storie - Una città
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una città n.208 mensile di interviste dicembre 2013 - euro 7 sommario dicembre 2013 LA COPERTINA, dal Sudafrica, è dedicata a Nelson Mandela. IL POTERE PENALE. Una magistratura sempre più tesa a risolvere inadempienze, spesso reali, dell’amministrazione e della politica, intervenendo direttamente; un ruolo svolto da soggetti che si autoinvestono di grandi responsabilità senza aver ricevuto alcuna legittimazione democratica; la palese incompatibilità tra codice accusatorio e obbligatorietà dell’azione penale. Intervista a Gaetano Insolera (da pag. 3 a pag. 6). LA PAGELLA IN PDF. Una scuola del piacentino da un anno ha deciso di dimezzare i costi dei libri scolastici e in cambio ha chiesto ai genitori di dotare i figli di un tablet; uno strumento versatile che impone uno stile di insegnamento diverso e anche un ripensamento degli spazi; l’importanza di un corpo insegnante affiatato e di una vera scuola di comunità. Intervista a Daniele Barca, Angelo Bardini e Giusy Vallisa (da pag. 7 a pag. 11). IL MASTER DELLA MATERNITA’. Di ritorno da un’esperienza all’estero, la crescente insofferenza per un modo di lavorare “vecchio”, con ritmi e orari rigidi, che diventa del tutto insostenibile all’arrivo di un figlio; la voglia di sperimentare qualcosa di diverso in prima persona, l’idea di uno spazio di co-working pensato soprattutto per le donne e dotato di co-baby; la sfida di far della maternità un momento di formazione. Intervista a Riccarda Zezza (da pag. 12 a pag. 15). HIGH PERFORMANCE WORk PRACTICES. Coinvolgimento dei lavoratori, flessibilità degli orari, formazione, lavoro in squadra, incentivi, welfare aziendale: laddove i lavoratori sono disposti a scambiare più autonomia con più responsabilità, il management sa delegare e le Rsu non si sentono minacciate, non solo si lavora meglio, ma la produttività aumenta e i costi diminuiscono, condizioni fondamentali per essere competitivi nel mercato globale. Luciano Pero e Anna Ponzellini analizzano alcuni casi di studio ( da pag. 16 a pag. 21). LA STORIA DI BILJANA. Mandata al nord con lo stipendio di impiegata ad aprire la nuova sede di un’azienda che opera in ambito sanitario; un lavoro svolto con passione, dedizione e anche soddisfazione che però stenta a trovare un corrispettivo nello stipendio, lo stress che aumenta, il neolaureato che, di punto in bianco, arriva e la demansiona, il mobbing... Per “appunti di lavoro”, la storia di Biljana, di Massimo Tirelli (pag. 22). TOTALLY LOST. Nelle “centrali” immagini tratte da una mostra fotografica, a cura di Spazi Indecisi. SI INTITOLAVA “PROTESTO”. Un’infanzia movimentata, resa più lieve da una straordinaria passione per i libri trasmessa dalla madre; l’esperimento dei “ratas pelosas”, in cui dei giovanissimi brasiliani fecero della narrativa un’arma di resistenza alla dittatura; i migranti scrittori e gli Avviso scrittori migranti: un autentico patrimonio di cui il nostro paese non si è nemmeno accorto. Intervista a Julio Monteiro Martins (da pag. 27 a pag. 29). UN PENSATORE LIBERO. Ezio Tarantelli, un gran lavoratore, un educatore che sapeva combinare gioco, inventiva e disciplina; il protocollo Lama-Agnelli del ‘75 sulla scala mobile e la sua previsione sul pericolo di inflazione; il duello fra Craxi, Berlinguer e la Cgil e la decisione delle Brigate Rosse di inserirsi in quel clima di scontro; un uomo ponte fra varie istituzioni. Intervista a Luca Tarantelli (pag. 30-31). LA GROTTA DI PAROS. Due persone, Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel, suora di clausura, che hanno conosciuto l’esilio, segnate entrambe dalle vicende della storia, entrambe “isolate” anche se per scelte diverse, ma appassionate del mondo e dell’uomo, si incontrano e insieme cercano la verità, scrivendosi, per anni, tre volte alla settimana... Pubblichiamo una parte dell’introduzione di Cesare Panizza a Fra me e te la verità, il volume che raccoglie 103 lettere di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel (da pag. 32 a pag. 37). LETTERE. Mario Trudu, ergastolano ostativo, cioè senza alcuna speranza di uscire, mai, fa una modesta proposta ai politici; Belona Greenwood, da Norwich, Inghilterra, ci manda un racconto di Natale e ci spiega perché negli ospedali del Regno Unito è più facile morire nel weekend che durante la settimana. LA SVOLTA DELLA CINA. Per la rubrica “neodemos”, Steve S. Morgan racconta i controversi effetti della decisione del comitato centrale del Partito comunista cinese di porre fine alla politica del figlio unico. LA VISITA è alla tomba di Clemente Rebora. Iniziamo a ricordare il centenario della Prima guerra mondiale con il suo “Viatico”. APPUNTI DI UN MESE. Si parla del destino del libro nell’era digitale; della maestra Myriam e del metodo delle “scuole nuove” che in Colombia ha fatto sì che le scuole di campagna vadano meglio di quelle di città; di donne senza figli; di una tavola rotonda del 1958 sul caso Pasternak, delle email a cui in Francia le istituzioni rispondono tempestivamente e qui no; di carcere; delle nove massime garantiste proposte da Luigi Ferrajoli che ha ricordato, tra l’altro, che giurisprudenza vuol dire “prudenza” nel giudizio; eccetera eccetera (da pag. 38 a pag. 45). L’OSPIZIO DEGLI INVALIDI. “Ma il resto dell’anno i due bambini si recavano nell’Ospizio degli Invalidi di Kouba, dove la madre di Pierre, dopo aver lasciato l’impiego alle poste, era capo-guardarobiera. Kouba era il nome d’una collina a oriente di Algeri, a un capolinea tramviario...”; per il “reprint” pubblichiamo un racconto di Albert Camus uscito su “Tempo presente” nel 1964. Le poste ci smarriscono dei bollettini postali. Li mandano bianchi, scusandosi. Noi non possiamo risalire in alcun modo al mittente, cioè a chi ha sottoscritto l’abbonamento o ordinato dei libri. Per sicurezza sarebbe meglio comunicarci l’avvenuto ordine (tramite bollettino postale) con una mail o un fax. E comunque chiamarci prontamente nel caso la rivista o i libri tardino troppo. 2 una città cosa sta succedendo IL POTERE PENALE Una magistratura sempre più tesa a risolvere inadempienze, spesso reali, dell’amministrazione e della politica, con interventi diretti; un ruolo invasivo svolto da soggetti che si autoinvestono di responsabilità senza aver ricevuto alcuna legittimazione democratica; l’incompatibilità palese tra codice accusatorio e obbligatorietà dell’azione penale. Intervista a Gaetano Insolera. Gaetano Insolera, avvocato cassazionista, è ordinario di Diritto Penale all’Università di Bologna, dove è docente di Diritto penale Comparato e Internazionale nella Scuola di Giurisprudenza e di Diritto penale (I° anno) nella Scuola di specializzazione per le professioni legali E. Redenti; dal 2004 dirige il ciclo di seminari “Lavori in corso”. All’ultimo congresso di Magistratura Democratica, svoltosi quest’anno, il Procuratore della Repubblica di Milano ha messo in guardia dal “protagonismo” di certi magistrati che si propongono come custodi e tutori del vero e del giusto. Lo stesso filosofo del diritto Luigi Ferrajoli ha aggiunto che la separazione dei poteri va difesa non solo dalle indebite interferenze della politica nell’attività giudiziaria ma, viceversa, anche dalle indebite interferenze della giurisdizione nella sfera di competenza della politica. Siamo in presenza, effettivamente, di una tendenza pervasiva della magistratura requirente e inquirente? Penso di poter dare senz’altro una risposta affermativa. Con una precisazione, che vuol mettere in evidenza non solo i percorsi dello studioso e del magistrato citati, ma anche di altri. Mi vengono in mente, primo tra tutti, Violante; ma anche Domenico Pulitanò -sue recenti prese di posizione sul caso Ilva sono state pubblicate sulla rivista dei penalisti bolognesi ([email protected]). Inoltre, è uscito un importante saggio di Giovanni Fiandaca sull’ultimo numero della rivista “Criminalia”, a proposito della presunta trattativa Stato-mafia. L’impressione è che un settore della cultura, diciamo, progressista o comunque con radici nella storia politica della sinistra del Novecento, si stia rendendo conto di un fenomeno che -attenzione- non è in alcun modo rapportabile alla cosiddetta “supplenza giudiziaria”, che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del Novecento nel nostro paese e che ha portato, ad esempio e, tanto per intenderci, a polemiche ricorrenti sull’opportunità o meno che i magistrati fossero iscritti ai partiti politici. Ecco, a parer mio, non è questa l’attuale realtà italiana. Faccio spesso una battuta: i giudici comunisti sono un sogno di Berlusconi, perché, se così fosse, sarebbe tutto molto più semplice. In realtà, il problema è molto diverso e, devo dire, più grave. A questo proposito molti sono gli spunti offerti dal volume di Carlo Galli, I riluttanti. Io penso che la situazione attuale si rappresenti con una crisi delle élites politiche, con una perdita di identità delle formazioni politiche, a cui subentra una tendenza della magistratura a fare direttamente azione politica, senza però riferirsi a determinate idee e concezioni, quali quelle riconducibili ai partiti storici del Novecento o a formazioni più recenti. Questo implica quello che definirei un elemento di costituzione materiale che altera il riparto dei poteri disegnati dalla nostra Costituzione. Ovviamente non mi riferisco a tutta la magistratura: c’è però un’élite all’interno della magistratura che risolve inadempienze (spesso reali) della pubblica amministrazione o della politica con un intervento diretto. In fondo si potrebbe dire: “Beh, ma questo corrisponde a un deficit nell’esercizio dei poteri così come costituzionalmente delineati e quindi: perché no?”. ma questo ruolo può essere svolto da un soggetto reclutato con un concorso pubblico, non diverso da quello delle Poste? Il nodo, oggi oggetto di molte riflessioni, si concentra in una parola: legittimazione. Detto altrimenti: questo ruolo può essere svolto da un soggetto che si ritiene autorizzato, legittimato a svolgere questo compito senza però alcun riferimento di tipo democratico; un soggetto che viene reclutato attraverso un concorso pubblico, non diverso da quello delle vecchie Poste? Parliamo di un soggetto che, a differenza della tesi di Galli a proposito delle élites, non rifugge dalle responsabilità (“i riluttanti”), piuttosto si assume responsabilità senza doverne mai rispondere. Che è totalmente irresponsabile, se non attraverso dinamiche che sono completamente autarchiche. Chiedo: un’azione direttamente politica può tollerare queste caratteristiche, queste connotazioni? Questa è la realtà di oggi e più che di un’invadenza è opportuno parlare di una modificazione, in termini di costituzione materiale, della ripartizione dei poteri disegnati dalla legge fondamentale. Tra l’altro, con alcuni equivoci formidabili. Perché, da un lato, il potere giudiziario, con una sentenza molto importante del 2010 delle Sezioni Unite penali (la sentenza sul cosiddetto giudicato esecutivo) si attribuisce un ruolo addirittura “cooperatorio, se non concorrenziale rispetto alla legge, nell’interpretazione della legge penale”. E quindi si disancora, nell’interpretazione delle leggi penali, dalla logica giuspositivistica che è propria del nostro sistema. Dall’altro lato, però, quel potere rivendica continuamente l’obbligatorietà dell’azione penale e quindi se tu dici che la giurisprudenza, l’elaborazione del cosiddetto diritto vivente, è svincolata da una pratica esclusivamente esegetica e da una dipendenza dalla legge, va anche detto che il dialogo, ormai, è con le giurisdizioni sovranazionali, quindi Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), Corte di giustizia. Pertanto, ne risultano svalutate addirittura le indicazioni interpretative che provengono dalla Corte costituzionale interna, col risultato che non hai più alcun riferimento alla legge, salvo poi difendere questi assoluti tabù, in particolare quello dell’obbligatorietà. Quando tutti sanno che l’obbligatorietà sul piano formale non corrisponde alla realtà sostanziale. Comunque, per tornare alla domanda, sì. Spesso la politica è mesa in scacco dal potere giudiziario e, in particolare, dai pubblici ministeri. Questo è il punto. E ritengo sia questo a spingere autori, studiosi, giuristi e politici a lanciare un grido d’allarme. Magari il pretesto sono i Di Pietro, gli Ingroia, i De Magistris, ma c’è anche la vicenda dell’Ilva, il conflitto di attribuzione tra procura di Palermo e il Capo dello Stato, ecc. Alla base di questo processo, di questa mutazione dalla supplenza all’autoinvestitura di una funzione, c’è anche una trasformazione culturale? Se stiamo al campo penale, l’impressione è che all’idea di perseguire il reato si sia sostituita psicologicamente e culturalmente l’idea di perseguire la colpa. Se questo vuol dire utilizzare a pretesto, diciamo così, le indagini per una singola notizia di reato, per poi investire in modo esemplare, direi pedagogico, educativo, determinati fenomeni, beh, questo è indubbiamente un aspetto. Anche qui il richiamo proviene mi pare proprio da Pulitanò, nel senso di dire: attenzione, la giustizia penale serve per individuare singole responsabilità su singoli fatti, dopodiché il suo esercizio ha un effetto certamente di prevenziouna città 3 ne generale, di monito, però non si deve discostare da questo. Ma tu parlavi di colpa. Ecco, forse alludevi anche a un altro fenomeno che, all’apparenza, è più di tipo tecnico, riferibile all’illecito colposo. Penso alla presenza, sempre più frequente, di decisioni nelle quali si sottovaluta l’accertamento della causalità, del fatto materiale, sostituendo ad esso la colpa: non importa che si dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, che è stata causata la morte o un disastro. Assorbente diventa un rimprovero deontologico. Mi riferivo anche all’introduzione di categorie non propriamente giuridiche, di tipo sociologico, per esempio, quando si parla di corruzione ambientale, o anche di tipo filosofico-morale. Un penalista l’ha chiamato il “potere penale”, per cui il processo penale serve non tanto e non solo per individuare singole responsabilità, ma per fare emergere fenomeni socialmente negativi. Più volte in questi anni, Napolitano ha ripetuto il suo richiamo al fatto che i giudici devono essere consapevoli delle conseguenze sociali delle decisioni che assumono al di là delle parti di quel singolo processo. Anche Napolitano riflette una cultura politica nella quale io mi identifico- che tiene ben distinta la politica, l’amministrazione e il potere giudiziario. Non dimentichiamoci che tra gli oppositori dell’istituzione di una Corte costituzionale nel 1947-’48 troviamo Togliatti e Nenni, proprio perché l’idea della supremazia della politica (che in democrazia significa rappresentanza) rispetto al potere giudiziario, fa parte di una certa tradizione. Ecco, anche chi aveva questa idea di una magistratura che tenesse come riferimento le grandi ideologie politiche, oggi si rende conto dei rischi fortissimi rispetto a un riparto di poteri che, ripeto, vede sostituirsi ai meccanismi (certo sciagurati nella loro degenerazione) della democrazia rappresentativa, poteri che non hanno alcuna legittimazione. le indagini preliminari hanno una durata indeterminata e indeterminabile, in cui tutto è governato dal pm Leggevo recentemente un articolo di Galli della Loggia che, di nuovo, parla di una minoranza che tiene in ostaggio il discorso pubblico. L’affaire dei costituzionalisti -su cui abbiamo fatto a fine novembre un seminario di “Lavori in corso”- è un caso veramente paradigmatico di questi meccanismi. Mi riferisco all’inchiesta della Procura di Bari che vede coinvolti, a proposito dello svolgimento dei concorsi universitari in quelle materie, 35 professori di diritto pubblico, tra cui 5 componenti la Commissione dei c.d. “saggi”, per l’elaborazione di alcune proposte in tema di riforme costituzionali, nominata dall’attuale Presidente del Consiglio. Ebbene, questo caso si può definire un affaire per la capacità, mostrata da articoli e, soprattutto, da alcuni titoli della stampa più impegnata nell’impresa politica ostile alla riforme costitu- 4 una città zionali, di evocare esempi storici -cominciando dal caso dei filosofi, mestiere divenuto pericoloso, nella Atene della fine V secolo a.C.- connotati dall’identificazione, in determinate élites intellettuali o professionali, della sede di oscuri complotti e inconfessabili devianze morali L’affaire ripropone poi alcuni aspetti del degrado di cui è stato vittima il nostro processo penale accusatorio: la pratica di cancellazione di un regime sottoposto a termini di durata per le indagini preliminari, delle garanzie di informazione tempestiva per l’indagato, delle invalidità processuali conseguenti alla violazione di norme, peraltro ancora vigenti; l’uso delle intercettazioni telefoniche; violazioni sistematiche, e impunite, del divieto di pubblicazione di atti processuali; sul piano sostanziale: l’uso straordinariamente disinvolto, ma di enorme efficacia mediatica, della contestazione del reato di associazione per delinquere. In breve, nell’affaire dei costituzionalisti il menù dell’ “epoca dei Pubblici ministeri” sembra proprio completo; mentre emerge un collegamento tra una cattiva informazione e un obiettivo politico (in questo caso delegittimare l’ ipotesi di riforma della costituzione), prendendo spunto da un’indagine penale. Un ultimo spunto di riflessione: lo sguardo si posa necessariamente sull’ organo di autogoverno della Magistratura. A proposito dei due costituzionalisti che hanno osato criticare la procura di Bari, il comitato di presidenza del Csm ha autorizzato l’apertura di una pratica a tutela della Procura di Bari. Unanime la votazione della componente togata. Hai citato l’obbligatorietà dell’azione penale: sicuramente mal si concilia con un processo penale di tipo accusatorio come lo intendiamo noi. Il momento del dibattimento, che doveva essere il momento centrale, perché la prova si formava solo nel contraddittorio (a differenza dei sistemi inquisitori), oramai è finito sullo sfondo. Le indagini preliminari hanno una durata indeterminata e indeterminabile, in cui tutto è governato non dai giudici, ma dal pubblico ministero. I pubblici ministeri, con i Gip che sono “senza braccia e senza occhi”, nel senso che, come ha detto la Corte di Cassazione a sezioni unite, non sono giudici “delle” indagini preliminari, ma giudici “per” le indagini preliminari e quindi hanno solo delimitati interventi che non consentono un controllo. Penso quindi che si debba anzitutto ragionare del potere dei pubblici ministeri e della polizia. Ad amplificare il tutto ci sono i media, in base a un rapporto di “scambio”: è dagli uffici di procura che, nella maggior parte dei casi, escono le notizie, le copie degli atti pubblicati (scarsi, o forse assenti, i procedimenti per violazione dell’articolo 684 del codice penale, che sanziona la pubblicazione arbitraria di atti processuali). Dall’altra parte, in quanti casi stampa e tv vanno in controtendenza, criticano tempi, modi e tesi delle inchieste? Su questo abbiamo fatto un seminario di studio intitolato proprio: “È l’epoca dei giudici o dei cosa sta succedendo pubblici ministeri”? Dire che “questa è l’epoca dei giudici” è uno slogan diffuso. Si tratta di un fenomeno complesso, anche sovranazionale: alla crisi delle democrazie occidentali (che non è solo italiana, è una crisi di rappresentanza, è la crisi dei partiti storici del Novecento che hanno contribuito, dopo la guerra, a delineare i sistemi democratici) corrisponde un sempre maggiore potere della giurisdizione, anche della giurisdizione sovranazionale, quindi Corte europea, Corte europea dei diritti dell’uomo. E si tratta di giurisprudenza/fonte. non è possibile che tutte le figure professionali siano soggette a rischi sempre più elevati, a esclusione dei magistrati Ora, è vero che questo avviene, ma il nostro ragionamento è un altro e non riguarda tanto la giurisdizione in senso stretto (che ci porterebbe direttamente alla questione dei limiti all’interpretazione del rapporto tra legislazione e potere giudiziario). Oggi noi dobbiamo parlare piuttosto dell’“epoca dei pubblici ministeri”. La questione è molto seria. Basti considerare l’ impatto punitivo che può sprigionarsi nelle indagini preliminari: sulla libertà dell’indagato, sui suoi beni, sulla sua vita sociale. Esso è di fatto agito da procure e polizia. Da parte di taluno, si ipotizza che questo sia il male minore, in mancanza di una giurisdizione rapida, efficiente, dotata di capacità sanzionatoria effettiva. Ma, a questo proposito, si può osservare come il problema della ragionevole durata non sia quasi mai legato al sabotaggio del processo da parte dei difensori, bensì all’assoluto annullamento di un punto fondamentale del sistema di procedura penale introdotto nel 1988: quello dalla delimitazione dei tempi delle indagini preliminari. Quella normativa è stata totalmente disattesa; la giurisprudenza, la Cassazione, l’ha trasformata in un “aspetto estetico”, non portatore di invalidità processuale. Ci sono state tre sentenze delle Sezioni unite e quindi, alla fine, i pubblici ministeri si sentono autorizzati a fare ciò che vogliono della regolamentazione, proprio perché questo loro “abuso” del processo non contempla nessuna sanzione endoprocessuale, cioè di invalidità degli elementi raccolti in violazione delle norme sui termini delle indagini preliminari. In realtà, la categoria della inutilizzabilità probatoria, che era la categoria d’invalidità più severa, nella logica del codice dell’88, è stata di fatto espunta dal Codice di procedura penale. Tra l’altro, ormai prevale una certa prudenza nel parlare di queste cose, che nasce anche dal timore a spingersi troppo nella critica. Mi ha colpito molto la pratica di autotutela, a cui ho già accennato, aperta dal Csm per un articolo sul “Corriere della sera”, in cui il prof. Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, e il prof. Cheli esprimevano qualche dubbio in merito all’inchiesta barese sui concorsi universitari. Questo per dirti qual è il clima, per cui non solo i politici, di fronte all’Associazione nazionale magistrati o a singoli pubblici ministeri, possono avere qualche timore a esprimere il loro pensiero. La commissione dei “saggi”, istituita dal Presidente della Repubblica, aveva dato qualche indicazione sull’obbligatorietà dell’azione penale sulla ricerca delle notizie di reato e sui termini delle indagini preliminari: apriti cielo! Togliere l’obbligatorietà comporta un indirizzo da parte dell’esecutivo? Vanno insieme le due cose? Nessuno ha mai prospettato questo. Il fatto è che ci sono alcune liaison che non si possono troncare. Se vuoi il codice accusatorio, l’azione penale non può essere obbligatoria, perché altrimenti si ingolfano gli uffici giudiziari. Quando si studiava il nuovo sistema, nell’imminenza dell’entrata in vigore del nuovo codice, si faceva riferimento a statistiche nordamericane relative al numero minimo di dibattimenti celebrati, dato condizionato dagli ampi margini di discrezionalità e dalle pratiche di patteggiamento. Peraltro, devo dire che nessuno in nessun paese, almeno di quelli con cui noi ci confrontiamo, propone una discrezionalità totale dell’azione penale. Ai tempi in cui era procuratore a Torino, Vladimiro Zagrebelsky (che poi è stato giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo sino a pochi anni fa) aveva proposto l’individuazione di criteri di priorità, almeno questo, criteri di priorità (qui i discorsi ci porterebbero lontanissimo) e Fausto Fabbri Roma, Palazzaccio tanto bastò a sollevare molte critiche da parte della magistratura. Ma l’obbligatorietà dell’azione penale tu non puoi continuare a considerarla un tabù e contemporaneamente demonizzare la prescrizione e l’amnistia (e l’indulto, ma questo è un altro problema a fronte del sovraffollamento delle carceri). Perché se non ci fosse la prescrizione sarebbe la fine, gli uffici sarebbero sommersi dalle bagatelle. Sono stati proposti anche sistemi di degradazione dell’illecito penale (degradazione significa passaggio dalla sanzione penale a quella amministrativa), però anche quelli hanno avuto una pratica limitata. Quindi la situazione è bloccata. C’è poi il problema della responsabilità disciplinare dei magistrati. E della responsabilità civile. Secondo me, la legge che è stata introdotta a seguito del referendum di metà degli anni Ottanta è insufficiente perché non contempla una responsabilità diretta dei magistrati. Attenzione, possiamo parlare di disciplinare e civile, di responsabilità politica certamente no. Anche se è chiaro che questa sovraesposizione delle procure della Repubblica ti porta a pensare alla necessità di introdurre correttivi. La democrazia spagnola vede il “fiscal”, che è il nostro pubblico ministero, dipendente dell’esecutivo (e produce probabilmente giudici più indipendenti dei nostri... anche questi sono dei tabù). Ma, tornando al discorso della responsabilità, deve es- serci una responsabilità civile diretta per gli errori professionali. Se la nostra è una società dove il reato è un rischio sociale, non è possibile che tutte le figure professionali siano soggette a rischi sempre più elevati (soprattutto in un contesto come il nostro nel quale si vuole che la legge sia cera molle nelle mani del giudice), a esclusione della categoria dei magistrati. il carattere terribile e odioso del potere giudiziario; odioso perché in grado di rovinare la vita delle persone... Ma, soprattutto, si impone qui il richiamo a quella specie di decalogo che ha elaborato Ferrajoli all’ultimo congresso di Magistratura democratica: esso ha il pregio di ricordare la prima regola deontologica, cioè: “La consapevolezza del carattere terribile e odioso del potere giudiziario; odioso perché, diversamente da qualunque altro potere pubblico -legislativo, politico, amministrativo- è un potere dell’uomo sull’uomo che decide della libertà ed è perciò in grado di rovinare la vita delle persone sulle quali è esercitato”. Ecco la prima regola deontologica. La sesta regola è altrettanto fondamentale, perché mette in guardia da un’altra deriva di sistema: se nel momento del reato la parte debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono altrettanto leggi del più una città 5 debole. Rispetto alla vittimologia che impera dobbiamo ricordarlo: fino a che non è condannato, non si sa se l’ imputato sia una vittima sacrificale o invece una vittima giustificabile. Ferrajoli è il filosofo italiano del garantismo, conosciuto in tutto il mondo, soprattutto in America Latina; però proviene dalla magistratura e quindi ha sempre avuto un atteggiamento positivamente equilibrato. Purtroppo, ha avuto poca diffusione la relazione del presidente della Corte d’appello, Giovanni Canzio all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano, ma l’ultima parte è anch’essa tutta dedicata a queste tematiche in termini di monito. Canzio, è un grande giurista, oltre a essere un grande magistrato, è l’autore di sentenze famose (Franzese, Mannino, ecc.), oltre che di importanti lavori scientifici. Insomma, la percezione della gravità della situazione, le teste più lucide e più colte ce l’hanno perfettamente. Data la situazione, quali sono le prospettive possibili? Sono abbastanza pessimistiche, nel senso che solo un governo estremamente forte e sorretto da un consenso reale può mettere mano alla riforma della giustizia. C’è una vecchia battuta: “Solamente un governo di sinistra...”. Berlusconi ci ha provato tante volte, l’ha fatto in modo goffo, impacciato dalle sue vicende. È chiaro che solamente un governo che riacquisisca proprio questa cultura storica del fronte progressista -non questi pasticci che si vedono in giro adesso- capace di tenere ben distinta la sfera del potere politico, l’azione e la volontà politica dal potere giudiziario, potrebbe intervenire. Per tutte le ragioni che dicevo prima, vedo questo molto improbabile, anche perché, quando io usavo questo termine forte dicendo che la politica è tenuta in scacco, non mi riferivo solo alle inchieste giudiziarie -a volte fondate, a volte clamorosamente infondate- ma al fatto che, in concreto, qualsiasi tentativo di intervento su queste tematiche vede immediatamente un’opposizione esplicitata e propagandata da quella parte dei media che lavora in sinergia con l’Associazione nazionale magistrati. Una sorta di potere di veto che costituisce un’ulteriore dimostrazione della confusione di poteri. In questo scenario, quanto conta l’appoggio popolare ai giudici? Nel caso Ilva di Taranto, in nome di parole molto importanti -diritto alla vita, alla salute...- si è formato un sostegno a un pubblico ministero che però potrebbe far finire la siderurgia italiana. È uno scenario piuttosto impressionante. È un quadro un po’ complesso. Provo a darti la mia opinione. La cosiddetta politica criminale (cioè lo studio dei mezzi -culturali, sociali, penali- per contenere il problema della criminalità) non è mai stato un argomento particolarmente coltivato dalle forze politiche, anche durante la Prima Repubblica. Vi è un salto, diciamo, tra quella che è la com- 6 una città ponente emotiva e irrazionale del penale e la sua razionalizzazione in termini politici e legislativi. Questa è una delle ragioni per le quali, ad esempio, noi abbiamo ancora il codice Rocco che, certo, è stato grandemente modificato, però a pezzettini. Molto è stato eliminato, anche in parti estremamente qualificanti, dalla Corte costituzionale. Un paio di anni fa, abbiamo fatto un convegno, proprio qui a Bologna, sugli ottant’anni del codice Rocco e, alla conclusione di quei lavori, io giunsi a una precisa convinzione: meno male che non si ricodifica! Perché da un codice penale messo in mano a un Parlamento della qualità attuale, e non penso solo ai Grillini o ai Berluscones, ma a tutti, uscirebbe qualcosa di feroce. le sanzioni che introducono adesso, sull’onda dell’emozione, sono sproporzionate anche rispetto al codice Rocco! Pensiamo solamente alla scala penale: il codice Rocco era considerato un codice particolarmente rigoroso nelle previsioni sanzionatorie. Bene, le sanzioni che introducono adesso, per vecchi e nuovi reati, sull’onda dell’emozione, sono spesso sproporzionate anche rispetto ai criteri desumibili dal codice Rocco! Questo per dire che cosa? Che la politica criminale, tra tutte le facce della politica -economica, sociale, ecc.- è quella che meno riesce a essere negoziata in termini di consenso popolare. Ma è sempre stato così. Questa è una tesi su cui insisto: che cosa ha consentito, nella stagione migliore della prima Repubblica, un approccio tutto sommato ragionevole che si è tradotto anche in importanti riforme di settore? Probabilmente, la presenza, non come consiglieri del principe, ma come uomini politici di governo, di giuristi raffinatissimi. Aldo Moro era uno dei più raffinati penalisti; Leone, Presidente della Repubblica; tutti maestri per noi; e poi Giuliano Vassalli, ministro, e Marcello Gallo, senatore impegnato in importanti riforme. Questi erano personaggi di primo piano. La cultura penalistica, che affondava le proprie radici in quella che è stata definita la grande “penalistica civile” italiana, sedeva in Parlamento, occupava cariche istituzionali, fino al vertice della Repubblica. Questo è un fattore che ha un suo rilievo. Il compito dei giuristi è proprio quello di contenere, di fare da argine rispetto a quelle che sono le pulsioni collettive, inseguite dalla ricerca di consenso. Una norma di una quindicina di anni fa ha decriminalizzato la mendicità, però se tu intervisti oggi un cittadino, forse al suo fastidio vedrebbe come unica risposta una qualche pena! Io penso che vi sia una deontologia del penalista, penalista come studioso del diritto penale, ma anche come avvocato, come magistrato, che deve fare argine rispetto a queste pulsioni. Queste cose vanno dette, vanno rivendicate, anche a rischio di impopolarità. Almeno chi fa il mestiere delle leggi provi a raccontare quello che accade, a dire la verità. (a cura di Giorgio Calderoni e Gianni Saporetti) problemi di scuola LA PAGELLA IN PDF Una scuola del piacentino da un anno ha deciso di dimezzare i costi dei libri scolastici e in cambio ha chiesto ai genitori di dotare i figli di un tablet; uno strumento versatile che impone uno stile di insegnamento diverso e anche un ripensamento degli spazi; l’importanza di un corpo insegnante affiatato e di una vera scuola di comunità. Intervista a Daniele Barca, Angelo Bardini e Giusy Vallisa. Daniele Barca, dirige l’Istituto Comprensivo U. Amaldi di Cadeo e Pontenure, Piacenza. Angelo Bardini, insegnante, è vicepreside presso lo stesso istituto; Giusy Vallisa, vicepreside, insegna alla scuola primaria. Da qualche anno nel vostro istituto, oltre ai libri di testo, i ragazzini hanno in dotazione anche i tablet. Potete raccontare? Questo è un istituto comprensivo che accoglie 1300 studenti e fa capo a due comuni, Cadeo e Pontenure; ogni comune ha tre perplessi, infanzia, elementari e medie. La particolarità del comune di Cadeo è che le scuole sono sostanzialmente tutte assieme: dall’altra parte del cortile c’è la primaria, anzi, la quinta elementare ce l’abbiamo qui dentro assieme alle medie. Questo ci ha permesso di allestire degli spazi che poi usano tutti. Per dire, visto che ogni classe fa un’ora di biblioteca alla settimana, nell’edificio della scuola media in determinati orari si vedono i bimbi dell’infanzia dai tre ai cinque anni e anche quelli delle elementari. Noi veniamo dall’esperienza ministeriale delle classi 2.0, che ha visto coinvolte una classe elementare e una delle medie. Con quei soldi abbiamo fatto degli acquisti che sono diventati patrimonio della scuola. Alle elementari c’erano dieci tablet che adesso abbiamo mandato nell’altro comune. I limiti di queste sperimentazioni sono che se hai i soldi dello Stato ti puoi muovere subito, però poi c’è il problema della gestione degli acquisti, dei comodati d’uso, e comunque sono macchine che dopo tre anni devi buttar via. A quel punto cosa fai con le classi che vengono dopo? La nostra idea era invece che il computer, il tablet fosse un po’ come la calcolatrice, la squadra, insomma, roba tua. Da queste considerazioni lo scorso anno è nato il progetto Libr@, per la sperimentazione dei tablet e l’adozione di soluzioni integrate per i libri di testo. Sostanzialmente siamo andati dai genitori e abbiamo detto: “Noi tagliamo del 50% i libri di testo”. In prima media costerebbero 300 euro e sui tre anni parliamo di 600 euro. Ecco, la nostra proposta è stata: “Se noi dividiamo a metà la spesa dei libri, voi siete disposti a entrare in questo progetto di scuola comprando ai vostri figli un tablet?”. In questo ci siamo fatti aiutare anche dalla nostra Banca cassiera con un finanziamento di 12 rate a tasso zero, per cui le famiglie si sono trovate con 150 euro di libri (metà del costo) più 350 euro di strumentazione, per un totale di 500 euro che stanno pagando a 50 euro al mese. Genitori e insegnanti come hanno reagito al- la vostra proposta? Daniele. Sulle elementari ci stiamo ancora lavorando, ma alle medie fortunatamente c’era un buon blocco di insegnanti che aveva partecipato a esperienze precedenti e c’era anche disponibilità a fare formazione. L’anno scorso abbiamo fatto trenta iniziative a livello provinciale con un’idea di formazione just in time, per cui io, all’incontro, non è che sto seduto con lo strumento in mano: se si fa formazione sulle mappe multimediali, si prova subito e il giorno dopo lo si può proporre in classe. L’altro giorno c’era qui un’insegnante di storia arrivata dalla Sardegna e anche lei ci ha fatto vedere delle cose che il giorno dopo si potevano fare in classe. L’obiettivo è sempre questo. Per quanto riguarda i genitori, abbiamo puntato tantissimo sul dialogo. L’anno scorso li abbiamo incontrati due volte in due assemblee serali cercando di togliere ogni dubbio. Le preoccupazioni erano soprattutto sull’idea che il tablet servisse per leggere i libri. In realtà, il tablet non ha quel ruolo; qualche insegnante ci legge una pagina, ma, avendo anche il cartaceo, sostanzialmente la tavoletta diventa uno strumento di accompagnamento. Poi c’era la preoccupazione “è grande”, “è piccolo”, “rovina la vista”, “stanno sempre attaccati...”. Altre preoccupazioni riguardavano la sicurezza. Noi qui abbiamo una connessione con la rete regionale Lepida, che ci danno i due comuni con un ponte radio. noi dimezziamo la spesa dei libri. Voi volete entrare in questo progetto di scuola comprando ai vostri figli un tablet? Non ho detto che c’è il wifi su tutta la scuola. I comuni la rete ce l’hanno di statuto perché c’è una compartecipazione della Regione, poi sta al comune vedere se vuole passarti la connessione. Abbiamo chiesto ai nostri comuni lo sforzo economico di mettere un antennone, mentre gli access point li abbiamo comprati noi. Abbiamo così la fortuna di non pagare la rete perché è la stessa del comune, ed essendo comuni piccoli (5.000 abitanti) non c’è molto traffico negli uffici, quindi per loro sarebbe comunque sovrabbondante. Se avessimo chiesto di tirare dei cavi, quindi di scavare, ci avrebbero bloccato, perché si tratta di lavori che viaggiano sui 10-20.000, e poi c’è da fare la gara, l’appalto... un delirio. È il motivo per cui non si può fare in tutta la regione perché in realtà la rete arriva dappertutto, anche nei comuni di montagna. Il problema è poi portarla nelle scuole. Grazie all’antenna e al fatto che il comune è qui in linea d’aria non abbiamo avuto grossi problemi. Senza quello non avremmo potuto fare niente. Diceva dei genitori... Daniele. Sì, i genitori avevano soprattutto questa preoccupazione della sicurezza della rete, che abbiamo fugato perché ci agganciamo a Lepida, che è la rete delle Pubbliche Amministrazioni dell’Emilia-Romagna. È una rete che esclude a priori Facebook e tutto ciò che è social. Abbiamo poi messo in piedi delle azioni formative con la Polizia di Stato che ha fatto incontri con tutti i ragazzi della sperimentazione, ma anche con i genitori, per cui gli operatori sono tornati anche di sera. Angelo. I genitori sono molto legati a questo progetto. Lo si vede dal contributo volontario che, pur essendo alto rispetto ad altre scuole dello stesso ordine, viene pagato nella misura del 90%. Qui l’idea di scuola della comunità è passata. Noi facciamo le riunioni alle nove di sera, non alle due del pomeriggio, e c’è un 80% di presenza. Daniele. Lo Stato prevede che le famiglie possano dare un contributo volontario per il miglioramento dell’offerta formativa; c’è una disposizione normativa. Negli anni poi hanno fatto delle ulteriore circolari per spiegare che -mi raccomando- non può essere usato per la carta igienica. Tra parentesi, questo della carta igienica è un mito che andrebbe sfatato, ma non ci si riesce. Comunque, proprio perché il contributo è significativo, adesso abbiamo iniziato a fare una gestione più trasparente possibile; abbiamo pubblicato sul sito quello che viene dato classe per classe e, al momento della raccolta che si fa all’inizio dell’anno, facciamo vedere che abbiamo aperto un nuovo spazio o illustriamo le nuove iniziative. Ovviamente quei soldi servono anche per la gestione complessiva. Consideri che qui c’è una lavagna quasi in ogni classe. Bene, se si brucia una lampada della Lim sono 500 euro. Ed è manutenzione didattica perché senza lampada la Lim non può essere utilizzata. Per entrare nel merito, qui il contributo è di 30 euro, di cui sette dell’assicurazione; bene, lo paga il 90% dei genitori. È un risultato eccezionale. Al mio paese, in provincia di Modena, paghiamo 2,5 euro e c’è una raccolta tristissima. Giusy. Questo avviene anche perché c’è sempre stato un forte coinvolgimento dei genitori nei progetti. L’anno scorso, ad esempio, siamo stati invitati alla Fiera di Genova, all’Abcd, dove c’erano tutti gli spazi attrezzati per una scuola del futuro, con la disposizione degli arredi pensati per una didattica nuova, quindi spazi collaborativi, spazi individuali e spazi aperti. Abbiamo portato la classe e i genitori ci hanno seguito spontaneamente in questa uscita. Per noi ogni occasione è buona per far partecipare i genitori una città 7 al vissuto della scuola, alla didattica, magari proprio assieme al figlio. Nell’aula-laboratorio prevediamo dei momenti in cui ci sono anche i genitori e allora i bambini spiegano e magari le loro mamme e papà fanno le domande o, ancora, i figli invitano i genitori a fare loro stessi degli esperimenti. La partecipazione, devo dire, è sempre forte. È anche per questo, credo, che quando è stata proposta questa idea di venire a scuola con il tablet c’è stata un’adesione diffusa, perché il messaggio è stato recepito in un terreno già favorevolmente preparato. Cosa cambia nel modo di insegnare quando entra in gioco la tecnologia? Daniele. Grazie ad Angelo, che in tutti questi anni ha lavorato per metterci in condizione di poter acquisire gli strumenti necessari, alle medie c’è una lavagna in ogni classe e alle elementari abbiamo una lavagna ogni 2-3 classi. Parliamo quindi di aule che hanno già della tecnologia. Il fatto è che, per quanto uno sposti i banchi, alla fine quelle aule spingono a fare dei “frontaloni”. La Lim, alla fine, è frontale come strumento pur essendo tecnologica. Proprio per questo abbiamo voluto creare degli spazi altri, come l’area iPuff, dove si va a leggere, oppure si fanno delle attività in cui i più grandi fanno peer education, cioè insegnano delle cose ai più piccoli. Preciso che noi qui abbiamo il tempo pieno e il tempo prolungato su tutte le classi. Le medie al pomeriggio lavorano a classi aperte, che vuol dire che tu della 3aB ti troverai con altri bimbi di 2aA e 1aC a fare il corso di chitarra... con l’insegnante di italiano! Gli insegnanti, infatti, in questi laboratori fanno le cose che sanno fare nella vita, ciò che li appassiona. Allora c’è l’osservazione delle stelle con gli astrofili, il corso di cucina con l’insegnante di scienze -perché poi fanno anche la mi- 8 una città surazione delle temperature, del peso-, cortometraggi con l’insegnante di musica. E, attenzione, queste non sono attività extra-curricolari, ma curriculari, per cui c’è valutazione delle competenze trasversali all’interno della pagella. Quindi io sto lì a far biscotti ma l’insegnante valuta come lavoro, come sto con gli altri, come organizzo il setting, ecc. In questo ovviamente la tecnologia è uno strumento che accompagna. Per esempio, sulla documentazione ci teniamo che si sia sempre un iPad per riprendere, mettere insieme il libro delle ricette o fotografare la situazione. Giusy. C’è un’impostazione diversa: l’insegnante assume un ruolo diverso anche nel rapporto con i bambini. È un insegnante non trasmissivo, ma che soprattutto guida, dà degli stimoli, prepara il terreno per. Per esempio, con la Lim, posso chiamare un gruppetto di bambini che ha affrontato un esercizio di problem-solving e fargli esporre alla classe la propria soluzione usando immagini, ecc. Io insegno matematica e attraverso il tablet e la Lim ci sono strumenti che incoraggiano il bambino a pensare e poi a confrontarsi, a relazionarzi e a interagire con i compagni... È tuttora in corso una formazione per l’utilizzo degli strumenti tecnologici nell’applicazione scientifica; per esempio c’è il microscopio che ti permette di andare in giro a fare degli ingrandimenti, oppure altri sensori che rilevano la temperatura, l’umidità, eccetera, facendo vedere i grafici. La sfida è quella di prendere ciò che offre la moderna tecnologia mantenendo l’approccio sperimentale, la prova sul nostro corpo, ecc. Angelo. Rispetto a come cambia l’insegnamento, voglio fare l’esempio di musica. In una scuola normale hai il flauto, il libro cartaceo e poi i ragazzini fanno queste terribili prove a casa con i vicini che si lamentano. Bene, qui nell’aula di problemi di scuola musica ci sono venti tastiere, aggeggi vari, batteria, basso elettronico, poi, grazie al progetto Libr@, usano il libro costruito dall’insegnante che in questo modo mette in gioco la sua passione e le sue motivazioni, che vengono rafforzate. A quel punto, con il tablet il ragazzino può costruire la musica col pentagramma e quando mette la nota la sente e scorrendo sente il prodotto. Non solo: una volta che suona lo strumento può registrarsi, filmarsi, rivedersi e correggersi. c’è il corso di cucina con l’insegnante di scienze perché poi fanno anche la misurazione delle temperature, del peso... Oggi esistono un sacco di applicazioni e poi con wikilink possono digitare da Verdi a Bollani e trovano duecento video. Ti puoi pure creare il tuo repository. Alcune applicazioni ti permettono di essere autore di musica elettronica. I nostri sono ancora piccolini, ma tra qualche anno... A uno degli ultimi concerti, Herbie Hancock ha usato dieci iPad, tutti posizionati davanti a lui come fossero gli spartiti, dopodiché, muovendosi da uno all’altro, mandandoli in loop, ha messo su un concerto. Insomma, c’è tutto un altro mondo là fuori e allora insegnare ancora col flauto e il libro è totalmente fuori dal tempo. Daniele. Al saggio finale c’era il flauto, ma anche il proiettore, colonne sonore di film, e comunque i ragazzini col flauto leggevano lo spartito sul tablet. È un altro modo di lavorare. La collega di Giusy, che insegna italiano alle scuole elementari, l’anno scorso a primavera è uscita in giardino con i bambini e hanno fatto scrittura creativa con il tablet. È uno strumento molto versatile; la questione è cosa ne fai nella didattica. Lì c’è anche molto da inventare. Per dire, ci si può fare anche l’analisi del testo: puoi venire in biblioteca, fotografare una pagina, evidenziarla, casomai trascriverla sul quaderno... o, ancora, si può raccontare un testo con una mappa. Oppure ti leggi il testo a casa -la cosiddetta flipped classroom- e poi me lo vieni a raccontare. È un modello che ribalta lo schema lezione-in-classe seguita da compiti-a-casa. Qui il ragazzo, in sostanza, segue una lezione a casa e poi in classe si fanno le domande, ci si confronta, si discute. Il tablet è ottimo proprio perché puoi fare lezione qui, ma anche uscire; se andiamo in gita ce lo portiamo, se andiamo al Festival del diritto a Piacenza intervistiamo le persone. È chiaro che poi per la rielaborazione abbiamo anche dei computer fissi perché se c’è bisogno del mouse o di digitare testi lunghi... Anche se devo dire che questo è più un problema nostro; loro con i pollici ormai vanno alla grande! Qualcuno teme il problema di assenza di controllo: “Che fai, tu, vai in internet?”, perché poi i ragazzini ci provano... è il loro mestiere. Ci sono delle aziende che vengono a proporci sistemi di controller per cui tu puoi, da un’unica macchina, controllare cosa succede nei tablet. Quello che rispondo sempre è: “Ma, scusate, ce lo vedete l’insegnante concentrato sulla lezione che sta spiegando costretto a guardare sulla macchina per scoprire se Francesco sta facendo altro?”. È proprio improponibile. L’ultima cosa che voglio aggiungere è che il tablet, nella nostra esperienza, si sta rivelando anche uno straordinario strumento inclusivo. Da noi tutti hanno una macchina. Non importa che sia handicappato, che abbia disturbi di apprendimento o altro. Anche lo straniero arrivato da poco viene dotato della sua tavoletta. Qui c’è un 20% di presenze straniere, ma avendo il comprensivo arrivano da piccoli. Devo dire che siamo orgogliosi che ai famosi test Invalsi, mentre in seconda elementare spesso i risultati di questi ragazzini sono tristi, quando arrivano in terza media si vede il percorso fatto e ci sono anche delle eccellenze. Comunque, quando entra in classe il bambino appena arrivato dall’estero, la prima cosa che si fa è dargli uno strumento. Intanto è un segno di fiducia e poi lo si mette subito in condizione di far qualcosa. Accanto al tablet, avete anche i libri di testo... Daniele. Siamo entrati in questo progetto nazionale che si chiama “Editoria digitale scolastica”. C’è un rapporto importante con gli editori; tutto il lavoro fatto alle medie con Mondadori e Zanichelli è stato anche un lavoro di formazione. Essendo praticamente l’unica scuola di base che fa queste cose, loro sono venuti a formare gli insegnanti su come utilizzare i loro contenuti. Diciamo che noi abbiamo scelto una terza via: né autoproduzione, né solo editori. Tanto sappiamo che belli così li possono fare solo loro perché serve una competenza notevole. Mentre infatti sul cartaceo hai bisogno di chi ti corregge il testo, te lo sa rendere divulgativo e di chi impagina, sul digitale, oltre a ciò, serve anche la capacità di rendere tutto questo interattivo, modificabile, ecc. C’è un mondo di competenze che la scuola non può avere. se si gira per le classi è facile vedere i tavoli riuniti e -la cosa più importante- l’insegnante attaccato allo studente Comunque noi ci siamo organizzati così: i libri delle materie di riflessione, italiano, storia, matematica, scienze e lingue hanno il cartaceo e il digitale (sia come app che come accesso alla piattaforma dell’editore), dopodiché abbiamo le autoproduzioni. Siamo stati ora a Lucca a presentare i nostri libri di geografia e musica. L’autoproduzione l’abbiamo fatta soprattutto sulle “educazioni”: educazione fisica, educazione tecnica, educazione musicale. In un lavoro di laboratorio, tutto sommato, il libro non è centrale, però si può anche provare a fare dell’autoproduzione, così in alcune di queste materie ci sono i libri fatti dagli insegnanti. Per ora siamo all’inizio, è il primo anno. A gennaio ci sono le iscrizioni, quindi convocheremo i genitori della quinta elementare (i cui figli sono già qui; il bello del comprensorio è che si cresce assieme) e diremo loro: “Attenzione, l’anno prossimo...”. Tra parentesi, il fatto di avere queste tecnologie fa sì che ci siano degli esterni: quest’anno su 140 ce ne sono 14 che vengono da fuori, una cosa stranissima perché di solito fino alle medie vai alla scuola del pae- se. Evidentemente stiamo diventando un polo d’attrazione. Diceva che avete dovuto un po’ ripensare gli spazi... Daniele. Come dicevo, tutte le aule sono attrezzate con lavagne. Se si gira per le classi è facile vedere i tavoli riuniti e -la cosa più importantel’insegnante attaccato allo studente. Quest’anno abbiamo inaugurato un’aula che era il vecchio laboratorio di informatica; abbiamo tolto quasi tutte le macchine fisse e messo dei portatili. È un’aula divisa in due zone: in una si può fare il lavoro collaborativo (i tavoli si possono aggregare e disaggregare), lavorare sul cartaceo, fare delle mappe, dei disegni, dei progetti, ecc. Dopodiché si può andare alle macchine e lavorare su quello che si è fatto per modellare, modificare, ecc. Infine si può vedere tutto in grande col proiettore, oppure scrivere alla lavagna col pennarello o attaccarci con dei magneti i progetti realizzati. Questo spazio l’abbiamo chiamato Mondrian perché la superficie della cattedra (ammesso che si possa chiamarla così) sembra una pera. È una postazione un po’ diversa: è alta, tanto che servirebbe forse uno sgabello, ma ci sembrava facesse un po’ pub! D’altra parte, in un contesto come questo, l’insegnante non si siede da una parte, gira per i tavoli. Anche questi mobili componibili li abbiamo acquistati con risorse nostre, grazie alle convenzioni con i comuni e ai progetti a cui partecipiamo. Quanto conta un corpo insegnante affiatato? Daniele. È determinante, come pure lo staff. In queste cose ci vuole chi ha delle idee e mette a una città 9 disposizione delle opportunità e chi ha voglia di sfruttarle quelle opportunità. In questi anni si è formato naturalmente un gruppo di persone che ha voglia di fare delle cose. Man mano che si allargano le competenze aumenta la lista della gente disponibile. L’obiettivo è portare tutti quanti in questo movimento. Io la sto facendo facile perché siamo entusiasti, ma il lavoro che ci aspetta, faticosissimo, è portare soprattutto il corpaccione delle elementari dentro questo percorso. Bisogna investire moltissimo sulla formazione che riguarda anche il modo di stare in classe, che rapporti avere con i genitori, come valutare. Perché un conto è lo scritto e l’orale, dove c’è una valutazione che avviene con parametri consolidati (spesso sono criteri predittivi per cui l’insegnante alla fine valuta sempre la persona, c’è l’effetto alone, tutte cose che abbiamo sperimentato come studenti), però quando io scardino queste cose e ti chiedo non solo di fare il compito ma di metterci della creatività, di inserire delle immagini... Ecco, su come valuto tutto questo, c’è una lotta. “Sono incredibili, sanno fare delle cose...”. E allora com’è che appena entrano in un’aula scolastica diventano deficienti? Intendiamoci, esiste della letteratura in merito, il problema è che lo devi voler fare. È come con la tecnologia: non è una questione di soldi, è aver voglia di fare delle cose. C’è un collega che per cominciare ha obbligato tutti a usare la posta elettronica per comunicare. 10 una città Quella è già una piccola rivoluzione digitale. Qui il nostro sito è gestito da un insegnante. All’inizio le notizie le mettevo io, così ho fatto vedere un po’ come si faceva, con che ritmo. Adesso se ne occupano la segreteria e un’insegnante. Io non ho più circolari cartacee. Ho tutto lì: la rendicontazione economica, i contratti, eccetera. Il codice di amministrazione digitale dice che può valere come albo pretorio a tutti gli effetti. Con l’adozione di questi linguaggi avete notato qualche cambiamento sul piano dell’apprendimento? Giusy. I risultati si possono vedere a vari livelli. Ci tengo a dire che i risultati a cui noi teniamo sono soprattutto la capacità di lavorare assieme, di mettersi in gioco, di tentare di dare una risposta, di provarci insomma. Lo scopo è quello di non avere dei bambini passivi, che ascoltano silenziosamente. Ma neanche dei bambini che stanno lì e pensano ad altro perché si annoiano. Cerchiamo di incoraggiare i bambini a porre domande, a interagire con l’adulto. Daniele. Se la domanda è se la tecnologia migliora l’apprendimento io penso che sia una questione mal posta. Se pensiamo che il solo utilizzo quotidiano di uno strumento possa cambiare le cose, allora il libro ci avrebbe reso i più grandi lettori! Voglio dire, negli anni Cinquanta e Sessanta le antologie erano veramente minute; oggi sono dei volumoni; questo ha aumentato la capacità di lettura dei ragazzi? No! Il problema è sempre come si lavora con gli strumenti. D’altra parte la domanda ha un suo senso perché in effetti siamo di fronte a un paradosso. Chi ha a che fare con i bambini piccoli dice sempre: “Ma sono incredibili, sanno fare delle cose pazzesche...”. Sono discorsi che facciamo tutti quanti -ho due figlie piccole e sicuramente io non ero come loro. E allora com’è che appena entrano in un’aula scolastica diventano deficienti? Non è detto che la soluzione sia la tecnologia, però io devo trovare degli strumenti con cui riesco a mettere in moto l’intelligenza, accendere il cervello -che sia la carta, la penna, il computer non ha importanza. Se lei va su Youtube, c’è “Diario di un maestro”, uno sceneggiato Rai. Ecco, quel maestro aveva sconvolto il modo di lavorare in classe. Era uno spazio aperto, aveva spostato i banchi, usava i cartelloni, faceva lavorare in gruppo; al posto dei libri di testo c’era una bibliotechina, faceva delle indagini, raccoglieva dati. Allora, è sicuro che le tecnologie non sono né il problema, né la soluzione di per sé. Bisogna però anche riconoscere che il mondo è cambiato e che noi non possiamo vivere nel Duemila e poi educare i nostri bambini in una scuola dell’Ottocento! Che problemi state incontrando? Sulle tecnologie, un problema tecnico su cui ci stiamo confrontando è quello dello storage, cioè di dove tenere i contenuti. Consideri che i libri dei professori, come app, pesano da un giga in su; nelle tavolette ci sono 16 giga, si fa presto a esaurirli; per ora la soluzione è scaricare un capitolo alla volta e man mano liberare spazio. E poi c’è il problema delle password: c’è quella per entrare nella rete, ottenuta dai genitori con una procedura rigorosa, poi c’è quella per scaricare le applicazioni, quelle dei libri, una diversa per ogni editore e già così arriviamo a 45 e non sono finite. Per l’anno prossimo stiamo lavorando per arrivare a un paio. Non è che i ragazzi le perdano, è che disturbano la didattica. Un altro aspetto che stiamo studiando è il regolamento di utilizzo delle tavolette. Per esempio adesso siamo a dicembre e se ne sono già rotte due su 120. Grazie a uno sponsor abbiamo acquistato dei “muletti”, cioè delle macchine che utilizziamo in questi casi. Nell’assicurazione obbligatoria per i bambini abbiamo inserito anche l’eventuale rottura della tavoletta se utilizzata per motivazioni didattiche. C’è una procedura codificata. Il problema si pone quando ci imbattiamo in un potenziale simulatore. Sono questioni che stiamo affrontando adesso. Dei due casi che ho citato, infatti, il primo era sicuramente un vero incidente, per cui abbiamo avviato la procedura con l’assicurazione e intanto abbiamo dato al ragazzino il “muletto”, la macchina di riserva, per continuare a lavorare. i genitori possono vedere tutto, i compiti, cosa si fa in classe, le sospensioni... Non c’è più scampo! Sul secondo caso c’erano molti dubbi e allora abbiamo comunque messo in piedi la pratica con l’assicurazione però non abbiamo dato la macchina in comodato perché non ci fidiamo del tutto. Di nuovo viene fuori il discorso educativo, che è poi quello centrale. Queste sono le cose più impegnative perché c’è molto da inventare. Un’altra difficoltà è quella di allineare tutti gli insegnanti sulle procedure. Abbiamo una mailing-list con cui allertiamo tutti gli insegnanti rispetto alle varie iniziative. Abbiamo costruito i consigli di classe in maniera da avere sempre un insegnante di quelli motivati assieme a quelli più recalcitranti o con più difficoltà... Consideri che per mettere in piedi Libr@ c’è voluto un anno di lavoro e 18 riunioni con tutti: insegnanti, genitori, consiglio d’istituto, editori. Dimenticavo la password del registro elettronico: oggi i ragazzi accedono al registro e possono vedere i voti che hanno preso, le presenze e le assenze; e anche i genitori possono vedere tutto, dai compiti, a cosa si fa in classe, le sospensioni... Non c’è più scampo! Il registro elettronico è molto comodo anche per noi, soprattutto per gli scrutini: una volta dovevi rincorrere i professori per mettere i voti nei tabelloni cartacei, mentre adesso vedi tutti i voti, addirittura con le insufficienze già in rosso, così individui subito i casi su cui discutere. I genitori vedono anche le pagelle online; se le vogliono su carta se le possono stampare, sono dei pdf. È ovvio che se il genitore non è abbiente o non ha il computer, gliela stampi tu. (a cura di Barbara Bertoncin) Le foto di queste pagine sono di Angelo Bardini. una città 11 problemi di lavoro IL MASTER DELLA MATERNITA’ Dopo un’esperienza di lavoro in nord Europa e una maternità vissuta con la crescente consapevolezza che nel mondo del lavoro le cose potrebbero andare diversamente, l’idea di aprire uno spazio di co-working, dotato di co-baby, in cui sperimentare formule diverse per dimostrare a imprese e istituzioni che non è necessario scegliere tra figli e lavoro. Intervista a Riccarda Zezza. Riccarda Zezza, 41 anni, imprenditrice, dopo aver lavorato in multinazionali in Italia e all’estero, lo scorso gennaio ha aperto, assieme ad altri soci, “Piano C” (pianoc.it), uno spazio di co-working pensato soprattutto per le donne. Puoi spiegarci cos’è e com’è nato Piano C? Nel corso degli ultimi quindici anni, in cui ho lavorato soprattutto in grandi aziende, occupandomi di comunicazione e gestione di progetti, ho avvertito un crescente disagio: c’erano delle cose che proprio non mi tornavano, delle dinamiche, dei modi di lavorare, di valutare le persone; mi sembrava che ci fosse della roba un po’ antica, legata all’epoca industriale, quando si doveva timbrare il cartellino. Quando poi, dopo essere stata due anni in Nokia, in Finlandia, sono tornata in Italia a lavorare in una banca, ho avuto proprio uno shock culturale. Alla Nokia, tra l’altro, mi occupavo di progetti sociali in Europa, Medio Oriente e Africa; facevo, forse, il lavoro più bello del mondo, nel senso che spendevo i soldi di Nokia per darli al non profit in questi tre continenti. Sono tornata in Italia perché volevo metter su famiglia, non potevo più viaggiare così tanto. Volendo continuare a lavorare nel sociale, sono così finita in Banca Prossima, una banca, quindi un ente profit, che però dialoga solo col sociale. In Nokia ero un perno, avevo una funzione dirigenziale, arrivata qui mi hanno subito spostato a un livello inferiore e abbassato lo stipendio. Ho pensato: se questo è il trade off per vedere i miei figli, va bene, sempre con questa convinzione però che io non ero affatto da meno del collega che rimaneva un’ora in più in ufficio. Comunque già da prima avevo questa sensazione che ci fossero dei riti che, secondo me, non hanno più alcun senso e che, al contrario, ingabbiano la creatività, ti portano via del tempo, ti rubano dei pezzi di vita. Le riunioni! La quantità di riunioni inutili e inutilmente lunghe. Poi, più vai verso la sera e più diventano importanti. La mattina non si fa mai niente di importante. Tutte le cose importanti dopo le sette. Poi io ho trovato degli ostacoli pazzeschi al cambiamento. Cioè, ci sono delle logiche nel top management, di conservazione del potere acquisito, che vanno contro ogni forma di innovazione anche positiva. Insomma ho capito che non si riusciva a cambiare da dentro. In particolare, in Italia c’è questa ossessione che, se tu sei impegnato, devi essere in ufficio tutto il tempo, non puoi avere altro che il lavoro. Questa cosa mi stava già stretta prima, quando poi ho avuto dei figli, mi è sembrata totalmente folle. Intendiamoci, va bene lavorare tanto, purché sia il giusto, quello che serve, che non si tratti in- 12 una città somma di perdere tempo. Nell’universo maschile del lavoro c’è questa idea che il tempo è qualcosa che si può disperdere, mentre, nella prospettiva femminile, si ha l’idea che nel tempo si debbano fare anche altre cose. Con la seconda gravidanza, mi sono scontrata di nuovo con una serie di stereotipi del tipo: “Adesso che hai il secondo figlio, vedrai che sarai meno intelligente, avrai meno tempo”. Il bello è che io invece a ogni figlio mi sentivo meglio di prima! Così, a un certo punto, mi sono messa a pensare: “Adesso voglio fare un’impresa mia perché qui non mi ci trovo più”. la quantità di riunioni inutili e inutilmente lunghe e più vai verso la sera più diventano importanti... L’idea è nata così. Il co-working l’avevo incontrato proprio lavorando in Banca Prossima; il co-working, infatti, specie a Milano, è nato soprattutto intorno alle imprese sociali. Per esempio, “The Hub” è un’area di co-working situata in via Paolo Sarpi dedicata all’innovazione sociale e all’impresa sociale. Ecco allora l’idea di usare uno spazio fisico per dimostrare che si può lavorare in modo diverso e che questo non inficia la produttività, anzi, e al tempo stesso, aumenta il livello di felicità. A quel punto, anziché aprire una società di consulenza e mettermi a spiegare questa roba, ho detto: “Apriamo uno spazio dove facciamo succedere questa cosa”. Piano C è nato così. La peculiarità di questo luogo è immediatamente percepibile, già il fatto di sentire la voce dei bambini, psicologicamente, ti cambia completamente la prospettiva. Provocatoriamente questo spazio di co-working è aperto alle donne, tutte, e agli uomini solo se accompagnati da bambini. Oggi noi abbiamo una trentina di iscritte e di iscritti, di cui due sono uomini con bambini. Tutti gli altri sono donne con o senza bambini; mediamente abbiamo un bambino ogni cinque co-worker. Puoi spiegare com’è organizzato Piano C? Oltre al co-working, voi offrite anche un “cobaby”... Qui coesistono tre elementi: c’è lo spazio di lavoro, c’è il co-baby e tutti gli altri servizi salvatempo e poi c’è -importantissima- la community. Tutte le attività che si svolgono in queste sale multifunzione (dall’attività fisica al corso di formazione, al piccolo evento) creano infatti delle situazioni in cui ci si scambiano delle prospettive. E poi magari capita di fare delle cose che, se tu dovessi andare a cercartele in giro per la città non le faresti, ma siccome ce le hai qui le fai. Ecco, forse questa cosa del fare delle cose assieme, del mettersi assieme, è l’elemento più importante di questo spazio, viene anche prima del co-baby. Diciamo che il co-baby dovrebbe diventare quasi di default, nel senso che la possibilità di portare i bambini piccoli alle cose dei grandi e liberare così le donne che altrimenti si sentono obbligate a stare in casa, dovrebbe essere normale. I primi sei mesi abbiamo offerto il co-baby affidandoci a un service, con un costo fisso per noi altissimo. Adesso abbiamo trovato due ragazze molto brave, una è una pedagogista e l’altra è una psicologa -la loro associazione si chiama “mamma che fatica”- che gestiscono lo spazio in proprio, quindi loro non pagano niente a noi, noi non paghiamo niente a loro e tutte le entrate del co-baby sono loro. Pensiamo debba essere questo il modello. Loro comunque ci offrono un servizio e noi in cambio gli diamo uno spazio. Dicevi che rispetto ai servizi “salva-tempo” che offrite, c’è un problema... Abbiamo capito che non basta mettere in piedi un servizio innovativo e utile perché la gente lo usi. Tutti noi abbiamo organizzato le nostre vite in un certo modo e si sono consolidate delle abitudini. Per dire, c’è il servizio lavanderia, ma per ora lo uso solo io! E faccio pure fatica, nel senso che mi sono abituata ad andare sotto casa; ci devo pensare che posso portare la roba qui, senza dover poi ripassare. Cambiare le abitudini richiede uno sforzo notevole. Ci devi mettere delle risorse, cioè dovresti decidere che allora per un mese fai una campagna informativa, ma tutto questo ha un costo. E siccome i servizi salva-tempo li diamo senza un margine, è difficile fare questo tipo di cambiamenti. Noi adesso abbiamo tutta una serie di convenzioni con il quartiere, dal minimarket che ci porta la spesa, alla lavanderia che ci viene a prendere i panni e ce li riporta lavati, al calzolaio, al sarto. Nel nostro sito vedi tutti quelli che sono convenzionati con noi o raccomandati da noi, che vanno dal personal wardrobe, che viene a casa e ti mette ordine nel guardaroba, al personal trainer -qui facciamo anche sessioni di ginnastica, massaggi... C’è un po’ di tutto perché, essendo anche un polo di attrazione, non diciamo quasi mai di no a niente. Li proviamo prima anche personalmente: il meglio è stato provare il personal wardrobe, che mi ha sistemato l’armadio e poi abbiamo un ragazzo bravissimo che si offre come maggiordomo, fa l’autista e può fare piccole riparazioni. L’anno scorso, quando non avevamo ancora aperto, ci ha scritto una mail bellissima, raccontandoci la sua storia: si occupava di servizi generali in grandi aziende, oppure non ci vanno affatto, ma così non contribuiscono all’economia quanto dovrebbero e potrebbero. È una perdita netta, per tutti. Allora noi diciamo: smettiamo di cercare di far entrare questa forma tonda in questa porta quadrata, proviamo a fare una porta di una forma diversa. Arrivo così alla domanda: oggi un grosso problema nel mondo aziendale è la maternità. con la maternità, ho sviluppato delle competenze che sul lavoro mi hanno reso più forte. Perché non farne tesoro? Tutte le aziende, grandi, medie e piccole, la vivono come una crisi. Ma la vive come crisi anche la donna che, alla fine, o non fa figli o ne fa di meno o li fa soffrendo poi un grande senso di inadeguatezza. Stiamo mettendo in piedi una perfetta profezia che si autoavvera: noi la prevediamo così e così sarà. Qualche mese fa, a un meeting di Confindustria, a sentir parlare di competitività, di importanza dello sviluppo delle persone, eccetera, mi sono messa a pensare: “Ma io, con la maternità, ho sviluppato delle competenze che sul lavoro mi hanno reso più forte. Perché questa cosa non viene considerata?”. Essere mamma ti costringe a imparare a fare più cose in unità di tempo minori, e poi migliora la pazienza, migliora l’equilibrio. Certo, dall’altra parte c’è tutto il discorso sull’indebo- Gua Biscàro era rimasto disoccupato dopo un incidente, aveva un bambino e aspettava il secondo; una bravissima persona che, purtroppo, ha avuto delle sfortune e non riusciva più a trovar lavoro. È un autista perfetto (io lo chiamo per i miei suoceri; quando vogliono andare a Sestri, mando lui), ha un costo accessibile e soprattutto è una persona di fiducia, che è forse il requisito più prezioso. In questo modo diamo un’opportunità a lui e in più offriamo dei servizi alle nostre co-worker. Di storie come questa ce ne sono tante. Noi cerchiamo sempre di trovare uno posto per tutti. Non abbiamo soldi, ma abbiamo questo spazio... Avete appena lanciato un nuovo progetto, quello della “maternità come master”. Puoi raccontare? Attualmente il mio lavoro è prevalentemente quello di usare questo spazio proprio come un laboratorio, facendo proposte consulenziali all’esterno (a grandi aziende e istituzioni), perché ci usino come pilota. Sempre con quest’idea portante che bisogna smettere di considerare un problema l’approccio femminile al lavoro. Su questo abbiamo fatto un fumetto in cui si vede una palla tonda che cerca di entrare in una porta quadrata. Ovviamente senza riuscirci. Questo è un po’ quello che si chiede alle donne. Il punto è che così si perdono risorse. Oggi le donne non rientrano al lavoro dopo la maternità limento, che però, davvero, è molto dovuto allo stereotipo. Allora, se uno mettesse a fuoco quanto invece la maternità ti rafforza... Con questa tesi in mano, ho incontrato Andrea Vitullo, un coach formatore che lavora molto sulla leadership. Recentemente ha scritto un libro sulla “Leadershit”, perché lui per primo non crede più a quest’idea dell’uomo solo al comando. Assieme ci siamo messi a fare delle ricerche. Gli scienziati dicono che, effettivamente, il cervello della donna con la maternità si potenzia. Cambiano delle cose pure a livello comportamentale. Infine, a livello sociologico, le ultime teorie dicono che più ruoli si accumulano non si elidono. Si è proprio scoperto che, se una persona ha due o più ruoli, l’uno dà forza all’altro. Insomma, c’è un’evidenza scientifica fortissima del fatto che la maternità ti rende più forte. Poi c’è la genitorialità: le attività di cura sviluppano competenze di leadership. Di qui è venuta quest’idea del “maternity as a master”. Si tratta di un programma formativo che proponiamo sia alle aziende che alle istituzioni. L’obiettivo è di trasformare la maternità da un periodo di assenza a un periodo di sviluppo e formazione, da cui una donna rientra al lavoro più forte. Ieri abbiamo fatto la prima classe con una multinazionale (non posso dire il nome perché è un progetto pilota). C’erano qui dodici mamme, tutte manager. Nel nostro paese abbiauna città 13 mo questo problema enorme che le donne non salgono. La leadership femminile, siccome è diversa dalla leadership maschile, non riesce a sfondare. È un primo esperimento per mettere alla prova la nostra teoria. Per quel che ne so, è il primo corso che vedo, non solo in Italia. L’ambizione è di cambiare l’immaginario, di far capire che tante cose che, fino ad oggi, sono sembrate impossibili, possono succedere, che c’è lo spazio per cambiare. Sul piano economico, il co-working è sostenibile? Esiste l’opzione dei fondi europei e l’anno prossimo è quello della conciliazione vita-lavoro, però noi non abbiamo avuto la pazienza di aspettare: lavorare con le istituzioni vuol dire impiegarci qualche anno; io vengo dalle aziende, sono abituata a tempi diversi. Ho avuto la fortuna di incontrare il mio attuale socio, Carlo Mazzola, che aveva a disposizione degli spazi. L’idea gli è piaciuta e così, dopo aver trovato altri cinque soci, che hanno messo il capitale, siamo partiti. Avremmo forse dovuto scegliere una forma giuridica non profit, in realtà abbiamo fatto una srl e un’associazione. Questo perché in Italia non esiste l’impresa a finalità sociale, che è quello che vorremmo fare noi. Cioè noi vorremmo essere sostenibili con, però, un tetto ai profitti, quindi avere come obiettivo primario un impatto sociale ma, come obiettivo altrettanto importante, la sostenibilità economica. Non vogliamo vivere di beneficenza o di soldi pubblici. Si tratta di trovare gli stakeholder interessati e per esperienza posso dire che tutti gli obiettivi sociali hanno degli stakeholder disposti a pagare che non sempre sono i diretti beneficiari. C’è Un progetto di questo tipo richiedeva almeno 350.000 euro, in realtà ne abbiamo messi un po’ di meno e infatti adesso stiamo facendo un aumento di capitale. Sì, per partire, ci vogliono abbastanza soldi. La start-up costa almeno 7080.000 euro, poi c’è tutta la fase di gestione dei primi due anni. Io ancora non mi pago lo stipendio e c’ho messo dei soldi. Considera che i costi fissi di questo spazio, pur contando su un affitto assolutamente irrisorio, si aggirano sui 6-7.000 euro, e c’è un unico stipendio, quello del community manager. Non abbiamo ancora staccato una fattura lato consulenza. D’altra parte, siamo una start-up e statisticamente, nei primi due anni, le start-up perdono soldi. Ci pensavo proprio oggi: “Beh, vabbé, ma è normale”. Ottimisticamente, siccome l’anno ancora del lavoro da fare in questo senso. Diciamo che quando comincerò a pagare uno stipendio a me stessa vorrà dire che saremo arrivati a quel punto lì -e io non voglio stare un altro anno senza. Comunque questo dev’essere chiaro: il co-working non è un business. Il co-working, se lo fai fine a se stesso non sta in piedi. Ma non si copre neanche le spese? No, se vuoi pagarti uno stipendio no. Cioè alla fine fai una gran fatica e ci guadagni forse come una piccola merceria. La parte di co-working, anche se andasse a pieno regime, non arriverebbe mai a pagare il mio stipendio. Infatti, il coworking ha senso se lo intendi come uno strumento. Devi avere un altro obiettivo, che forse è proprio quello della cosiddetta community. Credo sia per questo che abbiamo avuto un sac- 14 una città prossimo dovremmo riuscire a fare un po’ di progetti, confido che andrà meglio. C’è anche da dire che noi siamo un po’ “border line” tra profit e non-profit in quello che facciamo. co di richieste di aprirne altri. Solo che finora ci siamo sempre fermati quasi subito, perché la prima domanda è: hai uno spazio gratis? Perché se lo devi pagare... Negli altri paesi funziona nello stesso modo o ci sono altre formule? C’è una rivista online, Deskmag, che ogni anno fa un sondaggio su tutti gli spazi di co-working nel mondo. A marzo se ne contavano circa 2.500. Raddoppiano ogni anno. Ecco, nel sito ci si interroga anche sulla sostenibilità e, in effetti, la metà non è sostenibile. L’altra metà, quella che riesce a stare in piedi, lo fa grazie ad altre attività, che vuol dire affitto delle sale, attività di formazione, eventi... questo significa che devi avere sale grandi, perché le vere entrate le fai movimentando quelle. Insomma, ci devi innestare sopra qualcosa, sennò questo spazio, con il solo co-working, non sta in piedi, non ti copre tutti i costi... Chi viene a lavorare qui? Abbiamo veramente un po’ di tutto: dalla camiciaia, che ogni tanto si prende la sala per fare showroom e ricevere clienti, alla psicologa con una figlia piccola, che si affitta la sala e si fa la sua seduta, mentre la bambina è al co-baby. Abbiamo grafici, esperti di comunicazione, liberi professionisti che invece usano lo spazio come se fosse un ufficio, magari incontrandosi con altri. Abbiamo due papà dipendenti d’azienda che fanno il co-working da qui con i loro bambini. Uno viene dalla Toscana e quando è a Milano viene da noi; l’altro lavora per un’azienda canadese e, siccome aveva la bambina che al nido si ammalava sempre, ha iniziato a portarla qui e funziona! Quindi c’è veramente un po’ di tutto: piccole, piccolissime imprenditrici, piuttosto che libere professioniste. Credo che nessuno abbia mai comprato il mese -la nostra tariffa mensile è di 250 euro- che ti permette di avere lo spazio sempre tuo. È una formula che sembra non interessare. A funzionare sono i carnet: si compra un carnet da trenta ingressi e lo si usa quando si vuole. Trenta ingressi costano circa 15 euro al giorno. Solo il co-working. Adesso il Comune di Milano ha messo a disposizione dei voucher che i co-worker possono spendere appunto nelle attività di co-working. Sono un massimo di 1.500 euro all’anno e coprono fino al 50% delle spese. È una buona cosa. Ma alla fine perché una persona dovrebbe venire qui? In fondo se rimane a casa spende meno. La gente infatti pensa: “Vabbé, sto a casa mia e non ci rimetto niente”. Però c’è una questione di opportunità: noi abbiamo persone che, semplicemente incontrandosi, hanno trovato dei lavori da fare. Poi stare a casa è alienante. Questi spazi “terzi” sono importanti perché ti danno energia; magari non ci vieni tutti i giorni, ma pensa anche solo al fatto di cercare un lavoro: già stare a casa tutto il giorno, da sola, davanti al giornale o a un computer e poi magari quell’unico colloquio ti va male... In uno spazio così non solo sei insieme ad altri, Gua Biscàro abbiamo due papà dipendenti d’azienda che fanno il co-working da qui con i loro bambini problemi di lavoro c’è una percezione diversa del potere: molte donne, arrivate a un certo punto, vedono cosa c’è lassù e pensano: “Per carità!” Uno spazio così lo potresti allestire anche in altri contesti. Nulla ti vieta di farlo al tribunale per l’avvocato o, comunque, in qualunque altro luogo di lavoro dove ci sono tante donne o tanti genitori con bambini piccoli che ne avrebbero bisogno anche solo per piccole frazioni di tempo. È questione di mentalità. Lavorate anche con le aziende. Abbiamo due modelli di lavoro: uno è il “back to work”, che è la possibilità per le aziende di far tornare le dipendenti dal congedo di maternità trascorrendo un periodo qui da noi, quindi alternando questo spazio all’ufficio. È una formula che per ora raccontiamo, ma non stiamo ancora “vendendo”; non è proprio così facile, soprattutto a livello contrattuale. Poi c’è tutto il versante “work-life balance”; accanto al progetto Maam (maternity as a master) stiamo costruendo dei programmi di incontro tra donne e lavoro, degli ibridi tra lavoro e forma- Gua Biscàro ma proprio per questo hai più probabilità. La nostra interprete e traduttrice ha trovato lavoro qui, tramite una co-worker la cui azienda cercava appunto una traduttrice; un’altra ragazza ha trovato lavoro come assistente... Cioè, parlando, incontrando le persone... si sa che il lavoro si trova lavorando. Questi spazi hanno una grande importanza sociale. Dovrebbero essere istituzionalizzati, magari con un focus sulle donne che rientrano dalla maternità. Ora, a parte che oggi, salvo alcuni lavori, non ci sarebbe neanche bisogno di uno stacco così radicale; voglio dire che molte donne non sono contente di starsene a casa da sole col bambino come unica occupazione. Ecco, con spazi di questo tipo potresti magari lavorare mezza giornata e intanto continuare a formarti. Qui una donna è venuta con la bambina che aveva tre mesi e c’è rimasta fino a che la figlia ne aveva nove. Lavorava e quando era ora allattava; ha svezzato la bambina qui da noi. Si può fare. Non è difficile. noi non interessa non ci arriviamo, quindi non decidiamo. E così i “nostri” problemi, che poi sono i problemi della società, rimangono marginali. Arrivare nelle posizioni dove si decide è fondamentale, però non capisci bene da che parte devi attaccare la cosa. Devi cambiare le cose per arrivare, ma per arrivare devi cambiare le cose. Purtroppo oggi la nostra società premia l’adattamento. Invece il senso della possibilità è questa capacità di vedere le cose come sono e di immaginare come potrebbero essere e di lavorare perché questo avvenga. Abbiamo voluto scrivere su una parete questa frase di Einstein: “Non puoi pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare sempre le stesse cose”. È proprio così. Hai lavorato due anni in Finlandia. Era diverso? Allora, intanto lì è normale che si smetta di lavorare alle quattro, quattro e mezza. E che la gente, tutti, uomini e donne, escano e abbiano una vita. Invece da noi c’è quest’idea che, se non stai fino a mezzanotte, non puoi essere un top manager. zione, in cui le aziende possono essere coinvolte. Il mondo aziendale ha un ruolo più importante e più agile di quello istituzionale, quindi lo ingaggiamo sempre. Considera che le aziende sono tutte multinazionali. Di piccole non ne abbiamo ancora viste. I tempi sono quelli che sono. Il mondo delle aziende comunque è affascinato da questo spazio; a quelli che vengono l’idea piace tantissimo, c’è un grande interesse. L’unico limite che vedo oggi è quello del mio tempo; bisognerebbe essere almeno in tre e torniamo alle risorse economiche: io per un po’ ci posso lavorare gratis, ma volendo altre due persone come me, le dovrei pagare. Insomma, abbiamo un potenziale molto alto e una posizione anche abbastanza particolare, però abbiamo il limite delle risorse. Ti dico che se entrasse un milione di euro saprei esattamente come spenderli! Non ne butterei neanche uno! Per ora abbiamo una ragazza in stage, Simona, bravissima, e poi c’è Sabrina, che sta lavorando su marketing e comunicazione e dovrebbe entrare in società; abbiamo un paio di collaboratori esterni, prevalentemente consulenti sulla comunicazione. Quello che manca è proprio una figura di direttore commerciale piuttosto che di direttore generale, cioè delle figure senior che siano impegnate full time e martellino insieme a me. Ne sento molto la mancanza in questo periodo perché vedo tante cose belle, tante potenzialità... è un peccato. Certi giorni penso: è molto bello, faccio davvero un bel lavoro; in altri penso: “Adesso mollo tutto”. Il paradosso è che ho fatto tutto questo per non dover scegliere tra maternità e lavoro e poi che faccio? Non vedo neanche i miei figli! Ma siamo pazzi? Conosco donne che vedono i figli la mattina e poi li rivedono la mattina dopo. Ecco, non c’è una cifra che mi puoi pagare per una cosa del genere. Infatti molte donne arrivano a un certo punto, vedono che cosa c’è lassù e poi pensano: “Per carità!”. Abbiamo una percezione diversa del potere. Quel potere lì proprio non ci interessa. E questo è un problema, perché, siccome a “Ah, no, lei ha una bambina, le renderemmo la vita impossibile”. Cioè ci fanno il favore... di toglierci le responsabilità Poi la maternità, per esempio in Nokia, la usavano per fare “job rotation”, cioè la donna in maternità viene sostituita da un’altra persona dell’azienda che sta in questo ruolo pro-tempore e si fa comunque un anno in una posizione diversa. Così la maternità diventa anche un momento di formazione. Spesso poi capita che quando rientri vieni promossa automaticamente a un grado più alto, mai più basso. Altrimenti rientri nel tuo ruolo. Sulla maternità comunque si potrebbe innovare tanto. Non è che una debba isolarsi, assentarsi per cinque mesi. Non è una malattia! Anzi, fa bene continuare a lavorare. Purtroppo lo stereotipo è pesantissimo e per quanto tu possa essere forte, tosta, convinta, se poi ti cominciano a trattare come se da un momento all’altro sparissi e non tornassi più, se un po’ alla volta cominciano a toglierti le responsabilità... E la cosa più assurda è che molti lo fanno pure in buona fede. Perché pensano che sia giusto. Lo fanno per te. Ricordo che quando si trattò di pensare a qualcuno per il posto di direttore generale, io avevo proposto la direttrice finanziaria: “Ah, no, lei ha una bambina, le renderemmo la vita impossibile”. Ed era una considerazione sincera: cioè ci fanno il favore... ci fanno il favore di toglierci le responsabilità. Ieri al corso una donna ha detto: “Beh, se con la maternità acquisisco competenze allora sarebbe bello che, una volta rientrata, mi venissero attribuite più responsabilità! Vorrei proprio poter dimostrare che sono più brava”. Sai come cambierebbe!? (a cura di Barbara Bertoncin) una città 15 problemi di lavoro HIGH PERFORMANCE WORK PRACTICES In questi anni di crisi, ma già da prima, a rimanere competitivi nel mercato globale sono soprattutto le aziende dove sono stati promossi un maggior coinvolgimento e autonomia dei lavoratori, il lavoro in squadra, la flessibilità degli orari, e in generale forme di innovazione organizzativa e di partecipazione. Luciano Pero e Anna M. Ponzellini illustrano alcuni casi di studio. Luciano Pero è docente di Organizzazione per il Mip Politecnico di Milano. Si occupa di innovazione organizzativa, architetture di sistemi informativi, relazioni industriali e mercato del lavoro; Anna Ponzellini si occupa di organizzazione del lavoro, politiche del lavoro e del welfare. La versione integrale della relazione (completa del caso beta, di note e bibliografia), tenutasi il 18 ottobre a Roma, nell’ambito di un workshop organizzato da Aisri e Aiel, è liberamente consultabile nell’archivio di Una città. www.unacitta.it. Sul caso beta, segnaliamo anche l’intervista comparsa sul n. 201, 2013). La via italiana al recupero di produttività tramite l’aumento della flessibilità esterna (lavoro precario), della saturazione dei tempi (tagli delle pause, aumento dei ritmi e dei carichi) e delle ore lavorate (straordinari) ha definitivamente mostrato la corda. La competitività del sistema manifatturiero italiano, soprattutto quello esportatore, può essere rilanciata soltanto con un deciso sforzo di innovazione nei sistemi organizzativi e gestionali delle imprese. Come indicano la letteratura economica e manageriale e le periodiche indagini della Commissione europea, nelle aziende dove sono state introdotte pratiche avanzate di gestione dei processi e delle persone -come il lavoro in squadra, la formazione, il coinvolgimento dei lavoratori nei processi di qualità, la flessibilità degli orari di lavoro e i sistemi premianti- sono stati realizzati incrementi estremamente significativi della produttività del lavoro, la riduzione dei costi operativi, la condivisione della conoscenza dei processi e della soluzione dei problemi. Tuttavia, percorrere questa strada per il nostro sistema industriale significa affrontare il problema di una riconversione delle relazioni industriali a livello d’impresa in direzione della partecipazione piuttosto che del conflitto, di un nuovo ruolo e nuove competenze per gli organismi di rappresentanza, di nuove regole per la contrattazione aziendale ispirate a un governo più flessibile delle relazioni di lavoro. Ci proponiamo di dimostrare che il gioco vale la candela, esaminando alcuni casi interessanti di innovazione organizzativa condivisa tra management e sindacato, nei quali è stato possibile realizzare incrementi misurabili di performance e insieme una migliore qualità della vita di lavoro e una maggiore partecipazione dei lavoratori. Anche sulla base di queste esperienze, provere- 16 una città mo a suggerire qualche cambiamento possibile per il nostro sistema di relazioni industriali (specialmente a livello di impresa), a partire dal potenziamento del ruolo e dalle competenze delle Rsu e dalla ottimizzazione della normativa Ccnl (e dei relativi rimandi alla contrattazione aziendale) su materie cruciali per la produttività, quali l’organizzazione del lavoro, gli orari e la conciliazione, la partecipazione dei lavoratori ai processi di qualità, i sistemi premianti e di welfare. il lavoro in squadra stenta a diffondersi in Italia, e non è quasi mai oggetto di procedura sindacalmente condivisa Pratiche d’innovazione organizzativa indirizzate al miglioramento della produttività e della qualità -le Hpwp (High Performance Work Practices)- si stanno diffondendo, sia pure lentamente, anche nel nostro sistema industriale, in genere in parallelo alla scelta dello snellimento delle strutture, dell’accorciamento della linea di comando e dell’introduzione di sistemi di qualità totale. È noto che queste pratiche hanno un impatto positivo sulla performance delle imprese, anche se di grado maggiore o minore a seconda del mix implementato e comunque maggiore nel caso della contemporanea introduzione di un numero elevato di pratiche diverse. È meno noto -e forse anche più controverso- il rapporto che esiste tra queste pratiche e il sistema aziendale di relazioni di lavoro, in particolare la partecipazione del sindacato e il coinvolgimento dei lavoratori. La nostra tesi è che l’innovazione, e in generale le Hpwp, danno i migliori risultati se sono accompagnate da un grado elevato di partecipazione organizzativa, ovvero se i lavoratori non solo sono coinvolti attivamente nell’obbiettivo di cambiamento, ma anche chiamati a cooperare alla realizzazione dei risultati attraverso qualche forma di delega organizzativa che realizzi una maggiore autonomia del lavoro e l’aumento della responsabilità degli operatori. In questo paper ci soffermiamo in particolare su tre pratiche -il miglioramento continuo, la flessibilità degli orari e il lavoro in squadra- non sempre e non necessariamente applicate insieme. Di queste, solo la flessibilità è generalmente un terreno di contrattazione (e spesso di conflitto). Le pratiche di miglioramento continuo sono piuttosto diffuse ma prevalentemente considerate ambito di prerogativa manageriale. Il lavoro in squadra stenta a diffondersi, almeno in Italia, e non è quasi mai oggetto di procedura formale (più o meno sindacalmente condivisa). I SUGGERIMENTI “Il Wcm e l’innovazione organizzativa e delle relazioni di lavoro sono l’unica via di sopravvivenza alla competizione globale”. I gruppi di miglioramento. Il caso “alfa”. Il caso alfa colpisce per due ragioni. La prima è che quest’azienda ha ormai da alcuni anni al suo attivo alcuni dei premi più prestigiosi per la gestione delle risorse umane: per il quinto anno consecutivo, nel 2013, si è certificata “Top-Employer Italia” mantenendo la sua collocazione in un ristretto numero di aziende -tra cui Microsoft e Luxottica- che hanno raggiunto questo importante traguardo; inoltre, per due anni (2011 e 2012) ha conquistato il primo posto in Italia, e nel 2011 addirittura il primo in Europa, come “Great place to work”. La seconda ragione è che, pur appartenendo a un comparto produttivo (quello degli elettrodomestici) e avendo i suoi principali impianti in un territorio (quello marchigiano) che stanno risentendo particolar- mente della crisi, sta tuttavia registrando una buona tenuta dei mercati e discrete performance economiche che, tra l’altro, l’hanno portata a collocarsi nel segmento Star della Borsa italiana (dedicato alle medie imprese che assicurano requisiti di alta trasparenza, alta liquidità e una corporate governance di livello internazionale). Alfa produce cappe da cucina destinate ai principali produttori mondiali di elettrodomestici, come Whirlpool, Bosch e General Electric. Ha circa 2.700 dipendenti, di cui la metà fuori Italia. Negli stabilimenti marchigiani sono concentrati poco meno di 1.000 dipendenti: gli operai -principalmente donne- sono il 70% della forza lavoro, gli altri in gran parte sono tecnici e ingegneri della Ricerca e Sviluppo e impiegati ad- sviluppare le idee di miglioramento -che possono variare da 4 a 15 componenti, a seconda della dimensione dell’innovazione- sono spontanei e volontari (virtualmente tutti possono partecipare), sono poco strutturati (nel senso che vengono fatti ad hoc e poi disfatti), godono di ampia autonomia (nel decidere i vari passaggi per la messa in campo dell’innovazione, il numero delle riunioni, ecc.), in genere non hanno un leader. l’autonomia e la competenza dei lavoratori nei suggerimenti è aumentata dove sono stati introdotti schemi di job rotation All’inizio, le reazioni all’introduzione del Wcm e del sistema dei suggerimenti erano state piuttosto spaventate da parte del personale e tiepide da parte delle Rsu, in parte per una naturale resistenza al cambiamento, in parte per una cultura -tipicamente la cultura operaia in Italia in generale- un po’ restia al coinvolgimento. A giudizio del management, la transizione verso una cultura partecipativa è stata la vera sfida di questo programma, visto che alfa lo voleva centrato proprio su un cambiamento continuo proveniente dall’osservazione e dall’esperienza diretta dei lavoratori. A distanza di tre anni, si possono cominciare a trarre le prime riflessioni sull’esperienza. Per mettere a punto e testare l’intero schema delle proposte -dal coinvolgimento sul singolo suggerimento a quello necessario per raccogliere il feed back dell’innovazione- ci è voluto più di un anno e nel corso del tempo il programma si è arricchito di strumenti e ha avuto impatti diretti e indiretti molto articolati sia sulla produttività che sulle condizioni e sulle relazioni di lavoro. Per esempio, nella prima fase erano i manager a sollecitare i suggerimenti e le proposte che arrivavano erano molte ma disordinate e superfi- Fausto Fabbri detti all’amministrazione, al marketing e al commerciale. Dal 2010 ha adottato il programma World Class Manufacturing (Wcm), secondo il sistema messo a punto dal Gruppo Fiat, ma con un’interpretazione del programma che vede da un lato cruciali l’integrazione dei processi e la sincronia (“allineamento”) dei vari reparti, dall’altro, il coinvolgimento attivo dei lavoratori. Tanto che, mentre nel sito più importante l’implementazione del sistema ha già coinvolto sette linee di produzione (circa il 40% degli addetti industriali), sta partendo la partecipazione delle aree non industriali, comprese quelle della sede centrale. È molto significativo che questo sforzo di riorganizzazione sia stato intrapreso parallelamente a una razionalizzazione degli impianti e delle risorse che ha anche comportato l’intervento di cassa integrazione. I suggerimenti dei lavoratori per il miglioramento del processo produttivo sono al centro del particolare schema di Wcm applicato. In pratica, tutti i lavoratori sono invitati a dare suggerimenti o a proporre progetti finalizzati a migliorare la produzione: le proposte possono essere inoltrate al responsabile interessato -non necessariamente il proprio capo diretto- tramite moduli forniti dalla direzione. Quando ne viene approvata l’implementazione, spetta al lavoratore, con l’eventuale assistenza del manager interessato, mettere insieme un gruppo che possa sperimentarla. Il gruppo di miglioramento può essere la stessa squadra addetta a quella particolare linea di produzione, ma anche un gruppo misto trasversale alle linee o addirittura ai reparti e partecipato da addetti di tutti i ruoli che sono necessari per implementare l’innovazione (dagli operai addetti alla produzione, ai responsabili di linea, ai manutentori, agli addetti al magazzino, ecc.), anzi, la direzione incoraggia tutte le volte che è possibile i gruppi interdipartimentali. Ne deriva che i gruppi incaricati di ciali, così si è deciso di fornire ai lavoratori manuali e tutto il corredo di informazioni necessarie a verificare la fattibilità delle proposte: attualmente il numero dei suggerimenti è calato, ma la qualità delle proposte è migliorata tantissimo. L’autonomia e la competenza dei lavoratori nei suggerimenti è aumentata anche perché sono stati introdotti sulle linee coinvolte nel Wcm schemi di job rotation, che consentono ai lavoratori una più ampia comprensione di quello che fanno i loro colleghi di linea e di reparto. Per accrescere in quantità e qualità i suggerimenti e le iniziative di cambiamento, sono poi state moltiplicate le opportunità formative per i dipendenti finalizzate ad aumentare la loro competenza tecnica e organizzativa, ma anche a migliorare la fiducia in loro stessi. È significativo che la domanda di formazione relativa alle competenze manageriali (teamworking, comunicazione) sia aumentata rispetto alla più tradizionale domanda di formazione tecnica. Anche l’accesso all’intranet aziendale che ha un software dedicato a mappare le idee e i progetti in corso, a valutarli in base ad una serie di indicatori e raccogliere commenti e feed back, ha contribuito a migliorare la partecipazione e la capacità dei lavoratori di costruire proposte appropriate. Tant’è che, negli ultimi tempi, si stanno moltiplicando iniziative autonome da parte dei singoli lavoratori che, prima di avanzare al manager il suggerimento, lo testano di propria iniziativa, talvolta coinvolgendo i colleghi di lavoro. L’azienda non frena questo processo, anzi lo segue con attenzione. L’obiettivo aziendale di favorire il miglioramento continuo della produzione a partire dallo “sguardo” di chi lavora sembra aver di necessità coinvolto molti aspetti delle condizioni di lavoro e del rapporto di lavoro. Se lo scopo iniziale era reggere una concorrenza ormai globalizzata -e particolarmente feroce nel settore degli eletuna città 17 trodomestici- realizzando in modo più efficiente prodotti di migliore qualità, il programma introdotto ha rafforzato un sistema di relazioni di lavoro collaborative e di coinvolgimento dei lavoratori che da sempre informa tutta la vita aziendale: sono diffuse e puntuali le informazioni tecniche sui processi, i target di produzione e gli andamenti dei mercati; sono periodicamente raccolti i feed-back sulle innovazioni e i risultati del processo di miglioramento sono misurati e diffusi attraverso periodiche presentazioni che danno conto di ciascuna proposta (e persino aprono la discussione e chiedono contributi sui suggerimenti che sono stati scartati). Il dialogo tra Rsu e direzione del personale -riguardante sia l’avanzamento dell’implementazione del Wcm, sia le prospettive dei mercati e dell’occupazione- è continuo. Analogamente, l’adozione del Wcm e del sistema dei suggerimenti sta contribuendo a modificare la cultura organizzativa. La direzione ammette che la struttura aziendale è ancora piuttosto gerarchica, ma l’esperienza dei gruppi di miglioramento sta “allenando i capi alla delega” e “sta abituando gli operatori all’autonomia, all’iniziativa, al networking, al lavoro di squadra”. La migliore conoscenza dei processi, dei ruoli, dei compiti dei colleghi, che si è ottenuta attraverso l’esperienza dei gruppi misti e della job rotation, ha avuto come risultato inatteso anche una maggiore simpatia verso i colleghi -sia quelli dello stesso reparto sia quelli dei reparti a monte e a valle- di cui ormai conoscono bene condizioni di lavoro e bisogni di cambiamento e quindi verso le proposte avanzate da loro. Una ragione particolare di adesione dei lavoratori al nuovo metodo -ci è stato riferito che chi non è ancora coinvolto invidia molto i lavoratori già inseriti nel programma Wcm- è dovuta al cambiamento delle condizioni di lavoro (postazioni di lavoro e ergonomia sulle linee sono fin dall’inizio molto migliorate), ma c’è anche la percezione della possibilità di cambiare ogni sezione del processo di produzione, quindi di modificare le proprie condizioni di lavoro: vi è una procedura specifica che stimola ad avanzare delle proposte di miglioramento, oltre che dell’efficienza, anche della salute e della sicurezza del lavoro in qualsiasi stadio dei processi. Alcune delle innovazioni introdotte fin qui hanno avuto il risultato di eliminare i movimenti superflui e gli sforzi fisici non necessari e di ridurre i fattori di rischio di infortunio e lesioni. Uno degli impatti più eclatanti del programma è proprio costituito dal drastico abbattimento degli infortuni, che ormai tendono a zero. Ma è aumentato anche il confort di alcune posizioni di lavoro: in molti casi attualmente gli addetti lavorano seduti anziché in scomode posizioni in piedi. uno degli impatti più eclatanti è costituito dal drastico abbattimento degli infortuni, che ormai tendono a zero Come si è detto, anche le relazioni industriali sono un aspetto positivo del caso alfa, anche se non è del tutto chiara la relazione tra queste e l’esperienza dei gruppi di miglioramento. Circa il 25% dei dipendenti è iscritto al sindacato e il sindacato maggioritario è la Fiom Cgil. Nel 2008, alla vigilia dell’avvio del programma Wcm, alfa ha firmato con quattro sigle sindacali un accordo aziendale-quadro molto avanzato, i cui punti sono stati costruiti attraverso un prolungato processo di discussione tra sindacato e lavoratori favorito dalla stessa azienda. In conclusione, i buoni risultati della pratica innovativa -in questo caso, i gruppi di miglioramento- sono dovuti a un coinvolgimento dei lavoratori che non è stato difficile in un’azienda caratterizzata da relazioni di lavoro tradizionalmente improntate alla fiducia tra le parti e all’assenza di conflitto sindacale. Ma il successo è stato indubbiamente favorito dalla contemporanea implementazione di altre pratiche manageriali contigue, come il miglioramento dell’ambiente, del layout e dell’ergonomia, la formazione dei lavoratori coinvolti, la sperimentazione di forme di job rotation, l’introduzione di pacchetti di welfare aziendale. TUTTO IN CASA Un’azienda di moda nella competizione globale che segue un percorso di formazione e condivisione continua con le Rsu e i lavoratori per adeguarsi al mercato globale. Il caso “gamma”. Il caso gamma è molto interessante perché riguarda una tipica azienda del sistema moda specializzata in oggetti di complemento dell’abbigliamento personale tipici del Made in Italy, che si è adattata con successo al nuovo mercato mondiale. L’azienda gamma era già un’azienda di successo negli anni Novanta, che è stata capace di adattarsi alla globalizzazione dopo il 2000, riconfermando le proprie posizioni di leadership nel settore, e di trasformarsi in una vera multinazionale globale di tipo nuovo. Essa è riuscita, con rapidi cambiamenti, sia a in- 18 una città serirsi nei nuovi mercati dei paesi emergenti, in Asia, Oceania, Sud America, sia a mantenere i mercati dei paesi sviluppati (Europa e Nord America soprattutto) con una profonda innovazione di prodotto, con l’allargamento dei marchi, con un elevato ampliamento della gamma offerta sia ai mercati emergenti sia a quelli tradizionali. Questa profonda trasformazione, che ha riconvertito un’azienda “artigianale” situata nei distretti paesani del Made in Italy in una multinazionale globale di tipo nuovo, è avvenuta rapidamente nel decennio scorso, anche con la problemi di lavoro conservazione di molte caratteristiche strutturali e di immagine del Made in Italy. Ad esempio, c’è una forte continuità del design italiano, delle soluzioni tecnologiche e dei materiali, di alcune lavorazioni manuali con impronta artigianale, della fedeltà e attaccamento dei lavoratori all’azienda, del rapporto con il territorio di origine. I risultati raggiunti, se osservati dal punto di vista del “business”, sono eccezionali: il fatturato è più che raddoppiato in dieci anni, le quote di mercato si sono accresciute o mantenute, i margini sono aumentati e comunque sono sempre elevati, la gamma enormemente ampliata, le catene di vendita di proprietà espanse in nuovi paesi. Questa rapida e profonda trasformazione è stata realizzata in un quadro di relazioni industriali da sempre più orientato alla cooperazione invece che al conflitto; e tuttavia negli ultimi anni le relazioni industriali si sono evolute verso un modello dove la partecipazione organizzativa, soprattutto delle Rsu ma anche dei sindacati esterni, è stata ancora di più rafforzata e arricchita di nuove regole e nuovi istituti aziendali. Tuttavia la formalizzazione è rimasta scarsa. Prima però di descrivere il modello di relazioni industriali, sembra opportuno accennare alle profonde e rapide trasformazioni del sistema produttivo del caso gamma e alle rilevanti modifiche delle fabbriche che sono state necessarie per trasformare alcuni poli produttivi di un distretto locale italiano in un network manifatturiero di una multinazionale globale. In primo luogo, l’aumento rilevante dei volumi e dei pezzi prodotti (che è più che raddoppiato in dieci anni) è stato realizzato completamente in fabbriche di proprietà, dal momento che la gestione tradizionale non aveva mai ceduto alle sirene dell’outsourcing e che anche la gestione attuale ha confermato la scelta di fondo di mantenere in aziende di proprietà non solo il marketing e la progettazione, ma l’intero ciclo produttivo, compresi i componenti più importanti. Si opera sempre con la regola del “tutto fatto in casa”. Il raddoppio dei volumi prodotti è stato quindi ottenuto, da un lato, con nuove fabbriche in Cina e in America (sia Nord che Sud) e, dall’altro, con una forte pressione sulle fabbriche italiane per produrre di più, all’interno di una sostanziale stabilità di organico. Le ricette di terziarizzazione quasi completa del sistema di produzione tipiche dell’abbigliamento (come ad esempio Benetton o le “grandi firme”) non sono quindi state adottate e il network produttivo di gamma è quindi molto più simile a quello di Zara che a quello di Giorgio Armani, da cui è in effetti molto distante. In secondo luogo, oltre all’aumento dei volumi, le fabbriche sono state sottoposte a esigenze pressanti (e anche stressanti) di modifica delle tradizioni produttive, che ovviamente hanno origine e causa nel nuovo mercato globale e nei nuovi sistemi di marketing. In somma sintesi: lo “stress” sulle fabbriche nasce da alcuni nuovi modi di vendere e distribuire sul mercato mondiale, che sono profonda- più frequente agli istituti di flessibilità del Ccnl (flessibilità positiva, negativa e straordinario incentivato), sia la variazione frequente dei turni di lavoro, sia lo spostamento di lavoratori tra i diversi siti produttivi, sia la modifica del layout delle officine e delle macchine. In pratica, le fabbriche sono in continuo cambiamento. una lean “leggera” e facilmente modificabile, oltre che rispettosa dei sistemi di manipolazione artigianale - Una intensificazione delle tecniche di controllo qualità e di prevenzione dei difetti e degli sprechi, anche con ricorso a nuove forme di premi collettivi di qualità e di campagne di sensibilizzazione sulla qualità rivolte agli operai. - Una rapida diffusione dei sistemi di lean-production. Tuttavia, in questo caso, la lean, com’è ovvio in una produzione di moda, non può essere applicata come il Wcm nell’ambiente “Automotive”, ma deve essere “leggera” e facilmente modificabile, oltre che rispettosa dei sistemi di manipolazione artigianale. Questa notevole mole di cambiamento (che è allo stesso tempo concentrato e accelerato) è stata gestita dagli attori (management e sindacati) in un ambiente orientato alla convergenza che già per tradizione era incline a relazioni industriali di tipo cooperativo. Tuttavia, osservando un decennio di relazioni industriali mi sembra che si possa affermare che man mano che l’esigenza di cambiamento si è intensificata, la cooperazione tra gli attori è stata anch’essa intensificata Fausto Fabbri mente diversi dai modi di produrre degli anni Ottanta e Novanta, ma che sono anche alla base del recente successo di gamma. Questi nuovi modi sono sintetizzabili nei seguenti punti: - l’elevato ampliamento di gamma (più che triplicato) e la più rapida obsolescenza dei modelli (e dei colori) che hanno oggi una vita molto più “effimera” che in passato; - la minore stabilità delle classiche collezioni annuali e la comparsa di produzione ad hoc per singoli eventi di moda, che nascono e muoiono in pochi giorni; - la diffusione del sistema di ordini just in time di pochi pezzi da parte dei negozi e delle catene di vendita, insieme alla riduzione dei lotti e dei magazzini di prodotti finiti; - il lancio di vendite su Internet per pezzi personalizzati. Tutti questi fenomeni hanno richiesto un profondo cambiamento dei modi di produzione nelle fabbriche, che tuttavia devono conservare alcuni tratti dell’originaria impronta dell’alta qualità artigianale per mantenere le caratteristiche del Made in Italy, ingrediente base del successo dell’export. In sostanza, questa elevata esigenza di rapida trasformazione del flusso produttivo e dei modi di produzione è stata tradotta dal management in numerosi filoni e progetti di innovazione di prodotto (che qui non trattiamo) e di processo. Questi ultimi sono riassumibili in tre filoni: - una flessibilizzazione elevata del sistema di produzione che richiede sia un ricorso sempre e sviluppata ampiamente, sino ad accentuarsi negli ultimi anni. Tuttavia, l’accentuazione di relazioni industriali innovative e cooperative non ha ancora prodotto un vero e proprio modello partecipativo formalizzato. Al contrario, gli attori sembrano insistere su pratiche di fatto e prassi di elevato coinvolgimento e di sistemica consultazione reciproca, ma si fermano prima di arrivare a formalizzazioni di istituti e di accordi che potrebbero “stonare” nel contesto italiano che, com’è noto, risulta caratterizzato da litigiosità, localismo ed elevata frammentazione. Si sono così sviluppate pratiche diffuse in tutti i poli produttivi di sistematica e precisa informazione a tutti i dipendenti dei progetti innovativi in corso, nonché di approfondita formazione sui nuovi metodi di produttività alle Rsu e ai lavoratori coinvolti nei progetti di innovazione. L’azienda ha elaborato un modello sistemico con tre “gradini” successivi con i quali si propone di coinvolgere tutte le persone nei processi innovativi. In breve si prevede una sorta di progressione nel coinvolgimento dei lavoratori man mano che le innovazioni vengono applicate nelle fabbriche, passando per interventi successivi che si focalizzano su: informazione sistemica e frequente a tutti i lavoratori; formazione mirata ai lavoratori coinvolti, ai tecnici e alle Rsu; coinvolgimento diretto dei team di miglioramento e dei team-operai. Tutte queste pratiche e le iniziative di formazione e coinvolgimento sono comunicate e condivise con i sindacati e sono diventate uno “stile” una città 19 con cui si gestisce l’innovazione e un ingrediente essenziale per il successo del cambiamento. Tuttavia, oltre alle “prassi”, sono stati stabiliti in diversi accordi e contratti integrativi aziendali nuovi istituti e nuove regole di conduzione e concertazione che possono essere considerati una sorta di “quasi modello” di una partecipazione aziendale a “bassa formalizzazione”. In primo luogo sono state definite varie Commissioni bilaterali (tra cui centrale è la Commissione Organizzazione del lavoro) e regole di informazione e comunicazione che consentono e regolano la condivisione dei progetti innovativi e soprattutto la gestione della flessibilità degli orari e della mobilità interna. In secondo luogo, sono state formalizzate nel contratto aziendale un insieme di micro-regole per la gestione di aspetti non secondari della partecipazione dei lavoratori, quali ad esempio il part-time (entrata e uscita), le ferie, i permessi e le chiusure annuali, il job-sharing, la riorganizzazione dei layout dei reparti, le informazioni delle Rsu, ecc. In terzo luogo, è stato definito un articolato sistema di welfare aziendale, con un accordo ad hoc, che viene gestito attraverso una Commissione bilaterale azienda-sindacati, nella quale viene regolato lo scambio fondamentale tra performance complessive di qualità delle fabbriche e servizi di welfare erogati. In conclusione, nel caso gamma, si può osservare come un ambiente manifatturiero che ha necessità di accelerare e di intensificare l’innovazione tecnico-organizzativa per avere successo nei nuovi mercati globali, abbia accentuato e approfondito un proprio modello di partecipazione aziendale centrato sul coinvolgimento diffuso dei lavoratori e delle Rsu nella partecipazione diretta e organizzativa nelle fabbriche e nelle linee di lavoro. Molta minore enfasi è stata data invece sugli accordi di lungo periodo e sulla partecipazione strategica. In una zona intermedia può essere collocato il sistema di gestione paritaria azienda-sindacato del welfare aziendale. CALATO DALL’ALTO Il Wcm in un’azienda di componentistica del ciclo automotive: la scarsa partecipazione dei lavoratori rende difficile raggiungere gli obiettivi attesi di produttività. Il caso “delta”. Il caso delta è interessante come possibile contro esempio in relazione all’ipotesi avanzata nei paragrafi precedenti: cioè che la crescita delle performance di produttività aziendale, soprattutto se collegata a progetti di innovazione organizzativa e di processo, sia potenziata e facilitata dalla partecipazione diretta dei lavoratori ai progetti di innovazione. Di conseguenza, l’ipotesi è che nell’attuale situazione economica l’esistenza di pratiche e di modelli di relazioni industriali più cooperative a livello aziendale, tendano a favorire il raggiungimento pieno dei risultati attesi dai progetti innovativi. Il caso delta può essere un contro esempio dal momento che presenta due fattori contemporanei. Da un lato, in quel contesto non vengono attivati né accordi sindacali di impianto cooperativo né pratiche di coinvolgimento dei lavoratori e delle Rsu. Dall’altro, contemporaneamente, l’applicazione di metodologie di miglioramento come il Wcm non riesce a raggiungere i risultati attesi. Delta è un’azienda di dimensioni medio-piccole, dotata però di strutture e staff tecnici che sono in grado di gestire efficacemente tecnologie relativamente aggiornate per la produzione di componenti complessi per l’industria automobilistica. Delta ha una sua propria struttura tecnica con capacità progettuale e di controllo qualità e un proprio sistema produttivo governato da un tipico sistema gerarchico di capi intermedi (middle management) dedicato alla gestione delle linee e del flusso produttivo. Delta lavora da sempre nelle catene di sub-fornitura della componentistica. L’idea di applicare tecniche e metodi ricavati dai sistemi e dagli approcci lean 20 una città era presente da tempo in fabbrica e molti esperimenti di programmazione a “Kan ban” e di montaggio in isole erano stati condotti sin dalla fine degli anni Novanta da diversi direttori di produzione. L’approccio lean era tuttavia abbastanza distante dalla cultura di fabbrica e gli esperimenti condotti dagli ingegneri più giovani erano stati non sempre felici e di solito considerati con sufficienza dai leader di fabbrica tradizionali. Negli anni recenti tuttavia la pressione dei committenti (i grandi costruttori di auto) in direzione di standard di qualità più elevata, di consegne molto puntuali, di un sistema di ordini just in time e, infine, di una forte pressione sulla riduzione dei costi, avevano indotto la direzione aziendale a decidere l’adozione del metodo Wcm. Le attese della direzione erano che l’applicazione sistematica di alcune delle metodologie del Wcm (in particolare quelle per la qualità, l’organizzazione del posto di lavoro e la manutenzione delle macchine) avrebbero consentito non solo di rispondere alle richieste di qualità e tempestività del committente, ma avrebbero anche portato notevoli riduzioni di costi e di sprechi e aumento della produttività. L’introduzione di alcune metodologie Wcm, tuttavia, era avvenuta non solo adottando direttamente i metodi elaborati dal committente, senza alcun adattamento o revisione, ma anche attraverso un approccio dall’alto verso il basso, di tipo top-down. Questo approccio aveva non solo ridotto il numero delle persone coinvolte a un numero minimo, ma anche fatto sì che la discussione nei gruppi di lavoro fosse molto limitata e che il passaggio di conoscenze fosse “al ribasso”, che ci fosse mol- problemi di lavoro ta confusione su che cosa si doveva fare, su quali fossero gli obiettivi e le motivazioni. In breve, l’approccio top-down non solo non era riuscito a cambiare la sostanza della cultura organizzativa della fabbrica, ma aveva finito per produrre molti piccoli insuccessi nelle prime applicazioni, i quali a loro volta avevano contribuito a diffondere scetticismo, sarcasmo e talora critiche esplicite ai nuovi metodi. Le Rsu e i sindacati non sono stati per nulla coinvolti nei progetti innovativi: molti lavoratori e molte Rsu non sapevano neanche di che cosa si trattasse. le Rsu e i sindacati non sono stati per nulla coinvolti nei progetti innovativi, non sapevano neanche di che cosa si trattava Ben presto lo scetticismo, diffuso dai capi intermedi, veniva trasmesso ai lavoratori con l’esito di rafforzare la cultura tradizionale. A quel punto le innovazioni erano state portate avanti ugualmente, vista la decisione forte della direzione, ma i risultati attesi sulle performance tardavano a comparire. Qualche miglioramento è stato registrato prevalentemente sulla qualità, soprattutto a seguito di tante piccole modifiche ai materiali, agli utensili, agli attrezzi e alle macchine che riducono i malfunzionamenti. Ma modesti sono stati i risultati sulla produttività e sui tempi di consegna. Secondo alcuni, la scarsità nel miglioramento rispetto agli obiettivi attesi non è tanto riferibile all’ostilità verso l’innovazione delle Rsu e dei sindacati (che tra l’altro non si è neanche manifestata apertamente) quanto piuttosto alla contrarietà dei capi. La questione può ovviamente essere discussa, data la molteplicità delle variabili in gioco. In casi come questo si dovrebbe analizzare se abbia maggiore rilevanza la resistenza dei capi intermedi oppure il disinteresse e la scarsa partecipazione dei lavoratori. In sintesi, resta accertato che quando l’innovazione è calata dall’alto e non è attivato un coinvolgimento e una partecipazione diretta dei lavoratori, la cultura organizzativa tradizionale riesce a resistere efficacemente contro le innovazioni, forse a causa delle vischiosità diffuse in tutti i settori, forse per il ruolo più conservativo della gerarchia, o forse anche per lo scarso coinvolgimento dei lavoratori. Conclusioni I gruppi di miglioramento -che abbiamo osservato in alfa, in delta e in gamma- sono uno strumento organizzativo molto importante e relativamente facile da implementare perché i lavoratori sono molto contenti di essere interpellati (e anche di poter influire almeno in parte sulle loro condizioni di lavoro, sull’ambiente, sull’ergonomia, ecc.) e il sindacato non si oppone. Nelle situazioni più virtuose i gruppi di miglioramento aprono la strada ai team di lavoro: la situazione più avanzata l’abbiamo osservata nello stabilimento tedesco di beta, dove i team gestiscono in autonomia la flessibilità produttiva e anche alcuni aspetti della gestione delle persone (permessi, job rotation, addestramento). Un punto critico del team operaio è il ruolo del team leader, diverso in ogni esperienza -a volte più simile a una figura della gerarchia, in rari casi, in Italia, suggerito dai lavoratori, a volte è una figura solo occasionale legata alla gestione di un singolo progetto- che potrebbe essere anche in competizione col ruolo delle Rsu. Il passaggio ai team di lavoro prevede un investimento da parte del management nell’addestramento alla polivalenza come prerequisito per una migliore flessibilità del lavoro, una strategia manageriale basata sul serio sulla delega, la disponibilità dei lavoratori a scambiare più autonomia con più responsabilità, un’attitudine del sindacato a favorire questo cambiamento: tutte condizioni che vanno costruite e negoziate con cura. Di conseguenza, in Italia -e anche nei nostri casi- il team operaio è ancora una struttura in fieri, debole e certamente molto informale. Anche la frequente opposizione del middle management, che vede minacciato il proprio ruolo gerarchico, gioca a sfavore della diffusione dei team operai che, secondo la letteratura, sono invece ingrediente essenziale della produttività. La flessibilità produttiva è la posta in gioco più complessa di tutta la strategia d’innovazione. Adattarsi a orari diversi significa uscire da routines rassicuranti, pertanto viene visto come un sacrificio. Tende -almeno in Italia- a essere sottovalutato il potenziale di scambio esigenze aziendali/esigenze personali. adattarsi a orari diversi significa uscire da routine rassicuranti, quindi viene visto comunque come un sacrificio Inoltre non tutte le Rsu sono d’accordo nel cogliere l’importanza della flessibilità per la competitività dell’azienda né nel valorizzarne le opportunità di miglioramento della qualità della vita. Di questa carenza culturale a nuove forme di flessibilità finiscono per soffrire sia impresa che lavoratori che si trovano a gestire orari molti più rigidi di quelli che potrebbero essere. I casi analizzati danno comunque l’idea che se per alcune imprese l’innovazione va sperimentata anche come condizione indispensabile per affrontare la competizione globale, non è chiara per il sindacato l’opportunità che queste innovazioni offrono di sviluppare anche le relazioni industriali in direzione di una maggiore partecipazione sia del sindacato che dei lavoratori. Non solo, nei casi analizzati risulta che i gruppi di miglioramento e lo stesso lavoro in squadra sono benvoluti dai lavoratori, che si sentono valorizzati e possono migliorare le proprie capacità. Tuttavia, il sindacato appare più cauto e forse timoroso di perdere il proprio ruolo all’interno dei reparti. Più in generale, dai casi sembra confermata l’ipotesi che le esperienze più innovative di relazioni industriali a livello di impresa nel nostro paese soffrono di una incapacità di formalizzare le pratiche su cui si basano e di esplicitare i loro assunti (persino un certo timore di farsi troppo conoscere all’esterno). Infine, non c’è dubbio che l’intera normativa sugli orari di lavoro stia scoppiando: non risponde ai nuovi tempi di produzione, né ai nuovi tempi di vita (nelle aziende di servizi ancora di meno). Per molti aspetti, assomiglia più a un capitolo del salario che a un capitolo dell’organizzazione del lavoro. Abbonatevi! Regalate una città! Stiamo cercando, come tanti, di “passare” la crisi. Gli amici e i soci ci hanno sostenuto con forza, le socie lavoratrici della cooperativa si sono ridotte il salario, i soci volontari hanno aumentato il loro impegno. Con la campagna per l’adesione di nuovi soci alla cooperativa (in 29 hanno aderito!) e le sottoscrizioni di soci e amici abbiamo quasi raggiunto l’obbiettivo di risanare un bilancio appesantitosi negli anni. Gli abbonamenti hanno subìto un calo di circa il 10%, che pare essere, in questa situazione, un buon risultato. Da questo numero accettiamo la pubblicità (di eventi culturali, libri) il cui ricavato contiamo di usare per progetti e non per la sopravvivenza, proprio per non diventarne dipendenti. Abbiamo già fatto un passo avanti per il web. Se ne occupa uno dei nostri giovani, il sito finalmente s’è mosso, abbiamo un blog, siamo su facebook e su twitter quotidianamente. Abbiamo reso “tematica” la nostra newsletter incentrandola su una domanda che consideriamo d’attualità. Abbiamo “chiuso” il database delle interviste per due terzi (è possibile comunque leggere le prime 4000 battute di ognuna) e si possono acquistare pacchetti di interviste. Ma per l’abbonato, cartaceo o online, l’archivio resta completamente aperto e consultabile. Abbiamo in animo di pubblicare più libri. E cogliamo l’occasione per annunciare l’uscita di una raccolta di lettere inedite di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel, la sua grande amica, suora di clausura in Connecticut, con la quale intrattenne una lunga corrispondenza fino alla morte. Questo è quanto. Per il resto che dire? Ventidue anni fa siamo nati pensando che bisognava andare fra la gente a vedere cosa succedeva e che bisognava ripensare in modo radicale, anche riandando ai dibattiti del passato, le idee della sinistra. Nel nostro piccolissimo l’abbiamo fatto, ma abbiamo avuto spesso la sensazione di attardarci mentre gli altri correvano avanti. Verso dove lo vediamo ora. Siamo sempre lì. Farsi insieme delle buone domande e insieme cercare delle buone risposte da sperimentare in pratica. Certo, alla luce di quegli ideali che da un secolo e mezzo ormai non cambiano: libertà e giustizia sociale. Noi cerchiamo di andare avanti, malgrado il pessimismo. Tanto più se rinnoverete l’interesse per le cose che facciamo e che potremo fare anche insieme. Una città Abbonamento “primo ingresso”: 25 euro Rinnovo ordinario: 50 euro Rinnovo studenti: 30 euro Abbonamento estero: (Europa) 80 euro - (resto del mondo) 100 euro Ora, in alternativa “al cartaceo” è possibile, al costo di 20 euro, sottoscrivere l’abbonamento al pdf della rivista Modalità di pagamento: -Cc. postale n. 12405478 - Una Città Soc. Coop., via Duca Valentino 11, 47121 Forlì. -Bonifico bancario intestato a Una Città Soc. Coop. IBAN IT36O0601013208074000000048 -tramite internet (www.unacitta.it) aprendo la pagina: http://www.unacitta.it/abbonamenti.asp una città 21 appunti di lavoro LA STORIA DI BILJANA di Massimo Tirelli. Biljana, contrariamente a quanto possa sembrare, era nata in Italia nel 1980. La famiglia era originaria di Belgrado, ma il padre ingegnere aveva iniziato a lavorare tra Milano, Bologna e Lubiana per aziende dell’area Lega cooperative, che collaboravano al tempo con la ex Yugoslavia socialista. La madre faceva piccoli lavori di traduzioni commerciali. Iniziati i primi problemi in patria tra Slovenia, Croazia, Serbia, Kosovo, il padre aveva pensato bene di restare in Italia. Una grave malattia nel 1994 però se l’era portato via velocemente. Dopo il liceo Biljana aveva frequentato l’Università di lingue ma senza laurearsi, perché a causa di problemi economici (la pensione yugoslava del padre a causa della guerra e del disfacimento della sua nazione non era più stata pagata) aveva dovuto trovarsi un lavoro; anche la madre aveva dovuto adattarsi a fare le pulizie in alcuni condomini. Biljana, dopo alcune attività varie (traduzioni, impiegata a termine, baby sitter, postina trimestrale) era stata assunta quale addetta alla reception presso un’azienda che forniva servizi sanitari per la riabilitazione dopo un trauma o una operazione, dal medico al fisioterapista al massaggiatore. Azienda, di proprietà di fatto di due fratelli molto dinamica, capace nel giro di pochi anni di aprire una decina di sedi (convenzionate con il sistema sanitario pubblico) nel nord e centro Italia. Biljana si era fatta apprezzare velocemente: era veloce a comprendere sia gli obiettivi aziendali che i bisogni delle persone, capace, attenta nell’organizzare il suo lavoro, con grande senso del dovere. Probabilmente non guastava il suo aspetto, bella ed autorevole. Nel giro di quattro anni era stata promossa di livello, ed in realtà svolgeva ormai le funzioni di vice-direttrice del centro madre. Aveva svolto inoltre, seppure in via temporanea sempre come supplente per motivi vari in caso di vacanza del ruolo, le funzioni di direttrice amministrativa di due centri esterni, riscuotendo i (moderati) complimenti del manager aziendale. La retribuzione no, non si era accorta delle sue accresciute qualità: certo a Natale aveva ricevuto una gratifica, e le spese di trasferta le venivano ovviamente rimborsate, ma straordinari e spostamenti, nonché indennità relative al fatto che passava qualche volta il sabato nei centri esterni, mai. Quando una volta ne aveva accennato al capo, questi con un sorrisetto (che avrebbe imparato a conoscere) le aveva detto “… ma Biljana lei mi delude! È chiaro che la sto testando per capire la sua resistenza e fedeltà alla nostra azienda, ma se lei me la butta sull’economico significa che lei lavora solo per i soldi e non perché condivide la nostra mission!”. La ragazza non aveva replicato, la sua indole non era polemica od aggressiva; sentiva che c’era qualcosa che non andava, ma in fondo a trent’anni aveva un buon lavoro, con i soldi che prendeva, assieme a quelli della madre, riuscivano a farcela, anche se pagato l’affitto non restava certo abbastanza da mettere via qualcosa. Arrivò però la grande occasione. Un giorno il manager la fece chiamare nel suo ufficio e le 22 una città disse: “Penso sia arrivato il suo momento. Tra due mesi abbiamo deciso di aprire una nuova filiale a Verona, presso un grande Centro sportivo e natatorio; abbiamo pensato a lei quale direttrice amministrativa. Dovrà fare un po di gavetta ma se va tutto bene… Che ne pensa? Le pagheremo l’affitto di un appartamento, avrà uno scatto di qualifica, e la possibilità di dimostrarci che cosa vale davvero” Biljana rimase interdetta. Ci pensò sopra una giornata, ne parlò con la madre, valutò i pro e i contro (tra cui probabilmente il fatto che se avesse detto di no, la cosa non sarebbe rimasta senza conseguenze) e decise di accettare. Dopo tre o quattro viaggi esplorativi, parti per Verona un lunedì di settembre, aveva trovato casa in un vicolo del quartiere di Veronetta, un piccolo ma confortevole appartamentino di due stanze a prezzo decente e a due passi dal centro; doveva usare l’auto per raggiungere il centro sportivo, situato ai piedi delle colline fuori città, ma ne valeva la pena quantomeno per le poche ore disponibili per sé. Amava passeggiare per le vie del centro città, lungo l’Adige, verso sera, ascoltando il fluire del grande fiume. Il lavoro di organizzazione della filiale le costò parecchio: lavorava dalle 10 alle 12 ore al giorno, spesso anche il sabato, prima ad arrivare il mattino ed ultima ad andarsene -la direttrice sanitaria, medico, si occupava strettamente solo delle prestazioni specifiche, lasciando a lei tutte le questioni di rapporti con gli enti, con i privati, con il personale, con i clienti, con i fornitori, ecc. Piano piano però la filiale iniziò a prendere vita propria affrancandosi dalla casa madre: trovò personale adeguato strappandolo anche alla concorrenza, acquisì accordi con la nazionale di nuoto che si allenava al centro nautico di Verona, trovò soluzioni di scambi di rapporti utili con un paio di palestre, venne firmato un protocollo sanitario con alcune Usl della Regione Veneto, sistemò l’aspetto logistico e di organizzazione, ed insomma nel giro di due anni la filiale veronese non solo era indipendente economicamente, ma iniziava a produrre profitti. Biljana intanto ormai raramente rientrava a Bologna i fine settimana, vuoi perché lavorava, vuoi perché stanchezza e un poca di malinconica e solitudine avevano iniziato a renderla più sedentaria. Fino a che, ad una festa, conobbe un cinquantenne che la faceva divertire, e fu amore corrisposto: anzi, lei si legò molto a lui. Al lavoro malgrado i buoni risultati non aveva però avuto riconoscimenti economici: gli straordinari non le venivano pagati, e ogni volta che ne accennava al capo, questi le si rivolgeva con quel sorrisetto che aveva imparato a conoscere. Peraltro non le venne mai riconosciuta neppure la qualifica superiore, rimaneva impiegata amministrativa di III livello, anche se le mansioni esercitate, oltre all’orario spropositato, erano ben superiori. Ma non bastava: all’inizio del quarto anno di apertura del centro, e ciò malgrado un utile migliore dell’anno precedente, improvvisamente e senza alcun preavviso venne inserito un giovane dirigente, laureato in economia, destinato per volontà dell’azienda a reggere l’ammini- strazione. Da un giorno all’all’altro Biljana venne messa a lavorare sotto la sua direzione. Finì nella saletta del server e delle fotocopiatrici, dove venne installata per lei una piccola scrivania con telefono: saletta senza finestra, molto calda causa i macchinari presenti, che in ogni caso rumoreggiavano in modo spesso insopportabile. Tutti i tentativi di avere un colloquio con il padrone per ottenere spiegazioni su quell’improvviso demansionamento furono vani. Intanto Biljana era rimasta incinta e quando si sparse la notizia, si manifestò un larvato irrigidimento ulteriore del comportamento del suo vecchio capo, sempre formalmente corretto; semplicemente sia lui che il nuovo dirigente la ignoravano. Come non bastasse, il compagno di Biljana si rivelò decisamente non all’altezza della situazione. Così lei invece di ingrassare cominciò a dimagrire, tanto che la sua ginecologa, intuendo le difficoltà della situazione, le prescrisse di restare a casa. La situazione di forzato riposo però non la aiutò, anzi. Abortì naturalmente al sesto mese. Il compagno, dopo averla accompagnata in clinica, prese un appuntamento con un avvocato del sindacato. Biljana, ormai sotto farmaci, ritornò a lavorare i primi di giugno, quando ricevette una lettera raccomandata a mano che revocava la sua trasferta a Verona invitandola a prendere servizio a Bologna. Ovviamente l’azienda provvide a disdire il contratto di affitto della casa di Verona. Il primo luglio di quell’anno dovette prendere servizio a Bologna, destinata alle mansioni di fotocopiatura; questa volta senza neppure una scrivania, ma solo una sedia disponibile ad un grande tavolo comune nei rari momenti di inattività. Nessuno le parlava: non i grandi capi, che si sottraevano a colloqui individuali e palesemente non vedevano l’ora che si dimettesse, né gli altri dipendenti, che percepita l’aria la evitavano. D’altra parte i rapporti, dopo quattro anni di assenza, si erano sfilacciati. La sua presenza in ditta era palesemente appena tollerata, nessuno le rivolgeva la parola se non per chiederle, comunque raramente, di portare in qualche posto qualcosa o di fare una fotocopia. Le giornate erano lunghissime, senza sosta, ma lei cercava di tenere duro perché aveva bisogno dei soldi e non riusciva più a reagire. La causa davanti al Giudice del Lavoro di Bologna intentata per comportamento mobbizzante, demansionamento, dequalificazione, perdita di chance e differenze retributive e di straordinari non pagati si chiuse alla seconda udienza con una transazione economica: Biljana, molto provata, malgrado il suo avvocato la consigliasse di continuare, che avrebbero ottenuto di più, non ce la faceva a proseguire con la prospettiva di sentire testimoni, subire interrogatori, ecc. Il nuovo compagno intanto si era sfilato dalla sua esistenza, con gentilezza, ma con evidente sollievo. Lei, rientrata a Bologna, era tornata a vivere con la madre. luoghi Qui sopra: Il campo di prigionia di Spaç, Lezhe. Ex prigi Lezhe (Nicola Avanzinelli). In alto, da sinistra verso destra: Centrale termoelettrica di di Buzludzha, Provincia di Stara Zagora. Inaugurato nel 19 Bosnia-Erzegovina: edificio istituzionale, Visoko (Anida Kr Attiva dal 1921 al 1991 (Lorenzo Linthout). A sinistra, Ungheria: particolare del muro della stazione, della base militare, abbandonata alla caduta del regime s Nella pagina precedente: Stazione abbandonata, Budapes Nella pagina che segue: Trg Republika, Lubiana. Ex Sedi Edvard Ravnikar, 1960. (Lorenzo Linthout). Le immagini fanno parte della mostra “Totally lost”, un pr Century in Urban Management. ione politica utilizzata durante il periodo dittatoriale in Albania, presso il villaggio di Kelenföld, Budapest, la più grande in Ungheria (Reginald Van de Velde); Monumento 981 per commemorare la nascita del movimento socialista bulgaro (Kamren Barlow); reco); Croazia, miniera abbandonata, Piedalbona Podlabin, già Pozzo Littorio d’Arsia. Sofiagary (Balazs Toro); sotto: teatro abbandonato, Szentkirályszabadja, all’interno sovietico (Balazs Toro). st (Tibor Smid). del Comitato Centrale e del Comitato Esecutivo del Partito Comunista Sloveno. Arch. rogetto di Spazi Indecisi per Atrium - Architecture of Totalitarian Regimes of the XX storie SI INTITOLAVA “PROTESTO” Un’infanzia movimentata, resa più lieve da una straordinaria passione per i libri trasmessa dalla madre; l’esperimento dei “ratas pelosas”, in cui dei giovanissimi brasiliani fecero della narrativa un’arma di resistenza alla dittatura; i migranti scrittori e gli scrittori migranti: un autentico patrimonio di cui il nostro paese non si è nemmeno accorto. Intervista a Julio Monteiro Martins. Julio Monteiro Martins, brasiliano, è scrittore, e poeta, nonché docente di scrittura creativa al Goddard College (Vermont), alla Oficina Literariá Afrânio Coutinho (Rio de Janeiro), all’Istituto Camões di Lisbona e alla Pontifícia Universidade Católica di Rio de Janeiro. Attualmente insegna lingua e letteratura portoghese all’Università di Pisa. È uno dei principali rappresentanti in Italia della letteratura della migrazione. Ha pubblicato molti libri in Brasile e Il percorso dell’idea, Racconti italiani, La passione del vuoto, e L’amore scritto, in Italia. Ha fondato la rivista letteraria online “Sagarana” e l’omonimo laboratorio di narrativa. Da vent’anni vive a Lucca. La tua passione per la lettura e la scrittura è stata molto precoce: a diciotto anni in Brasile con i tuoi primi libri hai avuto grande successo. Com’è cominciato tutto? Non dico dalla culla ma poco dopo. Mio padre e mia madre non avevano quasi niente in comune, se non il fatto che erano entrambi molto giovani e molti belli. Mia madre era un’intellettuale; mio padre era figlio di un ricco industriale, aveva smesso di studiare ed era un tipico playboy. Mamma rimase incinta, ma non voleva sposarlo perché lui aveva un mucchio di donne, allora gli ha detto: “Ti sposo solo se andiamo a vivere in campagna”, e mio padre ha comprato una bella casa in campagna con un bel giardino. Lei era contenta. Si sono sposati, sono andati in luna di miele e quando sono tornati lui l’ha portata in un appartamento in città. L’altra casa l’aveva già venduta. Mio padre faceva vita da single, quando avevo due o tre anni si fidanzò ufficialmente con un’altra ragazza di una famiglia bene: cena con i futuri suoceri, anello... Era fatto così. Mamma rimaneva a casa, era professoressa di inglese al liceo, poi, quando io avevo cinque o sei anni, insegnava letteratura nordamericana all’università. Doveva studiare, prepararsi per le lezioni e siccome eravamo solo lei e io, leggeva gli autori che stava studiando. La mia prima lingua letteraria è stata l’inglese. Mi leggeva brani di Moby Dick, pièce teatrali di Tennesse Williams, con tutte quelle crisi coniugali tremende, le poesie di Frost, di Whitman, di T.S. Eliot che lei amava molto. Ancora oggi ricordo a memoria poesie intere di Eliot, come “The love song for J. Alfred Prufrock”: …in the room the women come and go talking of Michelangelo… Quando andava a letto la sera, frustrata dall’assenza di mio padre, diceva: “Vado a letto con i miei veri mariti”. Faulkner soprattutto. Un suo libro, che scrisse quando io ero più grande, L’urlo e il furore, è stato adottato dalle università americane. Così io mi sono in- namorato di queste cose. Poi, quando già avevo nove anni, è nato mio fratello. Non so se fosse figlio di mio padre, ma lui è stato corretto, abbiamo lo stesso cognome. Quando mio fratello aveva un mese, papà è andato via per sempre. Mia madre non riusciva ad andare avanti da sola con due bambini, così mi mandò in montagna, a Resende, dai nonni. Mio nonno aveva un grande frutteto nelle montagne che si chiamano Aghi Neri, a 3.500 metri, le più alte del Brasile, tra Rio e San Paolo, colonizzate dai finlandesi. Insieme a loro, biondi e alti, si erano mimetizzati anche i nazisti. Avevo dodici anni e ho vissuto lì tre anni. Per me è stata una cosa incredibile. Mio nonno soffriva di nevralgia del trigemino e urlava per il dolore tutta la notte, aveva un’arma, urlava e diceva: “Questa notte mi sparo”. Alle nove e mezza si spegneva la luce a gas, era buio, lui urlava e io non potevo dormire. La nonna dormiva con me: aspettavo che si addormentasse, poi mi mettevo sotto le coperte, accendevo la mia torcia elettrica e leggevo. La mia salvezza sono stati i libri. Ogni mese mia madre mi mandava con il pullman una scatola di libri. Sono stato molto fortunato, in fondo. mi leggeva brani di Moby Dick, pièce teatrali di Tennesse Williams, con tutte quelle crisi coniugali, le poesie di Frost... Era il ’66, ’67 e in quegli anni una casa editrice di Rio ha ripubblicato tutti i grandi classici in edizione tascabile, tipo Bur. Così ho letto tutte quelle cose che se non leggi in quella fase della vita poi rischi di non leggere mai più: le tragedie greche, Euripide, Eschilo, Sofocle, poi Shakespeare. Divoravo di tutto, tutta la psicanalisi, Freud, Jung, Adler, Reich, fondamentali dopo, perché la narrativa ha tutta un’altra profondità se conosci bene i meccanismi dell’inconscio individuale e collettivo, e poi i filosofi, Schopenhauer, Kant, che sono cose anche molto noiose, ma nessuno me l’aveva detto e allora mi sembravano interessanti, mi piacevano per ignoranza. Con i libri mamma mi mandava anche i 45 giri di musica brasiliana di protesta: Chico Buarque de Hollanda, Milton Nacimiento, che erano molto giovani, e mi ricordo che mi piaceva tantissimo anche “Sitting on the dock of the bay”, l’ho forato da tanto ascoltare. Vorrei raccontare ancora una cosa di quegli anni, perché la vita fa tanti giri davvero strani. Ero andato a vivere con la nonna in una casa a Resende città per stare vicini al nonno che era stato ricoverato in ospedale. Era il periodo delle rivolte dei neri negli Stati Uniti. Mi avevano colpito molto; soprattutto mi aveva colpito la poesia di un autore che mia madre mi aveva mandato e che era stato appena tradotto, LeRoy Jones. Ispirato da lui, ho scritto la mia prima poesia. Si intitolava “Protesto”. Ero ingenuo, avevo 13 anni, ma era una poesia sociale. E guarda la vita: tre anni fa sono stato invitato a Pistoia a un festival di poesia internazionale. Lo stesso giorno in cui dovevo intervenire io c’erano molti poeti americani. Uno si chiamava Amiri Baraka, forse il più grande poeta nero americano vivente. E sai chi era? LeRoy Jones! Aveva fatto come Cassius Clay, si era cambiato nome. Siamo andati a bere una birra e gli ho raccontato la storia e lui rideva come un matto. Eravamo tutti e due in Italia, quasi 50 anni dopo, entrambi con nomi diversi -perché io ho abbandonato Cesar, ero Julio Cesar una voltainsieme a leggere le nostre poesie. Quando poi sei tornato a Rio e hai scritto i tuoi primi romanzi, eri tra i giovani scrittori del cosiddetto nuovissimo racconto brasiliano. Perché “nuovissimo”? Quando avevo 15 anni mia madre era in una situazione migliore, così ho potuto tornare a vivere a Niteroi, vicino a Rio, e ho cominciato scrivere seriamente. Nel ’76 ho pubblicato due racconti in un’antologia di giovani scrittori resistenti alla dittatura. Ha avuto un grande successo, perché nessuno credeva che i giovanissimi potessero avere il coraggio di affrontare la censura della dittatura. Quelli più grandi di noi, sui 25-30 anni, erano stati tagliati a metà dalla dittatura, noi eravamo la prima apparizione di una nuova generazione cresciuta dentro la dittatura, per questo quello che scrivevamo fu chiamato il “nuovissimo” racconto brasiliano. Di quell’antologia furono vendute più di 35.000 copie, anche nelle edicole, e fu un fenomeno politico più che letterario. La narrativa come arma di resistenza? Erano racconti impregnati di ironia contro l’oppressione. Gli scrittori in fondo erano più liberi. Le altre arti erano molto più sorvegliate, i cantautori erano tutti in esilio, il teatro non si poteva fare, la polizia irrompeva nelle rappresentazioni, film men che meno, gli scrittori della generazione precedente alla mia erano allo sbando totale, la mia ha preso le redini. Non bisogna dimenticare che la dittatura brasiliana è durata dal ’64 all’83. Non è stata così violenta come in Cile o in Argentina, ma molto lunga, un ventennio, come il vostro ventennio fascista, o berlusconiano. I militari erano meno attenti a quello che veniva scritto e letto perché sapevano, e dal loro punto di vista avevano anche ragione, che il popolo non leggeva così tanto, non era come una telenovela o un film o una canzone, era meno rischioso. Però non si poteva una città 27 stampare nelle case editrici perché, come nei giornali, c’era un militare negli uffici, di solito capitani o maggiori; avevano proprio una loro scrivania lì. Mi ricordo della casa editrice, la Civilização brasileira, dove ho pubblicato, più avanti, A oeste de nada; era di sinistra e diretta da un grande editore, Ènio Silveira, militante del partito comunista, e lui ha raccontato in diverse interviste i rapporti con il militare embedded, uno che stava lì otto, dieci ore al giorno e alla fine magari ci diventavi anche quasi amico, ci andavi a bere il caffè. Comunque, non potendo pubblicare con gli editori, usavamo il ciclostile; ancora oggi ho le narici impregnate di quell’odore di alcol... Poi spillavamo e andavamo a vendere o regalare nei bar, nei ristoranti, all’uscita dei teatri, dei cinema, all’università. Fu un periodo eroico. La letteratura brasiliana di resistenza fu fatta da dei ragazzini di diciotto anni, come in tante rivoluzioni, a partire da quella francese, o, come tu sai bene, quella nicaraguense. Sai come ci chiamavano? Ratas pelosas, i topi pelosi. Dicevano che c’era stato un esperimento: avevano rinchiuso cuccioli di topi in un frigorifero e quando dopo un bel po’ lo avevano aperto li avevano trovati vivi e in forma, con dei peli lunghi per combattere il freddo. La dittatura era il frigo e noi, come i topi, per resistere avevamo messo i peli e invece di essere arrabbiati o depressi, eravamo ironici; la nostra era una letteratura allegra, gioiosa, veniva letta con molto piacere perché colpiva facendo ridere. E com’è che poi sei finito negli Stati Uniti? All’università dello Iowa c’era, e c’è tuttora, il più importante International writing program per scrittori famosi ed emergenti di tutto il mondo, un programma di scambio culturale e intellettuale che dura tre, quattro mesi. avevano rinchiuso cuccioli di topi in un frigorifero e quando lo avevano aperto li avevano trovati vivi e in forma Lì c’era, e c’è ancora, anche il miglior laboratorio di scrittura per giovani americani. Avevo 23 anni quando mi invitarono, ero troppo giovane per vivere con cinesi o tedeschi di 60 anni, la mia ragazza era una degli studenti del laboratorio e attraverso di lei ho fatto amicizia con i miei coetanei. Era un periodo meraviglioso. Pensa che i professori erano Raymond Carver, Joyce Carol Oates, Kurt Vonnegut, Vassili Vassilikos, le basi del laboratorio erano state date da Flannery O’ Connor. Era una squadra straordinaria, così io stavo sempre con loro. È lì che ho imparato le tecniche per insegnare scrittura creativa. Dopo tre mesi, quando sarebbe finito l’invito dell’università, la sorella della mia ragazza, che studiava al Goddard College nel Vermont (una scuola d’avanguardia dove gli studenti sceglievano loro stessi le materie dell’anno successivo e la scuola doveva poi trovare i professori), mi disse che cercavano due professori, uno per scrittura creativa e uno per la politica del sud del mondo. Io soddisfacevo entrambe le richieste. Ho fatto i colloqui, mi hanno preso e ho inse- 28 una città gnato lì per tre anni. Il mio primo laboratorio di scrittura fu quindi in inglese. Poi sei tornato in Brasile. In Brasile, ho aperto una mia casa editrice e ho anche insegnato alla Oficina Literaria, la prima scuola di scrittura creativa in Brasile, poi all’Università Pontificia, in seguito in Portogallo e nel ’95 sono arrivato in Italia, a Lucca, per amore. A Lucca ho fatto il mio primo corso di scrittura creativa, ma non è stato facile, c’era molta diffidenza e c’è ancora oggi, a meno che tu non sia una star del sistema letterario. Ricordo il mio amico Pietro Pedace, che aveva studiato negli Stati Uniti -è morto giovanissimoe che aveva cercato di portare in Italia queste tecniche, lui ha sofferto anche più di me. Perché, secondo me, si parte da un equivoco iniziale: la scuola di scrittura non insegna a scrivere, la scuola ti libera. Inoltre, la mia generazione è stata l’ultima ad avere una comunità letteraria, i bar, i caffè, le università, luoghi di incontro, poi, a partire dalla fine degli anni Settanta (ne parla anche un libro molto bello di Richard Sennet, Il declino dell’uomo pubblico) c’è stata una privatizzazione totale della vita, ognuno nel suo buchino, nel suo alveare, oggi con internet ancora di più. Secondo me questi piccoli gruppi in cui si scrive, si legge e ci si legge, si discute la scrittura di ognuno, ci si incontra con scrittori più navigati, servono anche a ricostituire un ambiente di convivenza, di scambio intellettuale. Poi c’è un’altra cosa: abbiamo un retaggio del periodo romantico, da sturm und drang tedesco, secondo cui il vero scrittore è un genio, quello che le muse hanno toccato, quello che va nelle montagne per essere colpito dall’ispirazione. Una volta chiesero a Flannery O’ Connor se secondo lei per scrivere bisognasse avere una vita alla Hemingway, spericolata, con guerre, avventure. Lei diede una risposta famosa: “Se uno è riuscito a sopravvivere all’infanzia, può scrivere qualunque cosa”. Io penso che ogni persona abbia un carico immenso di esperienze interne ed esterne, di cui può anche non fare niente, ma se trova i canali giusti per trasferire questa carica dall’inconscio al linguaggio esterno, alla scrittura, può illuminare angoli della natura e del genere umano che sono ancora immersi nell’ombra. Per fare questo non è necessario essere il genio eletto. Lo scrittore è sostanzialmente chi è innamorato dell’uomo, del genere umano, soprattutto dei difetti, del nero dell’uomo, perché ama l’uomo e quindi tutto quello che da lui viene. Adesso insegni all’Università di Pisa e scrivi racconti, romanzi e poesie in italiano. Sei uno scrittore migrante o un migrante scrittore? Sono lettore di portoghese equiparato a docente, insegno anche cultura e letteratura portoghese. Diceva Ortega y Grasset: “L’uomo è l’uomo e le sue circostanze”; è quello che accade intorno a lui, i fenomeni storici che lo spingono o gli mettono i bastoni tra le ruote. Sto qui da vent’anni e sono arrivato proprio in un momento in cui gli italiani cominciavano a vedere che l’Italia, da paese di emigrazione, era diventato un paese di immigrazione. Gli italiani erano spa- storie ventatissimi, troppi lo sono ancora. In questo periodo, per le ragioni più diverse, sono arrivati anche scrittori da tutto il mondo ed è nata la letteratura della migrazione, un’etichetta più o meno corretta, ma per capire di cosa stiamo parlando: è la letteratura postcoloniale di un paese che non ha praticamente avuto colonie, a parte i pochi somali. In Francia ci sono i maghrebini; in Inghilterra gli indiani, i pakistani, gli scrittori dell’impero; the empire writes back, come dicono loro, parafrasando the empire strikes back, l’impero colpisce ancora; in Germania, anche loro con poche colonie, ci sono turchi, curdi, qualche balcanico, qualche russo e basta. c’è De Vos, olandese, Barbara Pumhosel, austriaca, Brenda Porster, di New York, Kuruvilla e Wadia, indiane... In Spagna e Portogallo ci sono i sudamericani, che non hanno nemmeno dovuto cambiare lingua. In Italia invece (e voglio sfatare un preconcetto così frequente anche tra chi guarda con simpatia agli scrittori stranieri e cioè che siano dei poveracci che vengono dai paesi poveri, miserrimi o in guerra) la letteratura della migrazione è fatta da scrittori di tutto il mondo, sud, nord, est e ovest. Ci sono più di 80 paesi, quasi non c’è un paese del mondo che non abbia un scrittore qui. C’è De Vos, olandese, grande poeta, Barbara Pumhosel, austriaca, Brenda Porster, che è di New York, la Kuruvilla e la Wadia, indiane, Božidar Stanišić, bosniaco, solo per fare qualche nome. Insieme a loro anche algerini, argentini, messicani, cinesi, senegalesi, albanesi, Dicono che oggi la scrittura albanese in lingua italiana sia più forte di quella scritta in albanese. L’Italia è il grande laboratorio della scrittura del XXI secolo, fenomeno ampiamente studiato all’estero. Gli italiani invece non se ne accorgono. Non c’è un trafiletto sulla morte di uno scrittore migrante. Egidio Molinas Leiva, paraguayano, è stato messo in una fossa comune con un numero, poi Mia Lecomte è riuscita a dargli una tomba. L’Italia non ha ancora scoperto questo tesoro. Ma per rispondere alla tua domanda, ci sono gli “scrittori migranti”, quelli che scrivevano già nel proprio paese d’origine, e sono venuti in Italia per le motivazioni più diverse, e io faccio parte di questa categoria, poi ci sono i “migranti scrittori”, quelli che pure hanno migrato per le ragioni più diverse, guerre, povertà estrema, fame, hanno subìto soprusi e poi hanno cominciato a scrivere, generalmente testimonianze. Due fenomeni simultanei, ed è così che è nata questa letteratura stranissima, forte, numerosa. Alla banca dati Basili della Sapienza di Roma ci sono 600 scrittori migranti, una cifra altissima. Scrittori migranti o migranti scrittori arrivati con l’originalità delle loro esperienze letterarie, delle tradizioni dei loro paesi, con l’echeggiare di ritmi lontani e con uno spessore umano, esistenziale potente, perché hanno sofferto. Vengono da dittature militari, da paesi dove il totalitarismo religioso gli impedisce di esprimersi e soprattutto vengono tutti dalla dis- Copacabana, Rio, 1965, la famiglia attorno al bisnonno Antonio Fernandes Dantas. Julio Monteiro è il ragazzino seduto con la giacca a tre bottoni. sociazione psicologica terribile che è l’emigrazione stessa, quello che io ho chiamato suicidio amministrato, autogestito: uccidersi per darsi l’opportunità di rinascere diverso altrove. Per questo motivo, oltretutto, gli scrittori migranti non hanno, o hanno molto poco, la questione Italia come priorità; la loro scrittura nasce dalla frattura dell’emigrazione, è una scrittura più esistenziale che politica, legata alla dissociazione dell’essere, al non avere più un’identità nitida. Com’è il rapporto con l’establishment letterario italiano? Due linee parallele che non si incontrano, perché fin dall’inizio si sono creati due mondi di cui l’uno ignora l’altro. Ci sono tanti critici ormai che scrivono solo di scrittori migranti e altri che scrivono solo di italiani. Sono due letterature contemporanee sullo stesso paese, su personaggi italiani, in lingua italiana, e sono completamente dissociate. Non c’è nessuno che dica, forse solo Mia Lecomte, che questa è la letteratura contemporanea italiana. Ma anche all’estero è così. Sono stato recentemente invitato a Princeton dal Dipartimento che studia la letteratura italiana della migrazione e hanno partecipato solo quelli che studiano il “settore” e gli studenti. Gli scrittori italiani o i professori italiani doc che insegnano lì non si sono visti. Per usare un pensiero di Gramsci, ci sono certi momenti nella storia molto particolari in cui il vecchio non riesce veramente a morire e il nuovo non riesce veramente a nascere e questi sono momenti di grande travaglio, ma anche di grande creatività. Vedo poi nel mondo letterario italiano una rinuncia alla verità. Non si dice e non si scrive, o non si dice e non si scrive abbastanza, che il berlusconismo, il patrimonialismo berlusconiano, come lo chiama Ginsborg, è entrato in tutti: se vai nel sito della Mondadori e guardi un po’ chi ci lavora, chi prende il denaro, tra autori, collaboratori, consulenti, ci sono, in un modo o nell’altro, tutti o quasi tutti gli intellettuali di sinistra. Un clientelismo così esteso e generalizzato non può avere una letteratura impegnata. Che cosa è “Sagarana”? Sagarana è il titolo di un libro di racconti di Guimaraes Rosa. “Sagarana” è una parola inventata da lui che mette insieme saga come saga in italiano, lunga storia, e rana, suffisso tupi degli indios della costa brasiliana che vuol dire una quantità immensa. Quindi “Sagarana” è un’infinità di storie, una storia senza fine. Una parola che mi piace anche perché ha sempre la “a”, ma legata a consonanti diverse, una continuità nella diversità. una casa editrice rumena di Milano che pubblica un libro di un brasiliano che sarà letto da camerunensi, iracheni... “Sagarana” è un’istituzione che fa diverse azioni legate alla letteratura: per nove anni abbiamo fatto a Lucca il convegno degli scrittori migranti; era una scuola di scrittura ma, dopo che è nata mia figlia, ora è solo laboratorio di narrativa ed è, dal 1999, una rivista trimestrale online di letteratura mondiale, una cosa pioniera in Italia, che sta dando niente soldi, ma molte soddisfazioni. È letta in media da 500-600 utenti nuovi al giorno. Tutti i numeri vecchi sono sempre online, per esempio ti puoi rileggere, che so, un articolo di Gore Vidal sul funerale di Calvino del 2001, un patrimonio enorme, con quasi 5.000 testi. Lavoro con un gruppo dove ci sono Mia Lecomte, Andrea Sirotti, Pina Piccolo e tanti altri, molti giovani, tutta gente che cerca e mi segnala cose in Italia e nel mondo, tutte persone disponibilissime che amano questo mondo. Tra poco uscirà un tuo libro di poesie in italiano pubblicato da una casa editrice di Milano creata da scrittori rumeni. Sì, sono poesie scritte in un arco di sedici anni. Si intitola La grazia di casa mia e già dal titolo si capisce che tocca spesso il trauma della migrazione, per questo ha trovato subito accoglienza in un gruppo di scrittori rumeni che hanno creato la casa editrice Rediviva e che hanno cominciato pubblicando scrittori rumeni e moldavi che scrivono in italiano. Nel corpo editoriale c’è anche Karim Metref, algerino e questo mio libro è il primo di uno scrittore che viene da una parte del mondo totalmente diversa. C’è un grande significato simbolico in tutto ciò: gli scrittori che hanno migrato scavalcano il sistema italiano. C’è stata una progressione: nei primi anni gli stranieri scrivevano quasi sempre testimonianze con un giornalista italiano il cui nome era stampato più grande; poi, verso la metà degli anni Novanta, scrittori che scrivevano in italiano pubblicati da italiani, ora un altro passo in avanti, scrivono in italiano ma pubblicano con altri stranieri. Lo trovo molto bello. Una casa editrice rumena a Milano pubblica un libro di un brasiliano che sarà letto da camerunensi o da iracheni, da senegalesi o anche da italiani, speriamo... (a cura di Francesca Caminoli) una città 29 ricordarsi UN PENSATORE LIBERO Ezio Tarantelli, un gran lavoratore, un educatore che sapeva combinare gioco, inventiva e disciplina; il protocollo Lama-Agnelli del ‘75 sulla scala mobile e la sua previsione sul pericolo di inflazione; il duello fra Craxi, Berlinguer e la Cgil e la decisione delle Brigate Rosse di inserirsi in quel clima di scontro; un uomo ponte fra varie istituzioni. Intervista a Luca Tarantelli. Luca Tarantelli aveva compiuto da pochi giorni 13 anni quando il 27 marzo 1985 perse suo papà Ezio, vittima delle Brigate Rosse. Ezio Tarantelli era un brillante economista del lavoro, insegnava alla Facoltà di Economia de “La Sapienza” di Roma; era inoltre influente consigliere dell’allora Governatore della Banca di Italia, Carlo Azeglio Ciampi, che ha dato la prefazione al libro Il sogno che uccise mio padre. Storia di Ezio Tarantelli che voleva lavoro per tutti (Rizzoli, 2013). È il racconto e la storia di un uomo e di un padre, intervallato da alcuni frammenti biografici. Luca, quarantenne, laureato in Storia Contemporanea alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, è autore del documentario del 2010 sulla figura di Ezio Tarantelli, “La forza delle idee”. Vorrei partire da te, quando avevi 13 anni, e i ricordi che hai di tuo padre; chi era Ezio per il figlio Luca? Partiamo da una premessa: il giorno in cui è morto mio padre ho avuto un processo di rimozione. La prima cosa che ho pensato quando mia madre mi ha detto che mio padre era morto è stata: “Le nostre vite devono andare avanti”. Per sopravvivere ho dovuto rimuovere e allontanare il dolore e il lutto e questo deve aver provocato un sistema di repressione anche delle sensazioni e delle emozioni del presente. Negli anni successivi quasi non mi ricordavo il suo volto, la sua voce. Ho affrontato però col tempo questo processo di rimozione, anche mettendomi di fronte alla figura pubblica di Ezio Tarantelli: mio papà era una persona impegnata, che lavorava tantissimo, estremamente appassionata del suo lavoro, un educatore che sapeva combinare il gioco, l’inventiva anche con la disciplina. penso anche al ferimento di Gino Giugni, vittima di un agguato brigatista due anni prima dell’uccisione di mio padre Questo suo tratto del carattere l’ho visto anche da come si comportava con me, per esempio quando dovevo fare i compiti, nel modo con cui cercava di spronarmi a migliorare. Nel poco tempo che ho avuto modo di conoscerlo, ricordo che, nonostante i suoi numerosi impegni, lui c’era: quando giocavamo a pallone o passeggiavamo al mare a Sabaudia, o insieme nel bosco; in quelle occasioni discuteva con me. Quando 30 una città c’era, era una presenza forte per la mia crescita. Cosa ha significato per te andare alla ricerca di scritti e testimonianze di persone che lo hanno visto da vicino, anche dal punto di vista professionale? Compiendo questa ricerca, ho pensato di restituire giustizia alla sua figura. Per ricordarlo pensavo fosse importante riportarlo a 360 gradi, come intellettuale e come persona. Non volevo quindi fare solo un racconto intimo e personale, ma lo volevo inserire all’interno di una narrazione storica, in quanto Ezio Tarantelli ha fatto parte della storia di questo paese. Ritenevo, quindi, fosse importante soffermarsi sulla sua figura pubblica, inserita nel contesto della sua epoca, e non limitarmi al solo racconto personalistico e intimo. Perché, a tuo parere, l’opera svolta da Ezio Tarantelli non è stata elaborata compiutamente da chi, allora, era al vertice delle istituzioni? Il decreto di San Valentino del 14 febbraio 1984 sul taglio dei punti di contingenza di scala mobile, varato dal Governo Craxi, frutto parziale dell’elaborazione di tuo padre, e la successiva mobilitazione della Cgil ha rappresentato uno spartiacque, anche nel creare una situazione di “pericolo” nei suoi confronti? Questa domanda ha due risposte diverse per me: bisogna capire cosa è successo nel sistema delle relazioni industriali a partire soprattutto dalla questione della scala mobile. L’unificazione del punto unico di contingenza, stabilito dal protocollo Lama-Agnelli dal 1975, ha finito per assumere un fortissimo valore simbolico di conquista per il movimento operaio. Mio papà e il suo maestro Franco Modigliani si resero subito conto che il meccanismo inaugurato con il protocollo sulla scala mobile avrebbe provocato un’inflazione crescente pesando sulle possibilità di crescita e occupazione del Paese. L’idea che escogitò, quella della predeterminazione degli scatti di scala mobile, non intaccava la scala mobile, ma cercava di riformare il meccanismo di indicizzazione automatica dei salari. In secondo luogo ha pesato il clima politico di allora, intendo la situazione politica dopo la solidarietà nazionale del 1978, anno del sequestro Moro, rispetto all’elaborazione che Tarantelli aveva dato di un tema di scottante attualità allora, come appunto la riforma della scala mobile. Infatti, proprio questo tema è al centro del duello tra i due leader della sinistra italiana, Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer, che porterà alla spaccatura all’interno del mondo sindacale a seguito del Protocollo di San Valentino. Tutto ciò ha esacerbato lo scontro. Come ha detto Antonio Lettieri, segretario confederale della Cgil in quel periodo: gli anni Ottanta erano un mare in tempesta. Ezio Tarantelli, come intellettuale dialogante, ha fatto le sue proposte e ha cercato di portarle avanti, credendo nella forza delle sue idee e cercando di discutere con studenti, colleghi, fino agli uomini di varie istituzioni. Voglio dire che quel clima politico non ha di per sé portato alla sua morte; sono state le Brigate Rosse stesse a inserirsi in quella controversia, con i loro strumenti e con la loro logica di morte, sostituendo la violenza al pensiero (penso anche al ferimento di Gino Giugni, vittima di un agguato brigatista due anni prima dell’uccisione di mio padre, nel maggio del 1983). Hanno non solo ucciso una persona, ma anche soffocato lo stesso dibattito. Secondo te, il suo pensiero in campo economico, politico, sociale e, in generale, culturale, è ancora attuale? E come potrebbe essere declinato in un’Italia del 2013 che sta vivendo un periodo di crisi economica particolarmente acuta? Penso all’attualità del suo approccio al tema concertazione. Un metodo che vede sedersi allo stesso tavolo Governo, sindacati e Confindustria che lavorano per arrivare a un accordo per risolvere i principali problemi del Paese. Certo l’Italia di oggi è un paese molto diverso: società, politica e tecnologia sono cambiate, e non sappiamo immaginare quali soluzioni innovative un intellettuale creativo e dialogante come mio padre avrebbe potuto portare. Idee come quelle della predeterminazione della scala mobile erano il frutto di una significativa elaborazione progettuale compiuta in anni di studi e di confronto con diversi intellettuali. Infatti, cercava di raffinare le sue idee in maniera completa: erano idee nate in un determinato contesto per risolvere i problemi specifici di quel contesto. “E che cos’altro faceva Tarantelli se non prospettare una civiltà possibile contro le strettoie del presente?” Ma mio padre ha fatto molto altro: per esempio, ha anche sviluppato un modello econometrico del mercato del lavoro per dare al sindacato uno strumento di conoscenza che pochi istituti possedevano allora in Italia. Un collega di mio padre, Guido Rey, una volta mi ha detto che Ezio Tarantelli riusciva a vedere dai numeri e dalle proiezioni econometriche dei dati che altri non riuscivano a vedere, come un “mago”. I suoi studi e la sua curiosità verso altre scienze, come la sociologia, lo portavano a dare interpretazioni originali di questi dati; quindi fuori dagli schemi. Un approccio, quindi, originale. Non sapremmo oggi che cosa si sarebbe inventato e con quale soluzione sarebbe uscito fuori. Ti pongo una domanda più ostica: nel lavoro che hai compiuto hai intravisto dei limiti, o comunque dei punti deboli, all’operato di tuo padre? Penso, in questo, alla critica mossagli dall’economista e maestro Federico Caffè di fronte a un’eccessiva esposizione pubblica e all’idea che comunque un intellettuale debba seminare dubbi più che certezze. Caffè, dopo l’omicidio, disse: “L’utopia non è altro che l’affermazione di una civiltà possibile Funerali di Ezio Tarantelli contro le strettoie del presente. E che cos’altro faceva Tarantelli se non prospettare una civiltà possibile contro le strettoie del presente?”. Mi è rimasta impressa questa affermazione. In quel periodo mio padre era una persona che aveva una forte convinzione nei propri mezzi e nelle proprie idee: era una sorta di rullo compressore, con cui portava avanti le sue posizioni con convinzione e onestà. Il suo era un approccio orientato all’azione. Voleva incidere anche in fretta, era in continuo movimento; e ciò potrebbe essere stato un limite. Il suo non volere essere organico a nessuno, ma essere uomo ponte tra varie istituzioni, era un tratto significativo della sua personalità. Lavorava in Banca d’Italia in qualità di consulente, ma anche per la Cisl di Carniti, per la quale ha fondato un istituto di ricerca (Isel), mentre continuava a insegnare nell’Università. Voleva essere un pensatore libero. Non so se in un paese di guelfi e ghibellini possa essere stato spiazzante questo suo modus operandi e, quindi, possa essere stato visto come un limite. In conclusione, cosa ti aspetti dall’uscita del libro? Mi auguro che il libro contribuisca a far rivalutare e conoscere Tarantelli al grande pubblico e contribuire a una riflessione su quegli anni. Una riflessione pacata, oltre che documentata. Una riflessione su ciò che hanno significato quegli anni, in modo tale da poter contribuire a far riflettere sul valore di mio papà come intellettuale sui generis. (a cura di Alberto Mattei) una città 31 storie LA GROTTA DI PAROS Due persone, Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel, suora di clausura nel Connecticut, che hanno conosciuto entrambe l’esilio, segnate dalle vicende della storia, entrambe “isolate” anche se per scelte diverse, ma appassionate del mondo e dell’uomo, si incontrano e insieme ricercano la verità, scrivendosi, per anni, tre volte alla settimana... Di Cesare Panizza. Pubblichiamo una parte di A marriage of true minds: Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel, l’introduzione di Cesare Panizza a Fra me e te la verità, volume che raccoglie 103 lettere di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel, scelte a suo tempo dalla stessa Melanie insieme a Miriam Chiaromonte. Il volume, che si conclude con un saggio di Wojciech Karpinski, è edito da Una città. Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel intrecciarono le loro vite nel 1957, poco prima che quest’ultima, con il nome di Sister Jerome, si ritirasse nel convento di Regina Laudis, presso Bethlehem, piccola località della contea di Litchfield, in un angolo del Connecticut nord-occidentale. Il loro primo incontro avvenne a Roma, dove Melanie era in visita alla sorella minore, Ludovica, per un ultimo soggiorno in Italia prima del suo ingresso come novizia nell’ordine benedettino. Fu proprio Ludovica -segretaria editoriale fra il 1946 e il 1948 all’Einaudi di Roma e di Milano, dove ebbe modo di stringere amicizia con vari einaudiania fornirne l’occasione. La più giovane delle tre sorelle von Nagel -oltre a Ludovica, nata nel 1918, Melanie aveva un’altra sorella, Alexandra, nata nel 1913- era infatti una buona amica di Nicola Chiaromonte e di sua moglie Miriam: ne frequentava regolarmente la casa di via Adda a Roma -viveva peraltro a pochi isolati di distanza- e aveva con loro in comune varie conoscenze e amicizie. Così come regolari erano gli scambi epistolari fra loro, quando la lontananza veniva a interrompere quella consuetudine: ne fanno fede le lettere di Chiaromonte conservate da Ludovica von Nagel dove questi mostrava di seguirne premurosamente l’attività di traduttrice, aiutandola per quanto poteva con consigli e indicazioni. [...] Chiaromonte e Melanie von Nagel vissero dunque simultaneamente -ancorché per pochi annisenza conoscersi, nella stessa città, nella New York dell’immediato dopoguerra, dove erano giunti entrambi, per ragioni e in momenti differenti, con la speranza di ricomporvi un’esistenza lacerata dalle traversie vissute durante la guerra. Era un primo punto di incontro fra percorsi biografici in verità molto diversi, per contesti sociali e precedenti esperienze di vita. Per farsene un’idea, basti pensare alle rispettive origini familiari; al fatto che Melanie von Nagel, per parte di padre, apparteneva all’aristocrazia bavarese, mentre Chiaromonte proveniva da una famiglia certo non di estrazione popolare il padre, Rocco, era medico chirurgo- ma tut- 32 una città t’altro che di condizione “agiata”, e che per consolidare la propria condizione sociale aveva affrontato l’esperienza della migrazione interna. I Chiaromonte, infatti, originari del potentino, si erano trasferiti dalla campagna lucana alla capitale, dove Nicola aveva trascorso tutta la sua giovinezza, pur rimanendo legatissimo nel ricordo alla terra natale. Non sarebbe però neppure soddisfacente affermare semplicisticamente che la loro affinità risiedesse nell’essere stati entrambi gravemente offesi negli affetti più cari dalla Storia. «non ho mai osato chiederlo, ma so per certo, da un suo amico, che ha dovuto scavarle lui stesso la fossa», scrisse Mary McCarthy Le sorelle von Nagel furono infatti private ancora nell’infanzia del padre, il generale maggiore Karl Freiherr von Nagel zu Aichberg, comandante del primo reggimento della cavalleria pesante bavarese, ucciso il primo maggio 1919, nei combattimenti che a Monaco posero fine alla breve esperienza della Repubblica dei Consigli. Un dolore a cui, nel caso di Melanie, si aggiunse successivamente quello per la morte naturale -per una cardiopatia- ma precoce, del marito, nel 1949, alla cui travagliata malattia non fu forse estranea la nostalgia per la terra d’origine. Una vicenda, questa, che può ricordare quella ben più drammatica vissuta da Chiaromonte in occasione della morte della prima moglie, la pittrice Annie Pohl. Minata nel fisico dalla tubercolosi, la pittrice e scenografa, di nazionalità austriaca e di origine ebraica, non resistette alla fuga precipitosa verso il sud della Francia cui la coppia fu costretta al momento dell’invasione tedesca del giugno 1940. Un dolore straziante -«non ho mai osato chiederglielo, ma so per certo, da un suo amico, che ha dovuto scavarle lui stesso la fossa», scrisse Mary McCarthy- che si andava sommando a quelli procurati dall’esilio. Esperienze dunque traumatiche purtroppo, però certo non così infrequenti per la loro generazione. La loro affinità stava semmai su un piano più profondo, come sembra emergere dalle lettere che qui pubblichiamo, nelle forme in cui avevano rielaborato quelle esperienze: entrambi per dirla con Chiaromonte- erano stati duramente messi alla prova dalla vita e avevano appreso l’insegnamento a vivere per il senso delle cose e non per la loro apparenza, giacché «solo ciò che dura vale la pena di essere perseguito e rispettato». Da tante traversie era derivato poi a entrambi anche uno spirito fortemente cosmo- Suor Jerome (Melanie von Nagel) intenta a colorare le lane. La scrivania di via Ofanto. Chiaromonte e nessuna invece di quelle scritte da Melanie von Nagel- fanno pensare che quell’incontro sia stato per tutti e due straordinariamente coinvolgente. In esso si strinse un vincolo reciproco fortissimo, un desiderio prepotente di condivisione intellettuale e umana nel rispetto assoluto della situazione molto particolare di entrambi- esteso nei suoi aspetti affettivi anche a Miriam Chiaromonte. un luogo in cui comunicare certi di essere compresi, al riparo dallo scorrere del tempo e dalla volgarità del mondo Si trattò di una conversazione ininterrotta -nonostante la lontananza, ma che di quella lontananza si sarebbe in fondo alimentata-, di un vero e proprio «marriage of true minds» come la definì lo stesso Chiaromonte citando un sonetto di Shakespeare. Possiamo immaginare che entrambi si siano sentiti legati da un’affinità elettiva, solo ora pienamente confessabile l’uno all’altro -con il chiostro e l’età in fondo a difesa dalla forza di quel sentimento-, dalla subitanea consapevolezza di aver trovato l’uno nell’altro -in un altro Fausto Fabbri polita, nutrito da un’inestinguibile curiosità intellettuale. In Melanie von Nagel quasi naturalmente, per effetto del carattere transnazionale della sua famiglia -conosceva e parlava cinque lingue (inglese, tedesco, francese, italiano e russo)- e dell’aver risieduto fin dall’infanzia in paesi diversi, fra cui e a lungo in Italia: aveva trascorso gran parte della giovinezza in Toscana, dove le sorelle von Nagel vivevano in località Castello, vicino Firenze, in una villa signorile lungo lo stradone per Sesto Fiorentino; in Chiaromonte, invece, come adattamento a quella sensazione di sradicamento che sempre lo accompagnava, l’impressione di essere ovunque -anche una volta ritornato a Roma- “fuori luogo” e “senza patria”, dovuta a un vissuto così tragicamente segnato da un duplice esilio, dall’Italia e poi dall’Europa. È così probabile che nel 1957, quando le forti passioni che le divisioni politiche e culturali di quegli anni avevano suscitato in lui durante la giovinezza si erano ormai stemperate, Chiaromonte abbia riconosciuto nell’accidentato percorso di Melanie von Nagel -pur così differente dal suo- il segno di uno stesso destino. Quell’incontro, ancora “mondano”, non cioè come i successivi al riparo del chiostro, lasciò in entrambi una profonda impressione e forse un certo turbamento emotivo, ma almeno per il momento non diede luogo a quell’assiduità epistolare che caratterizzerà invece i loro successivi rapporti a distanza. Stando alla contabilità della stessa Melanie von Nagel, infatti, dal 1957 al 1966, Chiaromonte le inviò appena 38 lettere, mentre stimava di averne ricevute dal 1967 al gennaio del 1972 più di 600, per una media di 120-125 lettere all’anno, più o meno cioè una ogni tre giorni! E probabilmente altrettante furono quelle spedite da Melanie -come suggerisce la struttura appunto dialogica delle lettere che qui pubblichiamo e un esplicito accenno di Chiaromonte- il che presuppone l’abitudine a rispondere alle lettere dell’altro immediatamente, senza lasciar passare nemmeno un giorno, per non interrompere la bramata «conversatio». Un ritmo più serrato è difficilmente immaginabile. A dare l’abbrivio a questo dialogo epistolare pressoché quotidiano fu un nuovo incontro -o forse più probabilmente una serie di incontriavvenuto appunto alla fine del 1966, quando Chiaromonte, insieme alla moglie Miriam, trascorse un lungo periodo di lavoro negli Stati Uniti. Aveva infatti accettato l’invito rivoltogli dall’Università di Princeton -distante poco più di 250 chilometri dal Regina Laudis- a tenere una serie di conferenze sul rapporto fra l’individuo e la storia per le annuali e prestigiose Christian Gauss Lectures. Ne nacque The paradox of history, l’unico libro non antologico di Chiaromonte (sebbene sia anch’esso in parte un montaggio di testi precedenti), che nella successiva versione italiana avrebbe avuto per titolo Credere e non credere. Tutti gli indizi contenuti nel carteggio -per quanto chi scrive, come il lettore, non abbia potuto leggere che una selezione delle lettere di così estraneo socialmente, e così diverso culturalmente e per scelte di vita- uno spirito in grado di offrire la possibilità di una condivisione totale. E quindi con cui in prospettiva costruire un luogo in cui comunicare nella certezza di essere compresi, al riparo dallo scorrere del tempo e dalla volgarità del mondo. Questo luogo è quel giardino immaginato da Melanie per Nicola o quella grotta di Paros così spesso evocati da Chiaromonte nelle sue lettere, un luogo dell’anima, l’unico in cui potesse darsi un dialogo che si voleva sospeso nello spazio e nel tempo, dove si potesse manifestare liberamente il logos che vivificava la loro relazione. «Tu mi dici tante cose, e così “giuste” di te e di noi - e mi parli, di quest’“opera comune” che dovrebbe compiersi. Io non faccio che pensare a questo -attraverso te- e a te attraverso questo interrogativo che è l’esistenza nostra. Ma è possibile “compiere” una tal cosa? Non è forse compiuta ogni volta che tu mi parli e che una mia parola ti tocca davvero? Si può davvero sperare di più? Non sarebbe troppo? Non so. So che nulla mi basta. Ma tu sì». Amor platonico, certo, eros come procedimento razionale e unione amorosa nella ricerca. Non una città 33 storie Bocca di Magra, 29 agosto 1967 Mushka carissima, la lettera che aspettavo oggi è venuta ieri, con la “pensée sauvage” e il rametto di lavanda (non mi sbaglio?) - e con tutta la tua grazia e, direi, sconvolgente dolcezza. Ma certo, è un’ottima idea, quella di pubblicare un tuo “erbario” - o “Libro delle Erbe Gentili”? Lavorarci con la massima semplicità - cominciando in ordine alfabetico (“Artemisia”?) e riportando in breve gli antichi pareri - ma seguiti dalle tue osservazioni – nelle quali potrai lasciarti andare (ma non troppo per non togliere al libro il suo carattere “obbiettivo” di “raccolta”) alle tue intuizioni. Ma forse una qualche ricerca (con l’aiuto di un buon “farmacista”?) sull’uso che si fa oggi delle medesime erbe per la fabbricazione di medicamenti sarebbe utile: darebbe una specie di “conclusione” - e forse anche suggerirebbe in che senso la “scienza” moderna segua (per quanto riguarda le virtù delle erbe) l’antica tradizione e in qual senso invece l’abbandoni, la dimentichi o forse anche le faccia violenza. Ma si dovrebbe trattare di semplici accenni, intendiamoci. Così come lo immagino io, questo libro, il suo valore dovrebbe essere di suggestione quasi poetica un “rammentare” la natura a chi l’ha dimenticata. Buon lavoro Mushka. Non voglio poi dimenticare di dirti che già da ora aspetto la visita dei tuoi amici Richter a Roma. Dà loro anche il mio numero di telefono: 859.195. Quindi, eccomi a Platone. Tu che hai capito subito così bene l’importanza della “forma” che Platone dà al suo discorso - il “dialogo”, come segno che 1°) si tratta di “discorso” non di insegnamento imperioso - c’è il discorso dell’uomo che riflette, cioè, e c’è il mondo infinitamente enigmatico - e nessun discorso scioglie l’enigma, anzi forse vero e supremo scopo del discorso è di fare risaltare sempre più chiaro e direi “luminoso” l’enigma di un mondo sostanziato di luce e d’oscurità al tempo stesso, nel quale pensiero e essere sono certamente la stessa cosa (altrimenti il pensiero sarebbe vano - sospeso nel vuoto) ma tra pensiero e reale - intelligenza e natura c’è un abisso, una “separazione” (χωρισμός) che nessun discorso può sanare. Questo è il primo punto, mi pare, da tenere a mente quando si legge Platone. E tu l’hai capito molto bene. Il 2°) è che qualunque teoria o “utopia” si esponga e difenda è sempre e soltanto una “proposta”. In particolare, per quanto riguarda la “Repubblica” l’errore da non commettere è di considerarla una specie di “blueprint” per la costruzione di uno Stato perfetto da parte di un principe illuminato o di un “partito” di filosofi (o pretesi tali). La “Repubblica” (come è detto all’inizio) è semplicemente un tentativo coerente (senza coerenza il discorso diventa privo di senso - ma coerenza significa rigore, lineamento preciso - come nel disegno di un edificio, che non significa nulla se non è tracciato con precisione e rigore di proporzioni. Il paragone con l’architettura è forse il migliore. Ma il filosofo è un architetto di idee - e le idee hanno senso in quanto sono accolte con esame -criticate- nel senso originario di esaminate con discernimento e non accettate come pezzi di macchine da montare). Il tentativo di discorso coerente della Repubblica è quello di rispondere alla domanda sulla giustizia rivolta in principio da Socrate a Cefalo e poi complicata nella discussione con Trasimaco, finché Socrate si trova obbligato moralmente a “immaginare” e descrivere una città ideale. Ora questa “città ideale” è talmente una “proposta” che la sua prima e perfetta (o quasi perfetta) forma è -ricordalo- la comunità rustica, povera, di uomini contenti di una vita semplicissima. Ma -dice Socrate- se vogliamo una vita più ricca e complessa, allora... eccovene l’“immagine”. Interviene, in quest’immagine, già l’elemento di costrizione severa che diventerà ancora più duro nelle “Leggi”. Ci sono molti particolari “duri” e difficilmente accettabili, nell’utopia platonica, oltre quello della comunità delle donne. Ma credo che bisogna sempre ricordare che si tratta di un’ipotesi. “Se volete una città perfetta...” essendo inteso che fatalmente la “perfezione” se applicata a un’impresa come la convivenza umana, comporta necessariamente un rigore reale e non poca spietatezza. Tuttavia, il punto cruciale è che, secondo il modo di vedere platonico, si tratta pur sempre di un “modello” ideale -da considerare, tenere a mente, discutere- ma non mai imporre con la forza. Insomma, se vuoi (e il paragone mi sembra inevitabile, anche perché c’è (quasi) certamente filiazione) la “Repubblica” è un po’ come una “Regola” monastica -lasciata alla libera accettazione dell’individuo e non suggerisce, in fondo, che il tentativo (o i tentativi) di “imitarla” in pratica- realizzando degli “esempi” o “tipi” o “modelli” di convivenza nella giustizia. Quanto alla comunità delle donne, all’abolizione della famiglia, la questione, credo, è se sì o no, il principio della vita in comune -di una giustizia rigorosa- debba o no prevalere sulle tendenze “naturali”. D’altra parte, l’idea di una società in cui i giovani possano guardare a tutti gli uomini maturi come a loro possibili padri e a tutte le donne a loro possibili madri è abbastanza “bella” - non trovi? Dopo tanto Platone, sì, qualche ora di musica in un ambiente bello, ci vorrebbe. Per ora andiamo nel giardino, dove ci sarà stormire di fronde e brusio d’acqua. Ti abbraccio. Nicola 34 una città a caso Platone -che Chiaromonte rileggeva incessantemente e che ebbe premura di far “scoprire” o riscoprire a Melanie von Nagel- ricorre spesso in queste lettere, quasi costituisse un naturale punto di incontro fra loro, trattandosi di tenere insieme indagine razionale e linguaggio poetico, riconoscimento del divino nel mondo e ostinata ricerca di una verità umana. Ma nel senso corretto in cui quella espressione va intesa, certo non di una relazione disincarnata si trattava, ovvero di una relazione completamente appagata dalla pura dimensione intellettuale. Giacché, almeno per Chiaromonte, essa soffriva dell’impossibilità della compresenza fisica, compensata a stento dalle reciproche effusioni o premure, come quei piccoli oggetti o fiori o quelle immagini che accompagnavano le loro lettere. La scrittura era per lui solo un «Ersatz di un Ersatz». tu sai trovare la misura nello slancio, e nel tuo slancio c’è un’infinita “cortesia” appunto e gentilezza «Ma, ora, subito, col rammarico anzi di queste poche righe e pochi momenti frammessi, devo dirti che doni come la lettera che mi è giunta stamane -pochi minuti fa- sono così grandi quasi insperati- eppure proprio quello che da te aspetto e di te so. Tessute del tuo essere più bello e più forte (vorrei dire anche “più altero” -comunque più nobile) sono le tue parole. E mi fai paura quando dici della tentazione che hai avuta, di strapparla, una tale lettera! Perché? Sai, anch’io vorrei a volte dirti molto più di quello che dico - lasciarmi andare al trasporto irresistibile verso di te che è diventato come il mio fuoco interiore. Non lo faccio perché so che tu senti nelle mie parole tutto quello che c’è - e anche un po’ per un certo sentimento che ho di ritegno quasi direi “rituale” o forse la parola giusta sarebbe “cortese” […] è questo sentimento “cortese” che ho verso di te che mi trattiene dalle effusioni -le lascio alla tua graziaperché tu sai trovare la misura nello slancio, e nel tuo slancio c’è un’infinita “cortesia” appunto e gentilezza». Desiderio inappagato di assoluta condivisione che dunque come nell’amor cortese si alimentava della sua stessa irrealizzabilità - proiettando la donna amata in una sfera quasi inattingibile - «creatura di grazia venuta a me per grazia» - sottratta dalle mura del chiostro allo sguardo del mondo - e divenendo per questa sua stessa natura percorso di elevazione spirituale. E tale era per Chiaromonte che non a caso sosteneva che le parole di Melanie generassero in lui la sensazione di essere in presenza di qualcosa di numinoso, quasi respirasse l’aria di Cuma, di Delfi, mentre l’atto dello scriverle assumeva i caratteri del «rito» di purificazione, preceduto da «delle abluzioni morali». Purificazione dalle volgarità del mondo -dal «fango»ma anche premura nei confronti di “Mushka”, il soprannome datole in famiglia con cui egli le si rivolgeva abitualmente a sottolineare non solo l’intimità di un rapporto, intonato innanzi- Melanie von Nagel da giovane. La didascalia del giornale americano recita: la signorina Melanie Von Nagel da Firenze, Italia, una visitatrice degna di nota della capitale dove sarà molto impegnata. Pernotterà al Mayflover Hotel con la madre, la baronessa von Nagel. tutto a dolcezza, ma anche la consapevolezza della fragilità -quasi infantile- di una creatura siffatta. E quindi a conferma di un’intenzione amorevolmente protettiva, che si spingeva fino a desiderare di sollevarla dal peso del suo stesso vissuto, nonostante Melanie -divenuta sister Jerome- avesse fornito l’esempio di una totale radicalità nelle proprie scelte di vita di fronte alla quale talvolta Chiaromonte provava soggezione. «C’è in Mushka qualcosa che io non ho ancora ben capito, ben visto -ben conosciuto. Ha a che fare con la sua natura ‘imperiosa’ - con un orgoglio segreto, con quello che lei mi dice dei momenti in cui si sentiva ‘più grande di se stessa’ - qualcosa di veramente singolare - anzi singolo. Bisogna che lo capisca meglio -che la senta meglio- prima di poter dire qualunque cosa». Un enigma che si poteva sciogliere solo nella dimensione poetica. «Sì, lo sento, quel che c’è di misterioso in te - e non c’è dubbio che viene da qualcosa di ancestrale: antiche correnti… Ma non so parlarne. So solo che è la tua natura più profonda e più incantevole. Parla nelle tue poesie, si esprime nei moti della tua persona, e in questo gran dono che mi fai parlandomi. C’è qualcosa di un po’ terribile -sìcome in una figura di antiche saghe -o in una statua arcaica- in un’immagine di mosaico, tutta splendida e impenetrabile». Se è vero che entrambi erano l’uno lo specchio dell’altro, nutrimento e complemento spirituale («mi porti quello che mi manca» scriveva Chiaromonte), è anche vero che mentre Mushka era il rifugio di Nicola dal secolo, dalla stupidità e dalla violenza, sperimentate quotidianamente e da quella paura dell’insensatezza del mondo, e della morte, che vi si affacciava- Nicola era l’unico o almeno il principale sguardo -«vedo cerco di vedere- le cose con gli occhi tuoi e di fartele vedere attraverso i miei»- profondo e acuto quanto protettivo, che Melanie conservasse sul mondo esterno. Perché Melanie -come testimonia anche il suo riferirsi, nell’identità scelta all’atto dei voti, a Girolamo, esempio di perfezione monastica, ma anche grande intellettuale e primo traduttore della Bibbia in latinonon sembrava intendere la ricerca di Dio -e la conoscenza di se stessa- come rinuncia a comunicare con il mondo. Il silenzio del chiostro -la ricerca dell’armonia spirituale nella contemplazione della bellezza e nell’ascesi- era infatti per lei la condizione per l’esistenza stessa del giardino o di Paros, ove ritrovare il vero significato delle parole e ristabilire la possibilità stessa di una comunicazione significativa con l’altro -la «parola alata»- nella ricerca della verità e dell’essenzialità delle cose. Era questo il «lavoro comune» cui Chiaromonte e Melanie von Nagel si accingevano insieme, ciascuno nelle forme che gli erano proprie, che nel caso della seconda erano innanzitutto rappresentate dalla creazione artistica e dal linguaggio poetico, una dimensione invece negata a Chiaromonte (successivamente alla morte di Chiaromonte, Melanie von Nagel ha pubblicato alcune raccolte di poesie per una piccola editrice del Maine). Non dobbiamo pertanto stupirci che Chiaromonte -lui, l’autore del Gesuita- vedesse nella scelta della vita monacale operata da Mushka una strada in fondo non così diversa da quella che egli stesso aveva cercato di percorrere. Vi leggeva infatti un gesto di ribellione, a suo modo un atto di genuina “eresia” -anche se paradossalmente consumato all’ombra dell’ortodossia cattolica-, perché nato dal rifiuto di accettare il mondo così com’è. se dovesse vivere una vita “normale” (ossia normalmente schiava) in una qualunque delle metropoli occidentali Significativamente, a Ludovica von Nagel, dopo il loro incontro a Bethelem, scrisse della scelta di sua sorella in questi termini: «Come una donna così impetuosa, così ricca d’affetti, così fremente, possa essersi ridotta in prigionia volontaria, credo non lo si possa capire altro che pensando a quello che Mushka soffrirebbe se dovesse vivere una vita “normale” (ossia normalmente schiava) in una qualunque delle metropoli occidentali». Una scelta che gli ricorda -istituendo un accostamento per tanti versi apparentemente sorprendente e quasi iconoclastico- quella a suo tempo compiuta dal suo «unico maestro» Andrea Caffi, ma portata avanti con una diversa forza d’animo e con più consequenzialità, senza cioè quel lasciarsi andare dovuto allo «scoraggiamento» e all’«isolamento», che nel ricordo ora in fondo gli sembrava caratterizzasse la personalità dell’amico. storie In questo senso, la sua relazione a distanza con Melanie von Nagel assumeva -almeno per Chiaromonte- anche un valore implicitamente politico, se per politica intendiamo platonicamente -come intendeva Chiaromonte- quell’arte che ha cura della salute dell’anima e che preso atto, come l’antico filosofo ateniese nella Lettera VII, dell’impossibilità nell’immediato di dare alla società un ordinamento giusto concentra la propria azione nella “paideia”, nella ricerca associata e nell’educazione reciproca. Come Caffi, anche Melanie sembrava infatti credere che ogni speranza dovesse essere riposta nella creazione di comunità per lo più informali, la cui legge fosse agire come se la società fosse regolata secondo giustizia e i cui aderenti dessero prova di condividere una rinnovata socievolezza. Tali associazioni, che per Chiaromonte non abbisognavano appunto di una dimensione organizzata, né tantomeno più di segretezza, avrebbero rappresentato gli agenti di umanizzazione di un universo sociale a parere di entrambi ormai sconvolto da quella «disintegrazione dell’atomo umano», fatale prodotto di forze che la civiltà stessa aveva suscitato nell’illusione di poterle addomesticare nel nome del “progresso”. Costituite di quei pochi devoti che “vi si riconosceranno, vi si ritroveranno e raggrupperanno” -non perché pensassero la ricerca della verità fosse appannaggio di una élite, ma perché le condizioni di quella ricerca lo disponevano necessariamente- esse offrendo un punto di resistenza alla brutalità e alle violenza di un mondo ormai interamente “meccanizzato” e “fuori misura”, avrebbero atteso -inconsapevolmente?- a indicare di nuovo «le proporzioni giuste» alla società. Per tale ragione la loro azione avrebbe dovuto avere per terreno di elezione non la politica e neppure in un certo senso la cultura, ma le strutture profonde -se così possiamo dire- della vita associata, ciò che innanzitutto tiene assieme gli uomini: la religione -nel senso dell’insieme dei valori e delle idee credute e accettate per vere, e il linguaggio, ossia «il mondo della parola», «l’unico pienamente umano, perché solo la parola dà luogo a “discorso” e solo dal “discorso” (e dal “dialogo”) nasce l’ordine, e con l’ordine la possibilità d’armonia». Un interesse in particolare quello per la funzione e la natura del linguaggio testimoniato anche dai costanti riferimenti alle teorie strutturaliste -con cui Chiaromonte si confrontava criticamente- rintracciabili in queste lettere, all’opera di Lévi-Strauss letta giustamente nella sua relazione con il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, ma che prendeva anche la forma giocosa della ricerca etimologica e filologica cui Chiaromonte si prestava -quasi si trattasse di offrire a Melanie un bouquet di parole- nel rintracciare somiglianze e istituire differenze semantiche fra le diverse lingue indoeuropee, procedendo a ritroso nel tempo, da quelle contemporanee alle antiche, fino al sanscrito. Il linguaggio -del cui destino in una società delle comunicazioni di massa ormai completamente dispiegata, Chiauna città 35 Una lettera di Melanie a Nicola Chiaromonte, con la descrizione delle lane colorate. romonte e von Nagel mostravano di essere tanto preoccupati- era infatti ben più che una metafora del legame sociale, pareva infatti a Chiaromonte custodisse la chiave stessa per comprendere il rapporto fra l’io e il mondo. Patrimonio ereditato -tradito- dal passato, esso è al tempo stesso creazione collettiva a cui ogni giorno quotidianamente -e in un certo qual senso liberamente- ciascuno partecipa, e un universo dato per l’individuo, con leggi che nessuno ha stabilito. Gli sembrava vi si manifestasse quel fondo oscuro della società - quella sua legge imperscrutabile che fa sì che anche nella più perfetta solitudine l’individuo non possa astrarre dall’esperienza degli altri, così come non potrebbe pensare se stesso senza il ricorso al linguaggio. È precisamente questo -l’indissolubilità del legame sociale- ciò che, scriveva Chiaromonte, tratteneva lui, ma anche Melanie, «nella confusione» del mondo loro contemporaneo, che rendeva impossibile volgergli completamente le spalle, senza annichilire in fondo anche se stessi. Anche per questa ragione la comunità informale -ma vivente- di cui Chiaromonte e Melanie von Nagel con il loro dialogo volevano costituire una delle cellule generative non poteva e non doveva pensarsi come separata dal mondo -non era più certo il tempo dei «cenobi»- ma come un’oasi, o, come Chiaromonte scriveva, con il suo caratteristico pessimismo circa la storia umana, in queste sue lettere talvolta accentuato da qualche amara considerazione personale, come un’«arca» in vista di un nuovo diluvio, in fondo già da tempo in corso, accessibile a tutti gli uomini di buona volontà. E offerta innanzitutto ai giovani cui -verrebbe da dire secondo un modello socratico- entrambi guardavano con interesse e curiosità, psicologicamente motivata -almeno nel caso di Chiaromonte- anche dalla propria storia personale e posizione generazionale di uomo maturo, a suo tempo anch’egli giovane in rivolta, che non si riconosceva in quell’ordine sociale contestato dalle nuove generazioni. Se vi è infatti un’eco delle coeve vicende storiche che riecheggiava in questo carteggio è proprio quello della ribellione studentesca del Sessantotto di cui peraltro Chiaromonte offriva anche in questa sede “privata” la lettura ambivalente affidata ai suoi articoli per la stampa. Se vi riconobbe all’inizio e in alcune sue espressioni una genuina carica liberatrice -anche se certo fin dalle origini confusa- da un autoritari- “Sono legato: 1) A quello che si è formato in Italia, in Spagna, in Francia - a tutta la vita, a tutte le vite distrutte, calpestate, umiliate. 2) Annie - E il cuore. 3) André (il cammino dello spirito) l’amicizia - la società. 4) Due o tre momenti d’estasi. 5) Il paradiso dell’arte e della natura. Firenze. 6) Il mare, i cavalli. 7) La nostalgia ‘Pax et justitia osculatae sunt’. E questa domanda: ‘Sono realmente innamorato? è realmente questo?’ davanti a quello che succede”. Da un appunto, inedito, dei taccuini di Nicola Chiaromonte, citato nel saggio Leggere Chiaromonte di Wojciech Karpinski, pubblicato nel libro Fra me e te la verità. 36 una città smo vuoto e insensato, vi vide però con preoccupazione e per tempo precipitarvi antiche dinamiche e riprodursi quella costellazione di problemi -la pania in cui finisce inevitabilmente qualsiasi azione politica che si pretende rivoluzionaria- che avevano caratterizzato tutto il Novecento: il feticismo per la storia e per il successo come unica misura di valutazione dell’agire umano e il culto delle ideologie e della violenza che ne derivava. i dissidenti dell’Europa dell’est, esempi di un’ostinata resistenza individuale che lo riempivano di entusiasmo Era insomma la sindrome che aveva condotto alla diffusione delle mentalità totalitarie, a nuovi conformismi soffocatori di ogni autonomia individuale di cui anche l’ovest, il “mondo libero”, dava esempio, seppure in misura non comparabile, qualitativamente non comparabile, con quanto accadeva al di là della “cortina di ferro”, e che nasceva dal fallimento della politica come arte della convivenza fra gli uomini orientata dall’interrogazione attorno alla giustizia. Come per Arendt, anche per Chiaromonte «ciò che era andato storto era la politica», ma come per Arendt, anche per lui, sebbene forse, almeno qui, con un tono più pessimista, gli uomini conservavano intatta la possibilità, a partire dalla filosofia, dalla produzione di valori spirituali, di pensare la politica diversamente, di porre nuovamente al centro della polis l’autonomia della coscienza individuale, il sentimento della sua inviolabile dignità, la libertà dell’individuo e il tema del suo rapporto con gli altri, così facilmente obliterato -e mistificato- dalle ideologie politiche novecentesche. Che ciò fosse possibile lo dimostravano eloquentemente gli scrittori e gli intellettuali dissidenti dell’Europa dell’est -Solženicyn, Julij Markovič Daniėl’, sua moglie Larisa Iosifovna Bogoraz, Andrei Sinyavsky o Anatoli Márchenko, esempi di una «ostinata resistenza individuale» che lo riempivano di entusiasmocon la loro sofferenza e con la loro scelta di un’opposizione a viso aperto e non violenta al sistema. Per questa sua in fondo irriducibile fiducia nell’uomo, Chiaromonte non perse la speranza -condivisa e sollecitata com’è facile immaginare dai cenni contenuti in questo stesso carteggio anche da Melanie e confermata dagli incontri coi giovani che ella stessa andava sperimentando- che quell’effervescenza giovanile cui si stava assistendo non producesse solo un nuovo conformismo, di segno opposto ma di natura non diversa da quello della società dei padri, ma anche delle energie genuinamente nuove, dei fermenti di effettivo rinnovamento “spirituale”. [...] Non deve dunque essere motivo di stupore il fatto che nel diagnosticare i mali della società a lui contemporanea - ma si tratta di qualcosa che affondava le radici ovviamente in processi assai più remoti nel tempo - il “laico” Chiaromonte indicasse proprio nella rimozione dell’esperienza del sacro il nodo su cui era più urgente riflettere. Con una disfatta per la tradizione dell’umanesimo, quasi un contrappasso di quella ὕβρις di cui in parte aveva dato prova, il venir meno delle religioni storiche quale orizzonte di senso delle società non aveva prodotto una religione umana -l’instaurarsi del regno della filosofia- ma, al contrario, una nuova forma di superstizione -altrettanto e forse più odiosa delle antiche giacché, contrariamente alle prime, in evidente «malafede»- «la religione dell’al di qua delle cose - del momento che passa - dell’oblio di sé nella distrazione continua dall’esistenza di un mondo - dal fatto della mortalità - e persino dalla gioia profonda - perché la gioia chiede “altro” - rimanda a un significato splendente e nascosto». Era questa superstizione, che Chiaromonte e von Nagel rifiutavano, ad aver generato «un mondo vissuto alla terza persona […] nel quale tutto è costretto, fatale, preordinato – e tutto è caotico. Il mondo della violenza e della paura». Ed è contro di essa che, in fin dei conti, i giovani si rivoltavano, facendo esperienza in massa di un sentimento che anche la generazione di Chiaromonte aveva conosciuto ma solo in una minoranza intellettuale. «Io credo che in fin dei conti cerchino non il comunismo, ma Dio. Solo non hanno la più lontana idea che si possa cercare una tal cosa - comunque: l’Assoluto». Era dunque in ultima analisi esplorare le possibilità di una genuina restaurazione del «sentimento del divino» nel mondo -e della nozione dell’«anima» per l’uomo- il «lavoro» che Nicola e Melanie attribuivano alla loro ricerca, nel tentativo se non di formulare una risposta comune -non si trattava certo di “convertire” l’uno alla fede dell’altro- di tracciare un cammino che potesse essere percorso assieme, da chi aveva fede in un Dio trascendente e personale e da chi invece dell’assolutezza di quella fede era privo, ma non mancava di avvertire in sé la dimensione del sacro. «Tu dici giustamente che il senso del sacro non si raggiunge con l’intelligenza; infatti il “sacro” è il non intelligibile. Tuttavia vorrei dirti due cose. La prima è che, pensa e ripensa, se si vuole essere semplici, il senso del sacro non è altro che il senso del “limite” -il sentimento (e la coscienza chiara) della μοίρα, della “parte”- ossia di essere parte di un tutto che non si conosce. Fermarsi al limite vuol dire riconoscere il sacro -e il divino- piegare il capo -inchinarsi. Fermarsi prima del limite è mediocre saggezza. È in questa zona che sta quello che i più chiamano “ragione” - “ratio” (che è sempre “ragion pratica”). Ma l’intelligenza - il νούς è altra cosa: è il limite estremo cui può giungere l’uomo -e non esclude il cuore, anzi». l’intelligenza... è altra cosa: è il limite estremo cui può giungere l’uomo -e non esclude il cuore, anzi Ritroviamo dunque in questo carteggio, la cui stesura fu contemporanea a quella di Credere e non credere, molti dei principali elementi di tutta la riflessione matura di Chiaromonte che qui -come in Che cosa rimane- prese soprattutto la forma di un’appassionata riflessione sulla nozione di limite, di «misura», che si offre -quasi spontaneamente- all’individuo quando questi arrivi «in fondo - alla regione che tu esplori: “il sacro”». Di questa concezione della condizione storie umana egli trovava traccia nella religione naturale degli antichi greci, in quel loro spontaneo aderire alla natura delle cose -accettandone il «labile», «l’effimero», il «mortale»- pur senza rinunciare a porre l’uomo a sua misura, facendo così del mondo un cosmo ordinato. E non a caso -e qui sta uno dei tanti elementi di interesse documentari di questo carteggio- nelle lettere di Chiaromonte abbondano le riflessioni, nutrite di precisi riferimenti storico-antropologici, sull’antica civiltà ellenica e sul ruolo che in essa era assegnato alla religione e al racconto mitico. Nel recupero di questa antica e ascetica sapienza del limite trovava anche quiete provvisoriamente -giacché di fronte al sacro «non bisogna aspettarsi risposte né soluzioni: solo altre domande, e assai più tormentose di quelle che oggi ci tormentano» e in questa conclusione sta naturalmente la più evidente differenza rispetto alla sua interlocutrice- quell’interrogazione sul senso ultimo del mondo e della vita che accompagnava angosciosamente Chiaromonte fin dalla prima giovinezza, quando appunto avvenne il distacco -emotivamente violento- dalla religione cattolica in cui lo avevano educato i suoi genitori. [...] Cesare Panizza Fra me e te la verità Lettere a Muska di Nicola Chiaromonte a cura di Cesare Panizza con un saggio di Wojciech Karpinski Edizioni Una città 312 pagine 18 euro (15 euro per gli abbonati) vendita diretta: 0543-21422 [email protected] www.unacitta.it una città 37 APPUNTI DI UN MESE blog: redazioneunacitta.wordpress.com twitter: @Una_Citta 20 novembre 2013. Lo stato burocratico Se oggi volessimo costruire una casa del popolo, lavorando gratis come fecero nonni e bisnonni, sarebbe “lavoro nero”. (tw) 20 novembre 2003 Ezio Mauro elenca in tv le malefatte telefoniche della Cancellieri e conclude: “Poi 8 del marito!”. Siamo diventati la Repubblica della maldicenza? (tw) 21 novembre 2013. La maestra Myriam Myriam Mazzo fa la maestra nella cittadina di Armenia, nel centro della Colombia. La sua è una scuola speciale: c’è un’unica classe con ragazzini di varie età e livelli che lavorano in piccoli gruppi. Anziché stare alla lavagna, la maestra Myriam gira tra i vari gruppi. Con il suo metodo, noto come “Escuela nueva”, ha insegnato a generazioni di bambini -i figli e le figlie degli agricoltori locali- a leggere, scrivere e far di conto. Il sistema, sviluppato da Clara Victoria (Vicky) Colbert de Arboleda negli anni Settanta, è stato pensato proprio per chi si trova nelle sue condizioni: classi miste in zone rurali. Uno dei problemi principali di questi contesti è che molti ragazzini rimangono assenti per lunghi periodi a causa del lavoro che devono fare per aiutare le famiglie. Ecco perché il metodo “Escuela nueva” è perfetto, perché in questa formula il ragazzino viene spinto all’autonomia, a partecipare, a condividere le sue idee senza paura, a lavorare assieme agli altri, ma anche da solo, così se deve rimanere lontano dalla scuola per un po’ non deve smettere di studiare e quando torna saranno gli altri ad aiutarlo. Questa “nuova scuola” è molto flessibile e permette agli studenti di fare le prove quando si sentono pronti. Molte lezioni vertono sull’area in cui vivono, sul calendario agricolo, così che lo studio diventi parte integrante della vita quotidiana. I ragazzi sono inoltre incoraggiati a coinvolgere anche i genitori nel loro apprendimento. Il metodo è stato riconosciuto (e finanziato) dal governo e dalla Banca Mondiale e nel 1988 l’Unesco ha dichiarato che la Colombia è l’unico paese dell’America Latina dove le scuole di campagna vanno nettamente meglio di quelle di città. Negli ultimi anni il metodo è stato adottato anche da Brasile, Filippine e India. La formula del mettere lo studente al centro non è evidentemente nuova. Ciò che Vicky Colbert ha portato di nuovo è stata una formula “low-cost”, cioè quest’idea che non occorreva pensare a grandi riforme dall’alto, bastava pensare a una scuola diversa e provarci. (International New York Times) 25 novembre 2013 Corruzione. Il problema non è il disonesto, che comunque prende un rischio, ma gli “onesti” che con la politica quadruplicano e più il reddito. (tw) 38 una città 26 novembre 2013. Una mappa delle scuole Voluta dal sindaco di Londra, la “London Schools Atlas” è una mappa online interattiva delle scuole pubbliche londinesi, incluse le cosiddette Academy e le “free school”. Vi sono riportati, tra l’altro, i risultati ottenuti alle ispezioni Ofsted, la quota di studenti con buoni voti nelle materie principali (che si può confrontare con la media di Londra), il numero dei ragazzini che hanno diritto al pasto gratis e infine una panoramica sul numero di studenti previsti di qui a cinque anni. Ne ha parlato Norberto Bottani sul suo prezioso blog (http://oxydiane.net), chiedendosi perché non si possa far qualcosa del genere anche a Milano o a Roma. Grazie a questa mappa, i genitori potranno avere informazioni più ampie per prendere le loro decisioni. L’indagine sul lungo periodo permetterà inoltre a quei gruppi di genitori e/o insegnanti che vogliono aprire una “free school” di farlo dove ce n’è effettivamente bisogno. 27 novembre 2013. Colpite le pensioni d’oro Ma la Suprema Corte, custode del sacrosanto principio d’uguaglianza fra chi prende 800 e chi 80.000 euro al mese, cosa dirà? (tw) 27 novembre 2013 Tutti agognano la “stanza dei bottoni”, perché da lì, credono, partono le soluzioni. Da lì invece, dal centralismo, partono i problemi. (tw) 27 novembre 2013. Gayby boom Nella famiglia Schulte-Wayser, uno dei due genitori è il classico “breadwinner”, quello che porta a casa il pane, fa l’avvocato ed è il (quasi) classico maschio “alfa” quando si parla di compiti, orari e regole; l’altro si definisce l’uomo “che sussurra ai bambini”: sta a casa e si prende cura dei sei figli, quattro maschi e due femmine. Tutti adottati. Oggi le coppie omosessuali con figli stanno aumentando a ritmo frenetico. Natalie Angier, del “New York Times”, parla di un vero baby -o meglio gayby- boom. Alcuni manifestano preoccupazione per il rischio che questi bambini siano soggetti a stigma sociale o manifestino problemi relazionali o psicologici. Gli studi più recenti però sfatano alcune paure. Michael Rosenfeld, della Stanford University, autore di “The Age of Independence: Interracial Unions, Same-sex Unions and the Changing American Family”, sostiene che i figli di genitori dello stesso sesso sono “indistinguibili” dagli altri sia sul piano scolastico che emotivo. Di più: le coppie composte da due padri risultano essere quelle in assoluto più stabili. Judith Stacey, della New York University, autrice di “Unhitched: Love, Marriage and Family Values From West Hollywood to Western China” ha confessato di essere rimasta lei stessa scioccata dal fatto che nel corso di 14 anni di studi, nessuna delle coppie composte da due maschi che avevano uno o più bambini e che lei aveva seguito si era separata. Nessuna. Secondo il Williams Institute dell’Università della California, il numero di coppie gay con figli è raddoppiato nell’ultimo decennio. Oggi negli Stati Uniti, circa 125.000 coppie dello stesso sesso stanno allevando 220.000 bambini. (nytimes.com) 28 novembre 2013. vendereaicinesi.it Ne hanno parlato Oscar Giannino, se n’è letto sul “Sole24ore” e perfino Bruno Vespa gli ha dedicato un servizio. Vendereaicinesi.it si definisce il “primo sito di annunci rivolto a imprenditori cinesi in Italia”. Gli annunci sono tutti rigorosamente bilingui (con traduzione professionale) e il target si è subito allargato ai cinesi che vivono in Cina. L’idea è venuta ad Alessandro Zhou, nato in Italia da genitori cinesi e laureato alla Bocconi, e a Simone Toppino, che hanno avviato il sito lo scorso febbraio. Sul “Sole 24 ore” si legge che il sito conta 3.000 accessi giornalieri e 800 utenti cinesi. Gli stessi fondatori non si aspettavano un boom di annunci immobiliari. Da notare che, oltre a locali commerciali e capannoni, sono presenti edifici di pregio e ville del valore di qualche milione di euro. In tempi di caduta libera del mercato immobiliare a pensare ai cinesi non sono stati gli unici. Se si fa una veloce ricerca in internet, oggi, oltre a vendereaicinesi.it, c’è cinesichecomprano.com che traduce e pubblica il tuo annuncio su siti cinesi, e startcina.com che pubblica in cinese in Europa e in Cina. 29 novembre 2013 Domande da profani: ma la legge Severino è giusta? Un giudice può far decadere un eletto dal popolo dando un’aggravante o non dando un’attenuante? (tw) 30 novembre 2013 A volte il disastro è non toccare il fondo. Immobili, aggrappati a pochi metri dal fondo, sovraccarichi di tutto, vediamo risalire la Spagna. (tw) 1 dicembre 2013 Domande da profani. L’idea che il parlamento debba essere di onesti non è sbagliata? Ci vorrà qualcuno al di sopra che dovrà valutare e decidere. Chi? (tw) 3 dicembre 2013. Il libro è morto? Se, come molti sentenziano, il libro è morto, non è ancora affatto chiaro cosa andrà a sostituirlo. Ne ha parlato anche David Streitfield sul “New York Times” del 3 dicembre, elencando le tante start-up che negli ultimi anni hanno provato a reinventarlo: “Social Books” consentiva di commentare i propri passaggi preferiti di un ebook e leggere le opinioni degli altri lettori; “Copia” era un altro tentativo di “lettura sociale”; “Push pop press” era una piattaforma in grado di mescolare testi, immagini, anche interattive, video e audio; “Small Demons” usava i riferimenti culturali e i dettagli contenuti nei libri (personaggi, oggetti, ecc.) per aiutare i lettori a scegliere il successivo libro da leggere. Tutte lettera dall’Inghilterra Cari amici, una storia di Natale. C’era una volta, un giorno d’inverno, un uomo che stava svolgendo le sue faccende quotidiane, quando, tutto a un tratto, si accasciò al suolo colpito da ictus. Era gravissimo, ma fu soccorso da un paramedico accorso sul posto grazie alla chiamata di un buon samaritano. Il paramedico e il suo collega aiutarono l’uomo e, rendendosi conto che soltanto una pronta assistenza specialistica avrebbe potuto garantirgli una qualche possibilità di ripresa, lo caricarono nel retro dell’ambulanza e si lanciarono nel traffico caotico del venerdì sera. Al primo ospedale -il più vicino- fu detto loro che il medico specialista che si occupava degli ictus stava andandosene proprio in quel momento per trascorrere un weekend fuoriporta. I due scortarono via il malato, si tuffarono nuovamente nel traffico e bussarono a un secondo ospedale. «Niente da fare», fu la risposta per nulla accogliente dell’amministrazione. «I malati vanno portati alla Stroke Unit, bisogna riempire un modulo, apporre timbri e trovare un letto prima delle cinque del pomeriggio, ossia fra 2-3 minuti: proprio non c’è tempo per tutta la trafila». «Per favore», fece il paramedico. «Senza cure immediate, quest’uomo non ce la farà». Ma il cuore di chi porta costantemente lo sguardo all’orologio è duro come la pietra: il malato grave fu respinto una seconda volta. Che scelta avevano i paramedici? Ritornarono all’ambulanza e viaggiarono un’ora intera prima di raggiungere un’altra città, dove finalmente riuscirono a trovare aiuto; ma ormai era troppo tardi. Se solo i batteri, i virus, gli attacchi mortali, le malattie cardiache, le polmoniti, gli ictus e la malaria imparassero a colpire nella fascia oraria che va dalle nove alle cinque! O forse si tratta di malattie intelligenti: sanno che per infettare in modo letale e uccidere è meglio sorprendere gli esseri umani durante il fine settimana. La mia storia di Natale è stata resa nota di lunedì, il giorno successivo a una dichiarazione del professor Sir Bruce Keogh, direttore medico del sistema sanitario nazionale inglese, secondo cui i medici specialisti dovrebbero lavorare nei fine settimana perché il rischio di decesso è più frequente il sabato e la domenica. Ha asserito che gli ospedali che non forniscono uno standard costante di assistenza lungo tutta la settimana dovrebbero essere sottoposti a sanzione. I pazienti gravi ammessi in ospedale durante il weekend hanno il 12% in meno di possibilità di sopravvivere rispetto a quelli che vengono ospedalizzati il martedì. Si tratta di una denuncia shock. Riguarda la mancanza di medici esperti in loco che dirigano e aiutino gli specializzandi, i quali, sempre più spossati, lottano per rimanere svegli durante ripetuti turni di 12 ore. Altrettanto scioccante è che si sia giunti a una situazione di questo tipo, e cioè a ritenere normale che lo staff medico esperto non sia reperibile durante i weekend. Che ne è stato della figura tradizionale del dottore disponibile a ogni ora e ogni giorno? Rammento ancora quando i dottori si legavano alla famiglia, ne divenivano parte, ed erano a conoscenza di tutti i malanni che si celavano in agguato nell’albero genealogico. Di dottori che lavorano ogni giorno, a ogni ora, ce ne sono tutt’oggi: non certo i medici membri dei vari circoli golfistici, ma gli specializzandi, che devono mettersi delle asticelle di fiammiferi sotto gli occhi per riuscire a tenerli aperti. Un’altra storia narra di un dottore che ha scritto a Babbo Natale. Nella sua lettera, pubblicata sul “Guardian”, il dottore chiede di tenere conto del fatto che anche quell’anno gli operatori sanitari hanno dato ben oltre il dovuto e che, tuttavia, a differenza dei banchieri, non hanno ricevuto bonus gonfiati, bensì “tagli allo stipendio e revisioni della pensione”. Denuncia inoltre che l’Nhs sta per affrontare un inverno catastrofico e che è necessario il contributo generoso di diecimila elfi addestrati dal sistema nazionale che vadano a occupare i posti di lavoro vacanti. C’è dell’altro: se Babbo Natale riuscisse a trovare altri ventimila letti (letti, non barelle) e fornire più medicinali, be’... allora sarebbe davvero arrivato il Natale. Il nostro dottore chiede a Babbo Natale di regalare orecchi ai politici, affinché ascoltino lo staff del sistema sanitario costretto a lavorare ventiquattro ore al giorno in condizioni precarie e a subire ingiurie di ogni tipo e minacce di denunce legali. Babbo Natale dovrebbe certamente depennarli dalla sua lista dei bravi bambini: per non essere stati in grado di prestare ascolto all’Nhs; per non essere riusciti a dare il giusto valore al suo operato; per non aver saputo riconoscere e custodire ciò è stato e, nonostante tutto, ancora è una risorsa per il mondo intero, un dono alla gente, al pubblico, alla comunanza. I ministri governativi e i membri del parlamento, timbrato il cartellino, si dirigeranno verso le proprie circoscrizioni, dove troveranno torte ripiene, bottiglie di Grouse e cialde allo zenzero. Il più pregiato dei regali indirizzati al vecchio e povero sistema sanitario nazionale sulla lista di Babbo Natale non costerebbe assolutamente nulla. Dopotutto non è possibile dare un prezzo a una semplice parola: grazie. Quest’anno c’è un tenue turbinio di acquisti e raduni. In città, le luci di Natale sono state disposte in modo grazioso come ragni brillanti appesi fra gli alberi e sulle strade. Da certi angoli, le luci e i viottoli si combinano per creare l’impressione di un vivace cielo di Van Gogh. Ci sono canti e presepi, venditori di castagne e uomini con la barba finta all’entrata delle grotte. C’è poi un altro paesaggio. Non proprio un quadretto natalizio, quanto una visione che dura tutto l’anno: i senzatetto che vendono copie della rivista “Big Issue” o quelli che, assiderati e inutili, sembrano pupazzi di neve sfiniti dal nuovo freddo. ©Belona Greenwood start-up fallite. Siccome la forma-libro stenta a trovare un sostituto degno ecco allora che è partita la corsa in senso contrario: rendere il virtuale più simile al reale. Così, quando si scarica un libro con un device apple, iBooks permette di metterlo subito nello scaffale della propria libreria. Un’altra bizzarra proposta è quella che propone di acquistare libri digitali completi di autografo dell’autore. D’altra parte, nell’ultima campagna per promuovere il proprio e-reader, Amazon vanta l’innovativa possibilità di… “sfogliare le pagine”! (nytimes.com) 5 dicembre 2013. Un’epidemia di demenza L’11 dicembre prossimo, il Gruppo degli Otto leader dei Paesi industrializzati si incontrerà a Londra. Ospiti del Premier inglese Cameron, i leader globali parleranno di demenza, la malattia degenerativa che colpisce le funzioni intellettive e che nella maggior parte dei casi prende il nome di Alzheimer. Secondo Marc Wortmann, direttore dell’Adi (Alzheimer’s Disease International), tutti gli indicatori fanno pensare a una vera e propria epidemia globale. Negli ultimi 10 anni si è registrato un aumento del 17% dei casi di demenza: un trend che, se restasse costante, ci porterebbe nel 2050 dagli attuali 44 milioni di casi nel mondo a 135 milioni. Il costo sanitario mondiale per le varie forme di demenza ammonta oggi a 600 miliardi di dollari (l’1% del prodotto interno lordo globale) ed è evidentemente destinato a salire. Secondo l’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra, infatti, solo 13 Paesi hanno predisposto piani terapeutici nazionali. Tra quelli che in questo campo spendono di più c’è la Gran Bretagna (37,6 miliardi di dollari all’anno: più del cancro, dell’ictus e delle malattie cardiache messi insieme). I casi di demenza però si stanno rapidamente espandendo anche ai Paesi in via di sviluppo, che non dispongono né delle risorse, né dei servizi sociali adeguati per occuparsi di questa emergenza. 4 dicembre 2013. Il federalismo scomparso È bastata la laurea albanese del figlio di Bossi perché la parola federalismo scomparisse dalla scena politica? Non c’è speranza. (tw) 5 dicembre 2013. Lo Stato burocratico. Irap e Ires: il 102,5% di acconto! Già un acconto del 100% è una contraddizione in termini, ma quel 2,5... Fantastico! (tw) (traduzione a cura di Antonio Fedele) 5 dicembre 2013. La Consulta cassa il porcellum. Qualcuno che diceva una cosa per farne un’altra è arrabbiato, le uova nascoste nel paniere sono tutte rotte. (tw) 9 dicembre 2013. Bipolarismo Incredibile il dibattito sulla legge elettorale: poiché non siamo bipolari (ci sono 3-4 grossi più 5-6 piccoli) dobbiamo esserlo. Punto. (tw) 10 dicembre 2013. Primarie e Forconi Nel paese s’è alzato un vento di sinistra? O un vento sinistro? (tw) una città 39 Spero mi scuserete se vengo a disturbarvi e farvi perdere qualche attimo del vostro prezioso tempo. Mi chiamo Mario Trudu, e sono un fiero sardo, ormai sono un vecchietto di 63 anni, il tempo e la vita stanno passando anche per me, anzi stanno volando via. Una vita piena di sofferenze, una vita che da 34 anni è relegata all’interno di una cella. Mi trovo in queste condizioni dal mese di maggio del 1979, periodo interrotto solo da 10 mesi di latitanza, fra il 1986 e il 1987. E ci rimarrò per tutta la vita, non ho la minima speranza di poter abbandonare un giorno questo orribile posto, a meno che la politica non si decida a cambiare le leggi, mettendo mano alle varie riforme della giustizia che, come tutti sanno, esperti e non, sono urgenti e necessarie. Non mi dilungherò molto in questo mio umile scritto e non vorrei che si pensasse che se mi azzardo a parlare di queste cose sono un arrogante. Certamente non ho molta preparazione per affrontare certi argomenti; la scuola che ho fatto è stata molto poca, ma poiché gli argomenti che in questi giorni vengono dibattuti li vivo da decenni sulla mia pelle, mi sono sentito invogliato a dire la mia, da vecchio galeotto. Non ho titolo per far parte di quei commentatori ed esperti che ogni giorno invadono le varie trasmissioni televisive e non sono qui per parlare di loro, voglio solo far notare che tantissime volte dicono cose inesatte e in malafede. Ma voglio dire qualcosa a proposito della concessione a noi poveri mortali dell’indulto e dell’amnistia. È pur vero che la Comunità europea ha dato all’Italia un anno di tempo per mettersi in regola sullo spazio delle celle da noi occupate e sull’affollamento delle carceri. Eppure oggi il dibattito è: amnistia sì, amnistia no! Indulto sì, indulto no! Io potrei anche non interessarmi alla questione tanto quelli come me, anche se hanno scontato oltre 30 anni di carcere, non potranno mai usufruire, come mai ne hanno usufruito, di alcun beneficio. Perché io non ne ho usufruito? Perché sono condannato all’ergastolo, reso per giunta ostativo (pena perpetua) da una legge su cui ci sono molti dubbi di incostituzionalità. E tutto questo per via dell’emergenza mafia scoppiata dopo la morte dei giudici Falcone e Borsellino: pago la colpa di quelle stragi, se pur al momento del fatto ero in carcere da 13 anni (per un sequestro di persona compiuto nel 1986) e con pena definitiva; e pur non avendo mai fatto parte di nessuna associazione mafiosa, come le carte confermano, mi viene applicato retroattiva- 10 dicembre 2013. Il tavolo La sicumera fa dire strafalcioni. Per Renzi “tavolo” suona palude. Ohibò. Il “tavolo” è la politica, quando questa non è con altri mezzi. Al “tavolo” ci si siede, disarmati e indifesi, per parlare, conoscersi, accordarsi, diradare malintesi, decidere se fidarsi, simpatizzare... (tw) 13 dicembre 2013. Senza figli Sul “Guardian” del 9 dicembre, Jody Day parla delle donne senza-figli sotto Natale, da sempre percepita come la stagione peggiore per coloro che hanno “mancato” l’appuntamento che per la società definisce l’ingresso ufficiale nell’età adulta. In Inghilterra il numero delle donne 40 una città mente l’art. 4 bis, di fatto condannandomi a morte. Ma lo stato non avendo il coraggio di farmi salire sul patibolo, lascia che io muoia giorno dopo giorno dentro una cella, sperando che prima o poi arrivi a togliermi la vita da solo. Io sono stato condannato con altre leggi e altre regole che erano in vigore al momento dei fatti, e in base ad esse avrei dovuto scontare la pena; non in base a una legge varata 14 anni dopo (anche se nei dibattiti televisivi ultimamente si afferma che mai una nuova legge è stata applicata retroattivamente, mentre è cosa che si vuole fare solo ora con la legge Severino per colpire qualcuno in particolare… ma che frottole raccontano!). L’opinione pubblica sembra contraria a concedere amnistia e indulto, sono tutti convinti che non servirà a sfoltire il numero dei carcerati perché nel giro di un anno le carceri torneranno a essere piene. Forse sembrerò pessimista, ma credo (pur facendo gli scongiuri) che non verrà concesso nessun indulto o amnistia… Io comunque sarei favorevole alla loro concessione anche non usufruendone perché, se le carceri si svuotassero un po’, a me resterebbe più spazio dentro questa orrenda struttura, così da potermi muovere senza correre il rischio di sbattere da una parte e dall’altra. Cosa che non posso fare oggi, perché oggi mi è concesso lo stesso spazio di un maiale all’ingrasso in una porcilaia. E se proprio non dovesse esserci nessun indulto o amnistia, mi permetto con molta modestia di fare un’altra proposta, che dovrebbe piacere a parecchi. Ecco, vengo a spiegare il mio azzardo, un modo per sfoltire il numero dei carcerati senza nessuna concessione di sconti di pena, nessuna cancellazione di reati e senza aggiunta di spese per costruire nuove carceri: un cambiamento radicale a costo zero, proprio come piace sentire alla gente e senza provocare tanto allarme sociale. Beh! Ora non pensate che stia proponendo la soppressione del 50% dei carcerati, oh nooo! Potrei capitare io stesso nel gruppetto da mandare a “miglior” vita… Calma, non sono un tipo suicida, io ci tengo alla vita anche se la mia è una vita dannata per l’eternità. La mia proposta è molto seria ed è semplice e la propongo da tempo: togliere l’aggravante dell’art. 4bis insieme a tutte le altre leggi e leggine emanate sull’onda dell’emotività e che hanno seppellito la legge Gozzini, l’unica vera legge civile varata dal nostro Parlamento. Ripristinando la Gozzini verrebbero risolti tutti i problemi che oggi sono sul tavolo della “giustizia”. senza figli sta aumentando (e non di poco): secondo uno studio dell’Office for National Statistics (Ons), se le quarantenni inglesi e gallesi senza figli erano una su nove nel 1985 e una su cinque nel 2010, nel 2015 diventeranno una su quattro. Quanto bisogna tornare indietro per trovare dati comparabili? Alla Prima guerra mondiale, quando la leva obbligatoria di massa si intromise tra i potenziali padri e le potenziali madri. La Day chiede provocatoriamente dove sono i numeri che indicano la crisi di paternità. In fondo, commenta, l’indagine dell’Ons è perfettamente coerente con l’atteggiamento diffuso in una società che concepisce questo tipo di con- lettere ostative Perché permetterebbe, a chi è nei termini, di usufruire della semilibertà, dell’art. 21 (lavoro esterno), della condizionale, dei permessi, tutti benefici negati, o meglio possiamo dire “sospesi”, dal 1992. Forse non vi sembra che sia passato abbastanza tempo? In questo modo si ridurrebbe l’affollamento delle carceri e questo aiuterebbe l’Italia a rientrare fra i paesi civili e democratici. Sappiamo tutti che, ad esempio, con la semilibertà, al detenuto viene permesso di lavorare all’esterno, dove può essere controllato in qualsiasi momento da assistenti sociali e polizia, e alla sera rientra in carcere per passarvi la notte: quindi, non creerebbe nessun allarme sociale, perché la sua uscita temporanea dal carcere non necessita di alcun sconto di pena e nello stesso tempo chi gode del beneficio può essere sotto stretta sorveglianza. Stessa cosa con la concessione dell’art. 21, il lavoro esterno; anzi, in questo caso c’è ancora maggiore controllo per via del tragitto fisso, l’unico percorso che è permesso utilizzare per recarsi al lavoro e rientrare poi in carcere. La liberazione condizionale, poi, può essere concessa a fine pena (per chi ha l’ergastolo dopo 26 anni di prigione) e gente che ne può usufruire, vi garantisco, ce n’è davvero tanta dentro questa galera. Tutto questo si potrebbe fare in poco tempo. Se il Parlamento lo volesse, credo che in poco tempo si potrebbero cambiare i connotati alle carceri, certamente non ci sarebbe più l’affollamento che tanto fa vergognare l’Italia e non sarebbe cosa da poco visto che in Italia quando si deve fare qualcosa se ne discute per anni e non si conclude mai niente. Inoltre, questo darebbe un po’ di fiato per poter discutere quelle riforme, come ho detto prima, urgenti e necessarie, senza mettere “pezze” in fretta e furia, come si è spesso fatto. Sappiamo bene che le cose fatte in fretta non servono a niente, anzi complicano ancora di più la situazione. Spero in un vostro intervento che vada nella direzione di eliminare tante ingiustizie, ripristinando la vera giustizia, non solo per noi carcerati, una razza odiata da quasi tutti, ma anche per il resto di quel popolo oppresso da politiche sbagliate e truffaldine da parte di “rappresentanti” non eletti dal popolo ma imposti dal “dominatore” di turno. Chiudo con la speranza che venga presentato un emendamento alle norme che vi state proponendo di varare, oppure un disegno di legge che, abolendo l’art. 4 bis, ripristini la legge Gozzini. Distinti saluti, Mario Trudu, Carcere di Spoleto dizione come “invalidante” esclusivamente quando riguarda la donna. (guardian.com) 17 dicembre 2013. Tredicesima Sull’“Espresso”, Gloria Riva parla dei 4 milioni circa di lavoratori che quest’anno rischiano di non vedere la tredicesima. Le piccole imprese, esaurita la liquidità per pagare “acconti” che superano il 100%, stanno chiedendo prestiti alle banche per pagare le tredicesime ai loro dipendenti, che per il 90% le useranno per pagare tasse e debiti. Anche il Comune di Messina, in attesa che la Ragioneria di Stato invii 35 milioni di euro per pagare le spese correnti (altri 5,7 milioni dovrebbero arrivare dalla Regione Sicilia) è andato in banca a chiedere un anticipo per pagare la tredicesima ai suoi 4.000 dipendenti. 17 dicembre 2013. La Cina e i maiali La Smithfield Foods è la più grande industria di produzione e lavorazione di carne di maiale al mondo: ogni anno alleva 16 milioni di capi e ne macella 27. Da settembre non è più americana: è stata acquistata dalla Shuanghui International Holdings con un’operazione da 4,7 miliardi di dollari, un record nella storia dello shopping cinese negli Usa. Il 10 dicembre, nella rubrica del “Guardian” Sustainable Business, Heather Duncan si chiede se c’è da star tranquilli. Già nel 1997, quando ancora la proprietà era americana, il colosso dell’industria suina era stato riconosciuto colpevole in Virginia di 7.000 violazioni della legge contro l’inquinamento delle acque; se la cavò con una multa-record da 12,6 milioni di dollari. In seguito, la Smithfield ha fatto molto per allinearsi agli standard più alti in materia di tutela ambientale, ottenendo riconoscimenti e portando tutte le fattorie controllate a certificazioni Iso 14001 (specifiche per la qua- lità ambientale). Come ci è riuscita? Scegliendo come “direttore della sostenibilità” Dennis Treacy, il cui precedente incarico era alla direzione del Dipartimento per la Qualità ambientale della Virginia. Proprio l’ufficio che aveva riscontrato le violazioni della Smithfield! In merito al passaggio di proprietà e ai timori in fatto di salvaguardia degli standard igienico-sanitari, Treacy ha commentato: “Sicuramente saranno loro a dover imparare qualcosa da noi”. Prima dell’acquisizione, la Shuanghui macellava 15 milioni di maiali l’anno e il suo boss, Wan Long come andava Il caso Pasternak (novembre 1958) Granzotto. Avrete notato anche voi, da alcune delle dichiarazioni che abbiamo ascoltato poco fa, soprattutto da quelle di Italo Calvino, che sono stati espressi dei dubbi sulla opportunità, sulla utilità dal punto di vista umano di queste proteste che si indirizzano in favore di Pasternak. E vorrei che noi discutessimo di questo, Muscetta mi pare che tu... Muscetta. Ora io penso che non si possa, non si debba andare avanti in una lotta di burocrati del comunismo e burocrati dell’anticomunismo. Che si scontrino in una guerra fredda. Tutto questo è artificioso, tutto questo non è sentito nell’atmosfera che viviamo oggi. Se noi vogliamo veramente stabilire un dialogo critico, che è quello che si richiede su Pasternak, perché quest’opera ha avuto degli elogi, ha avuto delle stroncature, ma non ha avuto ancora, io credo, una critica adeguata che metta in evidenza i grandi valori poetici e anche il fallimento. È una splendida opera fallita, se io dovessi dare un giudizio. Una splendida opera fallita. Io direi agli amici sovietici, cari amici sovietici, ma non privatevi di quest’opera, tenetela cara come tenete care nei vostri musei le icone della vecchia, santa Russia. Granzotto. Chiaromonte, ho visto che facevi segno di voler intervenire... Chiaromonte. E certo, certo. Perché ho sentito dire un po’ troppo spesso qui che in Occidente si è fatta una speculazione politica su Pasternak e che in particolare si è fatto di Pasternak un caso politico. Ora, questo è assurdo, questo è contrario ai fatti. Si nega l’evidenza quando si dice questo, perché qui in tutta questa storia, la politica l’ha fatta soltanto il governo sovietico, e l’ha fatta contro la cultura. Nello stesso momento, si può dire, in cui veniva condannato Pasternak, venivano anche proibite in Ungheria tutte le opere del filosofo marxista e comunista György Lukács. Con questi due atti combinati, io credo che ufficialmente il governo sovietico si sia messo fuori dalla cultura. Milano. Io volevo dire questo. Perché non facciamo parlare Pasternak medesimo? Cito testualmente: “Uno scrittore non deve fare propaganda né deve fare il moralista. No, non è questo lo scopo del mio romanzo, né di alcuna mia opera. Ma un poeta può far conoscere agli uomini la vita in tutta la sua ricchezza e in tutta la sua intensità, e con ciò egli fa più che tutte le dichiarazioni di pace, che tutti i decreti ufficiali. Egli aiuta gli uomini a vivere nel loro tempo”. Mi pare che questo metta in luce... Muscetta. Tu non credi che Pasternak si sia contraddetto, riempiendo il suo libro di decine e decine di pagine in cui lui fa una grande propaganda di quelle che sono le sue rispettabili -io non le condivido- concezioni del mondo... Milano. Ma non ti pare che... Muscetta. In forma retorica, in forma persino noiosa... Chiaromonte. Veramente di propaganda non si può parlare, è veramente un’offesa. Milano. Non ti pare che ti potrei dare un argomento... Muscetta. Io non ho parlato di propaganda... Chiaromonte. Parlare di Pasternak e dire che fa propaganda è un’offesa. Muscetta. Ma io non ho parlato di propaganda, tu mi vuoi attribuire un’offesa che io non gli ho fatta... Granzotto. Scusate, mi pare che la parola propaganda sia stata in partenza nelle dichiarazioni di Pasternak che ha letto Milano, Chiaromonte. Negandola, negandola. Granzotto. Muscetta ha detto una cosa un po’ diversa, sulla quale Chiaromonte è intervenuto dicendo che noi non dobbiamo offendere Pasternak. Credo che tutti noi siamo d’accordo che Pasternak non ha fatto propaganda. Muscetta, vuoi spiegarti? Muscetta. Scusa, il problema è che le buone intenzioni degli scrittori, come di tutti gli uomini, non contano. C’è un processo di contraddizione fra il programma di uno scrittore e quello che realizza, e bisogna discutere su quello che ha realizzato, non sulle sue intenzioni. Chiaromonte. E va bene pure, uno scrittore obbedisce scrivendo a tutte le sue passioni! Ha perfettamente ragione di obbedirci. Granzotto. In questo poco tempo che ci rimane, c’è un punto di partenza che ha dato origine al caso, e sono le accuse precise che l’Unione degli scrittori sovietici ha mosso a Pasternak, che sono accuse in senso critico, letterario e in senso politico. Vogliamo esaminarle, brevissimamente? Milano. È stato detto che il romanzo era artisticamente nullo, che il romanzo era volgare. Queste mi pare siano accuse che si confutano da sé. È stato detto che il romanzo è pieno di odio per il suo paese. Mi pare che il lettore imparziale veda in questo romanzo una delle caratteristiche della tradizione letteraria russa, un amore per il proprio paese addirittura mitico, addirittura appassionato... e questo mi pare un esempio... Muscetta. Per le foreste, soprattutto, molte foreste, foreste e cieli... Milano. Vorrei semplicemente dire che l’amore per il futuro del paese che ha Pasternak è an- che rappresentato da queste parole. Ancora una citazione, non del romanzo ma di sue parole recentissime: “La Russia, dopo la guerra, è entrata in un periodo di raccoglimento. Qualche cosa di nuovo sta prendendo forma, un nuovo modo di vedere la vita. Sì, le singole misure ufficiali non hanno importanza, ciò che di nuovo sta per svilupparsi cresce lo stesso, cresce nonostante gli interventi delle autorità, cresce organicamente nel seno stesso del nostro popolo”. Io mi chiedo se questo è un uomo che non è nel presente e nel futuro del suo paese. Granzotto. La cosa veramente preoccupante, che mi pare bisogna rilevare, e sulla quale non ci sono dubbi, è sulla gravità che il caso Pasternak sia accaduto, sulla gravità che questo caso riveste da qualunque angolo lo si vede, da qualunque parte della barricata ci si metta. Perché come fatto di cultura, direi è più grave ancora di una nota diplomatica aggressiva, o di una crisi strettamente politica, perché la diplomazia può rapidamente mutare i propri indirizzi e i propri interessi, ma quando non ci si intende, quando si è così divisi sui cardini essenziali della vita di società, della libertà della cultura, di certi valori fondamentali, del rispetto della dignità umana, eh, ci si accorge che le cortine di ferro esistono veramente e che rischiano di diventare invalicabili. Muscetta. Scusa se ti interrompo, ti vorrei domandare: ma credi che valga proprio la pena di fare una crociata per liberare il santo sepolcro del dottor Zivago? Chiaromonte. Ma che cosa c’entra la crociata! Di crociate ne avete fatte parecchie voialtri quando eravate nel Partito comunista! Granzotto. Vi chiedo scusa, perché il nostro tempo sta esattamente per scadere. Credo che con questa accorata osservazione, e con la speranza che non sia più il caso di doverle ripetere, di dover fare dei dibattiti su questi argomenti, noi chiudiamo la nostra trasmissione dopo avervi ringraziato e dopo aver dato a tutti i nostri telespettatori la più cordiale buona sera. Trascrizione del dialogo, moderato da Gianni Granzotto, fra Paolo Milano, Carlo Muscetta, Nicola Chiaromonte, avvenuto nel corso di un programma Rai trasmesso il 2 novembre del 1958 sul “caso Pasternak” (l’attribuzione del premio Nobel allo scrittore russo, poi rifiutato per pressioni del governo sovietico). Il servizio comprendeva anche interviste a Italo Calvino, Vasco Pratolini, Angelo Maria Ripellino, Ignazio Silone e Giangiacomo Feltrinelli, l’editore in Occidente del “Dottor Zivago”. Il video è consultabile su youtube. una città 41 un appunto da Parigi In Francia alle mail si risponde. E in Italia no. Ti rispondono alle mail i professori delle università, ti rispondono i giornali, ti rispondono agli annunci di lavoro. Anche solo per dire no. Penso che se iniziassimo, sistematicamente, a rispondere alle mail, il nostro paese andrebbe meglio. Non so dove, ma andrebbe meglio. Un esempio: all’ultima dichiarazione dei redditi che ho fatto ho pagato troppo. Avendo la tessera da giornalista avevo diritto a uno sgravio. Non lo sapevo, quindi l’errore era mio. Ho scritto qualche mail (non fax, non raccomandate), rompendo un minimo le scatole ed è bastato che inviassi i miei documenti scannerizzati per avere il rimborso nel giro di un mese. Con un assegno via posta. In Italia per avere i rimborsi passano due anni. E se nel frattempo hai cambiato lavoro, il sistema si inceppa perché non sanno dove farti l’accredito (te lo farebbero in busta paga, ma ora che le persone non hanno il posto fisso…) per cui rischi di perderli. In Francia ho avuto a che fare con l’Università, con il Pôle emploi (che si occupa dell’assistenza e della ricerca di lavoro), con la Sanità e con le l’Ufficio delle Entrate. Ho sempre avuto risposte in giornata o nel giro di pochi giorni. E ho sempre risolto i miei problemi. La Francia ha tanta, tantissima burocrazia. Fogli su fogli, giri negli uffici pubblici… Telefonate, richieste, chiarimenti, errori e soluzioni. Ma non dico “troppa” perché una volta che entri -soprannominato “Macellaio n°1 di Cina”- è membro dell’Assemblea Nazionale del popolo cinese. Ma soprattutto, è l’azienda che nel 2011 è finita sulle prime pagine di tutto il mondo per esser stata riconosciuta responsabile di aver inserito additivi cancerogeni nel mangime dei suini. Nessuna multa milionaria per loro: solo pubbliche scuse. A detta di Treacy, non ci saranno problemi. I cinesi (che nel 2012 hanno consumato 50 milioni di tonnellate di maiale, la metà della produzione mondiale) non vogliono trasferire la produzione dagli Usa, né modificare alcuna politica aziendale, ma importare in Cina carne americana di alta qualità: altro punto che ha fatto storcere il naso agli scettici. Larry Baldwin, dell’organizzazione ambientalista Waterkeeper Alliance, ha commentato: “Esporteremo più prodotto, ma sapete cosa ci lasceranno del maiale? Gli escrementi”. Il che potrebbe rimettere la Smithfield sotto i riflettori di chi non si è convinto della “svolta verde” degli ultimi anni. 17 dicembre 2013. Ancora maiali Sulla rivista online Usa “Slate”, il 4 dicembre Joshua Keating parla dell’ultimo viaggio di David Cameron in Cina: il premier inglese si è accordato per vendere seme suino “britannico” per un valore di 53 milioni di euro l’anno. Pare che i maiali britannici siano tra i migliori al mondo: crescono più in fretta, mangiano meno e, cosa fondamentale, si riproducono molto più velocemente dei loro simili cinesi. Cameron porta così a casa un accordo soddisfacente per gli allevatori britannici, cui prima dell’accordo era vietato esportare il prezioso seme suino in Cina. Pechino, dal canto suo, consolida la sua posizione di dominio del mercato suino mondiale. 42 una città nel sistema, che ti hanno “schedato” e che tutti i tuoi dati sono chiari, beh, funziona. Sei tutelato. Gli amici che in Italia, ad esempio, hanno avuto a che fare con l’Inps, mi raccontano di documenti richiesti, spesso inutili, che vengono persi. Di soldi che non arrivano, di ritardi, di informazioni perse. Altro esempio: i rimborsi delle spese mediche, quindi i farmaci o le visite. Come funziona in Italia? Ti devi tenere gli scontrini delle farmacie. E questo nonostante presenti il codice fiscale quando le compri (è un dato che permetterebbe a due ministeri di interfacciarsi ed evitare burocrazia, appunto). In Francia la tessera sanitaria -che qui si chiama Carte Vitale- ha un chip. Questa tessera la presenti in farmacia, se hai un medicinale prescritto, oppure dal medico, dopo una visita. O anche se devi fare gli esami del sangue. Paghi dopo la prestazione e ogni dottore, ambulatorio o farmacia è dotato di un terminale nel quale inserire la Carte Vitale. Nel giro di 20 giorni il rimborso relativo alla prestazione ti viene accreditato sul conto corrente. Basterebbe copiare. Si evaderebbero meno le tasse, si avrebbero meno problemi. E potremmo tutti, con grande sollievo, smettere di tenere gli scontrini. Francesca Barca 17 dicembre 2013. I Forconi Ora si misura la cecità dei politici a non tagliarsi drasticamente lo stipendio. Come potranno mandare la polizia contro gli esasperati? (tw) 17 dicembre 2013. Laurearsi Venerdì si è laureato in filosofia Ciro Ferrara, relatore il professor Giovanni Catapano, presidente di commissione il professor Antonio Da Re. L’argomento della tesi: il “tempo”, tra Sant’Agostino e Aristotele. Non essendo per lui possibile uscire, per la discussione di laurea è entrata la commissione, così come era accaduto per gli esami. Erano presenti il direttore, il personale dell’area educativa e la polizia penitenziaria, oltre a volontari, insegnanti, sacerdoti e operatori. La cerimonia e discussione di laurea si sono svolte nella biblioteca “Tommaso Campanella” della Casa di reclusione di Padova. Ciro è un “fine pena mai”, oggi ha 53 anni, di cui oltre la metà passati in carcere. (Ristretti Orizzonti) 17 dicembre 2013. Brutto tempo a Gaza Su “Haaretz” del 15 dicembre, Amira Haas ha raccontato gli effetti inattesi della tempesta che tra il 10 e il 14 dicembre ha colpito il Medio Oriente, provocando bufere di neve, piogge torrenziali e grandinate. Il nord della Striscia di Gaza è stato dichiarato dall’Onu “zona alluvionata”: fino a due metri d’acqua per le strade e più di 4.000 persone costrette a evacuare le proprie case. Per i già provati abitanti della Striscia, l’alluvione ha avuto un effetto imprevisto: Israele, che impone a Gaza sedici ore di blackout al giorno, ha deciso di ridurre l’interruzione di energia elettrica a otto ore. (haaretz.com) 18 dicembre 2013. Più poveri dei genitori Sul “Guardian” del 17 dicembre Larry Elliott illustra un’inquietante raccolta di statistiche elaborate dall’Institute for Fiscal Studies (Ifs) che riguarda gli inglesi nati negli anni Sessanta e Settanta. Rispetto ai nati del decennio precedente, il loro stipendio medio è rimasto uguale, è diminuita la quota dei possessori di casa e le loro pensioni saranno inferiori a quelle percepite dai nati negli anni Quaranta e Cinquanta. È la prima volta dalla Seconda guerra mondiale che una generazione sta peggio della precedente. Se gli effetti nel tessuto sociale non sono ancora più disastrosi è solo grazie alle ricchezze familiari e alle eredità. La nota curiosa è che nel 2000 gli stipendi dei nati degli anni Settanta erano significativamente più alti rispetto a quelli dei loro genitori, ma quella ricchezza extra non è stata risparmiata: è andata spesa. 18 dicembre 2013. La Spagna in vendita C’è stato un tempo, ricorda Sandrine Morel, corrispondente di “Le Monde” da Madrid, in cui la città di Barcellona progettava di trasformare la Casa Burès in un museo del modernismo. Oggi quell’edificio è in vendita. Costruito tra il 1900 e il 1905 da Francesc Berenguer i Mestres, amico di Antoni Gaudí, l’opera pare destinata a diventare un Hotel. Acquistata nel 2007 per 26 milioni di euro dalla città, rivenduta al governo catalano l’anno dopo, è stata rimessa in vendita nel 2011. Nonostante il prezzo sia sceso a 20 milioni, all’ultima fiera immobiliare a Monaco è rimasta invenduta. La Spagna, fatti “i compiti a casa” per riequilibrare la situazione economica, deve ridurre debito e deficit. La soluzione è vendere tutti i gioielli di famiglia: edifici storici, banche nazionalizzate, aeroporti, parchi nazionali, ospedali, immobili residenziali, grattacieli. “Tutto ciò che si può vendere verrà venduto”, ha spiegato il direttore generale del patrimonio di Catalogna. Il piano è di dar via un quarto del patrimonio dello Stato. Anche la carta di soggiorno è diventata merce di scambio: da qualche tempo gli stranieri che acquistano un immobile da 500.000 euro a due milioni, ricevono un permesso di soggiorno provvisorio, che diventa definitivo dopo cinque anni di residenza. (lemonde.fr) 19 dicembre 2013. Per l’Italia? Letta ha radunato gli ambasciatori: e chiedergli di adeguare lo stipendio alla media dei colleghi europei? Così, tanto per far qualcosa per l’Italia che rappresentano. (tw) 20 dicembre 2013. Dall’altra parte “Non voglio sapere cosa Dio ha in serbo per me; spero solo che ciò avvenga dall’altra parte”. Redouane, 26 anni, è un giovane algerino. E “dall’altra parte” c’è il Sud Europa che continua a far sognare milioni di giovani del Maghreb e dell’Africa sub-sahariana. “La giovinezza è una materia prima che certo non manca all’Algeria”, commenta Rachid Laireche, inviato speciale ad Algeri per “Libération”: 38 milioni di abitanti hanno meno di 19 anni. Solo che la maggior parte di questi giovani, come Redouane, non ha mai lavorato ed è costretto a vivere coi genitori e i fratelli e le sorelle, senza alcuna prospettiva. Così l’unica chance è il visto. “Dall’altra parte” però non è proprio come questi giovani immaginano. E per qualcuno il sogno diventa quello di tornare. Abdelaziz, 29 anni, cresciuto a Montréal, preso il diploma, nel 2009 ha fatto le valigie ed è tornato in Algeria, perché è un paese ricco e “senza debiti” (una rarità in Occidente) e quindi se c’è qualche chance di diventare ricchi è più facile che succeda qui. Nonostante alcuni incentivi, la strada per Abdelaziz si sta presentando in salita. Anche il rapporto con i familiari non è così facile: non capiscono. Lui invece resta della sua idea: l’Algeria è un paese in pieno sviluppo e pieno di possibilità. A pensarla così è anche Madjid, 32 anni: è ad Algeri per sondare, ma vive ancora in Francia, guida l’autobus a Parigi e sogna di investire i suoi pochi risparmi “dall’altra parte”, in Algeria. Il suo progetto è di aprire un’agenzia immobiliare. Il cugino Sofiane (28 anni), lo prende in giro: piuttosto di fare il povero in Francia, preferisci fare il padrone qui. Sofiane invece non sogna altro che di partire. Madjid lo provoca: “Qui non sapete fare altro che lamentarvi”. Sofiane sorride e risponde: “Anche voi in Francia non fate che compatirvi… ma cosa credete? Vieni a star qui, facciamo cambio e vedrai la differenza”. (liberation.fr) 21 dicembre 2013. Grattando briciole Ma non lo vediamo che non ce la fanno? Che stan lì a grattar briciole per spostarle di qua e di là? Poi arriverà l’ennesimo salvatore... (tw) 21 dicembre 2013. Eyad El Sarraj È morto Eyad El Sarraj, psichiatra palestinese, era nato a Beer Sheva nel 1944. Nel 1948, lui e la sua famiglia erano stati costretti ad andarsene e si erano trasferiti a Gaza. Aveva studiato in Egitto e si era laureato a Londra. Da sempre impegnato per la tutela dei diritti umani, è stato il fondatore e presidente del Gaza Community Mental Health Programme. Nel 1996 è stato incarcerato per aver denunciato e condannato la tortura e le violazioni ai diritti umani commessi dall’Autorità Palestinese. Il suo impegno primario era teso alla riabilitazione della popolazione palestinese, con particolare attenzione ai bambini e agli adolescenti traumatizzati, e ai loro modelli educativi. L’avevamo intervistato nel 2003, quando ci aveva raccontato, tra l’altro, che il 55% dei bambini palestinesi aveva assistito al pestaggio del padre e che il 24% sognava di diventare un martire. E poi ancora nel 2009 all’indomani del ritiro dell’esercito israeliano da Gaza. 23 dicembre 2013 Bravo Renzi. Ottima l'idea del servizio civile obbligatorio. Era una fissa di Vittorio Foa, inascoltato. (tw) neodemos.it LA SVOLTA DELLA CINA: I FIGLI UNICI AVRANNO UNA SORELLA, O UN FRATELLO! di Steve S. Morgan Il Plenum del comitato centrale del partito comunista cinese ha finalmente decretato il tramonto della politica del figlio unico (Pfu). Ne ha dato notizia l’agenzia ufficiale Xinhua lo scorso 15 novembre. Con cautela e gradualità, ma la fine della politica inaugurata da Deng Xiaoping nel 1979, imposta con pugno di ferro, e mantenuta con poche varianti per più di un terzo di secolo, è oramai certa. Potremmo dire che si tratta di una morte “naturale”: nata con un preciso scopo -il rallentamento della vertiginosa crescita demografica- la Pfu si estingue poiché i suoi obbiettivi sono stati praticamente raggiunti. La politica del figlio unico e la sua riforma La Pfu -ancora formalmente in piedi- si basa sulla sottoscrizione, da parte delle coppie, di un “certificato di figlio unico” che concede vantaggi monetari e sociali ai sottoscrittori e penalità severe ai trasgressori. Nelle aree urbane le eccezioni sono possibili solo per una ristretta casistica, tra cui le coppie formate da partner ambedue figli unici. Dopo oltre trent’anni di vigenza della Pfu, sono oramai una maggioranza i nuovi matrimoni nei quali i contraenti sono ambedue figli unici e quindi esenti dall’obbligo di fermarsi al primo figlio. Nelle aree rurali, invece, la politica finora in atto permette alle coppie con una figlia femmina di avere un secondo figlio. Infine, nelle aree popolate da minoranze, le restrizioni sono ancora minori. Nell’insieme, la rigida applicazione di queste norme implicherebbe un numero medio di figli per donna pari a 1,5, poco meno della media effettivamente registrata dalle statistiche ufficiali. La nuova politica prevede che tutte le coppie nelle quali un partner (e non ambedue) è figlio unico possano avere un secondo figlio; le nuove regole entreranno in vigore man mano che ciascuna delle 33 Province recepirà le direttive emanate dal centro. Gli effetti della svolta Sugli effetti “numerici” della nuova normativa, gli analisti hanno pareri abbastanza concordi: si creerà un transitorio aumento delle nascite, dato che un certo numero di coppie si trova nella condizione prevista per beneficiarne (coppie con un solo figlio, madre o padre figlio unico, e in età di avere figli). Un’indagine della National Health and Family Planning Commission valuta in 15-20 milioni il numero di queste coppie, delle quali una metà interessate ad avere un secondo figlio nei prossimi anni. Wang Feng, un noto demografo che insegna in Cina e negli Usa, valuta in 1-2 milioni l’anno, nel prossimo triennio, le nascite addizionali, con un incremento dell’ordine del 6-12% rispetto ai 16 milioni di nascite attuali; l’effetto svanirebbe negli anni successivi. Non cambierà dunque la rotta della demografia cinese: la bassa fecondità è oramai interiorizzata dalle coppie e i processi di veloce invecchiamento e il rallentamento, l’arresto e poi la flessione della popolazione (il punto di svolta si situerebbe attorno al 2030), seguiranno il loro corso. Oltre la demografia, la politica La motivazione della svolta non è stata dettata da considerazioni demografiche, ma è di natura del tutto politica. La Pfu fu imposta su una popolazione riluttante ad accettare un’intrusione così violenta nelle decisioni private: oltre al generale scontento, le proteste e anche le ribellioni sono state molto frequenti e solo episodicamente ne è trapelata notizia fuori del paese. Il vertiginoso sviluppo economico ha poi reso sempre più clamorosa la contraddizione tra la liberalizzazione dei comportamenti individuali nei consumi e negli stili di vita e la rigida regolazione dei comportamenti riproduttivi. Già da tempo, voci autorevoli di studiosi e di organizzazioni scientifiche cinesi invocavano la fine della Pfu. Le nuove regole fanno presagire che non sia lontano il momento nel quale la Pfu verrà definitivamente e ufficialmente abbandonata. Essa ha oramai fatto il suo tempo e ottenuto i suoi scopi: non fosse intervenuta, oggi la popolazione cinese sarebbe di varie centinaia di milioni più elevata dei 1.385 oggi (2013) raggiunti. La Pfu ha consentito di raggiungere l’autosufficienza alimentare, ha creato una “finestra” di opportunità lunga qualche decennio che ha sostenuto lo sviluppo, poiché una rigogliosa popolazione in età attiva ha coinciso con una contenuta popolazione bisognosa di trasferimenti: bambini e giovani via via meno numerosi e anziani ancora non in forte crescita. La Pfu ha però una faccia oscura e minacciosa, e per vari motivi. Ha imposto forti penalità a coloro che trasgredivano la regola del figlio unico; ha causato un’abortività selettiva per genere, che ha portato il rapporto tra nati maschi e nate femmine a un insostenibile livello (fino a 1,2 nella media nazionale); sta determinando una distorsione del mercato matrimoniale per l’eccesso di giovani uomini rispetto alle giovani donne, con effetti ancora tutti da verificare ma sicuramente negativi. Ha attirato le critiche dei difensori dei diritti umani di tutto il mondo per i suoi aspetti coercitivi. Gli oppositori e gli scontenti della svolta Ci sono, naturalmente, anche gli oppositori della svolta. Anzitutto i conservatori, affezionati a un regime assestato da decenni e al potere di controllo sulle vite dei cittadini che la Pfu esercitava. Poi gruppi organizzati, in primo luogo la potente Commissione per la Pianificazione Familiare, un ente “indipendente” (solo da quest’anno integrata nel Ministero della Sanità) con mezzo milione di dipendenti, attivisti in tutto il paese, percettore delle multe inflitte ai trasgressori della Pfu (2,7 milioni di dollari nel 2012) e con notevole influenza politica. E, infine, scontenti e feriti sono tutti coloro che avendo “trasgredito” il patto del figlio unico hanno pagato forti multe e subìto penalità: il loro secondo figlio è stato cresciuto nelle ristrettezze per le imposizioni di una politica adesso svanita. Come dare loro torto? Per saperne di più Gustavo De Santis e Massimo Livi Bacci, I tre giganti. Cina, India e Stati Uniti, www.neodemos.it, 2013. una città 43 NOVE MASSIME da un intervento di Luigi Ferrajoli Il mio contributo a questo congresso, come antico esponente di Magistratura democratica, sarà l’indicazione di nove massime deontologiche, soprattutto in materia di giustizia penale, suggeritemi proprio da quella pratica e da quella concezione e che vanno ben al di là delle ovvie regole stipulate nel codice deontologico elaborato dall’Associazione nazionale magistrati. Prima. La consapevolezza del carattere “terribile” e “odioso” del potere giudiziario. La prima regola di deontologia giudiziaria democratica è forse la più sgradevole. Consiste nella consapevolezza, che sempre dovrebbe assistere qualunque giudice o pubblico ministero, che il potere giudiziario è un «potere terribile», come lo chiamò Montesquieu (De l’esprit des lois, 1748). Non dunque un potere buono o giusto, ma un potere «odioso», come scrisse Condorcet (Idées sur le despotisme, 1789); odioso perché, diversamente da qualunque altro pubblico potere -legislativo, politico o amministrativo- è un potere dell’uomo sull’uomo, che decide della libertà ed è perciò in grado di rovinare la vita delle persone sulle quali è esercitato. Dunque, un potere terribile e odioso -soprattutto quello penale- che solo le garanzie possono limitare, ma non annullare, e che è perciò tanto più legittimo quanto più è limitato dalle garanzie. Seconda. La consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale e perciò di un margine irriducibile di illegittimità dell’esercizio della giurisdizione. La seconda regola muove anch’essa da una consapevolezza che dovrebbe sempre assistere l’esercizio della giurisdizione: quella di un margine irriducibile di illegittimità del potere giudiziario, il quale può essere ridotto, ma non eliminato, dal rigoroso rispetto delle garanzie, prima tra tutte, come prosegue il passo sopra citato di Condorcet, la «stretta soggezione del giudice alla legge». Se è vero infatti che la legittimazione della giurisdizione si fonda sulla verità processuale accertata mediante l’applicazione della legge e che la verità processuale è sempre una verità relativa e approssimativa, opinabile in diritto e probabilistica in fatto, allora anche la legittimazione del potere giudiziario -come del resto la legittimazione di qualunque altro potere pubblico, a cominciare dalla rappresentatività dei poteri politici- è sempre, a sua volta, relativa e approssimativa. […] Terza. Il valore del dubbio e la consapevolezza della permanente possibilità dell’errore in fatto e in diritto. La terza regola della deontologia giudiziaria riguarda l’accertamento della verità fattuale e consiste nel costume e nella pratica del dubbio conseguente a una terza consapevolezza: che la verità processuale fattuale non è mai una verità assoluta o oggettiva, ma è sempre, come dicevo, una verità probabilistica e che è sempre possibile l’errore. Intendo dire che le sole verità assolute sono quelle tautologiche della logica e della matematica, mentre in materia empirica -nelle scienze naturali, nella storiografia e quindi anche in qualunque indagine o accertamento processuale- la verità assoluta è irraggiungibile e per questo si richiede, quale debole surrogato di un’impossibile certezza oggettiva, quanto meno la certezza soggettiva, cioè il libero convincimento del giudice; che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di conferme e di induzioni e che quindi, nonostante le prove e il convincimento, qualun- 44 una città que sentenza può essere sbagliata perché le cose potrebbero essersi svolte diversamente da quanto da essa ritenuto. È su questo tratto epistemologico del giudizio che si basa questa terza regola della deontologia giudiziaria: il valore del dubbio, il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, la prudenza del giudizio -da cui il bel nome “giuris-prudenza”- come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria e in generale delle discipline giuridiche, la consapevolezza, in breve, che sempre è possibile l’errore, sia di fatto che di diritto. Per questo è inammissibile che un magistrato del pubblico ministero scriva un libro intitolato Io so a proposito di un processo in corso da lui stesso istruito. Quarta. La disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni e l’indifferente ricerca del vero. Di qui una quarta regola deontologica: la disponibilità dei giudici, ma anche dei pubblici ministeri, all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni e l’esposizione alla confutazione e alla falsificazione, giuridica oltre che fattuale, delle ipotesi accusatorie. È il classico principio popperiano della falsificabilità quale banco di prova della consistenza e della plausibilità di qualunque tesi empirica. È in questa disponibilità sia del giudizio che della pubblica accusa a esporsi e a sottoporsi alla confutazione da parte di chi dell’accusa deve sopportare le penose conseguenze, che risiede il valore etico, oltre che epistemologico, del pubblico contraddittorio nella formazione della prova. Quella disponibilità esprime un atteggiamento di onestà intellettuale e di responsabilità morale, basato sulla consapevolezza epistemologica della natura non più che probabilistica della verità fattuale. Essa esprime lo spirito stesso del processo accusatorio, in opposizione all’approccio inquisitorio, il cui tratto inconfondibile e fallace è invece la resistenza del pregiudizio accusatorio a qualunque smentita o controprova, cioè la petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi accusatoria, che dovrebbe essere suffragata da prove e non smentita da controprove, è apoditticamente assunta come vera e funziona da criterio di orientamento delle indagini, cioè da filtro selettivo delle prove -credibili se la confermano, non credibili se la contraddicono- e risultando perciò infalsificabile. Dipende principalmente da questa disponibilità all’ascolto di tutte le opposte ragioni l’imparzialità e la terzietà del giudizio, e anche delle indagini istruttorie. Il giudizio, come scrissero Cesare Beccaria e ancor prima Ludovico Muratori, deve consistere «nell’indifferente ricerca del vero». È su questa indifferenza, che è propria di ogni attività cognitiva e comporta la costante disponibilità a rinunciare alle proprie ipotesi di fronte alle loro smentite, che si fonda il processo che Beccaria chiamò «informativo», in opposizione a quello che chiamò invece «processo offensivo», nel quale, egli scrisse: «il giudice diviene nemico del reo» e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose» (Dei delitti e delle pene, 1766). È chiaro che questa quarta regola deontica esclude in primo luogo l’idea dell’imputato come nemico e, più in generale, ogni spirito partigiano o settario. Ma essa esclude anche l’idea, frequente nei pubblici ministeri, che il processo sia un’arena nella quale si vince o si perde.[...] Quinta. La comprensione e la valutazione equitativa della singolarità di ciascun caso. La quinta regola della deontologia giudiziaria è quella dell’equità, che è una dimensione conoscitiva del giudizio, di solito ignorata […]. Questa dimensione riguarda la comprensione e la valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun fatto, di ciascun caso, di ciascuna vicenda sottoposta a giudizio un fatto e un caso irriducibilmente diversi da qualunque altro, pur se sussumibile nella medesima fattispecie legale. Giacché ogni fatto è diverso da qualunque altro, e il giudice, ma ancor prima il pubblico ministero, non può sottrarsi alla comprensione equitativa dei suoi specifici e irripetibili connotati. Ed è chiaro che la comprensione del contesto, delle concrete circostanze, delle ragioni singolari del fatto comporta sempre un atteggiamento di indulgenza, soprattutto a favore dei soggetti più deboli. E questa indulgenza equitativa non può non intervenire nella decisione della misura della pena detentiva, che non può ignorare, come ha ricordato Luigi Marini, il carattere disumano, riconosciuto dalla recente sentenza della Corte europea dei diritti umani, delle condizioni di vita dei detenuti, in contrasto con il principio costituzionale che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità»; una consapevolezza che dovrebbe sempre suggerire l’applicazione della pena detentiva solo quando è inevitabile e nella misura del minimo previsto dalla legge. Sesta. Il rispetto di tutte le parti in causa. La sesta regola deontologica è il rispetto per le parti in causa, incluso l’imputato, chiunque esso sia, soggetto debole o forte, incluso il mafioso o il terrorista o il politico corrotto. Il diritto penale nel suo modello garantista equivale alla legge del più debole. E non dimentichiamo che se nel momento del reato il soggetto debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono altrettante leggi del più debole. Questa regola del rispetto delle parti in causa, e in particolare dell’imputato, è un corollario del principio di uguaglianza, dato che equivale al postulato della “pari dignità sociale” di tutte le persone, inclusi quindi i rei, enunciato dalla nostra Costituzione. Ma essa è anche un corollario del principio di legalità, in forza del quale si è puniti per quel che si è fatto e non per quel che si è, si giudica il fatto e non la persona, il reato e non il suo autore, la cui identità e interiorità sono sottratte al giudizio penale. Aggiungo che nel processo penale questo rispetto per l’imputato vale a fondare quell’asimmetria che sempre deve sussistere tra la civiltà del diritto e l’inciviltà del delitto, che è la principale forza della prima quale fattore di delegittimazione e di isolamento della seconda. Settima. La capacità di suscitare la fiducia delle parti, anche degli imputati. La settima regola deontologica riguarda il rapporto con l’opinione pubblica e con le parti in causa. Il magistrato, lo si è detto più volte, non deve cercare il consenso della pubblica opinione: un giudice deve anzi essere capace, sulla base della corretta cognizione degli atti del processo, di assolvere quando tutti chiedono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione. Le sole persone di cui i magistrati devono riuscire ad avere non già il consenso, ma la fiducia, sono le parti in causa e principalmente gli imputati: fiducia nella loro imparzialità, nella loro onestà intellettuale, nel loro rigore morale, nella loro competenza tecnica e nella loro capacità di giudizio. Ciò che infatti delegittima la giurisdizione è non tanto il dissenso e la critica, che non solo sono legittimi ma operano come fattori di responsabilizzazione, bensì la sfiducia nei giudici e ancor peggio la paura generate dalle viola- zioni delle garanzie stabilite dalla legge proprio da parte di chi la legge è chiamato ad applicare e che dalla soggezione alla legge ricava la sua legittimità. [...] Ottava. Il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare. L’ottava è una regola di sobrietà e riservatezza. Ciò che i magistrati devono evitare con ogni cura, nell’odierna società dello spettacolo, è qualunque forma di protagonismo giudiziario e di esibizionismo. Si capisce la tentazione, per quanti sono titolari di un così terribile potere, della notorietà, dell’applauso e dell’autocelebrazione come potere buono. Ma questa tentazione vanagloriosa deve essere fermamente respinta. La figura del “giudice star” è la negazione del modello garantista della giurisdizione. Soprattutto è inammissibile -e dovrebbe essere causa di astensione e ricusazione- che i magistrati parlino in pubblico, e meno che mai in televisione, dei processi loro affidati. Invece abbiamo assistito in questi mesi a trasmissioni televisive desolanti, nelle quali dei pubblici ministeri parlavano dei processi da loro stessi istruiti, sostenevano le loro accuse, lamentavano gli ostacoli o il mancato sostegno politico alle loro indagini, addirittura discutevano e polemizzavano con un loro imputato e, peggio ancora, formulavano pesanti insinuazioni senza contraddittorio. Qui siamo di fronte non solo alla lesione di quel costume del dubbio e del rispetto per le parti in causa di cui ho prima parlato, ma anche a una strumentalizzazione del proprio ruolo istituzionale, talora con accenti di pura demagogia. Sappiamo bene, per averlo sperimentato in questi anni, quanto il populismo politico sia una minaccia per la democrazia rappresentativa. Ma ancor più minacciosa è la miscela di populismo politico e di populismo giudiziario. Quanto meno il populismo politico punta al rafforzamento, sia pure demagogico, del consenso, cioè della fonte di legittimazione che è propria dei poteri politici. Ben più grave è il populismo giudiziario, che diventa intollerabile allorquando serve da trampolino per carriere politiche. Nona. Il rifiuto anche solo del sospetto di una strumentalizzazione politica della giurisdizione. Vengo così alla nona e ultima regola deontologica. Essa consiste non solo, come è ovvio, nel non piegare il giudizio penale a fini politici, ma anche nel non dar luogo neppure al più lontano sospetto di una strumentalizzazione politica della giurisdizione. Oggi l’immagine della magistratura presso il grande pubblico rischia di identificarsi con quella di tre pubblici ministeri divenuti noti per le loro inchieste, i quali hanno dato vita a una lista elettorale capeggiata da uno di loro, promossa da un altro con il contributo del partito personale del terzo. È un’immagine deleteria, che compromette la credibilità della magistratura, oltre che delle stesse inchieste che hanno reso noti quei magistrati. Ebbene, quell’immagine pone all’ordine del giorno la questione della partecipazione dei magistrati alle competizioni elettorali. [...] trovo convincenti, in proposito, almeno le indicazioni suggerite da Giuseppe Cascini in un recente articolo sulla non candidabilità del magistrato nel luogo in cui ha esercitato le funzioni e poi nell’esclusione del suo rientro in tale luogo dopo la fine del mandato elettorale. Forse sarebbero opportune le dimissioni di chi si candida a funzioni pubbliche elettive: un onere che, se anche non stabilito dalla legge, dovrebbe oggi essere avvertito da qualunque magistrato come un dovere elementare di deontologia professionale. Intervento pronunciato da Luigi Ferrajoli l’1 febbraio al congresso di Magistratura democratica. la visita O ferito laggiù nel valloncello, tanto invocasti se tre compagni interi cadder per te che quasi più non eri. Tra melma e sangue tronco senza gambe e il tuo lamento ancora, pietà di noi rimasti a rantolarci e non ha fine l’ora, affretta l’agonia, tu puoi finire, e nel conforto ti sia nella demenza che non sa impazzire, mentre sosta il momento il sonno sul cervello, lasciaci in silenzio grazie, fratello. Clemente Rebora “Viatico” Cimitero di Stresa Comitato redazionale: Barbara Bertoncin, Guia Biscàro, Francesco Ciafaloni, Luciano Coluccia, Fausto Fabbri, Joan Haim, Silvana Massetti, Annibale Osti, Paola Sabbatani, Alessandro Siclari, Gianni Saporetti (direttore responsabile). Collaboratori: Isabella Albanese, Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Giorgio Bacchin, Luca Baranelli, Sergio Bevilacqua, Marzia Bisognin, Stephen Eric Bronner, Thomas Casadei, Enrica Casanova, Alessandro Cavalli, Carlo De Maria, Michele Dori, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Enzo Ferrara, Andrea Furlanetto, Carlo Giunchi, Bel Greenwood, Anna Hilbe, Stefano Ignone, Massimo Livi Bacci, Giovanni Maragno, Franco Melandri, Cristina Palozzi, Cesare Panizza, Giovanni Pasini, Iole Pesci, Edi Rabini, Alberto Saibene, Ilaria Maria Sala, Sulamit Schneider, Franco Travaglini, Alessandra Zendron. Hanno collaborato: Nadia Bizzotto, Francesca Caminoli, Francesca De Carolis, Antonio Fedele, Paolo Ferri, Alberto Mattei. Foto. La copertina è di Laura Spannenberg. Proprietà ed editore: Una Città società cooperativa. Amministrazione: Silvana Massetti. Questo numero è stato chiuso il 23 dicembre 2013. UNA CITTA’ una città 45 reprint www.bibliotecaginobianco.it riandare al passato per ripensare il presente L’OSPIZIO DEGLI INVALIDI I giovedì, quando non si era puniti, e le domeniche, si dedicava la mattinata alle compere e alle faccende domestiche. Il pomeriggio, Pierre e Jacques potevano uscire assieme. Nella bella stagione c’era la spiaggia delle Sablettes, oppure la piazza d’armi, vasto terreno sterrato, dove c’era un campo di football rozzamente delimitato, con numerose corsie per giocatori di bocce. Vi si poteva giocare a football, il più delle volte con un pallone di stracci e squadre di marmocchi arabi e francesi, che si formavano sul posto. Ma il resto dell’anno i due bambini si recavano nell’Ospizio degli Invalidi di Kouba, dove la madre di Pierre, dopo aver lasciato l’impiego alle poste, era capo-guardarobiera. Kouba era il nome d’una collina a oriente di Algeri, a un capolinea tramviario; qui, invero, la città finiva e cominciava la mite campagna di Sahel, con i suoi dolci colli, le acque relativamente abbondanti, i prati quasi lussureggianti, i campi di terra rossa e invitante, scanditi in distanza da tronchi di alti cipressi o da canneti. Vigneti, alberi da frutto, granturco vi crescevano ubertosi, senza gran fatica. Per chi veniva dalla città e dai suoi quartieri bassi, umidi e caldi, l’aria sembrava tanto più viva, e la si considerava salubre. Per gli algerini, i quali non appena possedevano qualche soldo o una piccola rendita d’estate scappavano da Algeri e se ne andavano in Francia, dove il clima è più temperato, bastava che in una località qualsiasi si respirasse un’aria un po’ più fresca per battezzarla aria di Francia. E così, a Kouba si respirava aria di Francia. L’Ospizio degli Invalidi, creato poco dopo la guerra per i mutilati in pensione, si trovava a cinque minuti dal capolinea. Era un vecchio convento, vasto, dall’architettura complicata, dai molteplici ingressi sotto ali aggiunte, dalle grosse mura imbiancate a calce, porticati e ampie sale fresche con soffitti a volta. In esse erano stati collocati i refettori e i servizi. In una di queste sale si 46 una città trovava il guardaroba diretto dalla signora Marlon, la madre di Pierre. Tra l’odore di ferri caldi e di biancheria umida, affiancata da due lavoranti, una araba e l’altra francese, ella si occupava per prima cosa dei bambini, dava loro un pezzo di pane e cioccolato ciascuno e poi, rimboccandosi le maniche sulle belle braccia floride e robuste, diceva: «Mettetevi questo in tasca per le quattro e andate in giardino, che io ho da fare». I bambini incominciavano con le corse per i porticati e i cortili interni; il più delle volte consumavano la merenda immediatamente per sbarazzarsi del pane, che non sapevano dove mettere, e del cioccolato, che si fondeva tra le dita. S’imbattevano nei mutilati, chi senza un braccio e chi senza una gamba, e chi sistemato su una carrozzella a ruote di bicicletta; non vi erano né sfigurati né ciechi: soltanto mutilati, vestiti con proprietà, spesso decorati. La manica della camicia o della giacca, o la gamba del pantalone, era ripiegata con cura e fermata attorno al moncherino invisibile con una spilla di sicurezza: non era orribile. Ce n’erano molti, e i bambini, passata la sorpresa del primo giorno, li consideravano alla stessa stregua di tutto ciò che scoprivano di nuovo e che subito incorporavano nell’ordine naturale delle cose. La signora Marlon aveva spiegato loro che quegli uomini avevano perduto un braccio o una gamba in guerra, e la guerra faceva parte integrante del loro universo, non sentivano parlar d’altro. La guerra aveva influito su tante cose attorno a loro che non stentavano affatto a capire che ci si potesse perdere un braccio o una gamba, e che anzi la si potesse addirittura definire come un’epoca della vita durante la quale si perdono le gambe e le braccia. Quindi quell’universo di storpi non era affatto triste, per loro: alcuni erano cupi e taciturni, è vero, ma la maggior parte erano giovani, sorridenti, e scherzavano persino sulla propria infermità. Ce n’era uno biondo, con un faccione quadrato, pieno di salute, che si vedeva spesso in giro nel guardaroba: «M’è rimasta una gamba sola -diceva ai due bambini- ma a darvi un calcio nel sedere ci riesco benissimo» e, appoggiandosi con la mano destra sul bastone e con la sinistra sul parapetto della galleria, si drizzava e lanciava il suo unico piede nella loro direzione. I bambini ridevano insieme a lui, poi se la davano a gambe: pareva loro normale d’essere i soli a poter correre o a servirsi delle due braccia. Una volta però che giocando a football Jacques s’era storto un piede e aveva trascinato la gamba per qualche giorno, fu colpito dal pensiero che gli invalidi del giovedì si trovavano per esempio nell’impossibilità di correre, prendere un tram in movimento o colpire una palla. Allora gli apparve tutt’a un tratto il miracolo della macchina umana e, al tempo stesso, lo colse un’angoscia cieca al pensiero che avrebbe potuto esser mutilato anche lui. Poi, la cosa gli passò di mente. I bambini passavano accanto ai refettori dalle persiane semichiuse, dove le grandi tavole, tutte rivestite di zinco, luccicavano debolmente nella penombra; poi, alle cucine, dai recipienti enormi, caldaie, pentole, da cui esalava un odore persistente di grasso fritto. Nell’ala estrema, scorgevano le camere a due o tre letti con le coperte grigie, e gli armadi di legno bianco. Infine, per una scala esterna, scendevano in giardino. Tutt’intorno all’Ospizio degli Invalidi si stendeva un gran parco quasi interamente abbandonato. Alcuni invalidi s’erano assunti il compito di coltivare cespugli di rose e aiuole di fiori, nonché un orticello, cinto da grandi siepi di canne verdi; ma più in là il parco, che in altri tempi era stato magnifico, era incolto. Eucalipti immensi, palme regali, alberi di cocco, tronchi di ficus colossali, i cui rami bassi mettevano radici più lontano, creando un labirinto vegetale denso d’ombra e di mistero, cipressi folti e compatti, aranci vigorosi, boschetti di oleandri rosa e bianchi straordinariamente sviluppati dominavano viali semicancellati dove l’argilla aveva inghiottito la ghiaia e il tracciato veniva corroso da un groviglio odoroso di lillà, gelsomini, passiflora, clematide, caprifoglio in cespugli, invasi a loro volta da un rigoglioso tappeto di trifoglio, di acetosella e di erbe selvatiche. Passeggiare in quella giungla profumata, arrampicarvisi, nascondervisi col naso al livello dell’erba, aprirsi il varco a colpi di coltello nell’intrico dei rami, uscirne infine con le gambe zebrate e il viso stillante d’acqua, era inebriante. Altra occupazione che riempiva gran parte del pomeriggio era la confezione di terribili veleni. Sotto una vecchia panca di pietra addossata a un muro coperto di vite selvatica i bambini avevano accumulato tutto un armamentario di tubetti d’aspirina, boccette di medicinali, vecchi calamai, cocci rotti, tazze sbeccate, che costituiva il loro laboratorio. Là, sperduti nel più fitto del parco, a riparo dagli sguardi, preparavano i loro filtri misteriosi. L’oleandro rosa ne era la base, semplicemente perché avevano spesso sentito dire che la sua ombra era malefica e che l’imprudente il quale si fosse addormentato ai suoi piedi non si sarebbe mai più svegliato. Le foglie dell’oleandro e il fiore, quando era la stagione, venivano dunque lungamente macinati, tra due pietre, fino a farne una poltiglia maligna, il cui solo aspetto prometteva una morte orribile. Lasciata all’aria aperta, questa poltiglia assumeva subito iridescenze particolarmente terribili; nel frattempo, uno dei bambini andava di corsa a riempire d’acqua una vecchia bottiglia. Poi venivano macinate le bacche dei cipressi, le cui doti malefiche apparivano certe ai bambini per l’incerto motivo che il cipresso è l’albero dei cimiteri. Le raccoglievano sull’albero, non a terra dove, ormai secche, asciutte e sode, avevano un irritante aspetto di salute. Mescolavano in una vecchia tazza le due poltiglie, le coprivano d’acqua, poi le filtravano attraverso un fazzoletto sporco; il succo che se ne ricavava, d’un verde inquietante, veniva maneggiato con tutte le precauzioni che si devon prendere con un veleno fulminante e poi travasato con cura entro tubetti d’aspirina o boccette di farmacia che venivano tappate evitando di toccare il liquido. Quel che restava veniva mescolato con altre poltiglie composte di tutte le bacche disponibili, al fine di confezionare una serie di veleni di virulenza progressiva, scrupolosamente numerati e riposti sotto la panca di pietra fino alla settimana seguente, affinché la fermentazione rendesse quegli elisir irreparabilmente funesti. Terminata quell’opera tenebrosa, Jacques e Pierre contemplavano estatici la collezione di sinistre boccette, e annusavano beati l’odore acido e amaro esalato dalla pietra maculata di poltiglia verde. I veleni, del resto, non erano destinati a nessuno: quei chimici calcolavano il numero di persone che avrebbero potuto sopprimere spingendo talvolta l’ottimismo fino a supporre d’averne fabbricata una quantità sufficiente per spopolare la città; ma non avevano mai pensato che quelle magiche droghe potessero sbarazzarli d’un compagno di scuola o d’un insegnante antipatico. Il fatto è che non detestavano nessuno, cosa che avrebbe loro non poco nuociuto nell’età adulta e nella società nella quale erano destinati a vivere. Ma le giornate importanti erano quelle di vento. Uno dei lati dell’Ospizio che dava sul parco confinava con quella che, in altri tempi, era stata una terrazza. La balaustra di pietra giaceva tra l’erba, ai piedi della vasta base di cemento coperta di mattoni rossi. Dalla terrazza, aperta su tre lati, si dominava il parco e, oltre il parco, un dirupo che separava la collina di Kouba da uno degli altipiani di Sahel. La terrazza era orientata in modo che, quando si alzava il vento di levante, sempre violento ad Algeri, veniva sferzata in pieno per il lungo. I bambini, in quelle giornate, correvano verso i primi palmizi; ai piedi di essi, c’erano sempre distesi lunghi rami secchi: ne raschiavano la base per asportarne la parte pungente e poterli impugnare a due mani; poi, trascinandosi dietro le palme, correvano verso la terrazza. Il vento soffiava furioso, fischiava tra gli immensi eucalipti squassandone pazzamente i rami più alti, spettinava i palmizi, gualciva con un rumore di carta le larghe foglie lucide degli alberi di ficus. Bisognava arrampicarsi sulla terrazza, issarvi le palme e mettersi spalle al vento; poi, i bambini prendevano a piene mani le palme secche e stridenti, le proteggevano in parte con i loro corpi, e si voltavano di scatto: la palma s’incollava immediatamente a loro, ed essi ne respiravano l’odor di paglia e di polvere. Il gioco consisteva nell’avanzare contro il vento, levando la palma sempre più in alto: vinceva quello che riusciva ad arrivare all’estremità della terrazza per primo senza che il vento gli strappasse la palma dalle mani, e poi a restare in piedi, la palma tenuta a braccia tese, tutto il peso del corpo proiettato in avanti su una gamba sola, lottando vittoriosamente, il più a lungo possibile, contro la forza rabbiosa del vento. Là, ergendosi al disopra del parco e del pianoro ribollente d’alberi, sotto il cielo percorso da veloci immense nuvole, Jacques sentiva il vento, venuto dagli estremi confini del paese, scendergli giù per le braccia dalla palma, per riempirlo d’una forza e d’una esaltazione che gli facevano emettere senza tregua lunghe grida, finché, braccia e spalle fiaccate dallo sforzo, finiva con l’abbandonare la palma, e la tempesta d’un colpo la trascinava via insieme alle sue grida. E la sera, a letto, morto di stanchezza, nel silenzio della camera dove la madre dormiva il suo sonno leggero, egli ascoltava ancora urlare dentro di sé il tumulto e il furore di quel vento che avrebbe amato per tutta la vita. Albert Camus Tratto da “Tempo presente”, anno IX/numero 11, novembre 1964 su www.bibliotecaginobianco.it sono online le prime tre annate della “Fiera Letteraria” (’46-’48); tutta “La Critica Politica” di Oliviero Zuccarini, repubblicano federalista (il secondo periodo, ’45-’50); le prime quattro annate di “Volontà”, rivista anarchica orto-eterodossa (’46-’50). una città 47 n.208 IX/2013 Rotocalco culturale. Anno XXIII, Dir. resp. Gianni Saporetti. Aut. Trib. di Forlì n. 3/91 del 18/2/91. Stampa: Galeati (Imola). Redaz. e amministraz.: via Duca Valentino n.11, Forlì. Poste Italiane SpA - Sped. in A. P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/04 n.46) Art. 1 c.1 CN/FC, n. 208/2013 - Tassa pagata