L`impasse nella relazione di aiuto con la persona

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L`impasse nella relazione di aiuto con la persona
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2007
L'impasse nella relazione di aiuto
con la persona tossicodipendente
Massimo Borgioni
C'è una saggezza che è dolore;
ma c'è un dolore che è pazzia.
Hermann Melville
"Moby Dick"
Le tipologie dell'utenza
Generalmente le persone che presentano condotte tossicomaniche
richiedono un aiuto specialistico quando si trovano ad uno stadio già
avanzato della loro problematica. Gli eroinomani, ad esempio, si rivolgono ai
servizi dopo aver superato la fase della "luna di miele" con la sostanza
(Maremmani et al., 1999; Maremmani et al. , 2001), ossia il momento in cui gli
oppiacei vengono ricercati per l'effetto positivo che inducono più che per
placare la sintomatologia astinenziale; inoltre la loro richiesta di aiuto segue
diversi tentativi di disintossicazione spontanea per lo più ad esito negativo.
Gli eroinomani che richiedono aiuto sono transitati dall'abuso alla
dipendenza, si trovano cioè in una condizione clinica caratterizzata dai
seguenti fenomeni di assuefazione o tolleranza, con la necessità di dosi
sempre crescenti di oppiacei; sindrome astinenziale; craving, ossia
appetizione violenta ed insopprimibile nei confronti della droga; condotte
compulsive orientale alla ricerca ed all'autosomministrazione del farmaco,
che prendono molto tempo e spingono a comportamenti sempre più rischiosi
(American Psychiatric Association, 1994). A questo punto le persone
coinvolte nel problema hanno già maturato diversi problemi a livello
lavorativo e legale, ma anche familiare e affettivo; la sostanza ha già fatto
molto deserto attorno a loro e i tossicomani sono pronti ad entrare nella fase
della "porta girevole", corrispondente alla cronicizzazione della patologia: un
alternarsi di momenti di disintossicazione (dovuti a carcerazioni, inserimenti
in comunità terapeutiche, periodi di cura ambulatoriale, allontanamenti
spontanei dalle sostanze) e ricadute sempre più massicce e pericolose
(Maremmani et al., 2001 ). Gli interventi di aiuto, subentrando a questo livello
della problematica, entreranno subito a far parte della porta girevole,
scandendone i ritmi ed i ciclici ritorni.
Questa descrizione, valida per gli assuntori di eroina, è solo parzialmente
sovrapponibile allo sviluppo tossicomanico di un altro grande gruppo di
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consumatori di sostanze illegali, quello costituito dai cocainomani. Sebbene
negli ultimi anni il numero di coloro che chiedono aiuto ai Servizi per uso di
cocaina costituisca un trend positivo, e la cocaina risulti in notevole
espansione sia come sostanza d'abuso primaria che come sostanza d'abuso
secondaria e come responsabile di un numero crescente di decessi drogacorrelati, i cocainomani che chiedono un aiuto specialistico costituiscono
sempre un'esigua minoranza rispetto agli eroinomani (Ministero della Salute,
2005). Molti di loro restano del tutto sconosciuti ai Servizi fino a quando un
episodio di carcerazione non li spinge a contattare il personale del Servizio
per le Tossicodipendenze che opera all'interno della struttura penitenziaria,
oppure le comunità terapeutiche per l'ottenimento delle misure alternative
alla detenzione. Questa difficoltà a chiedere aiuto da parte del cocainomane è
dovuta a diversi motivi. Innanzitutto il cocainomane tende ad avere minore
consapevolezza della problematicità del proprio comportamento rispetto a
quanto non accada invece all'eroinomane; la cosiddetta "luna di miele" con la
sostanza tende a prolungarsi, nel caso della cocaina, per molto più tempo;
inoltre, lo stigma di tossicodipendente viene considerato dal cocainomane
inappropriato riguardo a se stesso e, viceversa, applicabile al consumatore di
oppiacei rispetto al quale egli si sente molto lontano e, in un certo qual
modo, superiore. C'è da aggiungere che i fenomeni della tolleranza e della
dipendenza fisica, caratteristici del consumo reiterato di eroina, non si
riproducono nell'abuso e nella dipendenza da cocaina (Malizia E., Borgo S.,
2006). Ad ultimo, non esistono farmaci sostitutivi, come il metadone nel caso
degli oppiacei, che abbiano lo stesso potere attrattivo per i cocainomani: così,
mentre l'eroinomane sa che potrà trovare nel metadone, erogato dai Servizi,
la risposta più immediata all'astinenza e al craving, per chi fa uso ripetuto di
cocaina non esistono surrogati che possano indurlo a non continuare a
ricercare la cocaina stessa per sedare il suo bisogno di sostanza.
Un caso ancora diverso, ma oggi piuttosto diffuso nei servizi, è quello
costituito dai cosiddetti "poliassuntori". Questi fanno un uso parallelo di
diverse sostanze (oppiacei, cocaina, benzodiazepine, alcool, cannabinoidi,
ecc.) senza che nessuna di esse divenga elettiva rispetto alle altre. A volte la
poliassunzione costituisce l'esito di una lunga carriera tossicomanica, altre
volte invece si presenta come caratteristica primaria dell'abitudine di
consumo.
Le caratteristiche della richiesta di aiuto
Nei casi sin qui prospettati, la richiesta di aiuto, poiché sempre tardiva,
tenderà ad assumere i connotati della drammaticità e dell'urgenza. Il
tossicodipendente per richiedere un intervento curativo deve essere disposto
a mettere in qualche modo in discussione le sue abitudini di consumo e il
suo stile di vita, deve correre il rischio di far entrare un estraneo nel suo
mondo rigidamente polarizzato sui rituali di ricerca e di assunzione della
sostanza, ciò vuoi dire che ha raggiunto un limite, ossia che il prezzo pagato
alla sostanza ha toccato un livello troppo alto ed è progredito molto al di là
di ogni ragionevole aspettativa di controllo. In altri termini, il tossicodipendente per chiedere aiuto generalmente deve aver toccato il "fondo".
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Quando formulano la loro richiesta di aiuto i tossicodipendenti chiedono
di troncare di netto con il loro passato, reclamano l'urgenza di un ritorno alla
vita normale, chiedono di poter recuperare gli affetti perduti, la fiducia
oramai seriamente compromessa dei loro familiari, vorrebbero tornare ad
intravedere una progettualità che è stata fortemente messa in discussione
dall'esigenza di rispondere continuamente all'urgenza pressante della droga
e dalle numerose vicissitudini di strada ad essa collegate. Molti di loro
necessitano di un'assistenza legale, sociale, medica e spesso anche materiale,
oltre che psicologica. Il tossicodipendente a questo punto sa che
proseguendo con le sue condotte potrà progredire solo verso l'autodistruzione fisica e l'annientamento esistenziale. La sua richiesta di aiuto
tende ad avere gli stessi aspetti di compulsività, di impellenza, di tolleranza
verso ogni mediazione con la realtà, che caratterizzano la richiesta di
sostanza. Si tratta, in poche parole, di una richiesta di salvezza, materiale,
psichica e spirituale, che non ammette deroghe. „
Già a partire da questo momento iniziale, chi si prende cura di rispondere
a tale sollecitazione corre un rischio elevato. L'operatore/professionista delle
tossicodipendenze può reagire con un investimento eccessivo riguardo alla
sua mission ed alle fantasie ad essa collegate, entrando in una dimensione di
ruolo salvifica. La sindrome che definirei dell' "lo ti salverò", ricorrendo al
titolo di una famosa pellicola di H. Hitchcock, può essere tanto più forte e
virulenta
quanto
più
potenti
sono
le
proiezioni
narcisistiche
dell'operatore/professionista delle tossicodipendenze nel proprio lavoro,
nonché il bisogno di acquisire potere nella relazione: e quale potere è più
forte di quello di salvare una vita? Alla sindrome dell'"Io ti salverò" non è
facile sfuggire, in un certo qual modo è la domanda stessa di aiuto da parte
del tossicodipendente a sollecitarla; detta sindrome risponde ad una
profonda collusione dove i protagonisti della relazione di aiuto saranno
fatalmente destinati allo scambio reciproco dei ruoli di vittima-salvatorepersecutore, nel configurarsi di una situazione di co-dipendenza per la quale
si adatta bene al termine di tossicodipendente quello complementare di
"tossicocuratore" (Cancrini M.C., Mazzoni S., 2002)
La luna di miele e il declino nella relazione di aiuto
Nel partecipare alla relazione di aiuto, la persona tossicodipendente
inizialmente tende a lasciar vedere soltanto la parte, per così dire, "buona" di
sé, quella polarizzata verso il cambiamento, che richiede di essere
recuperata, ossia disintossicata, normalizzata e reinserita; tende, in sostanza,
soltanto ad esibire il polo positivo di una scissione di fondo che scollega
aspetti molto diversi della personalità. Ciò può rinforzare la collusione di cui
si è detto poc'anzi, cioè la risposta salvifica dell'operatore/professionista
delle tossicodipendenze, alimentando in quest'ultimo aspettative irrealistiche
di segno positivo sul processo di cambiamento.
In questa fase iniziale, le persone tossicodipendenti portano ai colloqui
temi ricorrenti. Innanzitutto astratte affermazioni di dovere, sostenute da
una forte rigidità; si tratta di un copione che il tossicodipendente segue
ripronunciando più volte la sua intenzione di cambiare, elencando le persone
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per cui lo vuole fare, esplicitando il disprezzo e il rifiuto nei confronti di
ogni tipo di sostanza. In secondo luogo, egli manifesta una tendenza alla
separazione dal resto dell'utenza; il tossicodipendente sostanzialmente dice:
"lo non sono come tutti gli altri, che fingono di volersi curare e poi
continuano a fare quello che vogliono, io sono diverso, io ho davvero
l'intenzione di cambiare". Infine egli avanza atteggiamenti seduttivi nei
confronti dell'operatore/professionista; in pratica il tossicodipendente non
solo distingue se stesso dal gruppo dei pari, ma tende a distinguere anche
chi si prende cura di lui rispetto agli altri operatori/professionisti,
esaltandone le capacità, le attitudini e le competenze. In questo modo il
tossicodipendente e chi lo aiuta possono dare vita alla "coppia più bella del
mondo": una diade a parte, che si alimenta di una intesa speciale, diversa,
migliore, molto al di sopra della media (o della mediocrità) di una normale
relazione di aiuto.
Si tratta di una fase di splendore, una luna di miele dentro la relazione
curativa, destinata, dopo aver raggiunto molto rapidamente il suo culmine,
ad un altrettanto rapido, inevitabile, declino. Nello sviluppo di una relazione
di aiuto così impostata, infatti, la persona tossicodipendente tenderà ad una
scarsa partecipazione emotiva e ad un marcato distacco dai sentimenti. La
relazione, pur essendo apparentemente foriera di grandi speranze, è in realtà
caratterizzata da astratte idealizzazioni e da immagini di falso sé: essa non
viene sostenuta da reali energie organismiche. Le emozioni, l'eccitazione e la
vitalità del tossicodipendente sono, in questa fase, ancora tutte legate alle
sostanze e completamente separate dall'interazione curativa. È questo un
dato di fatto rispetto al quale si possono riscontrare solo rare eccezioni. I
colloqui saranno caratterizzati dalla prevalenza dei contenuti di seguito
elencati.
Perseveranza monotematica nei buoni proponimenti, ossia il copione
precedentemente descritto riguardo le intenzioni positive di cambiamento
che tende a degenerare cristallizzandosi in stereotipie verbali ripetitive e
monotone.
Accentuazione dei temi psicocorporei sino ad arrivare ad una vera e
propria "deriva ipocondriaca": elencazione preoccupata degli effetti
secondari legati ai farmaci sostitutivi e sintomatici, nel caso in cui la
relazione di aiuto comprenda anche interventi di natura farmacologica;
attenzione ossessiva su tutte le sensazioni che possono richiamare e far
temere il principio di una sindrome astinenziale (spossatezza, dolorabilità,
brividi, sudorazione, ansia, difficoltà nell'addormentamento); preoccupazioni
riguardo al peso corporeo, all'appetito, alla forma fisica ed alle patologie
correlate eventualmente contratte a causa dell'assunzione di sostanze.
Attenzione polemica riguardo agli aspetti farmacologici del trattamento,
che vengono generalmente contestati sia riguardo al dosaggio che riguardo
alle modalità di somministrazione.
Atteggiamento fortemente autoaccusatorio sull'origine dei comportamenti
tossicomanici, che stronca sul nascere qualunque tentativo di ricostruzione
della storia personale, il tossicodipendente interrompe, drasticamente a
volte, qualunque tentativo di esplorazione in tal senso con affermazioni del
tipo: "Non posso addebitare la responsabilità di ciò che sono diventato a
nessuno: la colpa di ciò che sono è soltanto mia".
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A fronte di tutto ciò, chi si fa carico della relazione di aiuto incomincerà
presto ad avvertire una sensazione di inconcludenza, a sentirsi in una
condizione di "stallo". La risposta emotiva più probabile sarà la noia. Questo
sentimento, abbastanza di frequente sperimentato nella relazione di aiuto
con i tossicodipendenti, segnala che il rapporto non si alimenta di energie
vitali, che entrambi i partecipanti alla relazione di aiuto sono intrappolati in
ruoli incongruenti, che non c'è alcun incontro reale, che il loro interagire si è
arenato su un terreno pesante, in una situazione di inamovibilità da cui
diviene sempre più difficile districarsi.
Ma ad ultimo questo impasse si risolverà nel modo più prevedibile e in
fondo più logico: la ricaduta del tossicodipendente nell'assunzione della
sostanza. Come abbiamo già visto, facendo riferimento alla fase della "porta
girevole", il fenomeno della ricaduta è in qualche modo strutturale e
fisiologico alla condizione del tossicodipendente in cura. Il punto quindi non
è tanto la ricaduta in se stessa, quanto il fatto che essa segnerà la fuga del
tossicodipendente dalla relazione d'aiuto. In un rapporto curativo come
quello finora descritto, infatti, il tossicodipendente dopo la ricaduta eviterà
di tornare a farsi vivo, almeno nell'immediato, e questo a causa di sentimenti
ambivalenti: vergogna da un lato e sfiducia dall'altro. È evidente che può
essere molto difficile sostenere, senza il timore di venire giudicati, la
circostanza della ricaduta soprattutto in una relazione di aiuto dove si è
celebrata l'immagine esclusiva della guarigione e dove sono state
collusivamente alimentate dall'operatore/professionista solo aspettative
positive riguardo la remissione del comportamento sintomatico. D'altra
parte, agli occhi dell'utente, l'operatore/professionista che è scivolato in una
tale illusione appare ora come uno dei tanti che si è fatto "fregare", che si è
lasciato abbindolare dal richiamo di false promesse: persona priva di polso,
facilmente manipolabile e quindi incapace di dare un reale contenimento.
Ecco che la luminosa relazione di poco tempo prima, naufragando in una
sequenza di appuntamenti mancati, finisce nella crisi e nel fallimento.
L'utente che con tanta disperazione e urgenza aveva chiesto aiuto
promettendo disponibilità, impegno e partecipazione, alla fine si è rivelato
più fedele alla sua identità tossica e alla rivendicazione deviante, mentre
l'operatore/professionista che appariva così competente ed umano ha perso
l'apprezzamento e l'autorevolezza di cui godeva agli occhi del
tossicodipendente, ritrovandosi solo di fronte ad una sedia vuota. Il
promotore della relazione di aiuto dovrà a questo punto gestire una ferita
narcisistica accompagnata da probabili sentimenti di tradimento, abbandono,
delusione e impotenza, tanto più dolorosi quanto più sostenuti siano stati
l'investimento salvifico e la proiezione grandiosa nel proprio ruolo (vedi
Schematizzazione Parte A).
Questo schema, nonostante produca insuccessi , non è destinato ad una
facile estinzione, al contrario solitamente tende a ripetersi, riproponendosi
nel tempo, con utenti diversi ma anche con lo steso utente. Capita spesso,
infatti, che il tossicodipendente dopo essere scomparso per un pezzo ed aver
consumato fino in fondo la sua fase di ricaduta, torni a farsi vivo chiedendo
spontaneamente un nuovo intervento di aiuto, una nuova possibilità. Le sue
condizioni questa volta saranno, se possibile, anche peggiori della volta
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precedente, con tutte le aggravanti affettive, fisiche, relazionali e sociali
dovute alla recrudescenza tossicomanica.
L'intervento dell'operatore/professionista verrà invocato, forse, come
l'unica ed ultima ancora di salvezza in una rete di supporto oramai
desertificata dalla droga e la richiesta di aiuto tornerà ad assumere tutte le
caratteristiche della drammaticità e dell'urgenza. «Oramai ho deluso tutti.
Nessuno vuole più aiutarmi. Non abbandonarmi anche tu. Non dirmi di no»:
questo essenzialmente il messaggio che verrà rivolto al promotore della
relazione di aiuto. L'aggancio sulla spinta salvifica potrà essere così
nuovamente fatale e il ciclo tornerà a ripetersi, destinato a uno stesso
epilogo.
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Questa situazione non la si osserva soltanto nel rapporto che il tossicodipendente instaura con gli operatori e i professionisti della salute mentale, ma in
tutte le relazioni significative (parentali, amicali, familiari e sentimentali) ove
decida di chiedere aiuto.
In un suo saggio famoso R. Norwood (Norwood R., 1985) analizza la
pervicacia con la quale compagne e mogli di alcolisti spesso si ostinano a
voler guarire i loro partners, a dispetto di qualunque principio di realtà che
potrebbe dimostrare loro l'assoluta impossibilità di successo in una simile
impresa . È molto difficile per queste donne co-dipendenti (sovente figlie di
genitori alcolisti) poter rinunciare alla loro illusione salvifica, poiché questo
significherebbe farle precipitare in un vuoto depressivo. Meglio allora la
negazione per alimentare il fuoco della speranza in una rivincita impossibile
con la vita, per sfuggire il dolore e l'impotenza dovuti a una ferita
incancellabile. La metafora del gioco può forse chiarire meglio questa
dinamica: il giocatore d'azzardo nega l'evidenza del fatto che rilanciando
continuamente prima o poi perderà tutto, questo gli consente di inseguire il
suo demone perdendosi nell'illusione onnipotente, nella maniacalità e
nell'eccitazione violenta del sentirsi volare al di sopra dei propri limiti;
Aleksej,il protagonista del romanzo di Dostoevskij "Il giocatore" si sentiva già
ricco prima ancora di avere giocato: il binge del gioco stordisce come una
tirata di crack, come una inalazione di cocaina o come una puntura di
morfina, e il rilancio nell'illusione salvifica rappresenta parimenti un'altra
forma di binge tossico nella quale si rispecchia la medesima maschera che si
pretenderebbe di voler cancellare.
Il burn out dell'operatore/professionista
L'altra faccia dell'illusione salvifica porta la maschera del cinismo e del
disprezzo. Mano a mano che progredirà nella sua collezione di fallimenti,
l'operatore/professionista comincerà a maturare atteggiamenti molto diversi
da quelli inizialmente assunti. Innanzitutto diventerà diffidente e proverà
una sfiducia sempre più forte nei confronti del tossicodipendente e della sua
richiesta di aiuto. Corrispondentemente, aumenterà anche il suo bisogno di
controllo e cercherà di verificare l'attendibilità della volontà di cura del
tossicodipendente attraverso parametri oggettivi, per esempio mediante una
investigazione serrata sugli esiti dell'esame dei cataboliti urinari. O, ancora,
avanzerà la richiesta di alte motivazioni per prestare il suo intervento di
aiuto, predisponendo un armamentario di test e scale di misurazione delle
variabili di personalità più o meno predittive circa il buon esito del
trattamento. Quest'ultimo aspetto, sia detto per inciso, non è da ritenersi di
per sé sbagliato poiché risponde ad una metodologia che ha una sua
coerenza clinica, ma, come ci ricordano i teorici dell'analisi motivazionale
(Miller e Rollink,1991; Guelfi et al. ,2001 a), è utopistico e fuorviante
concepire la motivazione al trattamento in quanto variabile esclusivamente
endopsichica, introdotta dall'esterno nella relazione di aiuto come
patrimonio precostituito, recato a monte dal singolo utente: la motivazione,
al contrario, si costruisce nella relazione che si viene a creare tra promotore
della relazione di aiuto e cliente, divenendo una variabile della relazione
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stessa, e nella relazione di aiuto essa può maturare, avere conferma, essere
messa in gioco, decadere, oppure trovare respiro e significati nuovi. Ciò è
ancora più vero quando la problematica per la quale si presta aiuto riguarda
una dipendenza patologica: caso, come abbiamo già abbondantemente visto,
dove la richiesta di intervento è di regola connotata da tratti di profonda
conflittualità, ambivalenza e scissione (e dove la maturazione di un
atteggiamento autocritico rispetto alle proprie condotte disfunzionali,
connessa con la consapevolezza del proprio bisogno di crescita, dovrebbe
rappresentare non tanto una pre-condizione quanto l'esito più auspicabile
della cura).
La presa di distanza e il distacco emotivo dal tossicodipendente non si
manifesta soltanto con le forme di rigidità appena descritte; all'opposto,
anche un eccesso di tolleranza da parte dell'operatore/professionista, lungi
dell'esprimere comprensione ed apertura, può indicare rinuncia, mancato
coinvolgimento, indifferenza. Il "lasciar fare" nei confronti del
tossicodipendente, il soprassedere alle violazioni di setting, ai segnali che
depongono per il verificarsi di nuove ricadute, alle manipolazioni
palesemente volte all'ottenimento di qualche beneficio, l'arrendevolezza alle
pretese eccessive e, a volte, all'arroganza, costituiscono atteggiamenti di
ripiego che possono derivare dalla stanchezza dell'operatore/professionista
disposto a cedere anche di fronte alle richieste più antiterapeutiche pur di
non dover ancora combattere una battaglia usurante, condotta già tante altre
volte, e che sentirebbe comunque perduta. Detto lassismo a volte viene
spacciato come "riduzione del danno", ma in realtà è solo una manifestazione
di burn-out.
Qualche considerazione ripensando alle patate di
Rogers
Non esistono ricette per uscire dalle condizioni di impasse con il
tossicodipendente, né procedure standardizzate per evitare di entrarvi.
Penso, invece, che detta situazione di impasse sia un passaggio inevitabile in
questo tipo di relazione di aiuto. Il nodo da cui si origina è già presente nella
storia relazionale di ogni tossicodipendente così come, forse, anche in quella
di ogni operatore professionista che si impegni con passione in questo
campo; essa costituisce uno dei punti focali in cui si gioca tutta l'efficacia
dell'intervento di aiuto.
Vorrei, a questo punto, proporre un modo di insieme per rivedere le cose:
una sorta di mappatura generale e un orientamento dal quale poter trarre
qualche indicazione di percorso. Innanzitutto incomincerei con l'affermare
che il tossicodipendente, attraverso il ricorso alle sostanze, solo
secondariamente mette in atto un comportamento autodistruttivo,
primariamente egli cerca un automedicamento volto ad alleviare le proprie
tensioni psicologiche ed il proprio malessere esistenziale: le conseguenze
negative e i danni legati all'uso reiterato delle droghe costituiscono l'esito e il
prezzo di una pratica volta alla sedazione di un dolore di fondo, sempre più
aggravato dalla dipendenza stessa, altrimenti insopprimibile. Il sintomo
tossicomanico, quindi, deve essere visto come il tentativo disperato di un
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organismo umano non già di autodistruggersi ma di sopravvivere e di
continuare a crescere, pur trovandosi in condizioni avverse e tutt'altro che
facilitanti. L'uso reiterato di droghe risponde, seppure in maniera parziale e
deviata, a quella che Rogers definisce come la spinta motivazionale di base di
ogni organismo, e cioè la tendenza attualizzante (Rogers,1961; Rogers, 1977),
e può essere inquadrato come una manifestazione di questa spinta vitale.
Tale affermazione può sembrare un paradosso, ma non lo è: non lo è se
facciamo riferimento a un postulato che, escludendo istanze auto ed
eterodistruttive di base, come parte del fondamento psichico, identifica un
finalismo positivo ed autoespansivo nel funzionamento dell'organismo
umano pari a quello di ogni altro organismo vivente. La metafora delle patate, di Carl Rogers, può aiutarci a chiarire meglio il senso di queste
considerazioni. Rogers racconta di come una volta fosse rimasto colpito alla
vista di un mucchio di patate riposte in una cantina come riserva per
l'inverno, la sua attenzione venne catturata dai filamenti che spuntando dai
tuberi cercavano di allungarsi verso la debole luce di una finestrella: ciò che
lo impressionava erano quei disperati tentativi di crescita ; certo, quel
groviglio di filamenti non poteva somigliare affatto alle solide piante che si
sarebbero sviluppate se le patate fossero state piantate sotto terra eppure
erano da considerarsi ugualmente dei tentativi di crescita, per quanto goffi,
privi di grazia e inutili: il tentativo che le patate stavano compiendo per
attualizzare al massimo le loro potenzialità pur in condizioni così
svantaggiose. Rogers racconta poi di come quella scena gli tornasse spesso
alla mente tutte le volte che si imbatteva in persone molto disturbate
(Rogers, 1977). Restando nella metafora, potremmo dire che anche il
tossicodipendente sta cercando una luce verso la quale protendersi e dirigere
il proprio sviluppo, immerso in una semioscurità affettiva, relazionale,
esistenziale, valoriale e sociale: la sua unica luce, ciò che può conferire un po'
di senso e una spinta alla sua esistenza, è rappresentata dalla sostanza,
come alternativa a un precipizio depressivo, a una disintegrazione psicotica,
a un'angoscia paralizzante, a una rabbiosità incontenibile o a un vuoto
narcisistico. A fronte di tutto questo, è assai difficile che il tossicodipendente
abbandoni le sostanze per il fatto stesso di aver chiesto aiuto: non è affatto
detto che egli percepisca la nuova cura come migliore della sua vecchia, e già
ben collaudata, cura. Questo dovrebbe portare l'operatore/professionista a
rispondere alla richiesta di aiuto e ad offrire il proprio intervento con
maggiore cautela e realismo riguardo alle aspettative positive sui processi di
cambiamento, ridimensionando le fantasie e le proiezioni narcisistiche
riposte sul proprio ruolo. L'operatore/professionista dovrebbe stare accanto
al tossicodipendente per cercare di offrirgli aiuto, rinunciando
definitivamente alla pretesa di cambiarlo. Il problema sta nel fatto che è il
tossicodipendente stesso a richiedere a chi si prende cura di lui di
"cambiarlo" - è qui il punto di "contatto" da cui si origina la collusione conferendo all'operatore/professionista un potere enorme, o meglio
l'illusione di questo potere, per poi riprenderselo un secondo tempo
sabotando, mediante le ricadute, ogni tentativo di cura. La situazione
potrebbe somigliare a quella di un pescatore sulla propria barca che, avendo
fatto abboccare un pesce molto grosso, inizialmente prenda a recuperare
lenza per poi accorgersi che è il pesce a trainare lui verso il largo. Tutto
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questo accade in ragione dell'ambivalenza del tossicodipendente che da un
lato vorrebbe curarsi e dall'altro non vuole rinunciare alla sua sostanza, che
vorrebbe affidarsi ma poi non si fida affatto preferendo "condurre" lui il
gioco. Occorre quindi riconoscere questa ambivalenza e cercare di accettarla.
Tutto ciò significa dare riconoscimento anche al polo "negativo", al "demone
tossico", che viene tenuto nascosto perché da alla persona tossicodipendente
una sicurezza di sopravvivenza. Potenti meccanismi di scissione e di
negazione hanno il compito di mantenere protetta questa controparte
autoterapica, garantendola da forme esterne di manipolazione e di controllo.
Questo aiuta la persona tossicodipendente a mantenere una forma di
equilibrio e ad accettare il rischio di farsi aiutare.
A titolo di esempio, vorrei riportare un breve spezzone di colloquio avuto da
me con un tossicodipendente; cito a memoria perché mi è rimasto molto
impresso: Terapeuta: «Perché non mi racconti mai niente delle tue ricadute?»
Cliente: «Perché tu mi diresti di non farlo e cercheresti di convincermi di questo... e io invece non voglio smettere... però mi piace venire da te»
Terapeuta: «E non puoi venire qui parlandomi anche delle tue ricadute?»
Cliente: «£ no, questo non è possibile: come, vengo da te per curarmi e poi ti
faccio vedere che sono ancora tossico?»
Per questo cliente, evidentemente, le due cose insieme proprio non
potevano stare: agiva in lui una modalità rigida e primitiva di scissione nella
rappresentazione di sé, ma era a buon punto perché la stava elaborando; si
tratta di una modalità difensiva dal carattere decisamente psicotico.
Riguardo al parallelismo tra tossicodipendenza e malattia mentale, vorrei
citare quanto affermato da Vaccari e Zucconi: «Nel tossicodipendente la
qualità di soggetto è gravemente compromessa: egli divide con i portatori di
malattie mentali una condizione di minore libertà, di riduzione delle opzioni di
vita e di incapacità a far fronte alle proprie responsabilità» (Vaccari, Zucconi,
1997). Gli Autori osservano che, data la minore gravita del disturbo, i
tossicodipendenti non si chiudono in un atteggiamento autistico
mantenendo un rapporto con la realtà, anche se in condizioni di notevole
marginalità affettiva e sociale, lo aggiungerei che è proprio questo ciò che
può indurre l'operatore/professionista a sbagliare sovrastimando le
possibilità di miglioramento: a fronte di una maggiore capacità di contatto
con il mondo esterno, rispetto a quanto non accada allo psicotico, il
tossicodipendente condivide comunque con quest'ultimo meccanismi di
difesa similari.
Alcune indicazioni
A fronte di tali considerazioni è forse possibile trarre qualche indicazione
nella gestione della relazione d'aiuto.
Innanzi tutto vorrei dire che una delle cose più importanti è il rifiuto del
potere: tutte le volte che il tossicodipendente in trattamento cerca di darci il
potere di trasformarlo, di cambiarlo, di guarirlo, noi dobbiamo respingere la
sua offerta e restare dentro i nostri limiti. Quando il tossicodipendente ci
conferisce questo potere sta scindendo la parte malata da quella sana, ci
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affida quest'ultima e se ne libera, passivizzandosi. Rifiutare questa manovra,
rifiutare questo potere, significa responsabilizzarlo rendendolo il principale
artefice della conservazione della propria salute, fisica e mentale. Non c'è da
aspettarsi che egli accetti di buon grado questo rifiuto, anche perché è
abituato a sentirsi confermato in tale manovra, quindi tornerà a offrire la
metà buona di sé su un vassoio d'argento e noi torneremo, gentilmente, a
respingerla; si instaura in tal modo una dialettica interessante che porterà la
relazione di aiuto ad una definizione più realistica dei limiti e delle
responsabilità di ciascuno.
Vorrei fare due esempi, presi dalla mia pratica clinica: il primo si riferisce
ad una "appropriazione indebita" del potere da parte del terapeuta, con esiti
fallimentari, il secondo ad un rifiuto esplicito dell'offerta di potere, con
conseguenze senza dubbio migliori.
Esempio n. 1
Durante una seduta di gruppo d'incontro con utenti tossicodipendenti in
trattamento ambulatoriale, uno dei membri propose di fissare una regola:
tutti i partecipanti al gruppo dovevano impegnarsi a non ricadere nelle
sostanze, almeno fintantoché fosse continuata l'esperienza. Mi chiesero cosa
ne pensassi ed io risposi che questa poteva essere una cosa buona se tutti
erano d'accordo. Tutti dissero di essere senz'altro d'accordo. Da quel
momento il gruppo d'incontro era diventato un gruppo di astinenti. Nel corso
delle sedute successive incominciarono a verificarsi lunghi e imbarazzati
silenzi, poi sottili schermaglie tra i partecipanti; seguirono le assenze di
alcuni membri, che si protrassero per diverse sedute; a queste assenze si
aggiunsero presto quelle di altri e alla fine quel gruppo si spense senza avere
più un seguito. I retroscena mi vennero raccontati successivamente. Al
termine della seduta dove si era stabilita la regola dell'astinenza, alcuni
membri del gruppo andarono a farsi assieme. La volta successiva quelli che si
erano rifiutati (la maggioranza) non denunciarono la cosa nel gruppo e
rinunciarono a confrontarsi direttamente con chi si era drogato, questo per
non violare un'altra regola, implicita e sempre molto radicata fra i
tossicodipendenti, quella di "coprirsi" a vicenda. Chi aveva trasgredito
mandava continui messaggi e allusioni di svalutazione riguardo al gruppo,
del tipo: «Tutte queste chiacchiere non servono a niente, tanto nessuno di noi
cambierà mai». Al termine di quella seduta partirono per farsi almeno il
doppio di quelli che erano andati la prima volta. Così il gruppo finì per
disgregarsi sempre di più nella frammentazione della norma che esso stesso
si era dato.
Esempio n. 2
Sono testardo. Così, dopo essermi ripreso dalla delusione, proposi una
nuova esperienza di gruppo di incontro per tossicodipendenti in trattamento
ambulatoriale. Nel corso di una delle prime sedute un partecipante, che in
altre occasioni aveva apertamente rivendicato il proprio diritto a iniettarsi
eroina in modo controllato, guardò verso di me e chiese con un aria candida
che mi lasciò sbigottito: «Noi siamo qui per smettere di farci, vero?» lo
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avvertii immediatamente un brivido corrermi dietro la schiena e sentii
l'insidia che si celava dietro a quelle parole. Memore del penoso fallimento
della precedente esperienza non esitai a rispondere: «No, non è questo il
motivo per cui ci riuniamo . Nessuno di noi è un santo, né dobbiamo uscire di
qui con l'aureola in testa. Il motivo per cui siamo qui è solo quello di cercare di
comunicare un po' meglio fra noi». Questa risposta lasciò tutti piuttosto
sorpresi e spiazzati (compreso me!). «Come, non dobbiamo cercare di
cambiare dal momento che siamo qui?». Disse qualcun altro. «No», insistetti:
«Possiamo anche permetterci di restare quello che siamo». L'impatto su
gruppo di questo breve scambio fu, all'inizio, piuttosto scioccante; seguì un
silenzio carico di smarrimento ma poi, proprio per effetto di quelle parole, il
clima si rilassò molto e l'interazione potè avere luogo in modo più onesto
comprendendo anche tutti gli aspetti collegati con le pratiche
tossicomaniche che, altrimenti, sarebbero rimasti sottaciuti e nascosti.
L'incidenza degli abbandoni in quel gruppo fu molto più bassa rispetto al
gruppo precedente e il ciclo di incontri ebbe termine con il sopraggiungere
dell'estate, come programmato all'inizio. Questo per me fu un bel successo
anche se nessuno dei partecipanti interruppe l'uso di sostanze.
Un'altra indicazione importante, che trova un collegamento con quanto
detto adesso, consiste nel cercare di estendere l'empatia anche al polo
negativo dell'ambivalenza, quello che lavora per il mantenimento della
tossicodipendenza. È importante che l'operatore/professionista colga ogni
occasione per poter empatizzare con il piacere ed il sollievo che le sostanze
inducono nel consumatore, con l'eccitazione che accompagna la ricerca non
sempre facile della dose giornaliera, con il sentimento di accresciuta
autostima che può arrecare l'essere riusciti a farla franca sui controlli delle
forze dell'ordine, e così via. È importante che il tossicodipendente si senta
visto e capito anche in questi aspetti della sua esperienza, poco nobilitanti se
vogliamo, ma che spesso costituiscono la sua unica ragione di vita. Ignorarli
significherebbe rinforzarli (Guelfi et al. 2001 a). Anche in questo caso non
dovremo certamente aspettarci vita facile. Il tossicodipendente non vuole
comprensione rispetto all'uso di sostanze, anteponendo spesso ad ogni
tentativo di ascolto giudizi drastici e condanne senza appello; come abbiamo
già visto, egli custodisce gelosamente per sé la propria esperienza
chiudendosi dietro a un muro di imbarazzo e di reticenza che scioglie
soltanto nella condivisione con il gruppo dei pari. Anche per questo i
percorsi di aiuto in gruppo risultano essere efficaci, poiché il clima
dell'interazione tende a farsi più diretto ed autentico.
Un ulteriore aspetto, davvero strategico nella relazione di auto con il
tossicodipendente, riguarda la trasparenza. È di fondamentale importanza
che l'operatore/professionista sappia esprimere in modo diretto i propri
sentimenti e vissuti nel qui e ora della relazione, compresi quelli più
problematici. Il fatto che questo possa accadere quando non vi sia
partecipazione emotiva nella relazione, quando sussista una condizione di
stallo, quando non si percepiscano movimenti significativi nella relazione,
quando vi siano sentimenti di noia, quando si avverte chiaramente la
sensazione di essere manipolati, quando si capisce che l'altro sta fuggendo
verso obiettivi francamente irrealistici, può introdurre elementi di vitalità
nella relazione, sollecitando la circolazione di affetti più significativi e
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profondi. Riguardo alle condizioni definite da Rogers come "necessarie e
sufficienti" per promuovere un cambiamento significativo nella relazione
d'aiuto
(Rogers,
1957),
con
il
cliente
tossicodipendente
la
congruenza/trasparenza, soprattutto all'inizio, è forse quella che deve essere
più attiva per consentire un "aggancio" efficace e gettare le basi per l'alleanza
terapeutica o consulenziale. I tossicodipendenti, così come gli psicotici e gli
adolescenti, tendono a saggiare a fondo l'autenticità del loro interlocutore,
sfidandolo sul piano della trasparenza. Se avvertono una eccessiva
formalizzazione nel ruolo, un ritirarsi di fronte alle provocazioni in atteggiamenti troppo "professionali", se non sentono la "persona reale" che sta loro
di fronte, non possono fidarsi e preferiscono recitare la commedia, cercando
solo di ricavarne qualche vantaggio secondario, fintantoché gli sarà possibile.
Conclusioni
Le indicazioni fin qui riportate - ridimensionamento della spinta salvifica e
delle aspettative di "guarigione", rifiuto del potere e di una eccessiva
responsabilizzazione per l'altro, estensione dell'empatia verso le aree di
maggiore coinvolgimento con la sostanza, trasparenza riguardo ai sentimenti
più problematici maturati nell'interazione - possono contribuire alla
creazione di un clima non giudicante e sollecitare l'apertura di una
dimensione di maggiore autenticità, accettazione e fiducia nella relazione di
aiuto. In una interazione così caratterizzata, con la persona
tossicodipendente, la ricaduta nelle sostanze può minacciare di meno il
rapporto divenendo, anzi, occasione di rielaborazione dei vissuti più
problematici e perciò opportunità di crescita (vedi Schematizzazione Parte
B). Il fatto che il tossicodipendente possa parlare delle sue ricadute, senza
nasconderle, senza negarle e senza negarsi alla relazione, costituisce un
successo importante poiché segnala il fatto che la relazione d'aiuto sta
divenendo un laboratorio dove egli può incominciare ad integrare aspetti
della propria esperienza prima vissuti solo in modo dicotomico e scisso.
L'obiettivo della relazione d'aiuto non deve essere tanto quello del
superamento dei comportamenti tossicomanici, cosa che farebbe partire il
rapporto già su un presupposto sbagliato e collusivo, come abbiamo
abbondantemente visto, quanto soprattutto il mantenimento della relazione
stessa. È proprio questo il fuoco del lavoro con la persona tossicodipendente:
il mezzo, ossia la relazione, e il fine, ossia la conquista e il mantenimento
della relazione stessa, tendono a coincidere. È nell'ambito di una relazione
valida e sicura, affettivamente significativa, sviluppata entro limiti realistici,
umanamente onesta e vera, che il tossicodipendente può riconoscersi; è
nell'ambito di una relazione di questo tipo che egli può costruire i propri
obiettivi, verificarne la percorribilità, elaborare i propri fallimenti, sondare i
propri limiti ed esplorare, valutare e riscoprire di volta in volta le proprie
risorse.
Gli abbandoni costituiscono una modalità di avvicinamento progressivo
alla relazione da parte del tossicodipendente, perciò dobbiamo aspettarceli
sempre: rispecchiano il suo tema relazionale, sovente abbandonico «Abbandono, così come sono stato abbandonato», «Abbandono, per non essere
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abbandonato» - nonché il rapporto controverso ma esclusivo con le sostanze,
che non ammette antagonisti. Si può quindi parlare di un "aggancio
progressivo" che avviene per fasi, mediante approcci ed allontanamenti, che
deve trovarci disponibili, ma anche realistici, trasparenti e non collusivi;
importante sarà la elaborazione di quanto accaduto durante le assenze (in
genere ricadute consecutive, ma anche carcerazioni, ricoveri, periodi
trascorsi in comunità terapeutiche ecc.) nonché l'esplorazione dei sentimenti
vissuti nel distacco così come nel riavvicinamento. Si parla spesso della
"presentificazione" come aspetto che caratterizza la dimensione esistenziale
nel tempo del tossicodipendente: pulsazione che trova il suo focus nella
gratificazione immediata e illimitata (tanto del bisogno di sostanze quanto
del bisogno di uscirne), che non riconosce né un prima né un dopo. Ebbene,
questo paziente lavoro di ricucitura di un percorso spesso travagliato e
fortemente incidentato, lavoro sovente lungo anni, consente di restituire alla
persona tossicodipendente un senso del tempo meno frammentato.
Questa continuità potrà avere luogo solo se entrambi i protagonisti della
relazione di aiuto - non solo il tossicodipendente ma anche
l'operatore/professionista-sapranno crescere, rinunciando alla pretesa di
cancellare con un colpo di spugna i sentimenti dolorosi della sconfitta e
dell'impotenza.
Il capitano Achab è alla spasmodica ricerca della vendetta contro la balena
bianca Moby Dick. Il dolore della mutilazione subita lo spinge a dare la caccia
al mostro inseguendolo in modo maniacale per tutti gli oceani. La sua
odissea, una vera e propria "furia tossica", volgerà in tragedia. Achab avrebbe
potuto sottrarsi al suo destino solo rinunciando a quella sfida, ma tale
rinuncia gli era evidentemente impossibile. Allo stesso modo il
tossicodipendente può evitare di soccombere a se stesso arrendendosi al
dolore, senza più cercare di vincerlo attraverso la ricerca di una onnipotenza
artificiale e mortifera. Così come chi se ne prende cura può evitare il
fallimento solo rinunciando a una rivincita impossibile, fatta di visionarie
illusioni di guarigione, contro il mostro che, a suo tempo,anche a lui ha
arrecato ferite laceranti. Ma tutto questo può essere estremamente difficile
perché il confine che separa il dolore destinato a conferire saggezza da
quello che può procurare follia è assai instabile e incerto, e oscilla come un
ramo mosso dal vento.
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