, se da una parte offre la possibilità di significato, dall’altra continua a sfuggirci» (Chambers 1995: 22). 13 La narrativa è la qualità che consente di attribuire senso alla condizione contemporanea, e questa operazione dovrebbe porsi come obiettivo quello di superare confini basati su un pensiero unico omologante, quello stesso che produce gli scontri di civiltà di Huntington o la fine della storia di Fukuyama; al contrario, la linea lungo la quale si dovrebbe muovere l’odierna comparatistica è quella di «mettere in comunicazione tutte le culture del mondo» e, allo stesso tempo, «mettere a fuoco la relazione fra letteratura e mondo, secondo l’unità infinita della reciprocità» (Gnisci 1998: 25). Questa direzione era già esplicita nell’idea, affermatasi negli anni Ottanta, di un sistema interpretativo che coesistesse e interagisse con chi se ne serve, creando uno «spazio fluido di alleanze trasversali rispetto alle nozioni di classe e famiglia» (Bernheimer 1995: 12). È così originata una comparatistica attenta non solo ai luoghi – lo spazio fluido – ma alle metafore produttive che ai luoghi vengono associate, una disciplina che nella sua fase postcanonica e post-Wellek ha privilegiato «una poetica del frammento, una resistenza totalizzante alla totalità» (Saussy 2006: X). Questa fase ha coinciso, a livello globale, con una esplosione dei confini, sistematicamente analizzata in un’affatto inquietante rassegna da Massimo Arcangeli. Una diagnosi, attraverso “parole chiave”, del «rischio percepito della globalizzazione come dominio di un cosiddetto pensiero unico, uscito apparentemente trionfante dalla sconfitta del socialismo reale» (Della Porta - Mosca 2003: 11). Si parte dalla crescente incapacità da parte degli Stati nazionali di assicurare un livello di benessere soddisfacente nell’ambito dei rispettivi confini, a causa dell’erosione della propria giurisdizione che gli Stati oggigiorno subiscono, ad opera di movimenti regionalistici da un lato ed entità sopranazionali sempre più potenti e pervasive dall’altro. Intanto, anche sulla spinta emotiva dell’11 settembre, l’affermarsi di spazi sempre più condivisibili anche nella progettazione urbana ha conosciuto un’improvvisa e preoccupante inversione di tendenza: dai muri della Cisgiordania ai blocchi di cemento che proteggono potenziali obiettivi sensibili 14 in caso di attentato, si è assistito al ritrarsi dell’architettura in una dimensione chiusa e protetta, come, nella prassi di tutti i giorni, quella dei centri commerciali che si negano all’interazione con la polis, e tutto ciò per timore dell’imprevedibilità insita nell’esperienza genuinamente politica. Il flusso dei migranti è percepito come una di queste minacce in quanto insidia l’inviolabilità del confine, dove questo è inteso come limite comune, separazione fra spazi contigui, ma soprattutto sanzione della proprietà su un luogo. In questo caso tutti gli spazi coinvolti da un lato o l’altro del confine sono potenzialmente fruibili per quei processi simbolici attraverso i quali si costituisce una comunità, immaginandola «come insieme limitata e sovrana» (Anderson 1996: 25). Il confine diventa frontiera, ovvero spazio ultimo, invalicabile, quando non si limita a separare ambiti diversi, ma ne sottolinea l’opposizione; la frontiera, però, a differenza del confine, è instabile, mobile, allude ad un’aspirazione, uno slancio invece congelato dal confine. La distinzione fra “border” e “frontier” tende ad indebolirsi quando si vuole designare un territorio di frontiera che resta nei limiti del confine: ad esempio, l’idea di “Mark” nella lingua tedesca designava aree che, seppure sulla frontiera, restavano all’interno della zona di pertinenza dell’etnia teutonica. Abbiamo così passato in rassegna diverse variazioni sul tema del confine, e tutte rientrano in quel racconto del confine orientale italiano ad opera di Ivan Verč, dove alla cangiante conformazione geopolitica si somma la variabile temporale: per riassumere dunque non solo ciò che questo confine rappresenta, ma anche ciò che ha rappresentato e come esso si potrebbe configurare in futuro. La storia del confine orientale, nella sua asciutta oggettività, è un esempio di decostruzione dell’idea di confine; oltre che un’esposizione esemplare delle aberrazioni che hanno accompagnato la nascita e l’affermazione del nazionalismo moderno, considerato nella sua doppia natura, già teorizzata da Renan, di ricettacolo di memoria e costruzione di consenso. Il primo aspetto di questo dualismo è ovviamente statico, mentre il secondo, indispensabile 15 all’attivazione del primo, è dinamico, ma fino a un certo punto. Oltre questo punto (il cui superamento può essere determinato, ad esempio, da un crollo del consenso) il carattere violentemente ambiguo del confine, come funzione sia della soglia (un accesso) che del contenimento (un limite) finisce per collassare, lasciando emergere la nazione come «formazione discorsiva: non una semplice allegoria o una visione immaginativa, ma una ricca struttura politica» (Brennan 1997: 99). Per cogliere l’immediata pertinenza di questi contributi al vaglio della letteratura oggi è sufficiente ricordare l’importanza del fattore nazionale nell’economia del fenomeno – letteratura, ma anche arte, cinema, musica – postcoloniale, oltre che il nesso sempre più stretto che i cultural studies hanno stabilito, producendo un’ampia rassegna di revisioni storiche e storiografiche, tra l’idea di “nation-ness” e i concetti di “folklore”, “tradizione” o “comunità”, senza dimenticare la genealogia che accomuna nazione e sistemi di comunicazione di massa, a cominciare dalla stampa e, soprattutto, dal romanzo. Leggere un romanzo e percepire l’idea, spiccatamente dialogica, di identità nazionale che esso comunica significa partecipare ad un meccanismo di consenso o a un movimento egemonico dal basso, come ben aveva intuito Gramsci nella sua diagnosi dell’assenza di un carattere nazional popolare nella letteratura italiana. «I romanzi esercitano una potente influenza […] proprio perché sono privi di una sanzione ufficiale. La loro autorità deriva dai lettori e non dagli apparati culturali dello stato» (Parrinder 2006: 9). Processi identitari, pratiche egemoniche iscritte nelle formidabili potenzialità della letteratura ci conducono ad una dimensione che, oltre che metanarrativa, contiene un importante insegnamento epistemologico. In questo senso, la translucidità esplorata da Silvano Tagliagambe si costituisce come nesso fra il reale e l’immaginario a partire dall’intuizione delle forme, senza la chiara percezione dei contorni. Un’ipotesi che rende attuale una vivace discussione sulla modernità suscitata da Benjamin a proposito del vetro dell’international style; lo stile modernista in architettura, 16 caratterizzato dalla sintesi asettica di vetro e acciaio, rappresenterebbe per Benjamin la liquidazione programmatica delle condizioni stesse dell’esperienza, in quanto il suo fine esplicito consisterebbe nel rendere impossibile il lasciar tracce. Ma il vetro, nella prospettiva di Loos e Scheerbart, non è solo perdita di aura: esso «porta il suo attacco all’idea stessa di interno, opponendosi così a un’idea di possesso inalienabile». Nella chiosa di Cacciari «il vetro dilata l’interno in una lunga pausa, in un indugio sofferto. In quest’indugio riflette se stesso nella sua differenza e fa riflettere su un possibile luogo dell’esperienza, su un suo possibile non ancora» (Cacciari 1980: 129). Ancora un confine, in questo caso spazio-temporale, il quale – come precisa Mario Domenichelli in veste di respondent –, mette letteralmente in luce il reale nella sua fase di trapasso al simbolico; traducendo la translucidità dell’esperienza postulata da Florenskij nell’idea opaca di diaframma, consapevolezza di una soglia – per usare un termine benjaminiano – che non esclude il contatto, ma lo problematizza proprio in limine. E la scrittura, intesa come interrogazione lacaniana dello spazio ermeneutico, diviene il luogo in cui “il pensiero si scardina”, ovvero la realtà dell’oltre (lo jenseits) riuscirà a risuonare dal simbolo alla coscienza attraverso «una finestra verso un’altra essenza che non è data direttamente». Nel suo suggestivo intervento, Tagliagambe allude all’alterità e all’“ulteriorità”. In questo segno si colloca l’appello di Michele Cometa per un’apertura agli stimoli della biopoetica, coniugata non secondo le mode statunitensi, ma riassorbita e rielaborata all’interno di un dibattito stratificato in area esistenzialista, da Husserl, ad Heidegger, per approdare a Paci. E valorizzare in tal modo, nel riconoscimento di costanti intersoggettive, le intuizioni foucaultiane sviluppate nell’antropologia italiana da De Martino, che vedeva l’emergere della natura nella cultura «in quanto fedeltà immediata a iniziative di generazioni passate, o del nostro passato e di quanto vi si lega attraverso la nostra biografia culturale» (De Martino 1977: 648). Tale «rinegoziazione di categorie apparentemente ontologiche come natura e cultura» (Cometa 2010: 17 186), a partire da abitudini che definiscono la nostra socialità nel quotidiano non escluderebbe, ma anzi spingerebbe, a partire dalle intuizioni di Raymond Williams nella categoria di «structure of feeling», ad una «etnologizzazione delle arti» (De Certeau 2001: 109), e con essa una valorizzazione della dimensione integrale del corpo. Più in generale, su questo umanesimo materialista a tutto tondo, antidoto alle generalizzazioni della globalizzazione, si profila anche la sfida della comparatistica contemporanea, sempre più radicata nel materiale attraverso una fruttuosa contaminazione interdisciplinare in cui il paradigma si apre ad approcci – ben presenti in questa breve rassegna, dal postcoloniale agli studi culturali – diversificati, flessibili, ma sempre politici, e che trovano nella teoria quel «discorso, nel senso antico e classico del termine, che significava “vedere, far vedere” o “contemplare” (theorein)» (De Certeau 2001: 118). Per l’appunto, una ripartizione appropriata di luce ed ombre. Bibliografia Agamben Giorgio, Homo sacer, Torino, Einaudi, 1995. Anderson Benedict, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 1996. Auerbach Erich, “Filologia della Weltliteratur” (1952), La letteratura del mondo, a cura di A. Gnisci, Roma, Carucci, 1984: 105-121. Bernheimer Charles, “The Anxieties of Comparison”, Comparative Literature in the Age of Multiculturalism, a cura di Charles Bernheimer, Baltimore, Johns Hopkins U.P., 1995. Bhabha Homi, “The Third Space”, Identity: Community, Culture, Difference, a cura di Jonathan Rutherford, London, Lawrence & Wishart, 1990: 207-221. Bourdieu Pierre, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 2004. Brennan Timothy, “La ricerca di una forma nazionale”, Nazione e narrazione, Ed. Homi Bhabha, Roma, Meltemi, 1997. Cacciari Massimo, Dallo Steinhof, Milano, Adelphi, 1980. 18 Chambers Iain, Dialoghi di frontiera. Viaggi nella postmodernità, Napoli, Liguori, 1995. Collot Michel - Knebusch Julen (a cura di), http://geographielitteraire. hypotheses.org. Cometa Michele, Studi culturali, Napoli, Alfredo Guida, 2010. De Certeau Michel, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2001. 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