L`impasse nella relazione di aiuto con la persona
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L`impasse nella relazione di aiuto con la persona
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 L'impasse nella relazione di aiuto con la persona tossicodipendente Massimo Borgioni C'è una saggezza che è dolore; ma c'è un dolore che è pazzia. Hermann Melville "Moby Dick" Le tipologie dell'utenza Generalmente le persone che presentano condotte tossicomaniche richiedono un aiuto specialistico quando si trovano ad uno stadio già avanzato della loro problematica. Gli eroinomani, ad esempio, si rivolgono ai servizi dopo aver superato la fase della "luna di miele" con la sostanza (Maremmani et al., 1999; Maremmani et al. , 2001), ossia il momento in cui gli oppiacei vengono ricercati per l'effetto positivo che inducono più che per placare la sintomatologia astinenziale; inoltre la loro richiesta di aiuto segue diversi tentativi di disintossicazione spontanea per lo più ad esito negativo. Gli eroinomani che richiedono aiuto sono transitati dall'abuso alla dipendenza, si trovano cioè in una condizione clinica caratterizzata dai seguenti fenomeni di assuefazione o tolleranza, con la necessità di dosi sempre crescenti di oppiacei; sindrome astinenziale; craving, ossia appetizione violenta ed insopprimibile nei confronti della droga; condotte compulsive orientale alla ricerca ed all'autosomministrazione del farmaco, che prendono molto tempo e spingono a comportamenti sempre più rischiosi (American Psychiatric Association, 1994). A questo punto le persone coinvolte nel problema hanno già maturato diversi problemi a livello lavorativo e legale, ma anche familiare e affettivo; la sostanza ha già fatto molto deserto attorno a loro e i tossicomani sono pronti ad entrare nella fase della "porta girevole", corrispondente alla cronicizzazione della patologia: un alternarsi di momenti di disintossicazione (dovuti a carcerazioni, inserimenti in comunità terapeutiche, periodi di cura ambulatoriale, allontanamenti spontanei dalle sostanze) e ricadute sempre più massicce e pericolose (Maremmani et al., 2001 ). Gli interventi di aiuto, subentrando a questo livello della problematica, entreranno subito a far parte della porta girevole, scandendone i ritmi ed i ciclici ritorni. Questa descrizione, valida per gli assuntori di eroina, è solo parzialmente sovrapponibile allo sviluppo tossicomanico di un altro grande gruppo di 1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 consumatori di sostanze illegali, quello costituito dai cocainomani. Sebbene negli ultimi anni il numero di coloro che chiedono aiuto ai Servizi per uso di cocaina costituisca un trend positivo, e la cocaina risulti in notevole espansione sia come sostanza d'abuso primaria che come sostanza d'abuso secondaria e come responsabile di un numero crescente di decessi drogacorrelati, i cocainomani che chiedono un aiuto specialistico costituiscono sempre un'esigua minoranza rispetto agli eroinomani (Ministero della Salute, 2005). Molti di loro restano del tutto sconosciuti ai Servizi fino a quando un episodio di carcerazione non li spinge a contattare il personale del Servizio per le Tossicodipendenze che opera all'interno della struttura penitenziaria, oppure le comunità terapeutiche per l'ottenimento delle misure alternative alla detenzione. Questa difficoltà a chiedere aiuto da parte del cocainomane è dovuta a diversi motivi. Innanzitutto il cocainomane tende ad avere minore consapevolezza della problematicità del proprio comportamento rispetto a quanto non accada invece all'eroinomane; la cosiddetta "luna di miele" con la sostanza tende a prolungarsi, nel caso della cocaina, per molto più tempo; inoltre, lo stigma di tossicodipendente viene considerato dal cocainomane inappropriato riguardo a se stesso e, viceversa, applicabile al consumatore di oppiacei rispetto al quale egli si sente molto lontano e, in un certo qual modo, superiore. C'è da aggiungere che i fenomeni della tolleranza e della dipendenza fisica, caratteristici del consumo reiterato di eroina, non si riproducono nell'abuso e nella dipendenza da cocaina (Malizia E., Borgo S., 2006). Ad ultimo, non esistono farmaci sostitutivi, come il metadone nel caso degli oppiacei, che abbiano lo stesso potere attrattivo per i cocainomani: così, mentre l'eroinomane sa che potrà trovare nel metadone, erogato dai Servizi, la risposta più immediata all'astinenza e al craving, per chi fa uso ripetuto di cocaina non esistono surrogati che possano indurlo a non continuare a ricercare la cocaina stessa per sedare il suo bisogno di sostanza. Un caso ancora diverso, ma oggi piuttosto diffuso nei servizi, è quello costituito dai cosiddetti "poliassuntori". Questi fanno un uso parallelo di diverse sostanze (oppiacei, cocaina, benzodiazepine, alcool, cannabinoidi, ecc.) senza che nessuna di esse divenga elettiva rispetto alle altre. A volte la poliassunzione costituisce l'esito di una lunga carriera tossicomanica, altre volte invece si presenta come caratteristica primaria dell'abitudine di consumo. Le caratteristiche della richiesta di aiuto Nei casi sin qui prospettati, la richiesta di aiuto, poiché sempre tardiva, tenderà ad assumere i connotati della drammaticità e dell'urgenza. Il tossicodipendente per richiedere un intervento curativo deve essere disposto a mettere in qualche modo in discussione le sue abitudini di consumo e il suo stile di vita, deve correre il rischio di far entrare un estraneo nel suo mondo rigidamente polarizzato sui rituali di ricerca e di assunzione della sostanza, ciò vuoi dire che ha raggiunto un limite, ossia che il prezzo pagato alla sostanza ha toccato un livello troppo alto ed è progredito molto al di là di ogni ragionevole aspettativa di controllo. In altri termini, il tossicodipendente per chiedere aiuto generalmente deve aver toccato il "fondo". 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 Quando formulano la loro richiesta di aiuto i tossicodipendenti chiedono di troncare di netto con il loro passato, reclamano l'urgenza di un ritorno alla vita normale, chiedono di poter recuperare gli affetti perduti, la fiducia oramai seriamente compromessa dei loro familiari, vorrebbero tornare ad intravedere una progettualità che è stata fortemente messa in discussione dall'esigenza di rispondere continuamente all'urgenza pressante della droga e dalle numerose vicissitudini di strada ad essa collegate. Molti di loro necessitano di un'assistenza legale, sociale, medica e spesso anche materiale, oltre che psicologica. Il tossicodipendente a questo punto sa che proseguendo con le sue condotte potrà progredire solo verso l'autodistruzione fisica e l'annientamento esistenziale. La sua richiesta di aiuto tende ad avere gli stessi aspetti di compulsività, di impellenza, di tolleranza verso ogni mediazione con la realtà, che caratterizzano la richiesta di sostanza. Si tratta, in poche parole, di una richiesta di salvezza, materiale, psichica e spirituale, che non ammette deroghe. „ Già a partire da questo momento iniziale, chi si prende cura di rispondere a tale sollecitazione corre un rischio elevato. L'operatore/professionista delle tossicodipendenze può reagire con un investimento eccessivo riguardo alla sua mission ed alle fantasie ad essa collegate, entrando in una dimensione di ruolo salvifica. La sindrome che definirei dell' "lo ti salverò", ricorrendo al titolo di una famosa pellicola di H. Hitchcock, può essere tanto più forte e virulenta quanto più potenti sono le proiezioni narcisistiche dell'operatore/professionista delle tossicodipendenze nel proprio lavoro, nonché il bisogno di acquisire potere nella relazione: e quale potere è più forte di quello di salvare una vita? Alla sindrome dell'"Io ti salverò" non è facile sfuggire, in un certo qual modo è la domanda stessa di aiuto da parte del tossicodipendente a sollecitarla; detta sindrome risponde ad una profonda collusione dove i protagonisti della relazione di aiuto saranno fatalmente destinati allo scambio reciproco dei ruoli di vittima-salvatorepersecutore, nel configurarsi di una situazione di co-dipendenza per la quale si adatta bene al termine di tossicodipendente quello complementare di "tossicocuratore" (Cancrini M.C., Mazzoni S., 2002) La luna di miele e il declino nella relazione di aiuto Nel partecipare alla relazione di aiuto, la persona tossicodipendente inizialmente tende a lasciar vedere soltanto la parte, per così dire, "buona" di sé, quella polarizzata verso il cambiamento, che richiede di essere recuperata, ossia disintossicata, normalizzata e reinserita; tende, in sostanza, soltanto ad esibire il polo positivo di una scissione di fondo che scollega aspetti molto diversi della personalità. Ciò può rinforzare la collusione di cui si è detto poc'anzi, cioè la risposta salvifica dell'operatore/professionista delle tossicodipendenze, alimentando in quest'ultimo aspettative irrealistiche di segno positivo sul processo di cambiamento. In questa fase iniziale, le persone tossicodipendenti portano ai colloqui temi ricorrenti. Innanzitutto astratte affermazioni di dovere, sostenute da una forte rigidità; si tratta di un copione che il tossicodipendente segue ripronunciando più volte la sua intenzione di cambiare, elencando le persone 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 per cui lo vuole fare, esplicitando il disprezzo e il rifiuto nei confronti di ogni tipo di sostanza. In secondo luogo, egli manifesta una tendenza alla separazione dal resto dell'utenza; il tossicodipendente sostanzialmente dice: "lo non sono come tutti gli altri, che fingono di volersi curare e poi continuano a fare quello che vogliono, io sono diverso, io ho davvero l'intenzione di cambiare". Infine egli avanza atteggiamenti seduttivi nei confronti dell'operatore/professionista; in pratica il tossicodipendente non solo distingue se stesso dal gruppo dei pari, ma tende a distinguere anche chi si prende cura di lui rispetto agli altri operatori/professionisti, esaltandone le capacità, le attitudini e le competenze. In questo modo il tossicodipendente e chi lo aiuta possono dare vita alla "coppia più bella del mondo": una diade a parte, che si alimenta di una intesa speciale, diversa, migliore, molto al di sopra della media (o della mediocrità) di una normale relazione di aiuto. Si tratta di una fase di splendore, una luna di miele dentro la relazione curativa, destinata, dopo aver raggiunto molto rapidamente il suo culmine, ad un altrettanto rapido, inevitabile, declino. Nello sviluppo di una relazione di aiuto così impostata, infatti, la persona tossicodipendente tenderà ad una scarsa partecipazione emotiva e ad un marcato distacco dai sentimenti. La relazione, pur essendo apparentemente foriera di grandi speranze, è in realtà caratterizzata da astratte idealizzazioni e da immagini di falso sé: essa non viene sostenuta da reali energie organismiche. Le emozioni, l'eccitazione e la vitalità del tossicodipendente sono, in questa fase, ancora tutte legate alle sostanze e completamente separate dall'interazione curativa. È questo un dato di fatto rispetto al quale si possono riscontrare solo rare eccezioni. I colloqui saranno caratterizzati dalla prevalenza dei contenuti di seguito elencati. Perseveranza monotematica nei buoni proponimenti, ossia il copione precedentemente descritto riguardo le intenzioni positive di cambiamento che tende a degenerare cristallizzandosi in stereotipie verbali ripetitive e monotone. Accentuazione dei temi psicocorporei sino ad arrivare ad una vera e propria "deriva ipocondriaca": elencazione preoccupata degli effetti secondari legati ai farmaci sostitutivi e sintomatici, nel caso in cui la relazione di aiuto comprenda anche interventi di natura farmacologica; attenzione ossessiva su tutte le sensazioni che possono richiamare e far temere il principio di una sindrome astinenziale (spossatezza, dolorabilità, brividi, sudorazione, ansia, difficoltà nell'addormentamento); preoccupazioni riguardo al peso corporeo, all'appetito, alla forma fisica ed alle patologie correlate eventualmente contratte a causa dell'assunzione di sostanze. Attenzione polemica riguardo agli aspetti farmacologici del trattamento, che vengono generalmente contestati sia riguardo al dosaggio che riguardo alle modalità di somministrazione. Atteggiamento fortemente autoaccusatorio sull'origine dei comportamenti tossicomanici, che stronca sul nascere qualunque tentativo di ricostruzione della storia personale, il tossicodipendente interrompe, drasticamente a volte, qualunque tentativo di esplorazione in tal senso con affermazioni del tipo: "Non posso addebitare la responsabilità di ciò che sono diventato a nessuno: la colpa di ciò che sono è soltanto mia". 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 A fronte di tutto ciò, chi si fa carico della relazione di aiuto incomincerà presto ad avvertire una sensazione di inconcludenza, a sentirsi in una condizione di "stallo". La risposta emotiva più probabile sarà la noia. Questo sentimento, abbastanza di frequente sperimentato nella relazione di aiuto con i tossicodipendenti, segnala che il rapporto non si alimenta di energie vitali, che entrambi i partecipanti alla relazione di aiuto sono intrappolati in ruoli incongruenti, che non c'è alcun incontro reale, che il loro interagire si è arenato su un terreno pesante, in una situazione di inamovibilità da cui diviene sempre più difficile districarsi. Ma ad ultimo questo impasse si risolverà nel modo più prevedibile e in fondo più logico: la ricaduta del tossicodipendente nell'assunzione della sostanza. Come abbiamo già visto, facendo riferimento alla fase della "porta girevole", il fenomeno della ricaduta è in qualche modo strutturale e fisiologico alla condizione del tossicodipendente in cura. Il punto quindi non è tanto la ricaduta in se stessa, quanto il fatto che essa segnerà la fuga del tossicodipendente dalla relazione d'aiuto. In un rapporto curativo come quello finora descritto, infatti, il tossicodipendente dopo la ricaduta eviterà di tornare a farsi vivo, almeno nell'immediato, e questo a causa di sentimenti ambivalenti: vergogna da un lato e sfiducia dall'altro. È evidente che può essere molto difficile sostenere, senza il timore di venire giudicati, la circostanza della ricaduta soprattutto in una relazione di aiuto dove si è celebrata l'immagine esclusiva della guarigione e dove sono state collusivamente alimentate dall'operatore/professionista solo aspettative positive riguardo la remissione del comportamento sintomatico. D'altra parte, agli occhi dell'utente, l'operatore/professionista che è scivolato in una tale illusione appare ora come uno dei tanti che si è fatto "fregare", che si è lasciato abbindolare dal richiamo di false promesse: persona priva di polso, facilmente manipolabile e quindi incapace di dare un reale contenimento. Ecco che la luminosa relazione di poco tempo prima, naufragando in una sequenza di appuntamenti mancati, finisce nella crisi e nel fallimento. L'utente che con tanta disperazione e urgenza aveva chiesto aiuto promettendo disponibilità, impegno e partecipazione, alla fine si è rivelato più fedele alla sua identità tossica e alla rivendicazione deviante, mentre l'operatore/professionista che appariva così competente ed umano ha perso l'apprezzamento e l'autorevolezza di cui godeva agli occhi del tossicodipendente, ritrovandosi solo di fronte ad una sedia vuota. Il promotore della relazione di aiuto dovrà a questo punto gestire una ferita narcisistica accompagnata da probabili sentimenti di tradimento, abbandono, delusione e impotenza, tanto più dolorosi quanto più sostenuti siano stati l'investimento salvifico e la proiezione grandiosa nel proprio ruolo (vedi Schematizzazione Parte A). Questo schema, nonostante produca insuccessi , non è destinato ad una facile estinzione, al contrario solitamente tende a ripetersi, riproponendosi nel tempo, con utenti diversi ma anche con lo steso utente. Capita spesso, infatti, che il tossicodipendente dopo essere scomparso per un pezzo ed aver consumato fino in fondo la sua fase di ricaduta, torni a farsi vivo chiedendo spontaneamente un nuovo intervento di aiuto, una nuova possibilità. Le sue condizioni questa volta saranno, se possibile, anche peggiori della volta 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 precedente, con tutte le aggravanti affettive, fisiche, relazionali e sociali dovute alla recrudescenza tossicomanica. L'intervento dell'operatore/professionista verrà invocato, forse, come l'unica ed ultima ancora di salvezza in una rete di supporto oramai desertificata dalla droga e la richiesta di aiuto tornerà ad assumere tutte le caratteristiche della drammaticità e dell'urgenza. «Oramai ho deluso tutti. Nessuno vuole più aiutarmi. Non abbandonarmi anche tu. Non dirmi di no»: questo essenzialmente il messaggio che verrà rivolto al promotore della relazione di aiuto. L'aggancio sulla spinta salvifica potrà essere così nuovamente fatale e il ciclo tornerà a ripetersi, destinato a uno stesso epilogo. 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 Questa situazione non la si osserva soltanto nel rapporto che il tossicodipendente instaura con gli operatori e i professionisti della salute mentale, ma in tutte le relazioni significative (parentali, amicali, familiari e sentimentali) ove decida di chiedere aiuto. In un suo saggio famoso R. Norwood (Norwood R., 1985) analizza la pervicacia con la quale compagne e mogli di alcolisti spesso si ostinano a voler guarire i loro partners, a dispetto di qualunque principio di realtà che potrebbe dimostrare loro l'assoluta impossibilità di successo in una simile impresa . È molto difficile per queste donne co-dipendenti (sovente figlie di genitori alcolisti) poter rinunciare alla loro illusione salvifica, poiché questo significherebbe farle precipitare in un vuoto depressivo. Meglio allora la negazione per alimentare il fuoco della speranza in una rivincita impossibile con la vita, per sfuggire il dolore e l'impotenza dovuti a una ferita incancellabile. La metafora del gioco può forse chiarire meglio questa dinamica: il giocatore d'azzardo nega l'evidenza del fatto che rilanciando continuamente prima o poi perderà tutto, questo gli consente di inseguire il suo demone perdendosi nell'illusione onnipotente, nella maniacalità e nell'eccitazione violenta del sentirsi volare al di sopra dei propri limiti; Aleksej,il protagonista del romanzo di Dostoevskij "Il giocatore" si sentiva già ricco prima ancora di avere giocato: il binge del gioco stordisce come una tirata di crack, come una inalazione di cocaina o come una puntura di morfina, e il rilancio nell'illusione salvifica rappresenta parimenti un'altra forma di binge tossico nella quale si rispecchia la medesima maschera che si pretenderebbe di voler cancellare. Il burn out dell'operatore/professionista L'altra faccia dell'illusione salvifica porta la maschera del cinismo e del disprezzo. Mano a mano che progredirà nella sua collezione di fallimenti, l'operatore/professionista comincerà a maturare atteggiamenti molto diversi da quelli inizialmente assunti. Innanzitutto diventerà diffidente e proverà una sfiducia sempre più forte nei confronti del tossicodipendente e della sua richiesta di aiuto. Corrispondentemente, aumenterà anche il suo bisogno di controllo e cercherà di verificare l'attendibilità della volontà di cura del tossicodipendente attraverso parametri oggettivi, per esempio mediante una investigazione serrata sugli esiti dell'esame dei cataboliti urinari. O, ancora, avanzerà la richiesta di alte motivazioni per prestare il suo intervento di aiuto, predisponendo un armamentario di test e scale di misurazione delle variabili di personalità più o meno predittive circa il buon esito del trattamento. Quest'ultimo aspetto, sia detto per inciso, non è da ritenersi di per sé sbagliato poiché risponde ad una metodologia che ha una sua coerenza clinica, ma, come ci ricordano i teorici dell'analisi motivazionale (Miller e Rollink,1991; Guelfi et al. ,2001 a), è utopistico e fuorviante concepire la motivazione al trattamento in quanto variabile esclusivamente endopsichica, introdotta dall'esterno nella relazione di aiuto come patrimonio precostituito, recato a monte dal singolo utente: la motivazione, al contrario, si costruisce nella relazione che si viene a creare tra promotore della relazione di aiuto e cliente, divenendo una variabile della relazione 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 stessa, e nella relazione di aiuto essa può maturare, avere conferma, essere messa in gioco, decadere, oppure trovare respiro e significati nuovi. Ciò è ancora più vero quando la problematica per la quale si presta aiuto riguarda una dipendenza patologica: caso, come abbiamo già abbondantemente visto, dove la richiesta di intervento è di regola connotata da tratti di profonda conflittualità, ambivalenza e scissione (e dove la maturazione di un atteggiamento autocritico rispetto alle proprie condotte disfunzionali, connessa con la consapevolezza del proprio bisogno di crescita, dovrebbe rappresentare non tanto una pre-condizione quanto l'esito più auspicabile della cura). La presa di distanza e il distacco emotivo dal tossicodipendente non si manifesta soltanto con le forme di rigidità appena descritte; all'opposto, anche un eccesso di tolleranza da parte dell'operatore/professionista, lungi dell'esprimere comprensione ed apertura, può indicare rinuncia, mancato coinvolgimento, indifferenza. Il "lasciar fare" nei confronti del tossicodipendente, il soprassedere alle violazioni di setting, ai segnali che depongono per il verificarsi di nuove ricadute, alle manipolazioni palesemente volte all'ottenimento di qualche beneficio, l'arrendevolezza alle pretese eccessive e, a volte, all'arroganza, costituiscono atteggiamenti di ripiego che possono derivare dalla stanchezza dell'operatore/professionista disposto a cedere anche di fronte alle richieste più antiterapeutiche pur di non dover ancora combattere una battaglia usurante, condotta già tante altre volte, e che sentirebbe comunque perduta. Detto lassismo a volte viene spacciato come "riduzione del danno", ma in realtà è solo una manifestazione di burn-out. Qualche considerazione ripensando alle patate di Rogers Non esistono ricette per uscire dalle condizioni di impasse con il tossicodipendente, né procedure standardizzate per evitare di entrarvi. Penso, invece, che detta situazione di impasse sia un passaggio inevitabile in questo tipo di relazione di aiuto. Il nodo da cui si origina è già presente nella storia relazionale di ogni tossicodipendente così come, forse, anche in quella di ogni operatore professionista che si impegni con passione in questo campo; essa costituisce uno dei punti focali in cui si gioca tutta l'efficacia dell'intervento di aiuto. Vorrei, a questo punto, proporre un modo di insieme per rivedere le cose: una sorta di mappatura generale e un orientamento dal quale poter trarre qualche indicazione di percorso. Innanzitutto incomincerei con l'affermare che il tossicodipendente, attraverso il ricorso alle sostanze, solo secondariamente mette in atto un comportamento autodistruttivo, primariamente egli cerca un automedicamento volto ad alleviare le proprie tensioni psicologiche ed il proprio malessere esistenziale: le conseguenze negative e i danni legati all'uso reiterato delle droghe costituiscono l'esito e il prezzo di una pratica volta alla sedazione di un dolore di fondo, sempre più aggravato dalla dipendenza stessa, altrimenti insopprimibile. Il sintomo tossicomanico, quindi, deve essere visto come il tentativo disperato di un 8 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 organismo umano non già di autodistruggersi ma di sopravvivere e di continuare a crescere, pur trovandosi in condizioni avverse e tutt'altro che facilitanti. L'uso reiterato di droghe risponde, seppure in maniera parziale e deviata, a quella che Rogers definisce come la spinta motivazionale di base di ogni organismo, e cioè la tendenza attualizzante (Rogers,1961; Rogers, 1977), e può essere inquadrato come una manifestazione di questa spinta vitale. Tale affermazione può sembrare un paradosso, ma non lo è: non lo è se facciamo riferimento a un postulato che, escludendo istanze auto ed eterodistruttive di base, come parte del fondamento psichico, identifica un finalismo positivo ed autoespansivo nel funzionamento dell'organismo umano pari a quello di ogni altro organismo vivente. La metafora delle patate, di Carl Rogers, può aiutarci a chiarire meglio il senso di queste considerazioni. Rogers racconta di come una volta fosse rimasto colpito alla vista di un mucchio di patate riposte in una cantina come riserva per l'inverno, la sua attenzione venne catturata dai filamenti che spuntando dai tuberi cercavano di allungarsi verso la debole luce di una finestrella: ciò che lo impressionava erano quei disperati tentativi di crescita ; certo, quel groviglio di filamenti non poteva somigliare affatto alle solide piante che si sarebbero sviluppate se le patate fossero state piantate sotto terra eppure erano da considerarsi ugualmente dei tentativi di crescita, per quanto goffi, privi di grazia e inutili: il tentativo che le patate stavano compiendo per attualizzare al massimo le loro potenzialità pur in condizioni così svantaggiose. Rogers racconta poi di come quella scena gli tornasse spesso alla mente tutte le volte che si imbatteva in persone molto disturbate (Rogers, 1977). Restando nella metafora, potremmo dire che anche il tossicodipendente sta cercando una luce verso la quale protendersi e dirigere il proprio sviluppo, immerso in una semioscurità affettiva, relazionale, esistenziale, valoriale e sociale: la sua unica luce, ciò che può conferire un po' di senso e una spinta alla sua esistenza, è rappresentata dalla sostanza, come alternativa a un precipizio depressivo, a una disintegrazione psicotica, a un'angoscia paralizzante, a una rabbiosità incontenibile o a un vuoto narcisistico. A fronte di tutto questo, è assai difficile che il tossicodipendente abbandoni le sostanze per il fatto stesso di aver chiesto aiuto: non è affatto detto che egli percepisca la nuova cura come migliore della sua vecchia, e già ben collaudata, cura. Questo dovrebbe portare l'operatore/professionista a rispondere alla richiesta di aiuto e ad offrire il proprio intervento con maggiore cautela e realismo riguardo alle aspettative positive sui processi di cambiamento, ridimensionando le fantasie e le proiezioni narcisistiche riposte sul proprio ruolo. L'operatore/professionista dovrebbe stare accanto al tossicodipendente per cercare di offrirgli aiuto, rinunciando definitivamente alla pretesa di cambiarlo. Il problema sta nel fatto che è il tossicodipendente stesso a richiedere a chi si prende cura di lui di "cambiarlo" - è qui il punto di "contatto" da cui si origina la collusione conferendo all'operatore/professionista un potere enorme, o meglio l'illusione di questo potere, per poi riprenderselo un secondo tempo sabotando, mediante le ricadute, ogni tentativo di cura. La situazione potrebbe somigliare a quella di un pescatore sulla propria barca che, avendo fatto abboccare un pesce molto grosso, inizialmente prenda a recuperare lenza per poi accorgersi che è il pesce a trainare lui verso il largo. Tutto 9 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 questo accade in ragione dell'ambivalenza del tossicodipendente che da un lato vorrebbe curarsi e dall'altro non vuole rinunciare alla sua sostanza, che vorrebbe affidarsi ma poi non si fida affatto preferendo "condurre" lui il gioco. Occorre quindi riconoscere questa ambivalenza e cercare di accettarla. Tutto ciò significa dare riconoscimento anche al polo "negativo", al "demone tossico", che viene tenuto nascosto perché da alla persona tossicodipendente una sicurezza di sopravvivenza. Potenti meccanismi di scissione e di negazione hanno il compito di mantenere protetta questa controparte autoterapica, garantendola da forme esterne di manipolazione e di controllo. Questo aiuta la persona tossicodipendente a mantenere una forma di equilibrio e ad accettare il rischio di farsi aiutare. A titolo di esempio, vorrei riportare un breve spezzone di colloquio avuto da me con un tossicodipendente; cito a memoria perché mi è rimasto molto impresso: Terapeuta: «Perché non mi racconti mai niente delle tue ricadute?» Cliente: «Perché tu mi diresti di non farlo e cercheresti di convincermi di questo... e io invece non voglio smettere... però mi piace venire da te» Terapeuta: «E non puoi venire qui parlandomi anche delle tue ricadute?» Cliente: «£ no, questo non è possibile: come, vengo da te per curarmi e poi ti faccio vedere che sono ancora tossico?» Per questo cliente, evidentemente, le due cose insieme proprio non potevano stare: agiva in lui una modalità rigida e primitiva di scissione nella rappresentazione di sé, ma era a buon punto perché la stava elaborando; si tratta di una modalità difensiva dal carattere decisamente psicotico. Riguardo al parallelismo tra tossicodipendenza e malattia mentale, vorrei citare quanto affermato da Vaccari e Zucconi: «Nel tossicodipendente la qualità di soggetto è gravemente compromessa: egli divide con i portatori di malattie mentali una condizione di minore libertà, di riduzione delle opzioni di vita e di incapacità a far fronte alle proprie responsabilità» (Vaccari, Zucconi, 1997). Gli Autori osservano che, data la minore gravita del disturbo, i tossicodipendenti non si chiudono in un atteggiamento autistico mantenendo un rapporto con la realtà, anche se in condizioni di notevole marginalità affettiva e sociale, lo aggiungerei che è proprio questo ciò che può indurre l'operatore/professionista a sbagliare sovrastimando le possibilità di miglioramento: a fronte di una maggiore capacità di contatto con il mondo esterno, rispetto a quanto non accada allo psicotico, il tossicodipendente condivide comunque con quest'ultimo meccanismi di difesa similari. Alcune indicazioni A fronte di tali considerazioni è forse possibile trarre qualche indicazione nella gestione della relazione d'aiuto. Innanzi tutto vorrei dire che una delle cose più importanti è il rifiuto del potere: tutte le volte che il tossicodipendente in trattamento cerca di darci il potere di trasformarlo, di cambiarlo, di guarirlo, noi dobbiamo respingere la sua offerta e restare dentro i nostri limiti. Quando il tossicodipendente ci conferisce questo potere sta scindendo la parte malata da quella sana, ci 10 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 affida quest'ultima e se ne libera, passivizzandosi. Rifiutare questa manovra, rifiutare questo potere, significa responsabilizzarlo rendendolo il principale artefice della conservazione della propria salute, fisica e mentale. Non c'è da aspettarsi che egli accetti di buon grado questo rifiuto, anche perché è abituato a sentirsi confermato in tale manovra, quindi tornerà a offrire la metà buona di sé su un vassoio d'argento e noi torneremo, gentilmente, a respingerla; si instaura in tal modo una dialettica interessante che porterà la relazione di aiuto ad una definizione più realistica dei limiti e delle responsabilità di ciascuno. Vorrei fare due esempi, presi dalla mia pratica clinica: il primo si riferisce ad una "appropriazione indebita" del potere da parte del terapeuta, con esiti fallimentari, il secondo ad un rifiuto esplicito dell'offerta di potere, con conseguenze senza dubbio migliori. Esempio n. 1 Durante una seduta di gruppo d'incontro con utenti tossicodipendenti in trattamento ambulatoriale, uno dei membri propose di fissare una regola: tutti i partecipanti al gruppo dovevano impegnarsi a non ricadere nelle sostanze, almeno fintantoché fosse continuata l'esperienza. Mi chiesero cosa ne pensassi ed io risposi che questa poteva essere una cosa buona se tutti erano d'accordo. Tutti dissero di essere senz'altro d'accordo. Da quel momento il gruppo d'incontro era diventato un gruppo di astinenti. Nel corso delle sedute successive incominciarono a verificarsi lunghi e imbarazzati silenzi, poi sottili schermaglie tra i partecipanti; seguirono le assenze di alcuni membri, che si protrassero per diverse sedute; a queste assenze si aggiunsero presto quelle di altri e alla fine quel gruppo si spense senza avere più un seguito. I retroscena mi vennero raccontati successivamente. Al termine della seduta dove si era stabilita la regola dell'astinenza, alcuni membri del gruppo andarono a farsi assieme. La volta successiva quelli che si erano rifiutati (la maggioranza) non denunciarono la cosa nel gruppo e rinunciarono a confrontarsi direttamente con chi si era drogato, questo per non violare un'altra regola, implicita e sempre molto radicata fra i tossicodipendenti, quella di "coprirsi" a vicenda. Chi aveva trasgredito mandava continui messaggi e allusioni di svalutazione riguardo al gruppo, del tipo: «Tutte queste chiacchiere non servono a niente, tanto nessuno di noi cambierà mai». Al termine di quella seduta partirono per farsi almeno il doppio di quelli che erano andati la prima volta. Così il gruppo finì per disgregarsi sempre di più nella frammentazione della norma che esso stesso si era dato. Esempio n. 2 Sono testardo. Così, dopo essermi ripreso dalla delusione, proposi una nuova esperienza di gruppo di incontro per tossicodipendenti in trattamento ambulatoriale. Nel corso di una delle prime sedute un partecipante, che in altre occasioni aveva apertamente rivendicato il proprio diritto a iniettarsi eroina in modo controllato, guardò verso di me e chiese con un aria candida che mi lasciò sbigottito: «Noi siamo qui per smettere di farci, vero?» lo 11 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 avvertii immediatamente un brivido corrermi dietro la schiena e sentii l'insidia che si celava dietro a quelle parole. Memore del penoso fallimento della precedente esperienza non esitai a rispondere: «No, non è questo il motivo per cui ci riuniamo . Nessuno di noi è un santo, né dobbiamo uscire di qui con l'aureola in testa. Il motivo per cui siamo qui è solo quello di cercare di comunicare un po' meglio fra noi». Questa risposta lasciò tutti piuttosto sorpresi e spiazzati (compreso me!). «Come, non dobbiamo cercare di cambiare dal momento che siamo qui?». Disse qualcun altro. «No», insistetti: «Possiamo anche permetterci di restare quello che siamo». L'impatto su gruppo di questo breve scambio fu, all'inizio, piuttosto scioccante; seguì un silenzio carico di smarrimento ma poi, proprio per effetto di quelle parole, il clima si rilassò molto e l'interazione potè avere luogo in modo più onesto comprendendo anche tutti gli aspetti collegati con le pratiche tossicomaniche che, altrimenti, sarebbero rimasti sottaciuti e nascosti. L'incidenza degli abbandoni in quel gruppo fu molto più bassa rispetto al gruppo precedente e il ciclo di incontri ebbe termine con il sopraggiungere dell'estate, come programmato all'inizio. Questo per me fu un bel successo anche se nessuno dei partecipanti interruppe l'uso di sostanze. Un'altra indicazione importante, che trova un collegamento con quanto detto adesso, consiste nel cercare di estendere l'empatia anche al polo negativo dell'ambivalenza, quello che lavora per il mantenimento della tossicodipendenza. È importante che l'operatore/professionista colga ogni occasione per poter empatizzare con il piacere ed il sollievo che le sostanze inducono nel consumatore, con l'eccitazione che accompagna la ricerca non sempre facile della dose giornaliera, con il sentimento di accresciuta autostima che può arrecare l'essere riusciti a farla franca sui controlli delle forze dell'ordine, e così via. È importante che il tossicodipendente si senta visto e capito anche in questi aspetti della sua esperienza, poco nobilitanti se vogliamo, ma che spesso costituiscono la sua unica ragione di vita. Ignorarli significherebbe rinforzarli (Guelfi et al. 2001 a). Anche in questo caso non dovremo certamente aspettarci vita facile. Il tossicodipendente non vuole comprensione rispetto all'uso di sostanze, anteponendo spesso ad ogni tentativo di ascolto giudizi drastici e condanne senza appello; come abbiamo già visto, egli custodisce gelosamente per sé la propria esperienza chiudendosi dietro a un muro di imbarazzo e di reticenza che scioglie soltanto nella condivisione con il gruppo dei pari. Anche per questo i percorsi di aiuto in gruppo risultano essere efficaci, poiché il clima dell'interazione tende a farsi più diretto ed autentico. Un ulteriore aspetto, davvero strategico nella relazione di auto con il tossicodipendente, riguarda la trasparenza. È di fondamentale importanza che l'operatore/professionista sappia esprimere in modo diretto i propri sentimenti e vissuti nel qui e ora della relazione, compresi quelli più problematici. Il fatto che questo possa accadere quando non vi sia partecipazione emotiva nella relazione, quando sussista una condizione di stallo, quando non si percepiscano movimenti significativi nella relazione, quando vi siano sentimenti di noia, quando si avverte chiaramente la sensazione di essere manipolati, quando si capisce che l'altro sta fuggendo verso obiettivi francamente irrealistici, può introdurre elementi di vitalità nella relazione, sollecitando la circolazione di affetti più significativi e 12 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 profondi. Riguardo alle condizioni definite da Rogers come "necessarie e sufficienti" per promuovere un cambiamento significativo nella relazione d'aiuto (Rogers, 1957), con il cliente tossicodipendente la congruenza/trasparenza, soprattutto all'inizio, è forse quella che deve essere più attiva per consentire un "aggancio" efficace e gettare le basi per l'alleanza terapeutica o consulenziale. I tossicodipendenti, così come gli psicotici e gli adolescenti, tendono a saggiare a fondo l'autenticità del loro interlocutore, sfidandolo sul piano della trasparenza. Se avvertono una eccessiva formalizzazione nel ruolo, un ritirarsi di fronte alle provocazioni in atteggiamenti troppo "professionali", se non sentono la "persona reale" che sta loro di fronte, non possono fidarsi e preferiscono recitare la commedia, cercando solo di ricavarne qualche vantaggio secondario, fintantoché gli sarà possibile. Conclusioni Le indicazioni fin qui riportate - ridimensionamento della spinta salvifica e delle aspettative di "guarigione", rifiuto del potere e di una eccessiva responsabilizzazione per l'altro, estensione dell'empatia verso le aree di maggiore coinvolgimento con la sostanza, trasparenza riguardo ai sentimenti più problematici maturati nell'interazione - possono contribuire alla creazione di un clima non giudicante e sollecitare l'apertura di una dimensione di maggiore autenticità, accettazione e fiducia nella relazione di aiuto. In una interazione così caratterizzata, con la persona tossicodipendente, la ricaduta nelle sostanze può minacciare di meno il rapporto divenendo, anzi, occasione di rielaborazione dei vissuti più problematici e perciò opportunità di crescita (vedi Schematizzazione Parte B). Il fatto che il tossicodipendente possa parlare delle sue ricadute, senza nasconderle, senza negarle e senza negarsi alla relazione, costituisce un successo importante poiché segnala il fatto che la relazione d'aiuto sta divenendo un laboratorio dove egli può incominciare ad integrare aspetti della propria esperienza prima vissuti solo in modo dicotomico e scisso. L'obiettivo della relazione d'aiuto non deve essere tanto quello del superamento dei comportamenti tossicomanici, cosa che farebbe partire il rapporto già su un presupposto sbagliato e collusivo, come abbiamo abbondantemente visto, quanto soprattutto il mantenimento della relazione stessa. È proprio questo il fuoco del lavoro con la persona tossicodipendente: il mezzo, ossia la relazione, e il fine, ossia la conquista e il mantenimento della relazione stessa, tendono a coincidere. È nell'ambito di una relazione valida e sicura, affettivamente significativa, sviluppata entro limiti realistici, umanamente onesta e vera, che il tossicodipendente può riconoscersi; è nell'ambito di una relazione di questo tipo che egli può costruire i propri obiettivi, verificarne la percorribilità, elaborare i propri fallimenti, sondare i propri limiti ed esplorare, valutare e riscoprire di volta in volta le proprie risorse. Gli abbandoni costituiscono una modalità di avvicinamento progressivo alla relazione da parte del tossicodipendente, perciò dobbiamo aspettarceli sempre: rispecchiano il suo tema relazionale, sovente abbandonico «Abbandono, così come sono stato abbandonato», «Abbandono, per non essere 13 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007 abbandonato» - nonché il rapporto controverso ma esclusivo con le sostanze, che non ammette antagonisti. Si può quindi parlare di un "aggancio progressivo" che avviene per fasi, mediante approcci ed allontanamenti, che deve trovarci disponibili, ma anche realistici, trasparenti e non collusivi; importante sarà la elaborazione di quanto accaduto durante le assenze (in genere ricadute consecutive, ma anche carcerazioni, ricoveri, periodi trascorsi in comunità terapeutiche ecc.) nonché l'esplorazione dei sentimenti vissuti nel distacco così come nel riavvicinamento. Si parla spesso della "presentificazione" come aspetto che caratterizza la dimensione esistenziale nel tempo del tossicodipendente: pulsazione che trova il suo focus nella gratificazione immediata e illimitata (tanto del bisogno di sostanze quanto del bisogno di uscirne), che non riconosce né un prima né un dopo. Ebbene, questo paziente lavoro di ricucitura di un percorso spesso travagliato e fortemente incidentato, lavoro sovente lungo anni, consente di restituire alla persona tossicodipendente un senso del tempo meno frammentato. Questa continuità potrà avere luogo solo se entrambi i protagonisti della relazione di aiuto - non solo il tossicodipendente ma anche l'operatore/professionista-sapranno crescere, rinunciando alla pretesa di cancellare con un colpo di spugna i sentimenti dolorosi della sconfitta e dell'impotenza. Il capitano Achab è alla spasmodica ricerca della vendetta contro la balena bianca Moby Dick. Il dolore della mutilazione subita lo spinge a dare la caccia al mostro inseguendolo in modo maniacale per tutti gli oceani. La sua odissea, una vera e propria "furia tossica", volgerà in tragedia. Achab avrebbe potuto sottrarsi al suo destino solo rinunciando a quella sfida, ma tale rinuncia gli era evidentemente impossibile. Allo stesso modo il tossicodipendente può evitare di soccombere a se stesso arrendendosi al dolore, senza più cercare di vincerlo attraverso la ricerca di una onnipotenza artificiale e mortifera. Così come chi se ne prende cura può evitare il fallimento solo rinunciando a una rivincita impossibile, fatta di visionarie illusioni di guarigione, contro il mostro che, a suo tempo,anche a lui ha arrecato ferite laceranti. Ma tutto questo può essere estremamente difficile perché il confine che separa il dolore destinato a conferire saggezza da quello che può procurare follia è assai instabile e incerto, e oscilla come un ramo mosso dal vento. Bibliografìa American Psychiatric Association (1994) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. 4a ed. (DSM-IV), ARA, Washington, D.C. (tr. it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 4a ed., Masson, Milano, 1996). Garetti V., La Barbera D., (a cura di) (2005) Le dipendenze patologiche, Raffaello Cortina Editore, Milano. 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