storie - Una città

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storie - Una città
una città
n.208
mensile di interviste
dicembre 2013 - euro 7
sommario
dicembre 2013
LA COPERTINA, dal Sudafrica, è dedicata a Nelson
Mandela.
IL POTERE PENALE. Una magistratura sempre più tesa
a risolvere inadempienze, spesso reali, dell’amministrazione e della politica, intervenendo direttamente; un ruolo
svolto da soggetti che si autoinvestono di grandi responsabilità senza aver ricevuto alcuna legittimazione democratica; la palese incompatibilità tra codice accusatorio e
obbligatorietà dell’azione penale. Intervista a Gaetano Insolera (da pag. 3 a pag. 6).
LA PAGELLA IN PDF. Una scuola del piacentino da un
anno ha deciso di dimezzare i costi dei libri scolastici e in
cambio ha chiesto ai genitori di dotare i figli di un tablet;
uno strumento versatile che impone uno stile di insegnamento diverso e anche un ripensamento degli spazi; l’importanza di un corpo insegnante affiatato e di una vera
scuola di comunità. Intervista a Daniele Barca, Angelo
Bardini e Giusy Vallisa (da pag. 7 a pag. 11).
IL MASTER DELLA MATERNITA’. Di ritorno da un’esperienza all’estero, la crescente insofferenza per un modo
di lavorare “vecchio”, con ritmi e orari rigidi, che diventa
del tutto insostenibile all’arrivo di un figlio; la voglia di sperimentare qualcosa di diverso in prima persona, l’idea di
uno spazio di co-working pensato soprattutto per le donne
e dotato di co-baby; la sfida di far della maternità un momento di formazione. Intervista a Riccarda Zezza (da pag.
12 a pag. 15).
HIGH PERFORMANCE WORk PRACTICES. Coinvolgimento dei lavoratori, flessibilità degli orari, formazione, lavoro in squadra, incentivi, welfare aziendale: laddove i lavoratori sono disposti a scambiare più autonomia con più
responsabilità, il management sa delegare e le Rsu non
si sentono minacciate, non solo si lavora meglio, ma la
produttività aumenta e i costi diminuiscono, condizioni
fondamentali per essere competitivi nel mercato globale.
Luciano Pero e Anna Ponzellini analizzano alcuni casi di
studio ( da pag. 16 a pag. 21).
LA STORIA DI BILJANA. Mandata al nord con lo stipendio di impiegata ad aprire la nuova sede di un’azienda che
opera in ambito sanitario; un lavoro svolto con passione,
dedizione e anche soddisfazione che però stenta a trovare un corrispettivo nello stipendio, lo stress che aumenta,
il neolaureato che, di punto in bianco, arriva e la demansiona, il mobbing... Per “appunti di lavoro”, la storia di Biljana, di Massimo Tirelli (pag. 22).
TOTALLY LOST. Nelle “centrali” immagini tratte da una
mostra fotografica, a cura di Spazi Indecisi.
SI INTITOLAVA “PROTESTO”. Un’infanzia movimentata,
resa più lieve da una straordinaria passione per i libri
trasmessa dalla madre; l’esperimento dei “ratas pelosas”,
in cui dei giovanissimi brasiliani fecero della narrativa
un’arma di resistenza alla dittatura; i migranti scrittori e gli
Avviso
scrittori migranti: un autentico patrimonio di cui il nostro
paese non si è nemmeno accorto. Intervista a Julio
Monteiro Martins (da pag. 27 a pag. 29).
UN PENSATORE LIBERO. Ezio Tarantelli, un gran lavoratore, un educatore che sapeva combinare gioco, inventiva e disciplina; il protocollo Lama-Agnelli del ‘75 sulla
scala mobile e la sua previsione sul pericolo di inflazione;
il duello fra Craxi, Berlinguer e la Cgil e la decisione delle
Brigate Rosse di inserirsi in quel clima di scontro; un uomo ponte fra varie istituzioni. Intervista a Luca Tarantelli
(pag. 30-31).
LA GROTTA DI PAROS. Due persone, Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel, suora di clausura, che
hanno conosciuto l’esilio, segnate entrambe dalle vicende della storia, entrambe “isolate” anche se per
scelte diverse, ma appassionate del mondo e dell’uomo, si incontrano e insieme cercano la verità, scrivendosi, per anni, tre volte alla settimana... Pubblichiamo
una parte dell’introduzione di Cesare Panizza a Fra me e
te la verità, il volume che raccoglie 103 lettere di Nicola
Chiaromonte a Melanie von Nagel (da pag. 32 a pag. 37).
LETTERE. Mario Trudu, ergastolano ostativo, cioè senza
alcuna speranza di uscire, mai, fa una modesta proposta
ai politici; Belona Greenwood, da Norwich, Inghilterra, ci
manda un racconto di Natale e ci spiega perché negli
ospedali del Regno Unito è più facile morire nel weekend
che durante la settimana.
LA SVOLTA DELLA CINA. Per la rubrica “neodemos”,
Steve S. Morgan racconta i controversi effetti della decisione del comitato centrale del Partito comunista cinese
di porre fine alla politica del figlio unico.
LA VISITA è alla tomba di Clemente Rebora. Iniziamo a
ricordare il centenario della Prima guerra mondiale con il
suo “Viatico”.
APPUNTI DI UN MESE. Si parla del destino del libro
nell’era digitale; della maestra Myriam e del metodo delle
“scuole nuove” che in Colombia ha fatto sì che le scuole
di campagna vadano meglio di quelle di città; di donne
senza figli; di una tavola rotonda del 1958 sul caso Pasternak, delle email a cui in Francia le istituzioni rispondono tempestivamente e qui no; di carcere; delle nove
massime garantiste proposte da Luigi Ferrajoli che ha ricordato, tra l’altro, che giurisprudenza vuol dire “prudenza” nel giudizio; eccetera eccetera (da pag. 38 a pag. 45).
L’OSPIZIO DEGLI INVALIDI. “Ma il resto dell’anno i due
bambini si recavano nell’Ospizio degli Invalidi di Kouba,
dove la madre di Pierre, dopo aver lasciato l’impiego alle
poste, era capo-guardarobiera. Kouba era il nome d’una
collina a oriente di Algeri, a un capolinea tramviario...”; per
il “reprint” pubblichiamo un racconto di Albert Camus uscito su “Tempo presente” nel 1964.
Le poste ci smarriscono dei bollettini postali. Li mandano bianchi, scusandosi.
Noi non possiamo risalire in alcun modo al mittente, cioè a chi ha sottoscritto l’abbonamento o ordinato
dei libri. Per sicurezza sarebbe meglio comunicarci l’avvenuto ordine (tramite bollettino postale) con una
mail o un fax. E comunque chiamarci prontamente nel caso la rivista o i libri tardino troppo.
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una città
cosa sta succedendo
IL POTERE
PENALE
Una magistratura sempre più tesa a risolvere inadempienze, spesso reali, dell’amministrazione
e della politica, con interventi diretti; un ruolo invasivo svolto da soggetti che si autoinvestono
di responsabilità senza aver ricevuto alcuna legittimazione democratica; l’incompatibilità
palese tra codice accusatorio e obbligatorietà dell’azione penale. Intervista a Gaetano Insolera.
Gaetano Insolera, avvocato cassazionista, è ordinario di Diritto Penale all’Università di Bologna, dove è docente di Diritto penale Comparato e Internazionale nella Scuola di Giurisprudenza e di Diritto penale (I° anno) nella Scuola
di specializzazione per le professioni legali E.
Redenti; dal 2004 dirige il ciclo di seminari
“Lavori in corso”.
All’ultimo congresso di Magistratura Democratica, svoltosi quest’anno, il Procuratore
della Repubblica di Milano ha messo in guardia dal “protagonismo” di certi magistrati
che si propongono come custodi e tutori del
vero e del giusto. Lo stesso filosofo del diritto
Luigi Ferrajoli ha aggiunto che la separazione dei poteri va difesa non solo dalle indebite
interferenze della politica nell’attività giudiziaria ma, viceversa, anche dalle indebite interferenze della giurisdizione nella sfera di
competenza della politica. Siamo in presenza,
effettivamente, di una tendenza pervasiva
della magistratura requirente e inquirente?
Penso di poter dare senz’altro una risposta affermativa. Con una precisazione, che vuol mettere in evidenza non solo i percorsi dello studioso e del magistrato citati, ma anche di altri. Mi
vengono in mente, primo tra tutti, Violante; ma
anche Domenico Pulitanò -sue recenti prese di
posizione sul caso Ilva sono state pubblicate
sulla rivista dei penalisti bolognesi ([email protected]). Inoltre, è uscito un importante saggio di
Giovanni Fiandaca sull’ultimo numero della rivista “Criminalia”, a proposito della presunta
trattativa Stato-mafia.
L’impressione è che un settore della cultura, diciamo, progressista o comunque con radici nella
storia politica della sinistra del Novecento, si
stia rendendo conto di un fenomeno che -attenzione- non è in alcun modo rapportabile alla cosiddetta “supplenza giudiziaria”, che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del Novecento nel nostro paese e che ha portato, ad esempio e, tanto
per intenderci, a polemiche ricorrenti sull’opportunità o meno che i magistrati fossero iscritti
ai partiti politici. Ecco, a parer mio, non è questa
l’attuale realtà italiana. Faccio spesso una battuta: i giudici comunisti sono un sogno di Berlusconi, perché, se così fosse, sarebbe tutto molto più semplice. In realtà, il problema è molto
diverso e, devo dire, più grave.
A questo proposito molti sono gli spunti offerti
dal volume di Carlo Galli, I riluttanti.
Io penso che la situazione attuale si rappresenti
con una crisi delle élites politiche, con una perdita di identità delle formazioni politiche, a cui
subentra una tendenza della magistratura a fare
direttamente azione politica, senza però riferirsi
a determinate idee e concezioni, quali quelle riconducibili ai partiti storici del Novecento o a
formazioni più recenti.
Questo implica quello che definirei un elemento
di costituzione materiale che altera il riparto dei
poteri disegnati dalla nostra Costituzione.
Ovviamente non mi riferisco a tutta la magistratura: c’è però un’élite all’interno della magistratura che risolve inadempienze (spesso reali) della pubblica amministrazione o della politica con
un intervento diretto. In fondo si potrebbe dire:
“Beh, ma questo corrisponde a un deficit nell’esercizio dei poteri così come costituzionalmente delineati e quindi: perché no?”.
ma questo ruolo può essere
svolto da un soggetto reclutato
con un concorso pubblico, non
diverso da quello delle Poste?
Il nodo, oggi oggetto di molte riflessioni, si concentra in una parola: legittimazione. Detto altrimenti: questo ruolo può essere svolto da un soggetto che si ritiene autorizzato, legittimato a
svolgere questo compito senza però alcun riferimento di tipo democratico; un soggetto che
viene reclutato attraverso un concorso pubblico,
non diverso da quello delle vecchie Poste?
Parliamo di un soggetto che, a differenza della
tesi di Galli a proposito delle élites, non rifugge
dalle responsabilità (“i riluttanti”), piuttosto si
assume responsabilità senza doverne mai rispondere. Che è totalmente irresponsabile, se
non attraverso dinamiche che sono completamente autarchiche.
Chiedo: un’azione direttamente politica può
tollerare queste caratteristiche, queste connotazioni?
Questa è la realtà di oggi e più che di un’invadenza è opportuno parlare di una modificazione,
in termini di costituzione materiale, della ripartizione dei poteri disegnati dalla legge fondamentale.
Tra l’altro, con alcuni equivoci formidabili. Perché, da un lato, il potere giudiziario, con una
sentenza molto importante del 2010 delle Sezioni Unite penali (la sentenza sul cosiddetto giudicato esecutivo) si attribuisce un ruolo addirittura “cooperatorio, se non concorrenziale rispetto alla legge, nell’interpretazione della legge penale”. E quindi si disancora, nell’interpretazione
delle leggi penali, dalla logica giuspositivistica
che è propria del nostro sistema.
Dall’altro lato, però, quel potere rivendica continuamente l’obbligatorietà dell’azione penale e
quindi se tu dici che la giurisprudenza, l’elaborazione del cosiddetto diritto vivente, è svincolata da una pratica esclusivamente esegetica e
da una dipendenza dalla legge, va anche detto
che il dialogo, ormai, è con le giurisdizioni sovranazionali, quindi Convenzione europea dei
diritti dell’uomo (Cedu), Corte di giustizia. Pertanto, ne risultano svalutate addirittura le indicazioni interpretative che provengono dalla
Corte costituzionale interna, col risultato che
non hai più alcun riferimento alla legge, salvo
poi difendere questi assoluti tabù, in particolare
quello dell’obbligatorietà. Quando tutti sanno
che l’obbligatorietà sul piano formale non corrisponde alla realtà sostanziale.
Comunque, per tornare alla domanda, sì. Spesso
la politica è mesa in scacco dal potere giudiziario e, in particolare, dai pubblici ministeri.
Questo è il punto. E ritengo sia questo a spingere autori, studiosi, giuristi e politici a lanciare
un grido d’allarme. Magari il pretesto sono i Di
Pietro, gli Ingroia, i De Magistris, ma c’è anche
la vicenda dell’Ilva, il conflitto di attribuzione
tra procura di Palermo e il Capo dello Stato, ecc.
Alla base di questo processo, di questa mutazione dalla supplenza all’autoinvestitura di
una funzione, c’è anche una trasformazione
culturale? Se stiamo al campo penale, l’impressione è che all’idea di perseguire il reato
si sia sostituita psicologicamente e culturalmente l’idea di perseguire la colpa.
Se questo vuol dire utilizzare a pretesto, diciamo così, le indagini per una singola notizia di
reato, per poi investire in modo esemplare, direi
pedagogico, educativo, determinati fenomeni,
beh, questo è indubbiamente un aspetto.
Anche qui il richiamo proviene mi pare proprio
da Pulitanò, nel senso di dire: attenzione, la giustizia penale serve per individuare singole responsabilità su singoli fatti, dopodiché il suo
esercizio ha un effetto certamente di prevenziouna città
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ne generale, di monito, però non si deve discostare da questo.
Ma tu parlavi di colpa. Ecco, forse alludevi anche a un altro fenomeno che, all’apparenza, è
più di tipo tecnico, riferibile all’illecito colposo.
Penso alla presenza, sempre più frequente, di
decisioni nelle quali si sottovaluta l’accertamento della causalità, del fatto materiale, sostituendo ad esso la colpa: non importa che si dimostri,
al di là di ogni ragionevole dubbio, che è stata
causata la morte o un disastro. Assorbente diventa un rimprovero deontologico.
Mi riferivo anche all’introduzione di categorie non propriamente giuridiche, di tipo sociologico, per esempio, quando si parla di
corruzione ambientale, o anche di tipo filosofico-morale.
Un penalista l’ha chiamato il “potere penale”, per
cui il processo penale serve non tanto e non solo
per individuare singole responsabilità, ma per fare emergere fenomeni socialmente negativi.
Più volte in questi anni, Napolitano ha ripetuto il suo richiamo al fatto che i giudici devono essere consapevoli delle conseguenze sociali delle decisioni che assumono al di là delle parti di quel singolo processo.
Anche Napolitano riflette una cultura politica nella quale io mi identifico- che tiene ben distinta la politica, l’amministrazione e il potere
giudiziario. Non dimentichiamoci che tra gli oppositori dell’istituzione di una Corte costituzionale nel 1947-’48 troviamo Togliatti e Nenni,
proprio perché l’idea della supremazia della politica (che in democrazia significa rappresentanza) rispetto al potere giudiziario, fa parte di una
certa tradizione.
Ecco, anche chi aveva questa idea di una magistratura che tenesse come riferimento le grandi
ideologie politiche, oggi si rende conto dei rischi fortissimi rispetto a un riparto di poteri che,
ripeto, vede sostituirsi ai meccanismi (certo
sciagurati nella loro degenerazione) della democrazia rappresentativa, poteri che non hanno alcuna legittimazione.
le indagini preliminari hanno
una durata indeterminata e
indeterminabile, in cui tutto
è governato dal pm
Leggevo recentemente un articolo di Galli della
Loggia che, di nuovo, parla di una minoranza
che tiene in ostaggio il discorso pubblico.
L’affaire dei costituzionalisti -su cui abbiamo
fatto a fine novembre un seminario di “Lavori
in corso”- è un caso veramente paradigmatico
di questi meccanismi. Mi riferisco all’inchiesta
della Procura di Bari che vede coinvolti, a proposito dello svolgimento dei concorsi universitari in quelle materie, 35 professori di diritto
pubblico, tra cui 5 componenti la Commissione
dei c.d. “saggi”, per l’elaborazione di alcune
proposte in tema di riforme costituzionali, nominata dall’attuale Presidente del Consiglio.
Ebbene, questo caso si può definire un affaire
per la capacità, mostrata da articoli e, soprattutto, da alcuni titoli della stampa più impegnata
nell’impresa politica ostile alla riforme costitu-
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una città
zionali, di evocare esempi storici -cominciando
dal caso dei filosofi, mestiere divenuto pericoloso, nella Atene della fine V secolo a.C.- connotati dall’identificazione, in determinate élites
intellettuali o professionali, della sede di oscuri
complotti e inconfessabili devianze morali
L’affaire ripropone poi alcuni aspetti del degrado di cui è stato vittima il nostro processo penale accusatorio: la pratica di cancellazione di
un regime sottoposto a termini di durata per le
indagini preliminari, delle garanzie di informazione tempestiva per l’indagato, delle invalidità
processuali conseguenti alla violazione di norme, peraltro ancora vigenti; l’uso delle intercettazioni telefoniche; violazioni sistematiche, e
impunite, del divieto di pubblicazione di atti
processuali; sul piano sostanziale: l’uso straordinariamente disinvolto, ma di enorme efficacia
mediatica, della contestazione del reato di associazione per delinquere.
In breve, nell’affaire dei costituzionalisti il menù dell’ “epoca dei Pubblici ministeri” sembra
proprio completo; mentre emerge un collegamento tra una cattiva informazione e un obiettivo politico (in questo caso delegittimare l’ ipotesi di riforma della costituzione), prendendo
spunto da un’indagine penale.
Un ultimo spunto di riflessione: lo sguardo si
posa necessariamente sull’ organo di autogoverno della Magistratura. A proposito dei due costituzionalisti che hanno osato criticare la procura di Bari, il comitato di presidenza del Csm
ha autorizzato l’apertura di una pratica a tutela
della Procura di Bari. Unanime la votazione della componente togata.
Hai citato l’obbligatorietà dell’azione penale:
sicuramente mal si concilia con un processo
penale di tipo accusatorio come lo intendiamo noi.
Il momento del dibattimento, che doveva essere
il momento centrale, perché la prova si formava
solo nel contraddittorio (a differenza dei sistemi
inquisitori), oramai è finito sullo sfondo. Le indagini preliminari hanno una durata indeterminata e indeterminabile, in cui tutto è governato
non dai giudici, ma dal pubblico ministero. I
pubblici ministeri, con i Gip che sono “senza
braccia e senza occhi”, nel senso che, come ha
detto la Corte di Cassazione a sezioni unite, non
sono giudici “delle” indagini preliminari, ma
giudici “per” le indagini preliminari e quindi
hanno solo delimitati interventi che non consentono un controllo.
Penso quindi che si debba anzitutto ragionare
del potere dei pubblici ministeri e della polizia.
Ad amplificare il tutto ci sono i media, in base
a un rapporto di “scambio”: è dagli uffici di procura che, nella maggior parte dei casi, escono le
notizie, le copie degli atti pubblicati (scarsi, o
forse assenti, i procedimenti per violazione
dell’articolo 684 del codice penale, che sanziona la pubblicazione arbitraria di atti processuali). Dall’altra parte, in quanti casi stampa e tv
vanno in controtendenza, criticano tempi, modi
e tesi delle inchieste?
Su questo abbiamo fatto un seminario di studio
intitolato proprio: “È l’epoca dei giudici o dei
cosa sta succedendo
pubblici ministeri”? Dire che “questa è l’epoca
dei giudici” è uno slogan diffuso. Si tratta di un
fenomeno complesso, anche sovranazionale: alla crisi delle democrazie occidentali (che non è
solo italiana, è una crisi di rappresentanza, è la
crisi dei partiti storici del Novecento che hanno
contribuito, dopo la guerra, a delineare i sistemi
democratici) corrisponde un sempre maggiore
potere della giurisdizione, anche della giurisdizione sovranazionale, quindi Corte europea,
Corte europea dei diritti dell’uomo. E si tratta
di giurisprudenza/fonte.
non è possibile che tutte le figure
professionali siano soggette
a rischi sempre più elevati, a
esclusione dei magistrati
Ora, è vero che questo avviene, ma il nostro ragionamento è un altro e non riguarda tanto la
giurisdizione in senso stretto (che ci porterebbe
direttamente alla questione dei limiti all’interpretazione del rapporto tra legislazione e potere
giudiziario). Oggi noi dobbiamo parlare piuttosto dell’“epoca dei pubblici ministeri”. La questione è molto seria. Basti considerare l’ impatto
punitivo che può sprigionarsi nelle indagini preliminari: sulla libertà dell’indagato, sui suoi beni, sulla sua vita sociale. Esso è di fatto agito da
procure e polizia.
Da parte di taluno, si ipotizza che questo sia il
male minore, in mancanza di una giurisdizione
rapida, efficiente, dotata di capacità sanzionatoria effettiva. Ma, a questo proposito, si può
osservare come il problema della ragionevole
durata non sia quasi mai legato al sabotaggio
del processo da parte dei difensori, bensì all’assoluto annullamento di un punto fondamentale
del sistema di procedura penale introdotto nel
1988: quello dalla delimitazione dei tempi delle
indagini preliminari. Quella normativa è stata
totalmente disattesa; la giurisprudenza, la Cassazione, l’ha trasformata in un “aspetto estetico”, non portatore di invalidità processuale. Ci
sono state tre sentenze delle Sezioni unite e
quindi, alla fine, i pubblici ministeri si sentono
autorizzati a fare ciò che vogliono della regolamentazione, proprio perché questo loro “abuso”
del processo non contempla nessuna sanzione
endoprocessuale, cioè di invalidità degli elementi raccolti in violazione delle norme sui termini delle indagini preliminari. In realtà, la categoria della inutilizzabilità probatoria, che era
la categoria d’invalidità più severa, nella logica
del codice dell’88, è stata di fatto espunta dal
Codice di procedura penale.
Tra l’altro, ormai prevale una certa prudenza nel
parlare di queste cose, che nasce anche dal timore a spingersi troppo nella critica. Mi ha colpito molto la pratica di autotutela, a cui ho già
accennato, aperta dal Csm per un articolo sul
“Corriere della sera”, in cui il prof. Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, e il
prof. Cheli esprimevano qualche dubbio in merito all’inchiesta barese sui concorsi universitari. Questo per dirti qual è il clima, per cui non
solo i politici, di fronte all’Associazione nazionale magistrati o a singoli pubblici ministeri,
possono avere qualche timore a esprimere il loro pensiero.
La commissione dei “saggi”, istituita dal Presidente della Repubblica, aveva dato qualche indicazione sull’obbligatorietà dell’azione penale
sulla ricerca delle notizie di reato e sui termini
delle indagini preliminari: apriti cielo!
Togliere l’obbligatorietà comporta un indirizzo da parte dell’esecutivo? Vanno insieme
le due cose?
Nessuno ha mai prospettato questo. Il fatto è che
ci sono alcune liaison che non si possono troncare. Se vuoi il codice accusatorio, l’azione penale non può essere obbligatoria, perché altrimenti si ingolfano gli uffici giudiziari. Quando
si studiava il nuovo sistema, nell’imminenza
dell’entrata in vigore del nuovo codice, si faceva riferimento a statistiche nordamericane relative al numero minimo di dibattimenti celebrati,
dato condizionato dagli ampi margini di discrezionalità e dalle pratiche di patteggiamento. Peraltro, devo dire che nessuno in nessun paese,
almeno di quelli con cui noi ci confrontiamo,
propone una discrezionalità totale dell’azione
penale.
Ai tempi in cui era procuratore a Torino, Vladimiro Zagrebelsky (che poi è stato giudice della
Corte europea dei diritti dell’uomo sino a pochi
anni fa) aveva proposto l’individuazione di criteri di priorità, almeno questo, criteri di priorità
(qui i discorsi ci porterebbero lontanissimo) e
Fausto Fabbri
Roma, Palazzaccio
tanto bastò a sollevare molte critiche da parte
della magistratura. Ma l’obbligatorietà dell’azione penale tu non puoi continuare a considerarla un tabù e contemporaneamente demonizzare la prescrizione e l’amnistia (e l’indulto,
ma questo è un altro problema a fronte del sovraffollamento delle carceri). Perché se non ci
fosse la prescrizione sarebbe la fine, gli uffici
sarebbero sommersi dalle bagatelle. Sono stati
proposti anche sistemi di degradazione dell’illecito penale (degradazione significa passaggio
dalla sanzione penale a quella amministrativa),
però anche quelli hanno avuto una pratica limitata. Quindi la situazione è bloccata.
C’è poi il problema della responsabilità disciplinare dei magistrati.
E della responsabilità civile. Secondo me, la
legge che è stata introdotta a seguito del referendum di metà degli anni Ottanta è insufficiente perché non contempla una responsabilità diretta dei magistrati.
Attenzione, possiamo parlare di disciplinare e
civile, di responsabilità politica certamente no.
Anche se è chiaro che questa sovraesposizione
delle procure della Repubblica ti porta a pensare
alla necessità di introdurre correttivi. La democrazia spagnola vede il “fiscal”, che è il nostro
pubblico ministero, dipendente dell’esecutivo (e
produce probabilmente giudici più indipendenti
dei nostri... anche questi sono dei tabù). Ma, tornando al discorso della responsabilità, deve es-
serci una responsabilità civile diretta per gli errori professionali. Se la nostra è una società dove il reato è un rischio sociale, non è possibile
che tutte le figure professionali siano soggette a
rischi sempre più elevati (soprattutto in un contesto come il nostro nel quale si vuole che la legge sia cera molle nelle mani del giudice), a
esclusione della categoria dei magistrati.
il carattere terribile e odioso
del potere giudiziario;
odioso perché in grado di
rovinare la vita delle persone...
Ma, soprattutto, si impone qui il richiamo a
quella specie di decalogo che ha elaborato Ferrajoli all’ultimo congresso di Magistratura democratica: esso ha il pregio di ricordare la prima
regola deontologica, cioè: “La consapevolezza
del carattere terribile e odioso del potere giudiziario; odioso perché, diversamente da qualunque altro potere pubblico -legislativo, politico,
amministrativo- è un potere dell’uomo sull’uomo che decide della libertà ed è perciò in grado
di rovinare la vita delle persone sulle quali è
esercitato”. Ecco la prima regola deontologica.
La sesta regola è altrettanto fondamentale, perché mette in guardia da un’altra deriva di sistema: se nel momento del reato la parte debole è
la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti
e le sue garanzie sono altrettanto leggi del più
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debole.
Rispetto alla vittimologia che impera dobbiamo
ricordarlo: fino a che non è condannato, non si
sa se l’ imputato sia una vittima sacrificale o invece una vittima giustificabile.
Ferrajoli è il filosofo italiano del garantismo,
conosciuto in tutto il mondo, soprattutto in
America Latina; però proviene dalla magistratura e quindi ha sempre avuto un atteggiamento
positivamente equilibrato.
Purtroppo, ha avuto poca diffusione la relazione
del presidente della Corte d’appello, Giovanni
Canzio all’inaugurazione dell’anno giudiziario
a Milano, ma l’ultima parte è anch’essa tutta dedicata a queste tematiche in termini di monito.
Canzio, è un grande giurista, oltre a essere un
grande magistrato, è l’autore di sentenze famose
(Franzese, Mannino, ecc.), oltre che di importanti lavori scientifici.
Insomma, la percezione della gravità della situazione, le teste più lucide e più colte ce l’hanno perfettamente.
Data la situazione, quali sono le prospettive
possibili?
Sono abbastanza pessimistiche, nel senso che
solo un governo estremamente forte e sorretto
da un consenso reale può mettere mano alla riforma della giustizia.
C’è una vecchia battuta: “Solamente un governo
di sinistra...”. Berlusconi ci ha provato tante volte, l’ha fatto in modo goffo, impacciato dalle sue
vicende. È chiaro che solamente un governo che
riacquisisca proprio questa cultura storica del
fronte progressista -non questi pasticci che si
vedono in giro adesso- capace di tenere ben distinta la sfera del potere politico, l’azione e la
volontà politica dal potere giudiziario, potrebbe
intervenire.
Per tutte le ragioni che dicevo prima, vedo questo molto improbabile, anche perché, quando io
usavo questo termine forte dicendo che la politica è tenuta in scacco, non mi riferivo solo alle
inchieste giudiziarie -a volte fondate, a volte
clamorosamente infondate- ma al fatto che, in
concreto, qualsiasi tentativo di intervento su
queste tematiche vede immediatamente un’opposizione esplicitata e propagandata da quella
parte dei media che lavora in sinergia con l’Associazione nazionale magistrati. Una sorta di
potere di veto che costituisce un’ulteriore dimostrazione della confusione di poteri.
In questo scenario, quanto conta l’appoggio
popolare ai giudici? Nel caso Ilva di Taranto,
in nome di parole molto importanti -diritto
alla vita, alla salute...- si è formato un sostegno a un pubblico ministero che però potrebbe far finire la siderurgia italiana. È uno scenario piuttosto impressionante.
È un quadro un po’ complesso. Provo a darti la
mia opinione.
La cosiddetta politica criminale (cioè lo studio
dei mezzi -culturali, sociali, penali- per contenere il problema della criminalità) non è mai
stato un argomento particolarmente coltivato
dalle forze politiche, anche durante la Prima Repubblica.
Vi è un salto, diciamo, tra quella che è la com-
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una città
ponente emotiva e irrazionale del penale e la sua
razionalizzazione in termini politici e legislativi.
Questa è una delle ragioni per le quali, ad esempio, noi abbiamo ancora il codice Rocco che,
certo, è stato grandemente modificato, però a
pezzettini. Molto è stato eliminato, anche in parti estremamente qualificanti, dalla Corte costituzionale. Un paio di anni fa, abbiamo fatto un
convegno, proprio qui a Bologna, sugli ottant’anni del codice Rocco e, alla conclusione di
quei lavori, io giunsi a una precisa convinzione:
meno male che non si ricodifica! Perché da un
codice penale messo in mano a un Parlamento
della qualità attuale, e non penso solo ai Grillini
o ai Berluscones, ma a tutti, uscirebbe qualcosa
di feroce.
le sanzioni che introducono
adesso, sull’onda dell’emozione,
sono sproporzionate anche
rispetto al codice Rocco!
Pensiamo solamente alla scala penale: il codice
Rocco era considerato un codice particolarmente rigoroso nelle previsioni sanzionatorie. Bene,
le sanzioni che introducono adesso, per vecchi
e nuovi reati, sull’onda dell’emozione, sono
spesso sproporzionate anche rispetto ai criteri
desumibili dal codice Rocco!
Questo per dire che cosa? Che la politica criminale, tra tutte le facce della politica -economica,
sociale, ecc.- è quella che meno riesce a essere
negoziata in termini di consenso popolare. Ma
è sempre stato così. Questa è una tesi su cui insisto: che cosa ha consentito, nella stagione migliore della prima Repubblica, un approccio tutto sommato ragionevole che si è tradotto anche
in importanti riforme di settore? Probabilmente,
la presenza, non come consiglieri del principe,
ma come uomini politici di governo, di giuristi
raffinatissimi. Aldo Moro era uno dei più raffinati penalisti; Leone, Presidente della Repubblica; tutti maestri per noi; e poi Giuliano Vassalli, ministro, e Marcello Gallo, senatore impegnato in importanti riforme. Questi erano personaggi di primo piano. La cultura penalistica,
che affondava le proprie radici in quella che è
stata definita la grande “penalistica civile” italiana, sedeva in Parlamento, occupava cariche
istituzionali, fino al vertice della Repubblica.
Questo è un fattore che ha un suo rilievo.
Il compito dei giuristi è proprio quello di contenere, di fare da argine rispetto a quelle che sono le pulsioni collettive, inseguite dalla ricerca
di consenso. Una norma di una quindicina di anni fa ha decriminalizzato la mendicità, però se
tu intervisti oggi un cittadino, forse al suo fastidio vedrebbe come unica risposta una qualche
pena! Io penso che vi sia una deontologia del
penalista, penalista come studioso del diritto penale, ma anche come avvocato, come magistrato, che deve fare argine rispetto a queste pulsioni. Queste cose vanno dette, vanno rivendicate,
anche a rischio di impopolarità.
Almeno chi fa il mestiere delle leggi provi a raccontare quello che accade, a dire la verità.
(a cura di Giorgio Calderoni e Gianni Saporetti)
problemi di scuola
LA PAGELLA IN PDF
Una scuola del piacentino da un anno ha deciso di dimezzare i costi dei libri scolastici e in cambio
ha chiesto ai genitori di dotare i figli di un tablet; uno strumento versatile che impone uno stile di
insegnamento diverso e anche un ripensamento degli spazi; l’importanza di un corpo insegnante
affiatato e di una vera scuola di comunità. Intervista a Daniele Barca, Angelo Bardini e Giusy Vallisa.
Daniele Barca, dirige l’Istituto Comprensivo U.
Amaldi di Cadeo e Pontenure, Piacenza. Angelo Bardini, insegnante, è vicepreside presso lo
stesso istituto; Giusy Vallisa, vicepreside, insegna alla scuola primaria.
Da qualche anno nel vostro istituto, oltre ai
libri di testo, i ragazzini hanno in dotazione
anche i tablet. Potete raccontare?
Questo è un istituto comprensivo che accoglie
1300 studenti e fa capo a due comuni, Cadeo e
Pontenure; ogni comune ha tre perplessi, infanzia, elementari e medie. La particolarità del comune di Cadeo è che le scuole sono sostanzialmente tutte assieme: dall’altra parte del cortile
c’è la primaria, anzi, la quinta elementare ce
l’abbiamo qui dentro assieme alle medie. Questo ci ha permesso di allestire degli spazi che
poi usano tutti. Per dire, visto che ogni classe fa
un’ora di biblioteca alla settimana, nell’edificio
della scuola media in determinati orari si vedono i bimbi dell’infanzia dai tre ai cinque anni e
anche quelli delle elementari.
Noi veniamo dall’esperienza ministeriale delle
classi 2.0, che ha visto coinvolte una classe elementare e una delle medie. Con quei soldi abbiamo fatto degli acquisti che sono diventati patrimonio della scuola. Alle elementari c’erano
dieci tablet che adesso abbiamo mandato nell’altro comune.
I limiti di queste sperimentazioni sono che se
hai i soldi dello Stato ti puoi muovere subito,
però poi c’è il problema della gestione degli acquisti, dei comodati d’uso, e comunque sono
macchine che dopo tre anni devi buttar via. A
quel punto cosa fai con le classi che vengono
dopo? La nostra idea era invece che il computer,
il tablet fosse un po’ come la calcolatrice, la
squadra, insomma, roba tua.
Da queste considerazioni lo scorso anno è nato
il progetto Libr@, per la sperimentazione dei
tablet e l’adozione di soluzioni integrate per i
libri di testo.
Sostanzialmente siamo andati dai genitori e abbiamo detto: “Noi tagliamo del 50% i libri di
testo”. In prima media costerebbero 300 euro e
sui tre anni parliamo di 600 euro. Ecco, la nostra proposta è stata: “Se noi dividiamo a metà
la spesa dei libri, voi siete disposti a entrare in
questo progetto di scuola comprando ai vostri
figli un tablet?”.
In questo ci siamo fatti aiutare anche dalla nostra Banca cassiera con un finanziamento di 12
rate a tasso zero, per cui le famiglie si sono trovate con 150 euro di libri (metà del costo) più
350 euro di strumentazione, per un totale di 500
euro che stanno pagando a 50 euro al mese.
Genitori e insegnanti come hanno reagito al-
la vostra proposta?
Daniele. Sulle elementari ci stiamo ancora lavorando, ma alle medie fortunatamente c’era un
buon blocco di insegnanti che aveva partecipato
a esperienze precedenti e c’era anche disponibilità a fare formazione. L’anno scorso abbiamo
fatto trenta iniziative a livello provinciale con
un’idea di formazione just in time, per cui io,
all’incontro, non è che sto seduto con lo strumento in mano: se si fa formazione sulle mappe
multimediali, si prova subito e il giorno dopo lo
si può proporre in classe. L’altro giorno c’era
qui un’insegnante di storia arrivata dalla Sardegna e anche lei ci ha fatto vedere delle cose che
il giorno dopo si potevano fare in classe.
L’obiettivo è sempre questo.
Per quanto riguarda i genitori, abbiamo puntato
tantissimo sul dialogo. L’anno scorso li abbiamo incontrati due volte in due assemblee serali
cercando di togliere ogni dubbio. Le preoccupazioni erano soprattutto sull’idea che il tablet
servisse per leggere i libri. In realtà, il tablet non
ha quel ruolo; qualche insegnante ci legge una
pagina, ma, avendo anche il cartaceo, sostanzialmente la tavoletta diventa uno strumento di
accompagnamento. Poi c’era la preoccupazione
“è grande”, “è piccolo”, “rovina la vista”, “stanno sempre attaccati...”. Altre preoccupazioni riguardavano la sicurezza. Noi qui abbiamo una
connessione con la rete regionale Lepida, che
ci danno i due comuni con un ponte radio.
noi dimezziamo la spesa dei
libri. Voi volete entrare in questo
progetto di scuola comprando
ai vostri figli un tablet?
Non ho detto che c’è il wifi su tutta la scuola.
I comuni la rete ce l’hanno di statuto perché c’è
una compartecipazione della Regione, poi sta al
comune vedere se vuole passarti la connessione.
Abbiamo chiesto ai nostri comuni lo sforzo economico di mettere un antennone, mentre gli access point li abbiamo comprati noi. Abbiamo
così la fortuna di non pagare la rete perché è la
stessa del comune, ed essendo comuni piccoli
(5.000 abitanti) non c’è molto traffico negli uffici, quindi per loro sarebbe comunque sovrabbondante.
Se avessimo chiesto di tirare dei cavi, quindi di
scavare, ci avrebbero bloccato, perché si tratta
di lavori che viaggiano sui 10-20.000, e poi c’è
da fare la gara, l’appalto... un delirio.
È il motivo per cui non si può fare in tutta la regione perché in realtà la rete arriva dappertutto,
anche nei comuni di montagna. Il problema è
poi portarla nelle scuole. Grazie all’antenna e
al fatto che il comune è qui in linea d’aria non
abbiamo avuto grossi problemi. Senza quello
non avremmo potuto fare niente.
Diceva dei genitori...
Daniele. Sì, i genitori avevano soprattutto questa preoccupazione della sicurezza della rete,
che abbiamo fugato perché ci agganciamo a Lepida, che è la rete delle Pubbliche Amministrazioni dell’Emilia-Romagna. È una rete che
esclude a priori Facebook e tutto ciò che è social. Abbiamo poi messo in piedi delle azioni
formative con la Polizia di Stato che ha fatto incontri con tutti i ragazzi della sperimentazione,
ma anche con i genitori, per cui gli operatori sono tornati anche di sera.
Angelo. I genitori sono molto legati a questo
progetto. Lo si vede dal contributo volontario
che, pur essendo alto rispetto ad altre scuole
dello stesso ordine, viene pagato nella misura
del 90%. Qui l’idea di scuola della comunità è
passata. Noi facciamo le riunioni alle nove di
sera, non alle due del pomeriggio, e c’è un 80%
di presenza.
Daniele. Lo Stato prevede che le famiglie possano dare un contributo volontario per il miglioramento dell’offerta formativa; c’è una disposizione normativa. Negli anni poi hanno fatto
delle ulteriore circolari per spiegare che -mi raccomando- non può essere usato per la carta igienica. Tra parentesi, questo della carta igienica è
un mito che andrebbe sfatato, ma non ci si riesce. Comunque, proprio perché il contributo è
significativo, adesso abbiamo iniziato a fare una
gestione più trasparente possibile; abbiamo
pubblicato sul sito quello che viene dato classe
per classe e, al momento della raccolta che si fa
all’inizio dell’anno, facciamo vedere che abbiamo aperto un nuovo spazio o illustriamo le nuove iniziative. Ovviamente quei soldi servono
anche per la gestione complessiva. Consideri
che qui c’è una lavagna quasi in ogni classe. Bene, se si brucia una lampada della Lim sono 500
euro. Ed è manutenzione didattica perché senza
lampada la Lim non può essere utilizzata. Per
entrare nel merito, qui il contributo è di 30 euro,
di cui sette dell’assicurazione; bene, lo paga il
90% dei genitori. È un risultato eccezionale. Al
mio paese, in provincia di Modena, paghiamo
2,5 euro e c’è una raccolta tristissima.
Giusy. Questo avviene anche perché c’è sempre
stato un forte coinvolgimento dei genitori nei
progetti. L’anno scorso, ad esempio, siamo stati
invitati alla Fiera di Genova, all’Abcd, dove
c’erano tutti gli spazi attrezzati per una scuola
del futuro, con la disposizione degli arredi pensati per una didattica nuova, quindi spazi collaborativi, spazi individuali e spazi aperti. Abbiamo portato la classe e i genitori ci hanno seguito
spontaneamente in questa uscita. Per noi ogni
occasione è buona per far partecipare i genitori
una città
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al vissuto della scuola, alla didattica, magari
proprio assieme al figlio. Nell’aula-laboratorio
prevediamo dei momenti in cui ci sono anche i
genitori e allora i bambini spiegano e magari le
loro mamme e papà fanno le domande o, ancora, i figli invitano i genitori a fare loro stessi degli esperimenti.
La partecipazione, devo dire, è sempre forte. È
anche per questo, credo, che quando è stata proposta questa idea di venire a scuola con il tablet
c’è stata un’adesione diffusa, perché il messaggio è stato recepito in un terreno già favorevolmente preparato.
Cosa cambia nel modo di insegnare quando
entra in gioco la tecnologia?
Daniele. Grazie ad Angelo, che in tutti questi
anni ha lavorato per metterci in condizione di
poter acquisire gli strumenti necessari, alle medie c’è una lavagna in ogni classe e alle elementari abbiamo una lavagna ogni 2-3 classi. Parliamo quindi di aule che hanno già della tecnologia. Il fatto è che, per quanto uno sposti i banchi, alla fine quelle aule spingono a fare dei
“frontaloni”. La Lim, alla fine, è frontale come
strumento pur essendo tecnologica. Proprio per
questo abbiamo voluto creare degli spazi altri,
come l’area iPuff, dove si va a leggere, oppure
si fanno delle attività in cui i più grandi fanno
peer education, cioè insegnano delle cose ai più
piccoli. Preciso che noi qui abbiamo il tempo
pieno e il tempo prolungato su tutte le classi. Le
medie al pomeriggio lavorano a classi aperte,
che vuol dire che tu della 3aB ti troverai con altri
bimbi di 2aA e 1aC a fare il corso di chitarra...
con l’insegnante di italiano!
Gli insegnanti, infatti, in questi laboratori fanno
le cose che sanno fare nella vita, ciò che li appassiona. Allora c’è l’osservazione delle stelle
con gli astrofili, il corso di cucina con l’insegnante di scienze -perché poi fanno anche la mi-
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una città
surazione delle temperature, del peso-, cortometraggi con l’insegnante di musica. E, attenzione,
queste non sono attività extra-curricolari, ma
curriculari, per cui c’è valutazione delle competenze trasversali all’interno della pagella.
Quindi io sto lì a far biscotti ma l’insegnante valuta come lavoro, come sto con gli altri, come
organizzo il setting, ecc.
In questo ovviamente la tecnologia è uno strumento che accompagna. Per esempio, sulla documentazione ci teniamo che si sia sempre un
iPad per riprendere, mettere insieme il libro delle ricette o fotografare la situazione.
Giusy. C’è un’impostazione diversa: l’insegnante assume un ruolo diverso anche nel rapporto con i bambini. È un insegnante non trasmissivo, ma che soprattutto guida, dà degli stimoli, prepara il terreno per. Per esempio, con la
Lim, posso chiamare un gruppetto di bambini
che ha affrontato un esercizio di problem-solving e fargli esporre alla classe la propria soluzione usando immagini, ecc. Io insegno matematica e attraverso il tablet e la Lim ci sono
strumenti che incoraggiano il bambino a pensare e poi a confrontarsi, a relazionarzi e a interagire con i compagni... È tuttora in corso una formazione per l’utilizzo degli strumenti tecnologici nell’applicazione scientifica; per esempio
c’è il microscopio che ti permette di andare in
giro a fare degli ingrandimenti, oppure altri sensori che rilevano la temperatura, l’umidità, eccetera, facendo vedere i grafici. La sfida è quella
di prendere ciò che offre la moderna tecnologia
mantenendo l’approccio sperimentale, la prova
sul nostro corpo, ecc.
Angelo. Rispetto a come cambia l’insegnamento, voglio fare l’esempio di musica. In una scuola normale hai il flauto, il libro cartaceo e poi i
ragazzini fanno queste terribili prove a casa con
i vicini che si lamentano. Bene, qui nell’aula di
problemi di scuola
musica ci sono venti tastiere, aggeggi vari, batteria, basso elettronico, poi, grazie al progetto
Libr@, usano il libro costruito dall’insegnante
che in questo modo mette in gioco la sua passione e le sue motivazioni, che vengono rafforzate. A quel punto, con il tablet il ragazzino può
costruire la musica col pentagramma e quando
mette la nota la sente e scorrendo sente il prodotto. Non solo: una volta che suona lo strumento può registrarsi, filmarsi, rivedersi e correggersi.
c’è il corso di cucina con
l’insegnante di scienze perché
poi fanno anche la misurazione
delle temperature, del peso...
Oggi esistono un sacco di applicazioni e poi con
wikilink possono digitare da Verdi a Bollani e
trovano duecento video. Ti puoi pure creare il
tuo repository.
Alcune applicazioni ti permettono di essere autore di musica elettronica. I nostri sono ancora
piccolini, ma tra qualche anno... A uno degli ultimi concerti, Herbie Hancock ha usato dieci
iPad, tutti posizionati davanti a lui come fossero
gli spartiti, dopodiché, muovendosi da uno all’altro, mandandoli in loop, ha messo su un concerto. Insomma, c’è tutto un altro mondo là fuori e allora insegnare ancora col flauto e il libro
è totalmente fuori dal tempo.
Daniele. Al saggio finale c’era il flauto, ma anche il proiettore, colonne sonore di film, e comunque i ragazzini col flauto leggevano lo spartito sul tablet. È un altro modo di lavorare. La
collega di Giusy, che insegna italiano alle scuole
elementari, l’anno scorso a primavera è uscita
in giardino con i bambini e hanno fatto scrittura
creativa con il tablet. È uno strumento molto
versatile; la questione è cosa ne fai nella didattica. Lì c’è anche molto da inventare. Per dire,
ci si può fare anche l’analisi del testo: puoi venire in biblioteca, fotografare una pagina, evidenziarla, casomai trascriverla sul quaderno...
o, ancora, si può raccontare un testo con una
mappa. Oppure ti leggi il testo a casa -la cosiddetta flipped classroom- e poi me lo vieni a raccontare. È un modello che ribalta lo schema lezione-in-classe seguita da compiti-a-casa. Qui
il ragazzo, in sostanza, segue una lezione a casa
e poi in classe si fanno le domande, ci si confronta, si discute.
Il tablet è ottimo proprio perché puoi fare lezione qui, ma anche uscire; se andiamo in gita ce
lo portiamo, se andiamo al Festival del diritto a
Piacenza intervistiamo le persone. È chiaro che
poi per la rielaborazione abbiamo anche dei
computer fissi perché se c’è bisogno del mouse
o di digitare testi lunghi... Anche se devo dire
che questo è più un problema nostro; loro con i
pollici ormai vanno alla grande!
Qualcuno teme il problema di assenza di controllo: “Che fai, tu, vai in internet?”, perché poi
i ragazzini ci provano... è il loro mestiere.
Ci sono delle aziende che vengono a proporci
sistemi di controller per cui tu puoi, da un’unica
macchina, controllare cosa succede nei tablet.
Quello che rispondo sempre è: “Ma, scusate, ce
lo vedete l’insegnante concentrato sulla lezione
che sta spiegando costretto a guardare sulla
macchina per scoprire se Francesco sta facendo
altro?”. È proprio improponibile.
L’ultima cosa che voglio aggiungere è che il tablet, nella nostra esperienza, si sta rivelando anche uno straordinario strumento inclusivo. Da
noi tutti hanno una macchina. Non importa che
sia handicappato, che abbia disturbi di apprendimento o altro. Anche lo straniero arrivato da
poco viene dotato della sua tavoletta. Qui c’è un
20% di presenze straniere, ma avendo il comprensivo arrivano da piccoli. Devo dire che siamo orgogliosi che ai famosi test Invalsi, mentre
in seconda elementare spesso i risultati di questi
ragazzini sono tristi, quando arrivano in terza
media si vede il percorso fatto e ci sono anche
delle eccellenze. Comunque, quando entra in
classe il bambino appena arrivato dall’estero, la
prima cosa che si fa è dargli uno strumento. Intanto è un segno di fiducia e poi lo si mette subito in condizione di far qualcosa.
Accanto al tablet, avete anche i libri di testo...
Daniele. Siamo entrati in questo progetto nazionale che si chiama “Editoria digitale scolastica”.
C’è un rapporto importante con gli editori; tutto
il lavoro fatto alle medie con Mondadori e Zanichelli è stato anche un lavoro di formazione.
Essendo praticamente l’unica scuola di base che
fa queste cose, loro sono venuti a formare gli insegnanti su come utilizzare i loro contenuti.
Diciamo che noi abbiamo scelto una terza via:
né autoproduzione, né solo editori. Tanto sappiamo che belli così li possono fare solo loro
perché serve una competenza notevole. Mentre
infatti sul cartaceo hai bisogno di chi ti corregge
il testo, te lo sa rendere divulgativo e di chi impagina, sul digitale, oltre a ciò, serve anche la
capacità di rendere tutto questo interattivo, modificabile, ecc. C’è un mondo di competenze
che la scuola non può avere.
se si gira per le classi è facile
vedere i tavoli riuniti e -la cosa
più importante- l’insegnante
attaccato allo studente
Comunque noi ci siamo organizzati così: i libri
delle materie di riflessione, italiano, storia, matematica, scienze e lingue hanno il cartaceo e il
digitale (sia come app che come accesso alla
piattaforma dell’editore), dopodiché abbiamo le
autoproduzioni. Siamo stati ora a Lucca a presentare i nostri libri di geografia e musica. L’autoproduzione l’abbiamo fatta soprattutto sulle
“educazioni”: educazione fisica, educazione
tecnica, educazione musicale. In un lavoro di laboratorio, tutto sommato, il libro non è centrale,
però si può anche provare a fare dell’autoproduzione, così in alcune di queste materie ci sono
i libri fatti dagli insegnanti.
Per ora siamo all’inizio, è il primo anno. A gennaio ci sono le iscrizioni, quindi convocheremo
i genitori della quinta elementare (i cui figli sono già qui; il bello del comprensorio è che si
cresce assieme) e diremo loro: “Attenzione,
l’anno prossimo...”. Tra parentesi, il fatto di
avere queste tecnologie fa sì che ci siano degli
esterni: quest’anno su 140 ce ne sono 14 che
vengono da fuori, una cosa stranissima perché
di solito fino alle medie vai alla scuola del pae-
se. Evidentemente stiamo diventando un polo
d’attrazione.
Diceva che avete dovuto un po’ ripensare gli
spazi...
Daniele. Come dicevo, tutte le aule sono attrezzate con lavagne. Se si gira per le classi è facile
vedere i tavoli riuniti e -la cosa più importantel’insegnante attaccato allo studente.
Quest’anno abbiamo inaugurato un’aula che era
il vecchio laboratorio di informatica; abbiamo
tolto quasi tutte le macchine fisse e messo dei
portatili. È un’aula divisa in due zone: in una si
può fare il lavoro collaborativo (i tavoli si possono aggregare e disaggregare), lavorare sul
cartaceo, fare delle mappe, dei disegni, dei progetti, ecc. Dopodiché si può andare alle macchine e lavorare su quello che si è fatto per modellare, modificare, ecc. Infine si può vedere tutto
in grande col proiettore, oppure scrivere alla lavagna col pennarello o attaccarci con dei magneti i progetti realizzati. Questo spazio l’abbiamo chiamato Mondrian perché la superficie della cattedra (ammesso che si possa chiamarla così) sembra una pera. È una postazione un po’
diversa: è alta, tanto che servirebbe forse uno
sgabello, ma ci sembrava facesse un po’ pub!
D’altra parte, in un contesto come questo, l’insegnante non si siede da una parte, gira per i tavoli. Anche questi mobili componibili li abbiamo acquistati con risorse nostre, grazie alle convenzioni con i comuni e ai progetti a cui partecipiamo.
Quanto conta un corpo insegnante affiatato?
Daniele. È determinante, come pure lo staff. In
queste cose ci vuole chi ha delle idee e mette a
una città
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disposizione delle opportunità e chi ha voglia di
sfruttarle quelle opportunità. In questi anni si è
formato naturalmente un gruppo di persone che
ha voglia di fare delle cose. Man mano che si
allargano le competenze aumenta la lista della
gente disponibile.
L’obiettivo è portare tutti quanti in questo movimento. Io la sto facendo facile perché siamo
entusiasti, ma il lavoro che ci aspetta, faticosissimo, è portare soprattutto il corpaccione delle
elementari dentro questo percorso.
Bisogna investire moltissimo sulla formazione
che riguarda anche il modo di stare in classe,
che rapporti avere con i genitori, come valutare.
Perché un conto è lo scritto e l’orale, dove c’è
una valutazione che avviene con parametri consolidati (spesso sono criteri predittivi per cui
l’insegnante alla fine valuta sempre la persona,
c’è l’effetto alone, tutte cose che abbiamo sperimentato come studenti), però quando io scardino queste cose e ti chiedo non solo di fare il
compito ma di metterci della creatività, di inserire delle immagini... Ecco, su come valuto tutto
questo, c’è una lotta.
“Sono incredibili, sanno fare
delle cose...”. E allora com’è che
appena entrano in un’aula
scolastica diventano deficienti?
Intendiamoci, esiste della letteratura in merito,
il problema è che lo devi voler fare. È come con
la tecnologia: non è una questione di soldi, è
aver voglia di fare delle cose.
C’è un collega che per cominciare ha obbligato
tutti a usare la posta elettronica per comunicare.
10
una città
Quella è già una piccola rivoluzione digitale.
Qui il nostro sito è gestito da un insegnante.
All’inizio le notizie le mettevo io, così ho fatto
vedere un po’ come si faceva, con che ritmo.
Adesso se ne occupano la segreteria e un’insegnante. Io non ho più circolari cartacee. Ho tutto
lì: la rendicontazione economica, i contratti, eccetera. Il codice di amministrazione digitale dice che può valere come albo pretorio a tutti gli
effetti.
Con l’adozione di questi linguaggi avete notato qualche cambiamento sul piano dell’apprendimento?
Giusy. I risultati si possono vedere a vari livelli.
Ci tengo a dire che i risultati a cui noi teniamo
sono soprattutto la capacità di lavorare assieme,
di mettersi in gioco, di tentare di dare una risposta, di provarci insomma. Lo scopo è quello di
non avere dei bambini passivi, che ascoltano silenziosamente. Ma neanche dei bambini che
stanno lì e pensano ad altro perché si annoiano.
Cerchiamo di incoraggiare i bambini a porre domande, a interagire con l’adulto.
Daniele. Se la domanda è se la tecnologia migliora l’apprendimento io penso che sia una
questione mal posta. Se pensiamo che il solo
utilizzo quotidiano di uno strumento possa cambiare le cose, allora il libro ci avrebbe reso i più
grandi lettori!
Voglio dire, negli anni Cinquanta e Sessanta le
antologie erano veramente minute; oggi sono
dei volumoni; questo ha aumentato la capacità
di lettura dei ragazzi? No! Il problema è sempre
come si lavora con gli strumenti.
D’altra parte la domanda ha un suo senso perché
in effetti siamo di fronte a un paradosso. Chi ha
a che fare con i bambini piccoli dice sempre:
“Ma sono incredibili, sanno fare delle cose pazzesche...”. Sono discorsi che facciamo tutti
quanti -ho due figlie piccole e sicuramente io
non ero come loro. E allora com’è che appena
entrano in un’aula scolastica diventano deficienti?
Non è detto che la soluzione sia la tecnologia,
però io devo trovare degli strumenti con cui riesco a mettere in moto l’intelligenza, accendere
il cervello -che sia la carta, la penna, il computer
non ha importanza.
Se lei va su Youtube, c’è “Diario di un maestro”,
uno sceneggiato Rai. Ecco, quel maestro aveva
sconvolto il modo di lavorare in classe. Era uno
spazio aperto, aveva spostato i banchi, usava i
cartelloni, faceva lavorare in gruppo; al posto
dei libri di testo c’era una bibliotechina, faceva
delle indagini, raccoglieva dati. Allora, è sicuro
che le tecnologie non sono né il problema, né la
soluzione di per sé. Bisogna però anche riconoscere che il mondo è cambiato e che noi non
possiamo vivere nel Duemila e poi educare i nostri bambini in una scuola dell’Ottocento!
Che problemi state incontrando?
Sulle tecnologie, un problema tecnico su cui ci
stiamo confrontando è quello dello storage, cioè
di dove tenere i contenuti. Consideri che i libri
dei professori, come app, pesano da un giga in
su; nelle tavolette ci sono 16 giga, si fa presto a
esaurirli; per ora la soluzione è scaricare un capitolo alla volta e man mano liberare spazio.
E poi c’è il problema delle password: c’è quella
per entrare nella rete, ottenuta dai genitori con
una procedura rigorosa, poi c’è quella per scaricare le applicazioni, quelle dei libri, una diversa per ogni editore e già così arriviamo a 45 e non sono finite. Per l’anno prossimo stiamo
lavorando per arrivare a un paio. Non è che i ragazzi le perdano, è che disturbano la didattica.
Un altro aspetto che stiamo studiando è il regolamento di utilizzo delle tavolette. Per esempio
adesso siamo a dicembre e se ne sono già rotte
due su 120. Grazie a uno sponsor abbiamo acquistato dei “muletti”, cioè delle macchine che
utilizziamo in questi casi. Nell’assicurazione
obbligatoria per i bambini abbiamo inserito anche l’eventuale rottura della tavoletta se utilizzata per motivazioni didattiche. C’è una procedura codificata. Il problema si pone quando ci
imbattiamo in un potenziale simulatore. Sono
questioni che stiamo affrontando adesso. Dei
due casi che ho citato, infatti, il primo era sicuramente un vero incidente, per cui abbiamo avviato la procedura con l’assicurazione e intanto
abbiamo dato al ragazzino il “muletto”, la macchina di riserva, per continuare a lavorare.
i genitori possono vedere tutto,
i compiti, cosa si fa in classe,
le sospensioni...
Non c’è più scampo!
Sul secondo caso c’erano molti dubbi e allora
abbiamo comunque messo in piedi la pratica
con l’assicurazione però non abbiamo dato la
macchina in comodato perché non ci fidiamo
del tutto. Di nuovo viene fuori il discorso educativo, che è poi quello centrale.
Queste sono le cose più impegnative perché c’è
molto da inventare. Un’altra difficoltà è quella
di allineare tutti gli insegnanti sulle procedure.
Abbiamo una mailing-list con cui allertiamo
tutti gli insegnanti rispetto alle varie iniziative.
Abbiamo costruito i consigli di classe in maniera da avere sempre un insegnante di quelli motivati assieme a quelli più recalcitranti o con più
difficoltà...
Consideri che per mettere in piedi Libr@ c’è
voluto un anno di lavoro e 18 riunioni con tutti:
insegnanti, genitori, consiglio d’istituto, editori.
Dimenticavo la password del registro elettronico: oggi i ragazzi accedono al registro e possono vedere i voti che hanno preso, le presenze e
le assenze; e anche i genitori possono vedere
tutto, dai compiti, a cosa si fa in classe, le sospensioni... Non c’è più scampo!
Il registro elettronico è molto comodo anche per
noi, soprattutto per gli scrutini: una volta dovevi
rincorrere i professori per mettere i voti nei tabelloni cartacei, mentre adesso vedi tutti i voti,
addirittura con le insufficienze già in rosso, così
individui subito i casi su cui discutere.
I genitori vedono anche le pagelle online; se le
vogliono su carta se le possono stampare, sono
dei pdf. È ovvio che se il genitore non è abbiente o non ha il computer, gliela stampi tu.
(a cura di Barbara Bertoncin)
Le foto di queste pagine sono di Angelo Bardini.
una città
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problemi di lavoro
IL MASTER DELLA MATERNITA’
Dopo un’esperienza di lavoro in nord Europa e una maternità vissuta con la crescente
consapevolezza che nel mondo del lavoro le cose potrebbero andare diversamente, l’idea di aprire
uno spazio di co-working, dotato di co-baby, in cui sperimentare formule diverse per dimostrare
a imprese e istituzioni che non è necessario scegliere tra figli e lavoro. Intervista a Riccarda Zezza.
Riccarda Zezza, 41 anni, imprenditrice, dopo
aver lavorato in multinazionali in Italia e all’estero, lo scorso gennaio ha aperto, assieme
ad altri soci, “Piano C” (pianoc.it), uno spazio
di co-working pensato soprattutto per le donne.
Puoi spiegarci cos’è e com’è nato Piano C?
Nel corso degli ultimi quindici anni, in cui ho
lavorato soprattutto in grandi aziende, occupandomi di comunicazione e gestione di progetti,
ho avvertito un crescente disagio: c’erano delle
cose che proprio non mi tornavano, delle dinamiche, dei modi di lavorare, di valutare le persone; mi sembrava che ci fosse della roba un po’
antica, legata all’epoca industriale, quando si
doveva timbrare il cartellino. Quando poi, dopo
essere stata due anni in Nokia, in Finlandia, sono tornata in Italia a lavorare in una banca, ho
avuto proprio uno shock culturale. Alla Nokia,
tra l’altro, mi occupavo di progetti sociali in Europa, Medio Oriente e Africa; facevo, forse, il
lavoro più bello del mondo, nel senso che spendevo i soldi di Nokia per darli al non profit in
questi tre continenti. Sono tornata in Italia perché volevo metter su famiglia, non potevo più
viaggiare così tanto. Volendo continuare a lavorare nel sociale, sono così finita in Banca Prossima, una banca, quindi un ente profit, che però
dialoga solo col sociale. In Nokia ero un perno,
avevo una funzione dirigenziale, arrivata qui mi
hanno subito spostato a un livello inferiore e abbassato lo stipendio. Ho pensato: se questo è il
trade off per vedere i miei figli, va bene, sempre
con questa convinzione però che io non ero affatto da meno del collega che rimaneva un’ora
in più in ufficio.
Comunque già da prima avevo questa sensazione che ci fossero dei riti che, secondo me, non
hanno più alcun senso e che, al contrario, ingabbiano la creatività, ti portano via del tempo, ti
rubano dei pezzi di vita. Le riunioni! La quantità
di riunioni inutili e inutilmente lunghe. Poi, più
vai verso la sera e più diventano importanti. La
mattina non si fa mai niente di importante. Tutte
le cose importanti dopo le sette. Poi io ho trovato degli ostacoli pazzeschi al cambiamento.
Cioè, ci sono delle logiche nel top management,
di conservazione del potere acquisito, che vanno
contro ogni forma di innovazione anche positiva. Insomma ho capito che non si riusciva a
cambiare da dentro. In particolare, in Italia c’è
questa ossessione che, se tu sei impegnato, devi
essere in ufficio tutto il tempo, non puoi avere
altro che il lavoro. Questa cosa mi stava già
stretta prima, quando poi ho avuto dei figli, mi
è sembrata totalmente folle.
Intendiamoci, va bene lavorare tanto, purché sia
il giusto, quello che serve, che non si tratti in-
12
una città
somma di perdere tempo. Nell’universo maschile del lavoro c’è questa idea che il tempo è qualcosa che si può disperdere, mentre, nella prospettiva femminile, si ha l’idea che nel tempo si
debbano fare anche altre cose.
Con la seconda gravidanza, mi sono scontrata
di nuovo con una serie di stereotipi del tipo:
“Adesso che hai il secondo figlio, vedrai che sarai meno intelligente, avrai meno tempo”.
Il bello è che io invece a ogni figlio mi sentivo
meglio di prima!
Così, a un certo punto, mi sono messa a pensare:
“Adesso voglio fare un’impresa mia perché qui
non mi ci trovo più”.
la quantità di riunioni inutili
e inutilmente lunghe e più vai
verso la sera più diventano
importanti...
L’idea è nata così. Il co-working l’avevo incontrato proprio lavorando in Banca Prossima; il
co-working, infatti, specie a Milano, è nato soprattutto intorno alle imprese sociali. Per esempio, “The Hub” è un’area di co-working situata
in via Paolo Sarpi dedicata all’innovazione sociale e all’impresa sociale. Ecco allora l’idea di
usare uno spazio fisico per dimostrare che si
può lavorare in modo diverso e che questo non
inficia la produttività, anzi, e al tempo stesso,
aumenta il livello di felicità.
A quel punto, anziché aprire una società di consulenza e mettermi a spiegare questa roba, ho
detto: “Apriamo uno spazio dove facciamo succedere questa cosa”.
Piano C è nato così. La peculiarità di questo luogo è immediatamente percepibile, già il fatto di
sentire la voce dei bambini, psicologicamente,
ti cambia completamente la prospettiva.
Provocatoriamente questo spazio di co-working
è aperto alle donne, tutte, e agli uomini solo se
accompagnati da bambini. Oggi noi abbiamo
una trentina di iscritte e di iscritti, di cui due sono uomini con bambini. Tutti gli altri sono donne con o senza bambini; mediamente abbiamo
un bambino ogni cinque co-worker.
Puoi spiegare com’è organizzato Piano C?
Oltre al co-working, voi offrite anche un “cobaby”...
Qui coesistono tre elementi: c’è lo spazio di lavoro, c’è il co-baby e tutti gli altri servizi salvatempo e poi c’è -importantissima- la community. Tutte le attività che si svolgono in queste sale
multifunzione (dall’attività fisica al corso di formazione, al piccolo evento) creano infatti delle
situazioni in cui ci si scambiano delle prospettive. E poi magari capita di fare delle cose che,
se tu dovessi andare a cercartele in giro per la
città non le faresti, ma siccome ce le hai qui le
fai. Ecco, forse questa cosa del fare delle cose
assieme, del mettersi assieme, è l’elemento più
importante di questo spazio, viene anche prima
del co-baby. Diciamo che il co-baby dovrebbe
diventare quasi di default, nel senso che la possibilità di portare i bambini piccoli alle cose dei
grandi e liberare così le donne che altrimenti si
sentono obbligate a stare in casa, dovrebbe essere normale.
I primi sei mesi abbiamo offerto il co-baby affidandoci a un service, con un costo fisso per
noi altissimo. Adesso abbiamo trovato due ragazze molto brave, una è una pedagogista e l’altra è una psicologa -la loro associazione si chiama “mamma che fatica”- che gestiscono lo spazio in proprio, quindi loro non pagano niente a
noi, noi non paghiamo niente a loro e tutte le
entrate del co-baby sono loro. Pensiamo debba
essere questo il modello. Loro comunque ci offrono un servizio e noi in cambio gli diamo uno
spazio.
Dicevi che rispetto ai servizi “salva-tempo”
che offrite, c’è un problema...
Abbiamo capito che non basta mettere in piedi
un servizio innovativo e utile perché la gente lo
usi. Tutti noi abbiamo organizzato le nostre vite
in un certo modo e si sono consolidate delle abitudini. Per dire, c’è il servizio lavanderia, ma
per ora lo uso solo io! E faccio pure fatica, nel
senso che mi sono abituata ad andare sotto casa;
ci devo pensare che posso portare la roba qui,
senza dover poi ripassare. Cambiare le abitudini
richiede uno sforzo notevole. Ci devi mettere
delle risorse, cioè dovresti decidere che allora
per un mese fai una campagna informativa, ma
tutto questo ha un costo. E siccome i servizi salva-tempo li diamo senza un margine, è difficile
fare questo tipo di cambiamenti.
Noi adesso abbiamo tutta una serie di convenzioni con il quartiere, dal minimarket che ci porta la spesa, alla lavanderia che ci viene a prendere i panni e ce li riporta lavati, al calzolaio, al
sarto. Nel nostro sito vedi tutti quelli che sono
convenzionati con noi o raccomandati da noi,
che vanno dal personal wardrobe, che viene a
casa e ti mette ordine nel guardaroba, al personal trainer -qui facciamo anche sessioni di ginnastica, massaggi... C’è un po’ di tutto perché,
essendo anche un polo di attrazione, non diciamo quasi mai di no a niente. Li proviamo prima
anche personalmente: il meglio è stato provare
il personal wardrobe, che mi ha sistemato l’armadio e poi abbiamo un ragazzo bravissimo che
si offre come maggiordomo, fa l’autista e può
fare piccole riparazioni. L’anno scorso, quando
non avevamo ancora aperto, ci ha scritto una
mail bellissima, raccontandoci la sua storia: si
occupava di servizi generali in grandi aziende,
oppure non ci vanno affatto, ma così non contribuiscono all’economia quanto dovrebbero e
potrebbero. È una perdita netta, per tutti. Allora
noi diciamo: smettiamo di cercare di far entrare
questa forma tonda in questa porta quadrata,
proviamo a fare una porta di una forma diversa.
Arrivo così alla domanda: oggi un grosso problema nel mondo aziendale è la maternità.
con la maternità, ho sviluppato
delle competenze che sul lavoro
mi hanno reso più forte. Perché
non farne tesoro?
Tutte le aziende, grandi, medie e piccole, la vivono come una crisi. Ma la vive come crisi anche la donna che, alla fine, o non fa figli o ne fa
di meno o li fa soffrendo poi un grande senso di
inadeguatezza. Stiamo mettendo in piedi una
perfetta profezia che si autoavvera: noi la prevediamo così e così sarà. Qualche mese fa, a un
meeting di Confindustria, a sentir parlare di
competitività, di importanza dello sviluppo delle persone, eccetera, mi sono messa a pensare:
“Ma io, con la maternità, ho sviluppato delle
competenze che sul lavoro mi hanno reso più
forte. Perché questa cosa non viene considerata?”. Essere mamma ti costringe a imparare a
fare più cose in unità di tempo minori, e poi migliora la pazienza, migliora l’equilibrio. Certo,
dall’altra parte c’è tutto il discorso sull’indebo-
Gua Biscàro
era rimasto disoccupato dopo un incidente, aveva un bambino e aspettava il secondo; una bravissima persona che, purtroppo, ha avuto delle
sfortune e non riusciva più a trovar lavoro. È un
autista perfetto (io lo chiamo per i miei suoceri;
quando vogliono andare a Sestri, mando lui), ha
un costo accessibile e soprattutto è una persona
di fiducia, che è forse il requisito più prezioso.
In questo modo diamo un’opportunità a lui e in
più offriamo dei servizi alle nostre co-worker.
Di storie come questa ce ne sono tante. Noi cerchiamo sempre di trovare uno posto per tutti.
Non abbiamo soldi, ma abbiamo questo spazio...
Avete appena lanciato un nuovo progetto,
quello della “maternità come master”. Puoi
raccontare?
Attualmente il mio lavoro è prevalentemente
quello di usare questo spazio proprio come un
laboratorio, facendo proposte consulenziali all’esterno (a grandi aziende e istituzioni), perché
ci usino come pilota. Sempre con quest’idea
portante che bisogna smettere di considerare un
problema l’approccio femminile al lavoro.
Su questo abbiamo fatto un fumetto in cui si vede una palla tonda che cerca di entrare in una
porta quadrata. Ovviamente senza riuscirci.
Questo è un po’ quello che si chiede alle donne.
Il punto è che così si perdono risorse. Oggi le
donne non rientrano al lavoro dopo la maternità
limento, che però, davvero, è molto dovuto allo
stereotipo. Allora, se uno mettesse a fuoco
quanto invece la maternità ti rafforza...
Con questa tesi in mano, ho incontrato Andrea
Vitullo, un coach formatore che lavora molto
sulla leadership. Recentemente ha scritto un libro sulla “Leadershit”, perché lui per primo non
crede più a quest’idea dell’uomo solo al comando. Assieme ci siamo messi a fare delle ricerche.
Gli scienziati dicono che, effettivamente, il cervello della donna con la maternità si potenzia.
Cambiano delle cose pure a livello comportamentale. Infine, a livello sociologico, le ultime
teorie dicono che più ruoli si accumulano non
si elidono. Si è proprio scoperto che, se una persona ha due o più ruoli, l’uno dà forza all’altro.
Insomma, c’è un’evidenza scientifica fortissima
del fatto che la maternità ti rende più forte. Poi
c’è la genitorialità: le attività di cura sviluppano
competenze di leadership. Di qui è venuta quest’idea del “maternity as a master”. Si tratta di
un programma formativo che proponiamo sia
alle aziende che alle istituzioni.
L’obiettivo è di trasformare la maternità da un
periodo di assenza a un periodo di sviluppo e
formazione, da cui una donna rientra al lavoro
più forte. Ieri abbiamo fatto la prima classe con
una multinazionale (non posso dire il nome perché è un progetto pilota). C’erano qui dodici
mamme, tutte manager. Nel nostro paese abbiauna città
13
mo questo problema enorme che le donne non
salgono. La leadership femminile, siccome è diversa dalla leadership maschile, non riesce a
sfondare. È un primo esperimento per mettere
alla prova la nostra teoria. Per quel che ne so, è
il primo corso che vedo, non solo in Italia.
L’ambizione è di cambiare l’immaginario, di far
capire che tante cose che, fino ad oggi, sono
sembrate impossibili, possono succedere, che
c’è lo spazio per cambiare.
Sul piano economico, il co-working è sostenibile?
Esiste l’opzione dei fondi europei e l’anno prossimo è quello della conciliazione vita-lavoro,
però noi non abbiamo avuto la pazienza di
aspettare: lavorare con le istituzioni vuol dire
impiegarci qualche anno; io vengo dalle aziende, sono abituata a tempi diversi.
Ho avuto la fortuna di incontrare il mio attuale
socio, Carlo Mazzola, che aveva a disposizione
degli spazi. L’idea gli è piaciuta e così, dopo
aver trovato altri cinque soci, che hanno messo
il capitale, siamo partiti.
Avremmo forse dovuto scegliere una forma giuridica non profit, in realtà abbiamo fatto una srl
e un’associazione. Questo perché in Italia non
esiste l’impresa a finalità sociale, che è quello
che vorremmo fare noi. Cioè noi vorremmo essere sostenibili con, però, un tetto ai profitti,
quindi avere come obiettivo primario un impatto sociale ma, come obiettivo altrettanto importante, la sostenibilità economica. Non vogliamo
vivere di beneficenza o di soldi pubblici. Si tratta di trovare gli stakeholder interessati e per
esperienza posso dire che tutti gli obiettivi sociali hanno degli stakeholder disposti a pagare
che non sempre sono i diretti beneficiari. C’è
Un progetto di questo tipo richiedeva almeno
350.000 euro, in realtà ne abbiamo messi un po’
di meno e infatti adesso stiamo facendo un aumento di capitale. Sì, per partire, ci vogliono abbastanza soldi. La start-up costa almeno 7080.000 euro, poi c’è tutta la fase di gestione dei
primi due anni. Io ancora non mi pago lo stipendio e c’ho messo dei soldi.
Considera che i costi fissi di questo spazio, pur
contando su un affitto assolutamente irrisorio, si
aggirano sui 6-7.000 euro, e c’è un unico stipendio, quello del community manager. Non abbiamo ancora staccato una fattura lato consulenza.
D’altra parte, siamo una start-up e statisticamente, nei primi due anni, le start-up perdono
soldi. Ci pensavo proprio oggi: “Beh, vabbé, ma
è normale”. Ottimisticamente, siccome l’anno
ancora del lavoro da fare in questo senso. Diciamo che quando comincerò a pagare uno stipendio a me stessa vorrà dire che saremo arrivati
a quel punto lì -e io non voglio stare un altro anno senza. Comunque questo dev’essere chiaro:
il co-working non è un business. Il co-working,
se lo fai fine a se stesso non sta in piedi.
Ma non si copre neanche le spese?
No, se vuoi pagarti uno stipendio no. Cioè alla
fine fai una gran fatica e ci guadagni forse come
una piccola merceria. La parte di co-working,
anche se andasse a pieno regime, non arriverebbe mai a pagare il mio stipendio. Infatti, il coworking ha senso se lo intendi come uno strumento. Devi avere un altro obiettivo, che forse
è proprio quello della cosiddetta community.
Credo sia per questo che abbiamo avuto un sac-
14
una città
prossimo dovremmo riuscire a fare un po’ di
progetti, confido che andrà meglio. C’è anche
da dire che noi siamo un po’ “border line” tra
profit e non-profit in quello che facciamo.
co di richieste di aprirne altri. Solo che finora
ci siamo sempre fermati quasi subito, perché la
prima domanda è: hai uno spazio gratis? Perché
se lo devi pagare...
Negli altri paesi funziona nello stesso modo
o ci sono altre formule?
C’è una rivista online, Deskmag, che ogni anno
fa un sondaggio su tutti gli spazi di co-working
nel mondo. A marzo se ne contavano circa
2.500. Raddoppiano ogni anno. Ecco, nel sito
ci si interroga anche sulla sostenibilità e, in effetti, la metà non è sostenibile. L’altra metà,
quella che riesce a stare in piedi, lo fa grazie ad
altre attività, che vuol dire affitto delle sale, attività di formazione, eventi... questo significa
che devi avere sale grandi, perché le vere entrate le fai movimentando quelle. Insomma, ci devi
innestare sopra qualcosa, sennò questo spazio,
con il solo co-working, non sta in piedi, non ti
copre tutti i costi...
Chi viene a lavorare qui?
Abbiamo veramente un po’ di tutto: dalla camiciaia, che ogni tanto si prende la sala per fare
showroom e ricevere clienti, alla psicologa con
una figlia piccola, che si affitta la sala e si fa la
sua seduta, mentre la bambina è al co-baby. Abbiamo grafici, esperti di comunicazione, liberi
professionisti che invece usano lo spazio come
se fosse un ufficio, magari incontrandosi con
altri.
Abbiamo due papà dipendenti d’azienda che
fanno il co-working da qui con i loro bambini.
Uno viene dalla Toscana e quando è a Milano
viene da noi; l’altro lavora per un’azienda canadese e, siccome aveva la bambina che al nido
si ammalava sempre, ha iniziato a portarla qui
e funziona! Quindi c’è veramente un po’ di tutto: piccole, piccolissime imprenditrici, piuttosto
che libere professioniste.
Credo che nessuno abbia mai comprato il mese
-la nostra tariffa mensile è di 250 euro- che ti
permette di avere lo spazio sempre tuo. È una
formula che sembra non interessare. A funzionare sono i carnet: si compra un carnet da trenta
ingressi e lo si usa quando si vuole. Trenta ingressi costano circa 15 euro al giorno. Solo il
co-working. Adesso il Comune di Milano ha
messo a disposizione dei voucher che i co-worker possono spendere appunto nelle attività di
co-working. Sono un massimo di 1.500 euro
all’anno e coprono fino al 50% delle spese. È
una buona cosa.
Ma alla fine perché una persona dovrebbe
venire qui? In fondo se rimane a casa spende
meno.
La gente infatti pensa: “Vabbé, sto a casa mia e
non ci rimetto niente”. Però c’è una questione
di opportunità: noi abbiamo persone che, semplicemente incontrandosi, hanno trovato dei lavori da fare. Poi stare a casa è alienante. Questi
spazi “terzi” sono importanti perché ti danno
energia; magari non ci vieni tutti i giorni, ma
pensa anche solo al fatto di cercare un lavoro:
già stare a casa tutto il giorno, da sola, davanti
al giornale o a un computer e poi magari quell’unico colloquio ti va male...
In uno spazio così non solo sei insieme ad altri,
Gua Biscàro
abbiamo due papà
dipendenti d’azienda
che fanno il co-working da qui
con i loro bambini
problemi di lavoro
c’è una percezione diversa del
potere: molte donne, arrivate a
un certo punto, vedono cosa c’è
lassù e pensano: “Per carità!”
Uno spazio così lo potresti allestire anche in altri contesti. Nulla ti vieta di farlo al tribunale per
l’avvocato o, comunque, in qualunque altro luogo di lavoro dove ci sono tante donne o tanti genitori con bambini piccoli che ne avrebbero bisogno anche solo per piccole frazioni di tempo.
È questione di mentalità.
Lavorate anche con le aziende.
Abbiamo due modelli di lavoro: uno è il “back
to work”, che è la possibilità per le aziende di
far tornare le dipendenti dal congedo di maternità trascorrendo un periodo qui da noi, quindi
alternando questo spazio all’ufficio. È una formula che per ora raccontiamo, ma non stiamo
ancora “vendendo”; non è proprio così facile,
soprattutto a livello contrattuale.
Poi c’è tutto il versante “work-life balance”; accanto al progetto Maam (maternity as a master)
stiamo costruendo dei programmi di incontro tra
donne e lavoro, degli ibridi tra lavoro e forma-
Gua Biscàro
ma proprio per questo hai più probabilità. La
nostra interprete e traduttrice ha trovato lavoro
qui, tramite una co-worker la cui azienda cercava appunto una traduttrice; un’altra ragazza ha
trovato lavoro come assistente... Cioè, parlando,
incontrando le persone... si sa che il lavoro si
trova lavorando. Questi spazi hanno una grande
importanza sociale. Dovrebbero essere istituzionalizzati, magari con un focus sulle donne che
rientrano dalla maternità. Ora, a parte che oggi,
salvo alcuni lavori, non ci sarebbe neanche bisogno di uno stacco così radicale; voglio dire
che molte donne non sono contente di starsene
a casa da sole col bambino come unica occupazione. Ecco, con spazi di questo tipo potresti
magari lavorare mezza giornata e intanto continuare a formarti. Qui una donna è venuta con la
bambina che aveva tre mesi e c’è rimasta fino a
che la figlia ne aveva nove. Lavorava e quando
era ora allattava; ha svezzato la bambina qui da
noi. Si può fare. Non è difficile.
noi non interessa non ci arriviamo, quindi non
decidiamo. E così i “nostri” problemi, che poi
sono i problemi della società, rimangono marginali.
Arrivare nelle posizioni dove si decide è fondamentale, però non capisci bene da che parte devi
attaccare la cosa. Devi cambiare le cose per arrivare, ma per arrivare devi cambiare le cose.
Purtroppo oggi la nostra società premia l’adattamento. Invece il senso della possibilità è questa capacità di vedere le cose come sono e di immaginare come potrebbero essere e di lavorare
perché questo avvenga. Abbiamo voluto scrivere su una parete questa frase di Einstein: “Non
puoi pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare sempre le stesse cose”. È proprio
così.
Hai lavorato due anni in Finlandia. Era diverso?
Allora, intanto lì è normale che si smetta di lavorare alle quattro, quattro e mezza. E che la
gente, tutti, uomini e donne, escano e abbiano
una vita. Invece da noi c’è quest’idea che, se
non stai fino a mezzanotte, non puoi essere un
top manager.
zione, in cui le aziende possono essere coinvolte. Il mondo aziendale ha un ruolo più importante e più agile di quello istituzionale, quindi
lo ingaggiamo sempre.
Considera che le aziende sono tutte multinazionali. Di piccole non ne abbiamo ancora viste. I
tempi sono quelli che sono.
Il mondo delle aziende comunque è affascinato
da questo spazio; a quelli che vengono l’idea
piace tantissimo, c’è un grande interesse. L’unico limite che vedo oggi è quello del mio tempo;
bisognerebbe essere almeno in tre e torniamo
alle risorse economiche: io per un po’ ci posso
lavorare gratis, ma volendo altre due persone
come me, le dovrei pagare.
Insomma, abbiamo un potenziale molto alto e
una posizione anche abbastanza particolare, però abbiamo il limite delle risorse. Ti dico che se
entrasse un milione di euro saprei esattamente
come spenderli! Non ne butterei neanche uno!
Per ora abbiamo una ragazza in stage, Simona,
bravissima, e poi c’è Sabrina, che sta lavorando
su marketing e comunicazione e dovrebbe entrare in società; abbiamo un paio di collaboratori esterni, prevalentemente consulenti sulla
comunicazione. Quello che manca è proprio una
figura di direttore commerciale piuttosto che di
direttore generale, cioè delle figure senior che
siano impegnate full time e martellino insieme
a me. Ne sento molto la mancanza in questo periodo perché vedo tante cose belle, tante potenzialità... è un peccato. Certi giorni penso: è molto bello, faccio davvero un bel lavoro; in altri
penso: “Adesso mollo tutto”.
Il paradosso è che ho fatto tutto questo per non
dover scegliere tra maternità e lavoro e poi che
faccio? Non vedo neanche i miei figli! Ma siamo pazzi?
Conosco donne che vedono i figli la mattina e
poi li rivedono la mattina dopo. Ecco, non c’è
una cifra che mi puoi pagare per una cosa del
genere. Infatti molte donne arrivano a un certo
punto, vedono che cosa c’è lassù e poi pensano:
“Per carità!”. Abbiamo una percezione diversa
del potere. Quel potere lì proprio non ci interessa. E questo è un problema, perché, siccome a
“Ah, no, lei ha una bambina, le
renderemmo la vita impossibile”.
Cioè ci fanno il favore...
di toglierci le responsabilità
Poi la maternità, per esempio in Nokia, la usavano per fare “job rotation”, cioè la donna in
maternità viene sostituita da un’altra persona
dell’azienda che sta in questo ruolo pro-tempore
e si fa comunque un anno in una posizione diversa. Così la maternità diventa anche un momento di formazione. Spesso poi capita che
quando rientri vieni promossa automaticamente
a un grado più alto, mai più basso. Altrimenti
rientri nel tuo ruolo.
Sulla maternità comunque si potrebbe innovare
tanto. Non è che una debba isolarsi, assentarsi
per cinque mesi. Non è una malattia! Anzi, fa
bene continuare a lavorare.
Purtroppo lo stereotipo è pesantissimo e per
quanto tu possa essere forte, tosta, convinta, se
poi ti cominciano a trattare come se da un momento all’altro sparissi e non tornassi più, se un
po’ alla volta cominciano a toglierti le responsabilità... E la cosa più assurda è che molti lo
fanno pure in buona fede. Perché pensano che
sia giusto. Lo fanno per te. Ricordo che quando
si trattò di pensare a qualcuno per il posto di direttore generale, io avevo proposto la direttrice
finanziaria: “Ah, no, lei ha una bambina, le renderemmo la vita impossibile”. Ed era una considerazione sincera: cioè ci fanno il favore... ci
fanno il favore di toglierci le responsabilità.
Ieri al corso una donna ha detto: “Beh, se con
la maternità acquisisco competenze allora sarebbe bello che, una volta rientrata, mi venissero
attribuite più responsabilità! Vorrei proprio poter dimostrare che sono più brava”. Sai come
cambierebbe!?
(a cura di Barbara Bertoncin)
una città
15
problemi di lavoro
HIGH PERFORMANCE
WORK PRACTICES
In questi anni di crisi, ma già da prima, a rimanere competitivi nel mercato globale sono
soprattutto le aziende dove sono stati promossi un maggior coinvolgimento e autonomia dei
lavoratori, il lavoro in squadra, la flessibilità degli orari, e in generale forme di innovazione
organizzativa e di partecipazione. Luciano Pero e Anna M. Ponzellini illustrano alcuni casi di studio.
Luciano Pero è docente di Organizzazione per
il Mip Politecnico di Milano. Si occupa di innovazione organizzativa, architetture di sistemi informativi, relazioni industriali e mercato del lavoro; Anna Ponzellini si occupa di organizzazione del lavoro, politiche del lavoro e del welfare.
La versione integrale della relazione (completa
del caso beta, di note e bibliografia), tenutasi il
18 ottobre a Roma, nell’ambito di un workshop
organizzato da Aisri e Aiel, è liberamente consultabile nell’archivio di Una città. www.unacitta.it. Sul caso beta, segnaliamo anche l’intervista
comparsa sul n. 201, 2013).
La via italiana al recupero di produttività tramite
l’aumento della flessibilità esterna (lavoro precario), della saturazione dei tempi (tagli delle
pause, aumento dei ritmi e dei carichi) e delle
ore lavorate (straordinari) ha definitivamente
mostrato la corda. La competitività del sistema
manifatturiero italiano, soprattutto quello esportatore, può essere rilanciata soltanto con un deciso sforzo di innovazione nei sistemi organizzativi e gestionali delle imprese. Come indicano
la letteratura economica e manageriale e le periodiche indagini della Commissione europea,
nelle aziende dove sono state introdotte pratiche
avanzate di gestione dei processi e delle persone
-come il lavoro in squadra, la formazione, il
coinvolgimento dei lavoratori nei processi di
qualità, la flessibilità degli orari di lavoro e i sistemi premianti- sono stati realizzati incrementi
estremamente significativi della produttività del
lavoro, la riduzione dei costi operativi, la condivisione della conoscenza dei processi e della
soluzione dei problemi.
Tuttavia, percorrere questa strada per il nostro
sistema industriale significa affrontare il problema di una riconversione delle relazioni industriali a livello d’impresa in direzione della partecipazione piuttosto che del conflitto, di un
nuovo ruolo e nuove competenze per gli organismi di rappresentanza, di nuove regole per la
contrattazione aziendale ispirate a un governo
più flessibile delle relazioni di lavoro.
Ci proponiamo di dimostrare che il gioco vale la
candela, esaminando alcuni casi interessanti di
innovazione organizzativa condivisa tra management e sindacato, nei quali è stato possibile
realizzare incrementi misurabili di performance
e insieme una migliore qualità della vita di lavoro e una maggiore partecipazione dei lavoratori.
Anche sulla base di queste esperienze, provere-
16
una città
mo a suggerire qualche cambiamento possibile
per il nostro sistema di relazioni industriali (specialmente a livello di impresa), a partire dal potenziamento del ruolo e dalle competenze delle
Rsu e dalla ottimizzazione della normativa Ccnl
(e dei relativi rimandi alla contrattazione aziendale) su materie cruciali per la produttività, quali
l’organizzazione del lavoro, gli orari e la conciliazione, la partecipazione dei lavoratori ai processi di qualità, i sistemi premianti e di welfare.
il lavoro in squadra stenta a
diffondersi in Italia, e non è quasi
mai oggetto di procedura
sindacalmente condivisa
Pratiche d’innovazione organizzativa indirizzate
al miglioramento della produttività e della qualità -le Hpwp (High Performance Work Practices)- si stanno diffondendo, sia pure lentamente,
anche nel nostro sistema industriale, in genere
in parallelo alla scelta dello snellimento delle
strutture, dell’accorciamento della linea di comando e dell’introduzione di sistemi di qualità
totale. È noto che queste pratiche hanno un impatto positivo sulla performance delle imprese,
anche se di grado maggiore o minore a seconda
del mix implementato e comunque maggiore
nel caso della contemporanea introduzione di
un numero elevato di pratiche diverse. È meno
noto -e forse anche più controverso- il rapporto
che esiste tra queste pratiche e il sistema aziendale di relazioni di lavoro, in particolare la partecipazione del sindacato e il coinvolgimento
dei lavoratori.
La nostra tesi è che l’innovazione, e in generale
le Hpwp, danno i migliori risultati se sono accompagnate da un grado elevato di partecipazione organizzativa, ovvero se i lavoratori non
solo sono coinvolti attivamente nell’obbiettivo
di cambiamento, ma anche chiamati a cooperare
alla realizzazione dei risultati attraverso qualche
forma di delega organizzativa che realizzi una
maggiore autonomia del lavoro e l’aumento della responsabilità degli operatori.
In questo paper ci soffermiamo in particolare su
tre pratiche -il miglioramento continuo, la flessibilità degli orari e il lavoro in squadra- non
sempre e non necessariamente applicate insieme. Di queste, solo la flessibilità è generalmente
un terreno di contrattazione (e spesso di conflitto). Le pratiche di miglioramento continuo sono
piuttosto diffuse ma prevalentemente considerate ambito di prerogativa manageriale. Il lavoro
in squadra stenta a diffondersi, almeno in Italia,
e non è quasi mai oggetto di procedura formale
(più o meno sindacalmente condivisa).
I SUGGERIMENTI
“Il Wcm e l’innovazione organizzativa e delle relazioni di lavoro
sono l’unica via di sopravvivenza alla competizione globale”. I
gruppi di miglioramento. Il caso “alfa”.
Il caso alfa colpisce per due ragioni. La prima
è che quest’azienda ha ormai da alcuni anni al
suo attivo alcuni dei premi più prestigiosi per la
gestione delle risorse umane: per il quinto anno
consecutivo, nel 2013, si è certificata “Top-Employer Italia” mantenendo la sua collocazione
in un ristretto numero di aziende -tra cui Microsoft e Luxottica- che hanno raggiunto questo
importante traguardo; inoltre, per due anni
(2011 e 2012) ha conquistato il primo posto in
Italia, e nel 2011 addirittura il primo in Europa,
come “Great place to work”. La seconda ragione è che, pur appartenendo a un comparto produttivo (quello degli elettrodomestici) e avendo
i suoi principali impianti in un territorio (quello
marchigiano) che stanno risentendo particolar-
mente della crisi, sta tuttavia registrando una
buona tenuta dei mercati e discrete performance
economiche che, tra l’altro, l’hanno portata a
collocarsi nel segmento Star della Borsa italiana
(dedicato alle medie imprese che assicurano requisiti di alta trasparenza, alta liquidità e una
corporate governance di livello internazionale).
Alfa produce cappe da cucina destinate ai principali produttori mondiali di elettrodomestici,
come Whirlpool, Bosch e General Electric. Ha
circa 2.700 dipendenti, di cui la metà fuori Italia. Negli stabilimenti marchigiani sono concentrati poco meno di 1.000 dipendenti: gli operai
-principalmente donne- sono il 70% della forza
lavoro, gli altri in gran parte sono tecnici e ingegneri della Ricerca e Sviluppo e impiegati ad-
sviluppare le idee di miglioramento -che possono variare da 4 a 15 componenti, a seconda
della dimensione dell’innovazione- sono spontanei e volontari (virtualmente tutti possono
partecipare), sono poco strutturati (nel senso
che vengono fatti ad hoc e poi disfatti), godono
di ampia autonomia (nel decidere i vari passaggi per la messa in campo dell’innovazione, il
numero delle riunioni, ecc.), in genere non hanno un leader.
l’autonomia e la competenza
dei lavoratori nei suggerimenti è
aumentata dove sono stati
introdotti schemi di job rotation
All’inizio, le reazioni all’introduzione del Wcm
e del sistema dei suggerimenti erano state piuttosto spaventate da parte del personale e tiepide
da parte delle Rsu, in parte per una naturale resistenza al cambiamento, in parte per una cultura -tipicamente la cultura operaia in Italia in
generale- un po’ restia al coinvolgimento. A giudizio del management, la transizione verso una
cultura partecipativa è stata la vera sfida di questo programma, visto che alfa lo voleva centrato
proprio su un cambiamento continuo proveniente dall’osservazione e dall’esperienza diretta dei
lavoratori. A distanza di tre anni, si possono cominciare a trarre le prime riflessioni sull’esperienza. Per mettere a punto e testare l’intero
schema delle proposte -dal coinvolgimento sul
singolo suggerimento a quello necessario per
raccogliere il feed back dell’innovazione- ci è
voluto più di un anno e nel corso del tempo il
programma si è arricchito di strumenti e ha avuto impatti diretti e indiretti molto articolati sia
sulla produttività che sulle condizioni e sulle relazioni di lavoro.
Per esempio, nella prima fase erano i manager
a sollecitare i suggerimenti e le proposte che arrivavano erano molte ma disordinate e superfi-
Fausto Fabbri
detti all’amministrazione, al marketing e al
commerciale. Dal 2010 ha adottato il programma World Class Manufacturing (Wcm), secondo
il sistema messo a punto dal Gruppo Fiat, ma
con un’interpretazione del programma che vede
da un lato cruciali l’integrazione dei processi e
la sincronia (“allineamento”) dei vari reparti,
dall’altro, il coinvolgimento attivo dei lavoratori. Tanto che, mentre nel sito più importante
l’implementazione del sistema ha già coinvolto
sette linee di produzione (circa il 40% degli addetti industriali), sta partendo la partecipazione
delle aree non industriali, comprese quelle della
sede centrale. È molto significativo che questo
sforzo di riorganizzazione sia stato intrapreso
parallelamente a una razionalizzazione degli
impianti e delle risorse che ha anche comportato
l’intervento di cassa integrazione.
I suggerimenti dei lavoratori per il miglioramento del processo produttivo sono al centro
del particolare schema di Wcm applicato. In
pratica, tutti i lavoratori sono invitati a dare suggerimenti o a proporre progetti finalizzati a migliorare la produzione: le proposte possono essere inoltrate al responsabile interessato -non
necessariamente il proprio capo diretto- tramite
moduli forniti dalla direzione. Quando ne viene
approvata l’implementazione, spetta al lavoratore, con l’eventuale assistenza del manager interessato, mettere insieme un gruppo che possa
sperimentarla. Il gruppo di miglioramento può
essere la stessa squadra addetta a quella particolare linea di produzione, ma anche un gruppo
misto trasversale alle linee o addirittura ai reparti e partecipato da addetti di tutti i ruoli che
sono necessari per implementare l’innovazione
(dagli operai addetti alla produzione, ai responsabili di linea, ai manutentori, agli addetti al
magazzino, ecc.), anzi, la direzione incoraggia
tutte le volte che è possibile i gruppi interdipartimentali. Ne deriva che i gruppi incaricati di
ciali, così si è deciso di fornire ai lavoratori manuali e tutto il corredo di informazioni necessarie a verificare la fattibilità delle proposte: attualmente il numero dei suggerimenti è calato,
ma la qualità delle proposte è migliorata tantissimo. L’autonomia e la competenza dei lavoratori nei suggerimenti è aumentata anche perché
sono stati introdotti sulle linee coinvolte nel
Wcm schemi di job rotation, che consentono ai
lavoratori una più ampia comprensione di quello che fanno i loro colleghi di linea e di reparto.
Per accrescere in quantità e qualità i suggerimenti e le iniziative di cambiamento, sono poi
state moltiplicate le opportunità formative per i
dipendenti finalizzate ad aumentare la loro
competenza tecnica e organizzativa, ma anche
a migliorare la fiducia in loro stessi. È significativo che la domanda di formazione relativa
alle competenze manageriali (teamworking, comunicazione) sia aumentata rispetto alla più tradizionale domanda di formazione tecnica. Anche l’accesso all’intranet aziendale che ha un
software dedicato a mappare le idee e i progetti
in corso, a valutarli in base ad una serie di indicatori e raccogliere commenti e feed back, ha
contribuito a migliorare la partecipazione e la
capacità dei lavoratori di costruire proposte appropriate. Tant’è che, negli ultimi tempi, si stanno moltiplicando iniziative autonome da parte
dei singoli lavoratori che, prima di avanzare al
manager il suggerimento, lo testano di propria
iniziativa, talvolta coinvolgendo i colleghi di lavoro. L’azienda non frena questo processo, anzi
lo segue con attenzione.
L’obiettivo aziendale di favorire il miglioramento continuo della produzione a partire dallo
“sguardo” di chi lavora sembra aver di necessità
coinvolto molti aspetti delle condizioni di lavoro e del rapporto di lavoro. Se lo scopo iniziale
era reggere una concorrenza ormai globalizzata
-e particolarmente feroce nel settore degli eletuna città
17
trodomestici- realizzando in modo più efficiente
prodotti di migliore qualità, il programma introdotto ha rafforzato un sistema di relazioni di lavoro collaborative e di coinvolgimento dei lavoratori che da sempre informa tutta la vita
aziendale: sono diffuse e puntuali le informazioni tecniche sui processi, i target di produzione e gli andamenti dei mercati; sono periodicamente raccolti i feed-back sulle innovazioni e i
risultati del processo di miglioramento sono misurati e diffusi attraverso periodiche presentazioni che danno conto di ciascuna proposta (e
persino aprono la discussione e chiedono contributi sui suggerimenti che sono stati scartati).
Il dialogo tra Rsu e direzione del personale -riguardante sia l’avanzamento dell’implementazione del Wcm, sia le prospettive dei mercati e
dell’occupazione- è continuo.
Analogamente, l’adozione del Wcm e del sistema dei suggerimenti sta contribuendo a modificare la cultura organizzativa. La direzione ammette che la struttura aziendale è ancora piuttosto gerarchica, ma l’esperienza dei gruppi di miglioramento sta “allenando i capi alla delega” e
“sta abituando gli operatori all’autonomia, all’iniziativa, al networking, al lavoro di squadra”. La migliore conoscenza dei processi, dei
ruoli, dei compiti dei colleghi, che si è ottenuta
attraverso l’esperienza dei gruppi misti e della
job rotation, ha avuto come risultato inatteso anche una maggiore simpatia verso i colleghi -sia
quelli dello stesso reparto sia quelli dei reparti
a monte e a valle- di cui ormai conoscono bene
condizioni di lavoro e bisogni di cambiamento
e quindi verso le proposte avanzate da loro.
Una ragione particolare di adesione dei lavoratori al nuovo metodo -ci è stato riferito che chi
non è ancora coinvolto invidia molto i lavoratori
già inseriti nel programma Wcm- è dovuta al
cambiamento delle condizioni di lavoro (postazioni di lavoro e ergonomia sulle linee sono fin
dall’inizio molto migliorate), ma c’è anche la
percezione della possibilità di cambiare ogni sezione del processo di produzione, quindi di modificare le proprie condizioni di lavoro: vi è una
procedura specifica che stimola ad avanzare delle proposte di miglioramento, oltre che dell’efficienza, anche della salute e della sicurezza del
lavoro in qualsiasi stadio dei processi. Alcune
delle innovazioni introdotte fin qui hanno avuto
il risultato di eliminare i movimenti superflui e
gli sforzi fisici non necessari e di ridurre i fattori
di rischio di infortunio e lesioni. Uno degli impatti più eclatanti del programma è proprio costituito dal drastico abbattimento degli infortuni,
che ormai tendono a zero. Ma è aumentato anche
il confort di alcune posizioni di lavoro: in molti
casi attualmente gli addetti lavorano seduti anziché in scomode posizioni in piedi.
uno degli impatti più eclatanti è
costituito dal drastico
abbattimento degli infortuni, che
ormai tendono a zero
Come si è detto, anche le relazioni industriali
sono un aspetto positivo del caso alfa, anche se
non è del tutto chiara la relazione tra queste e
l’esperienza dei gruppi di miglioramento. Circa
il 25% dei dipendenti è iscritto al sindacato e il
sindacato maggioritario è la Fiom Cgil. Nel
2008, alla vigilia dell’avvio del programma
Wcm, alfa ha firmato con quattro sigle sindacali
un accordo aziendale-quadro molto avanzato, i
cui punti sono stati costruiti attraverso un prolungato processo di discussione tra sindacato e
lavoratori favorito dalla stessa azienda.
In conclusione, i buoni risultati della pratica innovativa -in questo caso, i gruppi di miglioramento- sono dovuti a un coinvolgimento dei lavoratori che non è stato difficile in un’azienda
caratterizzata da relazioni di lavoro tradizionalmente improntate alla fiducia tra le parti e all’assenza di conflitto sindacale. Ma il successo
è stato indubbiamente favorito dalla contemporanea implementazione di altre pratiche manageriali contigue, come il miglioramento dell’ambiente, del layout e dell’ergonomia, la formazione dei lavoratori coinvolti, la sperimentazione di forme di job rotation, l’introduzione di
pacchetti di welfare aziendale.
TUTTO IN CASA
Un’azienda di moda nella competizione globale che segue un
percorso di formazione e condivisione continua con le Rsu e i
lavoratori per adeguarsi al mercato globale. Il caso “gamma”.
Il caso gamma è molto interessante perché riguarda una tipica azienda del sistema moda specializzata in oggetti di complemento dell’abbigliamento personale tipici del Made in Italy, che
si è adattata con successo al nuovo mercato
mondiale.
L’azienda gamma era già un’azienda di successo negli anni Novanta, che è stata capace di
adattarsi alla globalizzazione dopo il 2000, riconfermando le proprie posizioni di leadership
nel settore, e di trasformarsi in una vera multinazionale globale di tipo nuovo.
Essa è riuscita, con rapidi cambiamenti, sia a in-
18
una città
serirsi nei nuovi mercati dei paesi emergenti, in
Asia, Oceania, Sud America, sia a mantenere i
mercati dei paesi sviluppati (Europa e Nord
America soprattutto) con una profonda innovazione di prodotto, con l’allargamento dei marchi, con un elevato ampliamento della gamma
offerta sia ai mercati emergenti sia a quelli tradizionali.
Questa profonda trasformazione, che ha riconvertito un’azienda “artigianale” situata nei distretti paesani del Made in Italy in una multinazionale globale di tipo nuovo, è avvenuta rapidamente nel decennio scorso, anche con la
problemi di lavoro
conservazione di molte caratteristiche strutturali e di immagine del Made in Italy. Ad esempio, c’è una forte continuità del design italiano,
delle soluzioni tecnologiche e dei materiali, di
alcune lavorazioni manuali con impronta artigianale, della fedeltà e attaccamento dei lavoratori all’azienda, del rapporto con il territorio
di origine.
I risultati raggiunti, se osservati dal punto di vista del “business”, sono eccezionali: il fatturato
è più che raddoppiato in dieci anni, le quote di
mercato si sono accresciute o mantenute, i margini sono aumentati e comunque sono sempre
elevati, la gamma enormemente ampliata, le catene di vendita di proprietà espanse in nuovi
paesi.
Questa rapida e profonda trasformazione è stata
realizzata in un quadro di relazioni industriali
da sempre più orientato alla cooperazione invece che al conflitto; e tuttavia negli ultimi anni
le relazioni industriali si sono evolute verso un
modello dove la partecipazione organizzativa,
soprattutto delle Rsu ma anche dei sindacati
esterni, è stata ancora di più rafforzata e arricchita di nuove regole e nuovi istituti aziendali.
Tuttavia la formalizzazione è rimasta scarsa.
Prima però di descrivere il modello di relazioni
industriali, sembra opportuno accennare alle
profonde e rapide trasformazioni del sistema
produttivo del caso gamma e alle rilevanti modifiche delle fabbriche che sono state necessarie
per trasformare alcuni poli produttivi di un distretto locale italiano in un network manifatturiero di una multinazionale globale.
In primo luogo, l’aumento rilevante dei volumi
e dei pezzi prodotti (che è più che raddoppiato
in dieci anni) è stato realizzato completamente
in fabbriche di proprietà, dal momento che la
gestione tradizionale non aveva mai ceduto alle
sirene dell’outsourcing e che anche la gestione
attuale ha confermato la scelta di fondo di mantenere in aziende di proprietà non solo il marketing e la progettazione, ma l’intero ciclo produttivo, compresi i componenti più importanti.
Si opera sempre con la regola del “tutto fatto in
casa”. Il raddoppio dei volumi prodotti è stato
quindi ottenuto, da un lato, con nuove fabbriche
in Cina e in America (sia Nord che Sud) e,
dall’altro, con una forte pressione sulle fabbriche italiane per produrre di più, all’interno di
una sostanziale stabilità di organico. Le ricette
di terziarizzazione quasi completa del sistema
di produzione tipiche dell’abbigliamento (come
ad esempio Benetton o le “grandi firme”) non
sono quindi state adottate e il network produttivo di gamma è quindi molto più simile a quello
di Zara che a quello di Giorgio Armani, da cui
è in effetti molto distante.
In secondo luogo, oltre all’aumento dei volumi,
le fabbriche sono state sottoposte a esigenze
pressanti (e anche stressanti) di modifica delle
tradizioni produttive, che ovviamente hanno
origine e causa nel nuovo mercato globale e nei
nuovi sistemi di marketing.
In somma sintesi: lo “stress” sulle fabbriche nasce da alcuni nuovi modi di vendere e distribuire sul mercato mondiale, che sono profonda-
più frequente agli istituti di flessibilità del Ccnl
(flessibilità positiva, negativa e straordinario incentivato), sia la variazione frequente dei turni
di lavoro, sia lo spostamento di lavoratori tra i
diversi siti produttivi, sia la modifica del layout
delle officine e delle macchine. In pratica, le
fabbriche sono in continuo cambiamento.
una lean “leggera” e facilmente
modificabile, oltre
che rispettosa dei sistemi
di manipolazione artigianale
- Una intensificazione delle tecniche di controllo qualità e di prevenzione dei difetti e degli
sprechi, anche con ricorso a nuove forme di premi collettivi di qualità e di campagne di sensibilizzazione sulla qualità rivolte agli operai.
- Una rapida diffusione dei sistemi di lean-production. Tuttavia, in questo caso, la lean, com’è
ovvio in una produzione di moda, non può essere applicata come il Wcm nell’ambiente “Automotive”, ma deve essere “leggera” e facilmente modificabile, oltre che rispettosa dei sistemi di manipolazione artigianale.
Questa notevole mole di cambiamento (che è allo stesso tempo concentrato e accelerato) è stata
gestita dagli attori (management e sindacati) in
un ambiente orientato alla convergenza che già
per tradizione era incline a relazioni industriali
di tipo cooperativo. Tuttavia, osservando un decennio di relazioni industriali mi sembra che si
possa affermare che man mano che l’esigenza
di cambiamento si è intensificata, la cooperazione tra gli attori è stata anch’essa intensificata
Fausto Fabbri
mente diversi dai modi di produrre degli anni
Ottanta e Novanta, ma che sono anche alla base
del recente successo di gamma.
Questi nuovi modi sono sintetizzabili nei seguenti punti:
- l’elevato ampliamento di gamma (più che triplicato) e la più rapida obsolescenza dei modelli
(e dei colori) che hanno oggi una vita molto più
“effimera” che in passato;
- la minore stabilità delle classiche collezioni
annuali e la comparsa di produzione ad hoc per
singoli eventi di moda, che nascono e muoiono
in pochi giorni;
- la diffusione del sistema di ordini just in time
di pochi pezzi da parte dei negozi e delle catene
di vendita, insieme alla riduzione dei lotti e dei
magazzini di prodotti finiti;
- il lancio di vendite su Internet per pezzi personalizzati.
Tutti questi fenomeni hanno richiesto un profondo cambiamento dei modi di produzione nelle fabbriche, che tuttavia devono conservare alcuni tratti dell’originaria impronta dell’alta qualità artigianale per mantenere le caratteristiche
del Made in Italy, ingrediente base del successo
dell’export.
In sostanza, questa elevata esigenza di rapida
trasformazione del flusso produttivo e dei modi
di produzione è stata tradotta dal management
in numerosi filoni e progetti di innovazione di
prodotto (che qui non trattiamo) e di processo.
Questi ultimi sono riassumibili in tre filoni:
- una flessibilizzazione elevata del sistema di
produzione che richiede sia un ricorso sempre
e sviluppata ampiamente, sino ad accentuarsi
negli ultimi anni.
Tuttavia, l’accentuazione di relazioni industriali
innovative e cooperative non ha ancora prodotto
un vero e proprio modello partecipativo formalizzato. Al contrario, gli attori sembrano insistere su pratiche di fatto e prassi di elevato coinvolgimento e di sistemica consultazione reciproca, ma si fermano prima di arrivare a formalizzazioni di istituti e di accordi che potrebbero
“stonare” nel contesto italiano che, com’è noto,
risulta caratterizzato da litigiosità, localismo ed
elevata frammentazione.
Si sono così sviluppate pratiche diffuse in tutti
i poli produttivi di sistematica e precisa informazione a tutti i dipendenti dei progetti innovativi in corso, nonché di approfondita formazione
sui nuovi metodi di produttività alle Rsu e ai lavoratori coinvolti nei progetti di innovazione.
L’azienda ha elaborato un modello sistemico
con tre “gradini” successivi con i quali si propone di coinvolgere tutte le persone nei processi
innovativi. In breve si prevede una sorta di progressione nel coinvolgimento dei lavoratori
man mano che le innovazioni vengono applicate
nelle fabbriche, passando per interventi successivi che si focalizzano su: informazione sistemica e frequente a tutti i lavoratori; formazione
mirata ai lavoratori coinvolti, ai tecnici e alle
Rsu; coinvolgimento diretto dei team di miglioramento e dei team-operai.
Tutte queste pratiche e le iniziative di formazione e coinvolgimento sono comunicate e condivise con i sindacati e sono diventate uno “stile”
una città
19
con cui si gestisce l’innovazione e un ingrediente essenziale per il successo del cambiamento.
Tuttavia, oltre alle “prassi”, sono stati stabiliti
in diversi accordi e contratti integrativi aziendali
nuovi istituti e nuove regole di conduzione e
concertazione che possono essere considerati
una sorta di “quasi modello” di una partecipazione aziendale a “bassa formalizzazione”. In
primo luogo sono state definite varie Commissioni bilaterali (tra cui centrale è la Commissione Organizzazione del lavoro) e regole di informazione e comunicazione che consentono e regolano la condivisione dei progetti innovativi e
soprattutto la gestione della flessibilità degli
orari e della mobilità interna.
In secondo luogo, sono state formalizzate nel
contratto aziendale un insieme di micro-regole
per la gestione di aspetti non secondari della
partecipazione dei lavoratori, quali ad esempio
il part-time (entrata e uscita), le ferie, i permessi
e le chiusure annuali, il job-sharing, la riorganizzazione dei layout dei reparti, le informazioni delle Rsu, ecc.
In terzo luogo, è stato definito un articolato sistema di welfare aziendale, con un accordo ad
hoc, che viene gestito attraverso una Commissione bilaterale azienda-sindacati, nella quale
viene regolato lo scambio fondamentale tra performance complessive di qualità delle fabbriche
e servizi di welfare erogati.
In conclusione, nel caso gamma, si può osservare come un ambiente manifatturiero che ha
necessità di accelerare e di intensificare l’innovazione tecnico-organizzativa per avere successo nei nuovi mercati globali, abbia accentuato e
approfondito un proprio modello di partecipazione aziendale centrato sul coinvolgimento diffuso dei lavoratori e delle Rsu nella partecipazione diretta e organizzativa nelle fabbriche e
nelle linee di lavoro. Molta minore enfasi è stata
data invece sugli accordi di lungo periodo e sulla partecipazione strategica.
In una zona intermedia può essere collocato il
sistema di gestione paritaria azienda-sindacato
del welfare aziendale.
CALATO DALL’ALTO
Il Wcm in un’azienda di componentistica del ciclo automotive: la
scarsa partecipazione dei lavoratori rende difficile raggiungere
gli obiettivi attesi di produttività. Il caso “delta”.
Il caso delta è interessante come possibile contro esempio in relazione all’ipotesi avanzata nei
paragrafi precedenti: cioè che la crescita delle
performance di produttività aziendale, soprattutto se collegata a progetti di innovazione organizzativa e di processo, sia potenziata e facilitata dalla partecipazione diretta dei lavoratori
ai progetti di innovazione. Di conseguenza,
l’ipotesi è che nell’attuale situazione economica
l’esistenza di pratiche e di modelli di relazioni
industriali più cooperative a livello aziendale,
tendano a favorire il raggiungimento pieno dei
risultati attesi dai progetti innovativi.
Il caso delta può essere un contro esempio dal
momento che presenta due fattori contemporanei. Da un lato, in quel contesto non vengono
attivati né accordi sindacali di impianto cooperativo né pratiche di coinvolgimento dei lavoratori e delle Rsu. Dall’altro, contemporaneamente, l’applicazione di metodologie di miglioramento come il Wcm non riesce a raggiungere
i risultati attesi.
Delta è un’azienda di dimensioni medio-piccole, dotata però di strutture e staff tecnici che sono in grado di gestire efficacemente tecnologie
relativamente aggiornate per la produzione di
componenti complessi per l’industria automobilistica. Delta ha una sua propria struttura tecnica con capacità progettuale e di controllo qualità e un proprio sistema produttivo governato
da un tipico sistema gerarchico di capi intermedi (middle management) dedicato alla gestione
delle linee e del flusso produttivo. Delta lavora
da sempre nelle catene di sub-fornitura della
componentistica. L’idea di applicare tecniche e
metodi ricavati dai sistemi e dagli approcci lean
20
una città
era presente da tempo in fabbrica e molti esperimenti di programmazione a “Kan ban” e di
montaggio in isole erano stati condotti sin dalla
fine degli anni Novanta da diversi direttori di
produzione. L’approccio lean era tuttavia abbastanza distante dalla cultura di fabbrica e gli
esperimenti condotti dagli ingegneri più giovani
erano stati non sempre felici e di solito considerati con sufficienza dai leader di fabbrica tradizionali. Negli anni recenti tuttavia la pressione
dei committenti (i grandi costruttori di auto) in
direzione di standard di qualità più elevata, di
consegne molto puntuali, di un sistema di ordini
just in time e, infine, di una forte pressione sulla
riduzione dei costi, avevano indotto la direzione
aziendale a decidere l’adozione del metodo
Wcm.
Le attese della direzione erano che l’applicazione sistematica di alcune delle metodologie del
Wcm (in particolare quelle per la qualità, l’organizzazione del posto di lavoro e la manutenzione delle macchine) avrebbero consentito non
solo di rispondere alle richieste di qualità e tempestività del committente, ma avrebbero anche
portato notevoli riduzioni di costi e di sprechi e
aumento della produttività. L’introduzione di alcune metodologie Wcm, tuttavia, era avvenuta
non solo adottando direttamente i metodi elaborati dal committente, senza alcun adattamento o
revisione, ma anche attraverso un approccio dall’alto verso il basso, di tipo top-down. Questo
approccio aveva non solo ridotto il numero delle
persone coinvolte a un numero minimo, ma anche fatto sì che la discussione nei gruppi di lavoro fosse molto limitata e che il passaggio di
conoscenze fosse “al ribasso”, che ci fosse mol-
problemi di lavoro
ta confusione su che cosa si doveva fare, su quali fossero gli obiettivi e le motivazioni.
In breve, l’approccio top-down non solo non era
riuscito a cambiare la sostanza della cultura organizzativa della fabbrica, ma aveva finito per
produrre molti piccoli insuccessi nelle prime applicazioni, i quali a loro volta avevano contribuito a diffondere scetticismo, sarcasmo e talora
critiche esplicite ai nuovi metodi. Le Rsu e i sindacati non sono stati per nulla coinvolti nei progetti innovativi: molti lavoratori e molte Rsu
non sapevano neanche di che cosa si trattasse.
le Rsu e i sindacati non sono stati
per nulla coinvolti nei progetti
innovativi, non sapevano
neanche di che cosa si trattava
Ben presto lo scetticismo, diffuso dai capi intermedi, veniva trasmesso ai lavoratori con l’esito
di rafforzare la cultura tradizionale. A quel punto le innovazioni erano state portate avanti
ugualmente, vista la decisione forte della direzione, ma i risultati attesi sulle performance tardavano a comparire. Qualche miglioramento è
stato registrato prevalentemente sulla qualità,
soprattutto a seguito di tante piccole modifiche
ai materiali, agli utensili, agli attrezzi e alle
macchine che riducono i malfunzionamenti. Ma
modesti sono stati i risultati sulla produttività e
sui tempi di consegna. Secondo alcuni, la scarsità nel miglioramento rispetto agli obiettivi attesi non è tanto riferibile all’ostilità verso l’innovazione delle Rsu e dei sindacati (che tra l’altro non si è neanche manifestata apertamente)
quanto piuttosto alla contrarietà dei capi. La
questione può ovviamente essere discussa, data
la molteplicità delle variabili in gioco. In casi
come questo si dovrebbe analizzare se abbia
maggiore rilevanza la resistenza dei capi intermedi oppure il disinteresse e la scarsa partecipazione dei lavoratori.
In sintesi, resta accertato che quando l’innovazione è calata dall’alto e non è attivato un coinvolgimento e una partecipazione diretta dei lavoratori, la cultura organizzativa tradizionale
riesce a resistere efficacemente contro le innovazioni, forse a causa delle vischiosità diffuse
in tutti i settori, forse per il ruolo più conservativo della gerarchia, o forse anche per lo scarso
coinvolgimento dei lavoratori.
Conclusioni
I gruppi di miglioramento -che abbiamo osservato in alfa, in delta e in gamma- sono uno strumento organizzativo molto importante e relativamente facile da implementare perché i lavoratori sono molto contenti di essere interpellati
(e anche di poter influire almeno in parte sulle
loro condizioni di lavoro, sull’ambiente, sull’ergonomia, ecc.) e il sindacato non si oppone.
Nelle situazioni più virtuose i gruppi di miglioramento aprono la strada ai team di lavoro: la
situazione più avanzata l’abbiamo osservata
nello stabilimento tedesco di beta, dove i team
gestiscono in autonomia la flessibilità produttiva e anche alcuni aspetti della gestione delle
persone (permessi, job rotation, addestramento).
Un punto critico del team operaio è il ruolo del
team leader, diverso in ogni esperienza -a volte
più simile a una figura della gerarchia, in rari
casi, in Italia, suggerito dai lavoratori, a volte è
una figura solo occasionale legata alla gestione
di un singolo progetto- che potrebbe essere anche in competizione col ruolo delle Rsu. Il passaggio ai team di lavoro prevede un investimento da parte del management nell’addestramento
alla polivalenza come prerequisito per una migliore flessibilità del lavoro, una strategia manageriale basata sul serio sulla delega, la disponibilità dei lavoratori a scambiare più autonomia con più responsabilità, un’attitudine del sindacato a favorire questo cambiamento: tutte
condizioni che vanno costruite e negoziate con
cura. Di conseguenza, in Italia -e anche nei nostri casi- il team operaio è ancora una struttura
in fieri, debole e certamente molto informale.
Anche la frequente opposizione del middle management, che vede minacciato il proprio ruolo
gerarchico, gioca a sfavore della diffusione dei
team operai che, secondo la letteratura, sono invece ingrediente essenziale della produttività.
La flessibilità produttiva è la posta in gioco più
complessa di tutta la strategia d’innovazione.
Adattarsi a orari diversi significa uscire da routines rassicuranti, pertanto viene visto come un
sacrificio. Tende -almeno in Italia- a essere sottovalutato il potenziale di scambio esigenze
aziendali/esigenze personali.
adattarsi a orari diversi significa
uscire da routine
rassicuranti, quindi viene visto
comunque come un sacrificio
Inoltre non tutte le Rsu sono d’accordo nel cogliere l’importanza della flessibilità per la competitività dell’azienda né nel valorizzarne le opportunità di miglioramento della qualità della
vita. Di questa carenza culturale a nuove forme
di flessibilità finiscono per soffrire sia impresa
che lavoratori che si trovano a gestire orari molti più rigidi di quelli che potrebbero essere.
I casi analizzati danno comunque l’idea che se
per alcune imprese l’innovazione va sperimentata anche come condizione indispensabile per
affrontare la competizione globale, non è chiara
per il sindacato l’opportunità che queste innovazioni offrono di sviluppare anche le relazioni
industriali in direzione di una maggiore partecipazione sia del sindacato che dei lavoratori.
Non solo, nei casi analizzati risulta che i gruppi
di miglioramento e lo stesso lavoro in squadra
sono benvoluti dai lavoratori, che si sentono valorizzati e possono migliorare le proprie capacità. Tuttavia, il sindacato appare più cauto e
forse timoroso di perdere il proprio ruolo all’interno dei reparti.
Più in generale, dai casi sembra confermata
l’ipotesi che le esperienze più innovative di relazioni industriali a livello di impresa nel nostro
paese soffrono di una incapacità di formalizzare
le pratiche su cui si basano e di esplicitare i loro
assunti (persino un certo timore di farsi troppo
conoscere all’esterno).
Infine, non c’è dubbio che l’intera normativa
sugli orari di lavoro stia scoppiando: non risponde ai nuovi tempi di produzione, né ai nuovi tempi di vita (nelle aziende di servizi ancora
di meno). Per molti aspetti, assomiglia più a un
capitolo del salario che a un capitolo dell’organizzazione del lavoro.
Abbonatevi! Regalate una città!
Stiamo cercando, come tanti, di “passare”
la crisi. Gli amici e i soci ci hanno sostenuto con forza, le socie lavoratrici della
cooperativa si sono ridotte il salario, i soci
volontari hanno aumentato il loro impegno. Con la campagna per l’adesione di
nuovi soci alla cooperativa (in 29 hanno
aderito!) e le sottoscrizioni di soci e amici
abbiamo quasi raggiunto l’obbiettivo di risanare un bilancio appesantitosi negli anni.
Gli abbonamenti hanno subìto un calo di
circa il 10%, che pare essere, in questa situazione, un buon risultato.
Da questo numero accettiamo la pubblicità (di eventi culturali, libri) il cui ricavato
contiamo di usare per progetti e non per
la sopravvivenza, proprio per non diventarne dipendenti.
Abbiamo già fatto un passo avanti per il
web. Se ne occupa uno dei nostri giovani,
il sito finalmente s’è mosso, abbiamo un
blog, siamo su facebook e su twitter quotidianamente. Abbiamo reso “tematica” la
nostra newsletter incentrandola su una
domanda che consideriamo d’attualità.
Abbiamo “chiuso” il database delle interviste per due terzi (è possibile comunque
leggere le prime 4000 battute di ognuna)
e si possono acquistare pacchetti di interviste. Ma per l’abbonato, cartaceo o online, l’archivio resta completamente aperto
e consultabile.
Abbiamo in animo di pubblicare più libri.
E cogliamo l’occasione per annunciare
l’uscita di una raccolta di lettere inedite di
Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel,
la sua grande amica, suora di clausura in
Connecticut, con la quale intrattenne una
lunga corrispondenza fino alla morte.
Questo è quanto.
Per il resto che dire? Ventidue anni fa siamo nati pensando che bisognava andare
fra la gente a vedere cosa succedeva e
che bisognava ripensare in modo radicale, anche riandando ai dibattiti del passato, le idee della sinistra. Nel nostro piccolissimo l’abbiamo fatto, ma abbiamo avuto
spesso la sensazione di attardarci mentre
gli altri correvano avanti. Verso dove lo vediamo ora.
Siamo sempre lì. Farsi insieme delle buone domande e insieme cercare delle buone risposte da sperimentare in pratica.
Certo, alla luce di quegli ideali che da un
secolo e mezzo ormai non cambiano: libertà e giustizia sociale.
Noi cerchiamo di andare avanti, malgrado
il pessimismo.
Tanto più se rinnoverete l’interesse per
le cose che facciamo e che potremo fare anche insieme.
Una città
Abbonamento “primo ingresso”: 25 euro
Rinnovo ordinario: 50 euro
Rinnovo studenti: 30 euro
Abbonamento estero: (Europa) 80 euro - (resto del mondo) 100 euro
Ora, in alternativa “al cartaceo” è possibile, al costo di 20 euro,
sottoscrivere l’abbonamento al pdf della rivista
Modalità di pagamento:
-Cc. postale n. 12405478 - Una Città Soc. Coop., via Duca Valentino 11, 47121 Forlì.
-Bonifico bancario intestato a Una Città Soc. Coop. IBAN IT36O0601013208074000000048
-tramite internet (www.unacitta.it) aprendo la pagina: http://www.unacitta.it/abbonamenti.asp
una città
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appunti di lavoro
LA STORIA DI BILJANA
di Massimo Tirelli.
Biljana, contrariamente a quanto possa sembrare, era nata in Italia nel 1980. La famiglia
era originaria di Belgrado, ma il padre ingegnere aveva iniziato a lavorare tra Milano, Bologna
e Lubiana per aziende dell’area Lega cooperative, che collaboravano al tempo con la ex Yugoslavia socialista. La madre faceva piccoli lavori di traduzioni commerciali.
Iniziati i primi problemi in patria tra Slovenia,
Croazia, Serbia, Kosovo, il padre aveva pensato bene di restare in Italia. Una grave malattia nel 1994 però se l’era portato via velocemente.
Dopo il liceo Biljana aveva frequentato l’Università di lingue ma senza laurearsi, perché a causa di problemi economici (la pensione yugoslava del padre a causa della guerra e del disfacimento della sua nazione non era più stata pagata) aveva dovuto trovarsi un lavoro; anche la
madre aveva dovuto adattarsi a fare le pulizie
in alcuni condomini.
Biljana, dopo alcune attività varie (traduzioni,
impiegata a termine, baby sitter, postina trimestrale) era stata assunta quale addetta alla reception presso un’azienda che forniva servizi
sanitari per la riabilitazione dopo un trauma o
una operazione, dal medico al fisioterapista al
massaggiatore. Azienda, di proprietà di fatto di
due fratelli molto dinamica, capace nel giro di
pochi anni di aprire una decina di sedi (convenzionate con il sistema sanitario pubblico) nel
nord e centro Italia.
Biljana si era fatta apprezzare velocemente:
era veloce a comprendere sia gli obiettivi
aziendali che i bisogni delle persone, capace,
attenta nell’organizzare il suo lavoro, con grande senso del dovere. Probabilmente non guastava il suo aspetto, bella ed autorevole. Nel
giro di quattro anni era stata promossa di livello, ed in realtà svolgeva ormai le funzioni di vice-direttrice del centro madre. Aveva svolto
inoltre, seppure in via temporanea sempre come supplente per motivi vari in caso di vacanza
del ruolo, le funzioni di direttrice amministrativa
di due centri esterni, riscuotendo i (moderati)
complimenti del manager aziendale. La retribuzione no, non si era accorta delle sue accresciute qualità: certo a Natale aveva ricevuto
una gratifica, e le spese di trasferta le venivano ovviamente rimborsate, ma straordinari e
spostamenti, nonché indennità relative al fatto
che passava qualche volta il sabato nei centri
esterni, mai. Quando una volta ne aveva accennato al capo, questi con un sorrisetto (che
avrebbe imparato a conoscere) le aveva detto
“… ma Biljana lei mi delude! È chiaro che la
sto testando per capire la sua resistenza e fedeltà alla nostra azienda, ma se lei me la butta
sull’economico significa che lei lavora solo per
i soldi e non perché condivide la nostra mission!”. La ragazza non aveva replicato, la sua
indole non era polemica od aggressiva; sentiva che c’era qualcosa che non andava, ma in
fondo a trent’anni aveva un buon lavoro, con i
soldi che prendeva, assieme a quelli della madre, riuscivano a farcela, anche se pagato l’affitto non restava certo abbastanza da mettere
via qualcosa.
Arrivò però la grande occasione. Un giorno il
manager la fece chiamare nel suo ufficio e le
22
una città
disse: “Penso sia arrivato il suo momento. Tra
due mesi abbiamo deciso di aprire una nuova
filiale a Verona, presso un grande Centro sportivo e natatorio; abbiamo pensato a lei quale
direttrice amministrativa. Dovrà fare un po di
gavetta ma se va tutto bene… Che ne pensa?
Le pagheremo l’affitto di un appartamento, avrà
uno scatto di qualifica, e la possibilità di dimostrarci che cosa vale davvero”
Biljana rimase interdetta. Ci pensò sopra una
giornata, ne parlò con la madre, valutò i pro e i
contro (tra cui probabilmente il fatto che se
avesse detto di no, la cosa non sarebbe rimasta senza conseguenze) e decise di accettare.
Dopo tre o quattro viaggi esplorativi, parti per
Verona un lunedì di settembre, aveva trovato
casa in un vicolo del quartiere di Veronetta, un
piccolo ma confortevole appartamentino di due
stanze a prezzo decente e a due passi dal centro; doveva usare l’auto per raggiungere il centro sportivo, situato ai piedi delle colline fuori
città, ma ne valeva la pena quantomeno per le
poche ore disponibili per sé. Amava passeggiare per le vie del centro città, lungo l’Adige, verso sera, ascoltando il fluire del grande fiume.
Il lavoro di organizzazione della filiale le costò
parecchio: lavorava dalle 10 alle 12 ore al giorno, spesso anche il sabato, prima ad arrivare il
mattino ed ultima ad andarsene -la direttrice
sanitaria, medico, si occupava strettamente solo delle prestazioni specifiche, lasciando a lei
tutte le questioni di rapporti con gli enti, con i
privati, con il personale, con i clienti, con i fornitori, ecc. Piano piano però la filiale iniziò a
prendere vita propria affrancandosi dalla casa
madre: trovò personale adeguato strappandolo
anche alla concorrenza, acquisì accordi con la
nazionale di nuoto che si allenava al centro
nautico di Verona, trovò soluzioni di scambi di
rapporti utili con un paio di palestre, venne firmato un protocollo sanitario con alcune Usl della Regione Veneto, sistemò l’aspetto logistico
e di organizzazione, ed insomma nel giro di
due anni la filiale veronese non solo era indipendente economicamente, ma iniziava a produrre profitti.
Biljana intanto ormai raramente rientrava a Bologna i fine settimana, vuoi perché lavorava,
vuoi perché stanchezza e un poca di malinconica e solitudine avevano iniziato a renderla più
sedentaria.
Fino a che, ad una festa, conobbe un cinquantenne che la faceva divertire, e fu amore corrisposto: anzi, lei si legò molto a lui.
Al lavoro malgrado i buoni risultati non aveva
però avuto riconoscimenti economici: gli straordinari non le venivano pagati, e ogni volta
che ne accennava al capo, questi le si rivolgeva con quel sorrisetto che aveva imparato a conoscere. Peraltro non le venne mai riconosciuta neppure la qualifica superiore, rimaneva impiegata amministrativa di III livello, anche se le
mansioni esercitate, oltre all’orario spropositato, erano ben superiori.
Ma non bastava: all’inizio del quarto anno di
apertura del centro, e ciò malgrado un utile migliore dell’anno precedente, improvvisamente
e senza alcun preavviso venne inserito un giovane dirigente, laureato in economia, destinato
per volontà dell’azienda a reggere l’ammini-
strazione.
Da un giorno all’all’altro Biljana venne messa a
lavorare sotto la sua direzione. Finì nella saletta del server e delle fotocopiatrici, dove venne
installata per lei una piccola scrivania con telefono: saletta senza finestra, molto calda causa
i macchinari presenti, che in ogni caso rumoreggiavano in modo spesso insopportabile.
Tutti i tentativi di avere un colloquio con il padrone per ottenere spiegazioni su quell’improvviso demansionamento furono vani.
Intanto Biljana era rimasta incinta e quando si
sparse la notizia, si manifestò un larvato irrigidimento ulteriore del comportamento del suo
vecchio capo, sempre formalmente corretto;
semplicemente sia lui che il nuovo dirigente la
ignoravano.
Come non bastasse, il compagno di Biljana si
rivelò decisamente non all’altezza della situazione. Così lei invece di ingrassare cominciò a
dimagrire, tanto che la sua ginecologa, intuendo le difficoltà della situazione, le prescrisse di
restare a casa. La situazione di forzato riposo
però non la aiutò, anzi.
Abortì naturalmente al sesto mese. Il compagno, dopo averla accompagnata in clinica, prese un appuntamento con un avvocato del sindacato.
Biljana, ormai sotto farmaci, ritornò a lavorare
i primi di giugno, quando ricevette una lettera
raccomandata a mano che revocava la sua trasferta a Verona invitandola a prendere servizio
a Bologna. Ovviamente l’azienda provvide a disdire il contratto di affitto della casa di Verona.
Il primo luglio di quell’anno dovette prendere
servizio a Bologna, destinata alle mansioni di
fotocopiatura; questa volta senza neppure una
scrivania, ma solo una sedia disponibile ad un
grande tavolo comune nei rari momenti di inattività.
Nessuno le parlava: non i grandi capi, che si
sottraevano a colloqui individuali e palesemente non vedevano l’ora che si dimettesse, né gli
altri dipendenti, che percepita l’aria la evitavano. D’altra parte i rapporti, dopo quattro anni di
assenza, si erano sfilacciati. La sua presenza
in ditta era palesemente appena tollerata, nessuno le rivolgeva la parola se non per chiederle, comunque raramente, di portare in qualche
posto qualcosa o di fare una fotocopia. Le giornate erano lunghissime, senza sosta, ma lei
cercava di tenere duro perché aveva bisogno
dei soldi e non riusciva più a reagire.
La causa davanti al Giudice del Lavoro di Bologna intentata per comportamento mobbizzante, demansionamento, dequalificazione,
perdita di chance e differenze retributive e di
straordinari non pagati si chiuse alla seconda
udienza con una transazione economica: Biljana, molto provata, malgrado il suo avvocato la
consigliasse di continuare, che avrebbero ottenuto di più, non ce la faceva a proseguire con
la prospettiva di sentire testimoni, subire interrogatori, ecc.
Il nuovo compagno intanto si era sfilato dalla
sua esistenza, con gentilezza, ma con evidente
sollievo. Lei, rientrata a Bologna, era tornata a
vivere con la madre.
luoghi
Qui sopra: Il campo di prigionia di Spaç, Lezhe. Ex prigi
Lezhe (Nicola Avanzinelli).
In alto, da sinistra verso destra: Centrale termoelettrica di
di Buzludzha, Provincia di Stara Zagora. Inaugurato nel 19
Bosnia-Erzegovina: edificio istituzionale, Visoko (Anida Kr
Attiva dal 1921 al 1991 (Lorenzo Linthout).
A sinistra, Ungheria: particolare del muro della stazione,
della base militare, abbandonata alla caduta del regime s
Nella pagina precedente: Stazione abbandonata, Budapes
Nella pagina che segue: Trg Republika, Lubiana. Ex Sedi
Edvard Ravnikar, 1960. (Lorenzo Linthout).
Le immagini fanno parte della mostra “Totally lost”, un pr
Century in Urban Management.
ione politica utilizzata durante il periodo dittatoriale in Albania, presso il villaggio di
Kelenföld, Budapest, la più grande in Ungheria (Reginald Van de Velde); Monumento
981 per commemorare la nascita del movimento socialista bulgaro (Kamren Barlow);
reco); Croazia, miniera abbandonata, Piedalbona Podlabin, già Pozzo Littorio d’Arsia.
Sofiagary (Balazs Toro); sotto: teatro abbandonato, Szentkirályszabadja, all’interno
sovietico (Balazs Toro).
st (Tibor Smid).
del Comitato Centrale e del Comitato Esecutivo del Partito Comunista Sloveno. Arch.
rogetto di Spazi Indecisi per Atrium - Architecture of Totalitarian Regimes of the XX
storie
SI INTITOLAVA “PROTESTO”
Un’infanzia movimentata, resa più lieve da una straordinaria passione per i libri trasmessa dalla
madre; l’esperimento dei “ratas pelosas”, in cui dei giovanissimi brasiliani fecero della narrativa
un’arma di resistenza alla dittatura; i migranti scrittori e gli scrittori migranti: un autentico
patrimonio di cui il nostro paese non si è nemmeno accorto. Intervista a Julio Monteiro Martins.
Julio Monteiro Martins, brasiliano, è scrittore,
e poeta, nonché docente di scrittura creativa al
Goddard College (Vermont), alla Oficina Literariá Afrânio Coutinho (Rio de Janeiro), all’Istituto Camões di Lisbona e alla Pontifícia
Universidade Católica di Rio de Janeiro. Attualmente insegna lingua e letteratura portoghese all’Università di Pisa. È uno dei principali rappresentanti in Italia della letteratura
della migrazione. Ha pubblicato molti libri in
Brasile e Il percorso dell’idea, Racconti italiani,
La passione del vuoto, e L’amore scritto, in Italia. Ha fondato la rivista letteraria online “Sagarana” e l’omonimo laboratorio di narrativa.
Da vent’anni vive a Lucca.
La tua passione per la lettura e la scrittura è
stata molto precoce: a diciotto anni in Brasile
con i tuoi primi libri hai avuto grande successo. Com’è cominciato tutto?
Non dico dalla culla ma poco dopo. Mio padre
e mia madre non avevano quasi niente in comune, se non il fatto che erano entrambi molto
giovani e molti belli. Mia madre era un’intellettuale; mio padre era figlio di un ricco industriale, aveva smesso di studiare ed era un tipico
playboy. Mamma rimase incinta, ma non voleva
sposarlo perché lui aveva un mucchio di donne,
allora gli ha detto: “Ti sposo solo se andiamo a
vivere in campagna”, e mio padre ha comprato
una bella casa in campagna con un bel giardino.
Lei era contenta. Si sono sposati, sono andati in
luna di miele e quando sono tornati lui l’ha portata in un appartamento in città. L’altra casa
l’aveva già venduta. Mio padre faceva vita da
single, quando avevo due o tre anni si fidanzò
ufficialmente con un’altra ragazza di una famiglia bene: cena con i futuri suoceri, anello... Era
fatto così. Mamma rimaneva a casa, era professoressa di inglese al liceo, poi, quando io avevo
cinque o sei anni, insegnava letteratura nordamericana all’università. Doveva studiare, prepararsi per le lezioni e siccome eravamo solo lei
e io, leggeva gli autori che stava studiando. La
mia prima lingua letteraria è stata l’inglese. Mi
leggeva brani di Moby Dick, pièce teatrali di
Tennesse Williams, con tutte quelle crisi coniugali tremende, le poesie di Frost, di Whitman,
di T.S. Eliot che lei amava molto. Ancora oggi
ricordo a memoria poesie intere di Eliot, come
“The love song for J. Alfred Prufrock”: …in the
room the women come and go talking of Michelangelo… Quando andava a letto la sera, frustrata dall’assenza di mio padre, diceva: “Vado
a letto con i miei veri mariti”. Faulkner soprattutto. Un suo libro, che scrisse quando io ero
più grande, L’urlo e il furore, è stato adottato
dalle università americane. Così io mi sono in-
namorato di queste cose. Poi, quando già avevo
nove anni, è nato mio fratello. Non so se fosse
figlio di mio padre, ma lui è stato corretto, abbiamo lo stesso cognome. Quando mio fratello
aveva un mese, papà è andato via per sempre.
Mia madre non riusciva ad andare avanti da sola
con due bambini, così mi mandò in montagna,
a Resende, dai nonni. Mio nonno aveva un
grande frutteto nelle montagne che si chiamano
Aghi Neri, a 3.500 metri, le più alte del Brasile,
tra Rio e San Paolo, colonizzate dai finlandesi.
Insieme a loro, biondi e alti, si erano mimetizzati anche i nazisti. Avevo dodici anni e ho vissuto lì tre anni. Per me è stata una cosa incredibile. Mio nonno soffriva di nevralgia del trigemino e urlava per il dolore tutta la notte, aveva
un’arma, urlava e diceva: “Questa notte mi
sparo”. Alle nove e mezza si spegneva la luce a
gas, era buio, lui urlava e io non potevo dormire. La nonna dormiva con me: aspettavo che
si addormentasse, poi mi mettevo sotto le coperte, accendevo la mia torcia elettrica e leggevo. La mia salvezza sono stati i libri. Ogni
mese mia madre mi mandava con il pullman
una scatola di libri. Sono stato molto fortunato,
in fondo.
mi leggeva brani di Moby Dick,
pièce teatrali di Tennesse
Williams, con tutte quelle crisi
coniugali, le poesie di Frost...
Era il ’66, ’67 e in quegli anni una casa editrice
di Rio ha ripubblicato tutti i grandi classici in
edizione tascabile, tipo Bur. Così ho letto tutte
quelle cose che se non leggi in quella fase della
vita poi rischi di non leggere mai più: le tragedie
greche, Euripide, Eschilo, Sofocle, poi Shakespeare. Divoravo di tutto, tutta la psicanalisi,
Freud, Jung, Adler, Reich, fondamentali dopo,
perché la narrativa ha tutta un’altra profondità
se conosci bene i meccanismi dell’inconscio individuale e collettivo, e poi i filosofi, Schopenhauer, Kant, che sono cose anche molto noiose,
ma nessuno me l’aveva detto e allora mi sembravano interessanti, mi piacevano per ignoranza. Con i libri mamma mi mandava anche i
45 giri di musica brasiliana di protesta: Chico
Buarque de Hollanda, Milton Nacimiento, che
erano molto giovani, e mi ricordo che mi piaceva tantissimo anche “Sitting on the dock of
the bay”, l’ho forato da tanto ascoltare.
Vorrei raccontare ancora una cosa di quegli
anni, perché la vita fa tanti giri davvero strani.
Ero andato a vivere con la nonna in una casa a
Resende città per stare vicini al nonno che era
stato ricoverato in ospedale. Era il periodo delle
rivolte dei neri negli Stati Uniti. Mi avevano
colpito molto; soprattutto mi aveva colpito la
poesia di un autore che mia madre mi aveva
mandato e che era stato appena tradotto, LeRoy
Jones. Ispirato da lui, ho scritto la mia prima
poesia. Si intitolava “Protesto”. Ero ingenuo,
avevo 13 anni, ma era una poesia sociale. E
guarda la vita: tre anni fa sono stato invitato a
Pistoia a un festival di poesia internazionale. Lo
stesso giorno in cui dovevo intervenire io
c’erano molti poeti americani. Uno si chiamava
Amiri Baraka, forse il più grande poeta nero
americano vivente. E sai chi era? LeRoy Jones!
Aveva fatto come Cassius Clay, si era cambiato
nome. Siamo andati a bere una birra e gli ho
raccontato la storia e lui rideva come un matto.
Eravamo tutti e due in Italia, quasi 50 anni
dopo, entrambi con nomi diversi -perché io ho
abbandonato Cesar, ero Julio Cesar una voltainsieme a leggere le nostre poesie.
Quando poi sei tornato a Rio e hai scritto i
tuoi primi romanzi, eri tra i giovani scrittori
del cosiddetto nuovissimo racconto brasiliano. Perché “nuovissimo”?
Quando avevo 15 anni mia madre era in una situazione migliore, così ho potuto tornare a vivere a Niteroi, vicino a Rio, e ho cominciato
scrivere seriamente. Nel ’76 ho pubblicato due
racconti in un’antologia di giovani scrittori resistenti alla dittatura. Ha avuto un grande successo, perché nessuno credeva che i giovanissimi potessero avere il coraggio di affrontare la
censura della dittatura. Quelli più grandi di noi,
sui 25-30 anni, erano stati tagliati a metà dalla
dittatura, noi eravamo la prima apparizione di
una nuova generazione cresciuta dentro la dittatura, per questo quello che scrivevamo fu
chiamato il “nuovissimo” racconto brasiliano.
Di quell’antologia furono vendute più di 35.000
copie, anche nelle edicole, e fu un fenomeno
politico più che letterario.
La narrativa come arma di resistenza?
Erano racconti impregnati di ironia contro l’oppressione. Gli scrittori in fondo erano più liberi.
Le altre arti erano molto più sorvegliate, i cantautori erano tutti in esilio, il teatro non si poteva fare, la polizia irrompeva nelle rappresentazioni, film men che meno, gli scrittori della
generazione precedente alla mia erano allo
sbando totale, la mia ha preso le redini. Non bisogna dimenticare che la dittatura brasiliana è
durata dal ’64 all’83. Non è stata così violenta
come in Cile o in Argentina, ma molto lunga,
un ventennio, come il vostro ventennio fascista,
o berlusconiano. I militari erano meno attenti a
quello che veniva scritto e letto perché sapevano, e dal loro punto di vista avevano anche
ragione, che il popolo non leggeva così tanto,
non era come una telenovela o un film o una
canzone, era meno rischioso. Però non si poteva
una città
27
stampare nelle case editrici perché, come nei
giornali, c’era un militare negli uffici, di solito
capitani o maggiori; avevano proprio una loro
scrivania lì. Mi ricordo della casa editrice, la Civilização brasileira, dove ho pubblicato, più
avanti, A oeste de nada; era di sinistra e diretta
da un grande editore, Ènio Silveira, militante del
partito comunista, e lui ha raccontato in diverse
interviste i rapporti con il militare embedded,
uno che stava lì otto, dieci ore al giorno e alla
fine magari ci diventavi anche quasi amico, ci
andavi a bere il caffè.
Comunque, non potendo pubblicare con gli editori, usavamo il ciclostile; ancora oggi ho le narici impregnate di quell’odore di alcol... Poi
spillavamo e andavamo a vendere o regalare nei
bar, nei ristoranti, all’uscita dei teatri, dei cinema, all’università. Fu un periodo eroico. La
letteratura brasiliana di resistenza fu fatta da dei
ragazzini di diciotto anni, come in tante rivoluzioni, a partire da quella francese, o, come tu sai
bene, quella nicaraguense. Sai come ci chiamavano? Ratas pelosas, i topi pelosi. Dicevano che
c’era stato un esperimento: avevano rinchiuso
cuccioli di topi in un frigorifero e quando dopo
un bel po’ lo avevano aperto li avevano trovati
vivi e in forma, con dei peli lunghi per combattere il freddo. La dittatura era il frigo e noi,
come i topi, per resistere avevamo messo i peli
e invece di essere arrabbiati o depressi, eravamo
ironici; la nostra era una letteratura allegra, gioiosa, veniva letta con molto piacere perché colpiva facendo ridere.
E com’è che poi sei finito negli Stati Uniti?
All’università dello Iowa c’era, e c’è tuttora, il
più importante International writing program
per scrittori famosi ed emergenti di tutto il
mondo, un programma di scambio culturale e
intellettuale che dura tre, quattro mesi.
avevano rinchiuso cuccioli di topi
in un frigorifero e quando
lo avevano aperto li avevano
trovati vivi e in forma
Lì c’era, e c’è ancora, anche il miglior laboratorio di scrittura per giovani americani. Avevo
23 anni quando mi invitarono, ero troppo giovane per vivere con cinesi o tedeschi di 60 anni,
la mia ragazza era una degli studenti del laboratorio e attraverso di lei ho fatto amicizia con i
miei coetanei. Era un periodo meraviglioso.
Pensa che i professori erano Raymond Carver,
Joyce Carol Oates, Kurt Vonnegut, Vassili Vassilikos, le basi del laboratorio erano state date da
Flannery O’ Connor. Era una squadra straordinaria, così io stavo sempre con loro. È lì che ho
imparato le tecniche per insegnare scrittura creativa. Dopo tre mesi, quando sarebbe finito l’invito dell’università, la sorella della mia ragazza,
che studiava al Goddard College nel Vermont
(una scuola d’avanguardia dove gli studenti sceglievano loro stessi le materie dell’anno successivo e la scuola doveva poi trovare i professori),
mi disse che cercavano due professori, uno per
scrittura creativa e uno per la politica del sud del
mondo. Io soddisfacevo entrambe le richieste.
Ho fatto i colloqui, mi hanno preso e ho inse-
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una città
gnato lì per tre anni. Il mio primo laboratorio di
scrittura fu quindi in inglese.
Poi sei tornato in Brasile.
In Brasile, ho aperto una mia casa editrice e ho
anche insegnato alla Oficina Literaria, la prima
scuola di scrittura creativa in Brasile, poi all’Università Pontificia, in seguito in Portogallo
e nel ’95 sono arrivato in Italia, a Lucca, per
amore. A Lucca ho fatto il mio primo corso di
scrittura creativa, ma non è stato facile, c’era
molta diffidenza e c’è ancora oggi, a meno che
tu non sia una star del sistema letterario. Ricordo il mio amico Pietro Pedace, che aveva
studiato negli Stati Uniti -è morto giovanissimoe che aveva cercato di portare in Italia queste
tecniche, lui ha sofferto anche più di me. Perché, secondo me, si parte da un equivoco iniziale: la scuola di scrittura non insegna a scrivere, la scuola ti libera. Inoltre, la mia generazione è stata l’ultima ad avere una comunità letteraria, i bar, i caffè, le università, luoghi di
incontro, poi, a partire dalla fine degli anni Settanta (ne parla anche un libro molto bello di Richard Sennet, Il declino dell’uomo pubblico) c’è
stata una privatizzazione totale della vita,
ognuno nel suo buchino, nel suo alveare, oggi
con internet ancora di più. Secondo me questi
piccoli gruppi in cui si scrive, si legge e ci si
legge, si discute la scrittura di ognuno, ci si incontra con scrittori più navigati, servono anche
a ricostituire un ambiente di convivenza, di
scambio intellettuale. Poi c’è un’altra cosa: abbiamo un retaggio del periodo romantico, da
sturm und drang tedesco, secondo cui il vero
scrittore è un genio, quello che le muse hanno
toccato, quello che va nelle montagne per essere
colpito dall’ispirazione. Una volta chiesero a
Flannery O’ Connor se secondo lei per scrivere
bisognasse avere una vita alla Hemingway, spericolata, con guerre, avventure. Lei diede una risposta famosa: “Se uno è riuscito a sopravvivere
all’infanzia, può scrivere qualunque cosa”. Io
penso che ogni persona abbia un carico immenso di esperienze interne ed esterne, di cui
può anche non fare niente, ma se trova i canali
giusti per trasferire questa carica dall’inconscio
al linguaggio esterno, alla scrittura, può illuminare angoli della natura e del genere umano che
sono ancora immersi nell’ombra. Per fare questo non è necessario essere il genio eletto. Lo
scrittore è sostanzialmente chi è innamorato dell’uomo, del genere umano, soprattutto dei difetti, del nero dell’uomo, perché ama l’uomo e
quindi tutto quello che da lui viene.
Adesso insegni all’Università di Pisa e scrivi
racconti, romanzi e poesie in italiano. Sei uno
scrittore migrante o un migrante scrittore?
Sono lettore di portoghese equiparato a docente,
insegno anche cultura e letteratura portoghese.
Diceva Ortega y Grasset: “L’uomo è l’uomo e
le sue circostanze”; è quello che accade intorno
a lui, i fenomeni storici che lo spingono o gli
mettono i bastoni tra le ruote. Sto qui da vent’anni e sono arrivato proprio in un momento in
cui gli italiani cominciavano a vedere che l’Italia, da paese di emigrazione, era diventato un
paese di immigrazione. Gli italiani erano spa-
storie
ventatissimi, troppi lo sono ancora. In questo
periodo, per le ragioni più diverse, sono arrivati
anche scrittori da tutto il mondo ed è nata la letteratura della migrazione, un’etichetta più o
meno corretta, ma per capire di cosa stiamo parlando: è la letteratura postcoloniale di un paese
che non ha praticamente avuto colonie, a parte
i pochi somali. In Francia ci sono i maghrebini;
in Inghilterra gli indiani, i pakistani, gli scrittori
dell’impero; the empire writes back, come dicono loro, parafrasando the empire strikes back,
l’impero colpisce ancora; in Germania, anche
loro con poche colonie, ci sono turchi, curdi,
qualche balcanico, qualche russo e basta.
c’è De Vos, olandese, Barbara
Pumhosel, austriaca, Brenda
Porster, di New York, Kuruvilla
e Wadia, indiane...
In Spagna e Portogallo ci sono i sudamericani,
che non hanno nemmeno dovuto cambiare lingua. In Italia invece (e voglio sfatare un preconcetto così frequente anche tra chi guarda con
simpatia agli scrittori stranieri e cioè che siano
dei poveracci che vengono dai paesi poveri, miserrimi o in guerra) la letteratura della migrazione è fatta da scrittori di tutto il mondo, sud,
nord, est e ovest.
Ci sono più di 80 paesi, quasi non c’è un paese
del mondo che non abbia un scrittore qui. C’è
De Vos, olandese, grande poeta, Barbara Pumhosel, austriaca, Brenda Porster, che è di New
York, la Kuruvilla e la Wadia, indiane, Božidar
Stanišić, bosniaco, solo per fare qualche nome.
Insieme a loro anche algerini, argentini, messicani, cinesi, senegalesi, albanesi, Dicono che
oggi la scrittura albanese in lingua italiana sia
più forte di quella scritta in albanese. L’Italia è
il grande laboratorio della scrittura del XXI secolo, fenomeno ampiamente studiato all’estero.
Gli italiani invece non se ne accorgono. Non c’è
un trafiletto sulla morte di uno scrittore migrante. Egidio Molinas Leiva, paraguayano, è
stato messo in una fossa comune con un numero,
poi Mia Lecomte è riuscita a dargli una tomba.
L’Italia non ha ancora scoperto questo tesoro.
Ma per rispondere alla tua domanda, ci sono gli
“scrittori migranti”, quelli che scrivevano già
nel proprio paese d’origine, e sono venuti in Italia per le motivazioni più diverse, e io faccio
parte di questa categoria, poi ci sono i “migranti
scrittori”, quelli che pure hanno migrato per le
ragioni più diverse, guerre, povertà estrema,
fame, hanno subìto soprusi e poi hanno cominciato a scrivere, generalmente testimonianze.
Due fenomeni simultanei, ed è così che è nata
questa letteratura stranissima, forte, numerosa.
Alla banca dati Basili della Sapienza di Roma
ci sono 600 scrittori migranti, una cifra altissima. Scrittori migranti o migranti scrittori arrivati con l’originalità delle loro esperienze letterarie, delle tradizioni dei loro paesi, con
l’echeggiare di ritmi lontani e con uno spessore
umano, esistenziale potente, perché hanno sofferto. Vengono da dittature militari, da paesi
dove il totalitarismo religioso gli impedisce di
esprimersi e soprattutto vengono tutti dalla dis-
Copacabana, Rio, 1965, la famiglia attorno al bisnonno Antonio Fernandes Dantas. Julio Monteiro è il ragazzino seduto con la giacca a tre bottoni.
sociazione psicologica terribile che è l’emigrazione stessa, quello che io ho chiamato suicidio
amministrato, autogestito: uccidersi per darsi
l’opportunità di rinascere diverso altrove. Per
questo motivo, oltretutto, gli scrittori migranti
non hanno, o hanno molto poco, la questione
Italia come priorità; la loro scrittura nasce dalla
frattura dell’emigrazione, è una scrittura più esistenziale che politica, legata alla dissociazione
dell’essere, al non avere più un’identità nitida.
Com’è il rapporto con l’establishment letterario italiano?
Due linee parallele che non si incontrano, perché fin dall’inizio si sono creati due mondi di
cui l’uno ignora l’altro.
Ci sono tanti critici ormai che scrivono solo di
scrittori migranti e altri che scrivono solo di italiani. Sono due letterature contemporanee sullo
stesso paese, su personaggi italiani, in lingua
italiana, e sono completamente dissociate. Non
c’è nessuno che dica, forse solo Mia Lecomte,
che questa è la letteratura contemporanea italiana. Ma anche all’estero è così. Sono stato recentemente invitato a Princeton dal Dipartimento che studia la letteratura italiana della migrazione e hanno partecipato solo quelli che studiano il “settore” e gli studenti. Gli scrittori
italiani o i professori italiani doc che insegnano
lì non si sono visti. Per usare un pensiero di
Gramsci, ci sono certi momenti nella storia
molto particolari in cui il vecchio non riesce veramente a morire e il nuovo non riesce veramente a nascere e questi sono momenti di
grande travaglio, ma anche di grande creatività.
Vedo poi nel mondo letterario italiano una rinuncia alla verità. Non si dice e non si scrive, o
non si dice e non si scrive abbastanza, che il berlusconismo, il patrimonialismo berlusconiano,
come lo chiama Ginsborg, è entrato in tutti: se
vai nel sito della Mondadori e guardi un po’ chi
ci lavora, chi prende il denaro, tra autori, collaboratori, consulenti, ci sono, in un modo o nell’altro, tutti o quasi tutti gli intellettuali di sinistra. Un clientelismo così esteso e generalizzato
non può avere una letteratura impegnata.
Che cosa è “Sagarana”?
Sagarana è il titolo di un libro di racconti di
Guimaraes Rosa. “Sagarana” è una parola inventata da lui che mette insieme saga come saga
in italiano, lunga storia, e rana, suffisso tupi degli indios della costa brasiliana che vuol dire
una quantità immensa. Quindi “Sagarana” è
un’infinità di storie, una storia senza fine. Una
parola che mi piace anche perché ha sempre la
“a”, ma legata a consonanti diverse, una continuità nella diversità.
una casa editrice rumena
di Milano che pubblica un libro
di un brasiliano che sarà letto
da camerunensi, iracheni...
“Sagarana” è un’istituzione che fa diverse
azioni legate alla letteratura: per nove anni abbiamo fatto a Lucca il convegno degli scrittori
migranti; era una scuola di scrittura ma, dopo
che è nata mia figlia, ora è solo laboratorio di
narrativa ed è, dal 1999, una rivista trimestrale
online di letteratura mondiale, una cosa pioniera
in Italia, che sta dando niente soldi, ma molte
soddisfazioni. È letta in media da 500-600 utenti
nuovi al giorno. Tutti i numeri vecchi sono sempre online, per esempio ti puoi rileggere, che so,
un articolo di Gore Vidal sul funerale di Calvino
del 2001, un patrimonio enorme, con quasi
5.000 testi. Lavoro con un gruppo dove ci sono
Mia Lecomte, Andrea Sirotti, Pina Piccolo e
tanti altri, molti giovani, tutta gente che cerca e
mi segnala cose in Italia e nel mondo, tutte persone disponibilissime che amano questo mondo.
Tra poco uscirà un tuo libro di poesie in italiano pubblicato da una casa editrice di Milano creata da scrittori rumeni.
Sì, sono poesie scritte in un arco di sedici anni.
Si intitola La grazia di casa mia e già dal titolo
si capisce che tocca spesso il trauma della migrazione, per questo ha trovato subito accoglienza in un gruppo di scrittori rumeni che
hanno creato la casa editrice Rediviva e che
hanno cominciato pubblicando scrittori rumeni
e moldavi che scrivono in italiano. Nel corpo
editoriale c’è anche Karim Metref, algerino e
questo mio libro è il primo di uno scrittore che
viene da una parte del mondo totalmente diversa. C’è un grande significato simbolico in
tutto ciò: gli scrittori che hanno migrato scavalcano il sistema italiano. C’è stata una progressione: nei primi anni gli stranieri scrivevano
quasi sempre testimonianze con un giornalista
italiano il cui nome era stampato più grande;
poi, verso la metà degli anni Novanta, scrittori
che scrivevano in italiano pubblicati da italiani,
ora un altro passo in avanti, scrivono in italiano
ma pubblicano con altri stranieri. Lo trovo
molto bello. Una casa editrice rumena a Milano
pubblica un libro di un brasiliano che sarà letto
da camerunensi o da iracheni, da senegalesi o
anche da italiani, speriamo...
(a cura di Francesca Caminoli)
una città
29
ricordarsi
UN PENSATORE
LIBERO
Ezio Tarantelli, un gran lavoratore, un educatore che sapeva combinare gioco, inventiva e
disciplina; il protocollo Lama-Agnelli del ‘75 sulla scala mobile e la sua previsione sul pericolo
di inflazione; il duello fra Craxi, Berlinguer e la Cgil e la decisione delle Brigate Rosse di inserirsi
in quel clima di scontro; un uomo ponte fra varie istituzioni. Intervista a Luca Tarantelli.
Luca Tarantelli aveva compiuto da pochi giorni
13 anni quando il 27 marzo 1985 perse suo
papà Ezio, vittima delle Brigate Rosse. Ezio Tarantelli era un brillante economista del lavoro,
insegnava alla Facoltà di Economia de “La Sapienza” di Roma; era inoltre influente consigliere dell’allora Governatore della Banca di
Italia, Carlo Azeglio Ciampi, che ha dato la prefazione al libro Il sogno che uccise mio padre.
Storia di Ezio Tarantelli che voleva lavoro per
tutti (Rizzoli, 2013). È il racconto e la storia di
un uomo e di un padre, intervallato da alcuni
frammenti biografici.
Luca, quarantenne, laureato in Storia Contemporanea alla Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università “La Sapienza” di Roma, è autore del documentario del 2010 sulla figura di
Ezio Tarantelli, “La forza delle idee”.
Vorrei partire da te, quando avevi 13 anni, e
i ricordi che hai di tuo padre; chi era Ezio per
il figlio Luca?
Partiamo da una premessa: il giorno in cui è
morto mio padre ho avuto un processo di rimozione. La prima cosa che ho pensato quando mia
madre mi ha detto che mio padre era morto è
stata: “Le nostre vite devono andare avanti”. Per
sopravvivere ho dovuto rimuovere e allontanare
il dolore e il lutto e questo deve aver provocato
un sistema di repressione anche delle sensazioni
e delle emozioni del presente. Negli anni successivi quasi non mi ricordavo il suo volto, la
sua voce. Ho affrontato però col tempo questo
processo di rimozione, anche mettendomi di
fronte alla figura pubblica di Ezio Tarantelli:
mio papà era una persona impegnata, che lavorava tantissimo, estremamente appassionata del
suo lavoro, un educatore che sapeva combinare
il gioco, l’inventiva anche con la disciplina.
penso anche al ferimento di Gino
Giugni, vittima di un agguato
brigatista due anni prima
dell’uccisione di mio padre
Questo suo tratto del carattere l’ho visto anche
da come si comportava con me, per esempio
quando dovevo fare i compiti, nel modo con cui
cercava di spronarmi a migliorare. Nel poco
tempo che ho avuto modo di conoscerlo, ricordo
che, nonostante i suoi numerosi impegni, lui
c’era: quando giocavamo a pallone o passeggiavamo al mare a Sabaudia, o insieme nel bosco;
in quelle occasioni discuteva con me. Quando
30
una città
c’era, era una presenza forte per la mia crescita.
Cosa ha significato per te andare alla ricerca
di scritti e testimonianze di persone che lo
hanno visto da vicino, anche dal punto di vista professionale?
Compiendo questa ricerca, ho pensato di restituire giustizia alla sua figura. Per ricordarlo pensavo fosse importante riportarlo a 360 gradi,
come intellettuale e come persona. Non volevo
quindi fare solo un racconto intimo e personale,
ma lo volevo inserire all’interno di una narrazione storica, in quanto Ezio Tarantelli ha fatto
parte della storia di questo paese. Ritenevo,
quindi, fosse importante soffermarsi sulla sua
figura pubblica, inserita nel contesto della sua
epoca, e non limitarmi al solo racconto personalistico e intimo.
Perché, a tuo parere, l’opera svolta da Ezio
Tarantelli non è stata elaborata compiutamente da chi, allora, era al vertice delle istituzioni? Il decreto di San Valentino del 14
febbraio 1984 sul taglio dei punti di contingenza di scala mobile, varato dal Governo
Craxi, frutto parziale dell’elaborazione di
tuo padre, e la successiva mobilitazione della
Cgil ha rappresentato uno spartiacque, anche nel creare una situazione di “pericolo”
nei suoi confronti?
Questa domanda ha due risposte diverse per me:
bisogna capire cosa è successo nel sistema delle
relazioni industriali a partire soprattutto dalla
questione della scala mobile. L’unificazione del
punto unico di contingenza, stabilito dal protocollo Lama-Agnelli dal 1975, ha finito per assumere un fortissimo valore simbolico di conquista per il movimento operaio. Mio papà e il
suo maestro Franco Modigliani si resero subito
conto che il meccanismo inaugurato con il protocollo sulla scala mobile avrebbe provocato
un’inflazione crescente pesando sulle possibilità
di crescita e occupazione del Paese. L’idea che
escogitò, quella della predeterminazione degli
scatti di scala mobile, non intaccava la scala
mobile, ma cercava di riformare il meccanismo
di indicizzazione automatica dei salari. In secondo luogo ha pesato il clima politico di allora,
intendo la situazione politica dopo la solidarietà
nazionale del 1978, anno del sequestro Moro,
rispetto all’elaborazione che Tarantelli aveva
dato di un tema di scottante attualità allora,
come appunto la riforma della scala mobile.
Infatti, proprio questo tema è al centro del
duello tra i due leader della sinistra italiana, Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer, che porterà alla
spaccatura all’interno del mondo sindacale a seguito del Protocollo di San Valentino. Tutto ciò
ha esacerbato lo scontro. Come ha detto Antonio Lettieri, segretario confederale della Cgil in
quel periodo: gli anni Ottanta erano un mare in
tempesta. Ezio Tarantelli, come intellettuale dialogante, ha fatto le sue proposte e ha cercato di
portarle avanti, credendo nella forza delle sue
idee e cercando di discutere con studenti, colleghi, fino agli uomini di varie istituzioni.
Voglio dire che quel clima politico non ha di per
sé portato alla sua morte; sono state le Brigate
Rosse stesse a inserirsi in quella controversia,
con i loro strumenti e con la loro logica di
morte, sostituendo la violenza al pensiero
(penso anche al ferimento di Gino Giugni, vittima di un agguato brigatista due anni prima
dell’uccisione di mio padre, nel maggio del
1983). Hanno non solo ucciso una persona, ma
anche soffocato lo stesso dibattito.
Secondo te, il suo pensiero in campo economico, politico, sociale e, in generale, culturale, è ancora attuale? E come potrebbe essere declinato in un’Italia del 2013 che sta vivendo un periodo di crisi economica particolarmente acuta?
Penso all’attualità del suo approccio al tema
concertazione. Un metodo che vede sedersi allo
stesso tavolo Governo, sindacati e Confindustria che lavorano per arrivare a un accordo per
risolvere i principali problemi del Paese. Certo
l’Italia di oggi è un paese molto diverso: società,
politica e tecnologia sono cambiate, e non sappiamo immaginare quali soluzioni innovative
un intellettuale creativo e dialogante come mio
padre avrebbe potuto portare.
Idee come quelle della predeterminazione della
scala mobile erano il frutto di una significativa
elaborazione progettuale compiuta in anni di
studi e di confronto con diversi intellettuali.
Infatti, cercava di raffinare le sue idee in maniera
completa: erano idee nate in un determinato contesto per risolvere i problemi specifici di quel
contesto.
“E che cos’altro faceva Tarantelli
se non prospettare una civiltà
possibile contro
le strettoie del presente?”
Ma mio padre ha fatto molto altro: per esempio,
ha anche sviluppato un modello econometrico
del mercato del lavoro per dare al sindacato uno
strumento di conoscenza che pochi istituti possedevano allora in Italia. Un collega di mio padre, Guido Rey, una volta mi ha detto che Ezio
Tarantelli riusciva a vedere dai numeri e dalle
proiezioni econometriche dei dati che altri non
riuscivano a vedere, come un “mago”. I suoi
studi e la sua curiosità verso altre scienze, come
la sociologia, lo portavano a dare interpretazioni
originali di questi dati; quindi fuori dagli schemi.
Un approccio, quindi, originale. Non sapremmo
oggi che cosa si sarebbe inventato e con quale
soluzione sarebbe uscito fuori.
Ti pongo una domanda più ostica: nel lavoro
che hai compiuto hai intravisto dei limiti, o
comunque dei punti deboli, all’operato di tuo
padre? Penso, in questo, alla critica mossagli
dall’economista e maestro Federico Caffè di
fronte a un’eccessiva esposizione pubblica e
all’idea che comunque un intellettuale debba
seminare dubbi più che certezze.
Caffè, dopo l’omicidio, disse: “L’utopia non è
altro che l’affermazione di una civiltà possibile
Funerali di Ezio Tarantelli
contro le strettoie del presente. E che cos’altro
faceva Tarantelli se non prospettare una civiltà
possibile contro le strettoie del presente?”. Mi
è rimasta impressa questa affermazione.
In quel periodo mio padre era una persona che
aveva una forte convinzione nei propri mezzi e
nelle proprie idee: era una sorta di rullo compressore, con cui portava avanti le sue posizioni
con convinzione e onestà. Il suo era un approccio orientato all’azione. Voleva incidere anche
in fretta, era in continuo movimento; e ciò potrebbe essere stato un limite. Il suo non volere
essere organico a nessuno, ma essere uomo
ponte tra varie istituzioni, era un tratto significativo della sua personalità. Lavorava in Banca
d’Italia in qualità di consulente, ma anche per
la Cisl di Carniti, per la quale ha fondato un istituto di ricerca (Isel), mentre continuava a insegnare nell’Università. Voleva essere un pensatore libero. Non so se in un paese di guelfi e ghibellini possa essere stato spiazzante questo suo
modus operandi e, quindi, possa essere stato visto come un limite.
In conclusione, cosa ti aspetti dall’uscita del
libro?
Mi auguro che il libro contribuisca a far rivalutare e conoscere Tarantelli al grande pubblico e
contribuire a una riflessione su quegli anni. Una
riflessione pacata, oltre che documentata. Una
riflessione su ciò che hanno significato quegli
anni, in modo tale da poter contribuire a far riflettere sul valore di mio papà come intellettuale
sui generis.
(a cura di Alberto Mattei)
una città
31
storie
LA GROTTA DI PAROS
Due persone, Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel, suora di clausura nel Connecticut,
che hanno conosciuto entrambe l’esilio, segnate dalle vicende della storia, entrambe “isolate”
anche se per scelte diverse, ma appassionate del mondo e dell’uomo, si incontrano e insieme
ricercano la verità, scrivendosi, per anni, tre volte alla settimana... Di Cesare Panizza.
Pubblichiamo una parte di A marriage of true
minds: Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel, l’introduzione di Cesare Panizza a Fra me
e te la verità, volume che raccoglie 103 lettere
di Nicola Chiaromonte a Melanie von Nagel,
scelte a suo tempo dalla stessa Melanie insieme
a Miriam Chiaromonte. Il volume, che si conclude con un saggio di Wojciech Karpinski, è
edito da Una città.
Nicola Chiaromonte e Melanie von Nagel intrecciarono le loro vite nel 1957, poco prima
che quest’ultima, con il nome di Sister Jerome,
si ritirasse nel convento di Regina Laudis,
presso Bethlehem, piccola località della contea
di Litchfield, in un angolo del Connecticut
nord-occidentale. Il loro primo incontro avvenne a Roma, dove Melanie era in visita alla
sorella minore, Ludovica, per un ultimo soggiorno in Italia prima del suo ingresso come novizia nell’ordine benedettino. Fu proprio Ludovica -segretaria editoriale fra il 1946 e il 1948
all’Einaudi di Roma e di Milano, dove ebbe
modo di stringere amicizia con vari einaudiania fornirne l’occasione.
La più giovane delle tre sorelle von Nagel -oltre
a Ludovica, nata nel 1918, Melanie aveva un’altra sorella, Alexandra, nata nel 1913- era infatti
una buona amica di Nicola Chiaromonte e di
sua moglie Miriam: ne frequentava regolarmente la casa di via Adda a Roma -viveva peraltro a pochi isolati di distanza- e aveva con
loro in comune varie conoscenze e amicizie.
Così come regolari erano gli scambi epistolari
fra loro, quando la lontananza veniva a interrompere quella consuetudine: ne fanno fede le
lettere di Chiaromonte conservate da Ludovica
von Nagel dove questi mostrava di seguirne
premurosamente l’attività di traduttrice, aiutandola per quanto poteva con consigli e indicazioni. [...]
Chiaromonte e Melanie von Nagel vissero dunque simultaneamente -ancorché per pochi annisenza conoscersi, nella stessa città, nella New
York dell’immediato dopoguerra, dove erano
giunti entrambi, per ragioni e in momenti differenti, con la speranza di ricomporvi un’esistenza lacerata dalle traversie vissute durante la
guerra. Era un primo punto di incontro fra percorsi biografici in verità molto diversi, per contesti sociali e precedenti esperienze di vita. Per
farsene un’idea, basti pensare alle rispettive origini familiari; al fatto che Melanie von Nagel,
per parte di padre, apparteneva all’aristocrazia
bavarese, mentre Chiaromonte proveniva da
una famiglia certo non di estrazione popolare il padre, Rocco, era medico chirurgo- ma tut-
32
una città
t’altro che di condizione “agiata”, e che per consolidare la propria condizione sociale aveva affrontato l’esperienza della migrazione interna.
I Chiaromonte, infatti, originari del potentino,
si erano trasferiti dalla campagna lucana alla capitale, dove Nicola aveva trascorso tutta la sua
giovinezza, pur rimanendo legatissimo nel ricordo alla terra natale.
Non sarebbe però neppure soddisfacente affermare semplicisticamente che la loro affinità risiedesse nell’essere stati entrambi gravemente
offesi negli affetti più cari dalla Storia.
«non ho mai osato chiederlo, ma
so per certo, da un suo amico,
che ha dovuto scavarle lui stesso
la fossa», scrisse Mary McCarthy
Le sorelle von Nagel furono infatti private ancora nell’infanzia del padre, il generale maggiore Karl Freiherr von Nagel zu Aichberg, comandante del primo reggimento della cavalleria
pesante bavarese, ucciso il primo maggio 1919,
nei combattimenti che a Monaco posero fine
alla breve esperienza della Repubblica dei Consigli. Un dolore a cui, nel caso di Melanie, si aggiunse successivamente quello per la morte naturale -per una cardiopatia- ma precoce, del marito, nel 1949, alla cui travagliata malattia non
fu forse estranea la nostalgia per la terra d’origine. Una vicenda, questa, che può ricordare
quella ben più drammatica vissuta da Chiaromonte in occasione della morte della prima moglie, la pittrice Annie Pohl. Minata nel fisico
dalla tubercolosi, la pittrice e scenografa, di nazionalità austriaca e di origine ebraica, non resistette alla fuga precipitosa verso il sud della
Francia cui la coppia fu costretta al momento
dell’invasione tedesca del giugno 1940. Un dolore straziante -«non ho mai osato chiederglielo,
ma so per certo, da un suo amico, che ha dovuto
scavarle lui stesso la fossa», scrisse Mary
McCarthy- che si andava sommando a quelli
procurati dall’esilio. Esperienze dunque traumatiche purtroppo, però certo non così infrequenti
per la loro generazione.
La loro affinità stava semmai su un piano più
profondo, come sembra emergere dalle lettere
che qui pubblichiamo, nelle forme in cui avevano rielaborato quelle esperienze: entrambi per dirla con Chiaromonte- erano stati duramente messi alla prova dalla vita e avevano appreso l’insegnamento a vivere per il senso delle
cose e non per la loro apparenza, giacché «solo
ciò che dura vale la pena di essere perseguito e
rispettato». Da tante traversie era derivato poi a
entrambi anche uno spirito fortemente cosmo-
Suor Jerome (Melanie von Nagel) intenta a colorare le lane.
La scrivania di via Ofanto.
Chiaromonte e nessuna invece di quelle scritte
da Melanie von Nagel- fanno pensare che
quell’incontro sia stato per tutti e due straordinariamente coinvolgente. In esso si strinse un
vincolo reciproco fortissimo, un desiderio prepotente di condivisione intellettuale e umana nel rispetto assoluto della situazione molto particolare di entrambi- esteso nei suoi aspetti affettivi anche a Miriam Chiaromonte.
un luogo in cui comunicare
certi di essere compresi, al riparo
dallo scorrere del tempo e dalla
volgarità del mondo
Si trattò di una conversazione ininterrotta -nonostante la lontananza, ma che di quella lontananza si sarebbe in fondo alimentata-, di un
vero e proprio «marriage of true minds» come
la definì lo stesso Chiaromonte citando un sonetto di Shakespeare.
Possiamo immaginare che entrambi si siano
sentiti legati da un’affinità elettiva, solo ora pienamente confessabile l’uno all’altro -con il
chiostro e l’età in fondo a difesa dalla forza di
quel sentimento-, dalla subitanea consapevolezza di aver trovato l’uno nell’altro -in un altro
Fausto Fabbri
polita, nutrito da un’inestinguibile curiosità intellettuale. In Melanie von Nagel quasi naturalmente, per effetto del carattere transnazionale
della sua famiglia -conosceva e parlava cinque
lingue (inglese, tedesco, francese, italiano e
russo)- e dell’aver risieduto fin dall’infanzia in
paesi diversi, fra cui e a lungo in Italia: aveva
trascorso gran parte della giovinezza in Toscana, dove le sorelle von Nagel vivevano in località Castello, vicino Firenze, in una villa signorile lungo lo stradone per Sesto Fiorentino;
in Chiaromonte, invece, come adattamento a
quella sensazione di sradicamento che sempre
lo accompagnava, l’impressione di essere ovunque -anche una volta ritornato a Roma- “fuori
luogo” e “senza patria”, dovuta a un vissuto così
tragicamente segnato da un duplice esilio, dall’Italia e poi dall’Europa.
È così probabile che nel 1957, quando le forti
passioni che le divisioni politiche e culturali di
quegli anni avevano suscitato in lui durante la
giovinezza si erano ormai stemperate, Chiaromonte abbia riconosciuto nell’accidentato percorso di Melanie von Nagel -pur così differente
dal suo- il segno di uno stesso destino.
Quell’incontro, ancora “mondano”, non cioè
come i successivi al riparo del chiostro, lasciò
in entrambi una profonda impressione e forse
un certo turbamento emotivo, ma almeno per il
momento non diede luogo a quell’assiduità epistolare che caratterizzerà invece i loro successivi rapporti a distanza. Stando alla contabilità
della stessa Melanie von Nagel, infatti, dal 1957
al 1966, Chiaromonte le inviò appena 38 lettere,
mentre stimava di averne ricevute dal 1967 al
gennaio del 1972 più di 600, per una media di
120-125 lettere all’anno, più o meno cioè una
ogni tre giorni! E probabilmente altrettante furono quelle spedite da Melanie -come suggerisce la struttura appunto dialogica delle lettere
che qui pubblichiamo e un esplicito accenno di
Chiaromonte- il che presuppone l’abitudine a
rispondere alle lettere dell’altro immediatamente, senza lasciar passare nemmeno un
giorno, per non interrompere la bramata «conversatio». Un ritmo più serrato è difficilmente
immaginabile.
A dare l’abbrivio a questo dialogo epistolare
pressoché quotidiano fu un nuovo incontro -o
forse più probabilmente una serie di incontriavvenuto appunto alla fine del 1966, quando
Chiaromonte, insieme alla moglie Miriam, trascorse un lungo periodo di lavoro negli Stati
Uniti. Aveva infatti accettato l’invito rivoltogli
dall’Università di Princeton -distante poco più
di 250 chilometri dal Regina Laudis- a tenere
una serie di conferenze sul rapporto fra l’individuo e la storia per le annuali e prestigiose
Christian Gauss Lectures. Ne nacque The paradox of history, l’unico libro non antologico di
Chiaromonte (sebbene sia anch’esso in parte un
montaggio di testi precedenti), che nella successiva versione italiana avrebbe avuto per titolo
Credere e non credere.
Tutti gli indizi contenuti nel carteggio -per
quanto chi scrive, come il lettore, non abbia potuto leggere che una selezione delle lettere di
così estraneo socialmente, e così diverso culturalmente e per scelte di vita- uno spirito in grado
di offrire la possibilità di una condivisione totale. E quindi con cui in prospettiva costruire un
luogo in cui comunicare nella certezza di essere
compresi, al riparo dallo scorrere del tempo e
dalla volgarità del mondo.
Questo luogo è quel giardino immaginato da
Melanie per Nicola o quella grotta di Paros così
spesso evocati da Chiaromonte nelle sue lettere,
un luogo dell’anima, l’unico in cui potesse darsi
un dialogo che si voleva sospeso nello spazio e
nel tempo, dove si potesse manifestare liberamente il logos che vivificava la loro relazione.
«Tu mi dici tante cose, e così “giuste” di te e di
noi - e mi parli, di quest’“opera comune” che
dovrebbe compiersi. Io non faccio che pensare
a questo -attraverso te- e a te attraverso questo
interrogativo che è l’esistenza nostra. Ma è possibile “compiere” una tal cosa? Non è forse
compiuta ogni volta che tu mi parli e che una
mia parola ti tocca davvero? Si può davvero
sperare di più? Non sarebbe troppo? Non so. So
che nulla mi basta. Ma tu sì».
Amor platonico, certo, eros come procedimento
razionale e unione amorosa nella ricerca. Non
una città
33
storie
Bocca di Magra, 29 agosto 1967
Mushka carissima,
la lettera che aspettavo oggi è venuta ieri, con la “pensée sauvage” e il rametto di lavanda (non mi sbaglio?) - e con tutta la tua grazia e, direi, sconvolgente dolcezza.
Ma certo, è un’ottima idea, quella di pubblicare un tuo “erbario” - o “Libro delle Erbe
Gentili”? Lavorarci con la massima semplicità - cominciando in ordine alfabetico (“Artemisia”?) e riportando in breve gli antichi pareri - ma seguiti dalle tue osservazioni – nelle
quali potrai lasciarti andare (ma non troppo per non togliere al libro il suo carattere “obbiettivo” di “raccolta”) alle tue intuizioni. Ma forse una qualche ricerca (con l’aiuto di un
buon “farmacista”?) sull’uso che si fa oggi delle medesime erbe per la fabbricazione di
medicamenti sarebbe utile: darebbe una specie di “conclusione” - e forse anche suggerirebbe in che senso la “scienza” moderna segua (per quanto riguarda le virtù delle erbe)
l’antica tradizione e in qual senso invece l’abbandoni, la dimentichi o forse anche le faccia violenza. Ma si dovrebbe trattare di semplici accenni, intendiamoci. Così come lo
immagino io, questo libro, il suo valore dovrebbe essere di suggestione quasi poetica un “rammentare” la natura a chi l’ha dimenticata. Buon lavoro Mushka.
Non voglio poi dimenticare di dirti che già da ora aspetto la visita dei tuoi amici Richter
a Roma. Dà loro anche il mio numero di telefono: 859.195. Quindi, eccomi a Platone.
Tu che hai capito subito così bene l’importanza della “forma” che Platone dà al suo discorso - il “dialogo”, come segno che 1°) si tratta di “discorso” non di insegnamento imperioso - c’è il discorso dell’uomo che riflette, cioè, e c’è il mondo infinitamente enigmatico - e nessun discorso scioglie l’enigma, anzi forse vero e supremo scopo del discorso
è di fare risaltare sempre più chiaro e direi “luminoso” l’enigma di un mondo sostanziato
di luce e d’oscurità al tempo stesso, nel quale pensiero e essere sono certamente la
stessa cosa (altrimenti il pensiero sarebbe vano - sospeso nel vuoto) ma tra pensiero e
reale - intelligenza e natura c’è un abisso, una “separazione” (χωρισμός) che nessun
discorso può sanare.
Questo è il primo punto, mi pare, da tenere a mente quando si legge Platone. E tu l’hai
capito molto bene. Il 2°) è che qualunque teoria o “utopia” si esponga e difenda è sempre
e soltanto una “proposta”. In particolare, per quanto riguarda la “Repubblica” l’errore da
non commettere è di considerarla una specie di “blueprint” per la costruzione di uno
Stato perfetto da parte di un principe illuminato o di un “partito” di filosofi (o pretesi tali).
La “Repubblica” (come è detto all’inizio) è semplicemente un tentativo coerente (senza
coerenza il discorso diventa privo di senso - ma coerenza significa rigore, lineamento
preciso - come nel disegno di un edificio, che non significa nulla se non è tracciato con
precisione e rigore di proporzioni. Il paragone con l’architettura è forse il migliore. Ma il
filosofo è un architetto di idee - e le idee hanno senso in quanto sono accolte con esame
-criticate- nel senso originario di esaminate con discernimento e non accettate come
pezzi di macchine da montare). Il tentativo di discorso coerente della Repubblica è quello
di rispondere alla domanda sulla giustizia rivolta in principio da Socrate a Cefalo e poi
complicata nella discussione con Trasimaco, finché Socrate si trova obbligato moralmente a “immaginare” e descrivere una città ideale.
Ora questa “città ideale” è talmente una “proposta” che la sua prima e perfetta (o quasi
perfetta) forma è -ricordalo- la comunità rustica, povera, di uomini contenti di una vita
semplicissima. Ma -dice Socrate- se vogliamo una vita più ricca e complessa, allora...
eccovene l’“immagine”. Interviene, in quest’immagine, già l’elemento di costrizione severa che diventerà ancora più duro nelle “Leggi”. Ci sono molti particolari “duri” e difficilmente accettabili, nell’utopia platonica, oltre quello della comunità delle donne. Ma
credo che bisogna sempre ricordare che si tratta di un’ipotesi. “Se volete una città perfetta...” essendo inteso che fatalmente la “perfezione” se applicata a un’impresa come
la convivenza umana, comporta necessariamente un rigore reale e non poca spietatezza. Tuttavia, il punto cruciale è che, secondo il modo di vedere platonico, si tratta pur
sempre di un “modello” ideale -da considerare, tenere a mente, discutere- ma non mai
imporre con la forza.
Insomma, se vuoi (e il paragone mi sembra inevitabile, anche perché c’è (quasi) certamente filiazione) la “Repubblica” è un po’ come una “Regola” monastica -lasciata alla libera accettazione dell’individuo e non suggerisce, in fondo, che il tentativo (o i tentativi)
di “imitarla” in pratica- realizzando degli “esempi” o “tipi” o “modelli” di convivenza nella
giustizia.
Quanto alla comunità delle donne, all’abolizione della famiglia, la questione, credo, è se
sì o no, il principio della vita in comune -di una giustizia rigorosa- debba o no prevalere
sulle tendenze “naturali”. D’altra parte, l’idea di una società in cui i giovani possano guardare a tutti gli uomini maturi come a loro possibili padri e a tutte le donne a loro possibili
madri è abbastanza “bella” - non trovi?
Dopo tanto Platone, sì, qualche ora di musica in un ambiente bello, ci vorrebbe. Per ora
andiamo nel giardino, dove ci sarà stormire di fronde e brusio d’acqua.
Ti abbraccio.
Nicola
34
una città
a caso Platone -che Chiaromonte rileggeva incessantemente e che ebbe premura di far “scoprire” o riscoprire a Melanie von Nagel- ricorre
spesso in queste lettere, quasi costituisse un naturale punto di incontro fra loro, trattandosi di
tenere insieme indagine razionale e linguaggio
poetico, riconoscimento del divino nel mondo
e ostinata ricerca di una verità umana. Ma nel
senso corretto in cui quella espressione va intesa, certo non di una relazione disincarnata si
trattava, ovvero di una relazione completamente
appagata dalla pura dimensione intellettuale.
Giacché, almeno per Chiaromonte, essa soffriva
dell’impossibilità della compresenza fisica,
compensata a stento dalle reciproche effusioni
o premure, come quei piccoli oggetti o fiori o
quelle immagini che accompagnavano le loro
lettere. La scrittura era per lui solo un «Ersatz
di un Ersatz».
tu sai trovare la misura
nello slancio, e nel tuo slancio
c’è un’infinita “cortesia”
appunto e gentilezza
«Ma, ora, subito, col rammarico anzi di queste
poche righe e pochi momenti frammessi, devo
dirti che doni come la lettera che mi è giunta
stamane -pochi minuti fa- sono così grandi quasi insperati- eppure proprio quello che da te
aspetto e di te so. Tessute del tuo essere più
bello e più forte (vorrei dire anche “più altero”
-comunque più nobile) sono le tue parole. E mi
fai paura quando dici della tentazione che hai
avuta, di strapparla, una tale lettera! Perché?
Sai, anch’io vorrei a volte dirti molto più di
quello che dico - lasciarmi andare al trasporto
irresistibile verso di te che è diventato come il
mio fuoco interiore. Non lo faccio perché so che
tu senti nelle mie parole tutto quello che c’è - e
anche un po’ per un certo sentimento che ho di
ritegno quasi direi “rituale” o forse la parola
giusta sarebbe “cortese” […] è questo sentimento “cortese” che ho verso di te che mi trattiene dalle effusioni -le lascio alla tua graziaperché tu sai trovare la misura nello slancio, e
nel tuo slancio c’è un’infinita “cortesia” appunto e gentilezza».
Desiderio inappagato di assoluta condivisione
che dunque come nell’amor cortese si alimentava della sua stessa irrealizzabilità - proiettando la donna amata in una sfera quasi inattingibile - «creatura di grazia venuta a me per grazia» - sottratta dalle mura del chiostro allo
sguardo del mondo - e divenendo per questa sua
stessa natura percorso di elevazione spirituale.
E tale era per Chiaromonte che non a caso sosteneva che le parole di Melanie generassero in
lui la sensazione di essere in presenza di qualcosa di numinoso, quasi respirasse l’aria di
Cuma, di Delfi, mentre l’atto dello scriverle assumeva i caratteri del «rito» di purificazione,
preceduto da «delle abluzioni morali». Purificazione dalle volgarità del mondo -dal «fango»ma anche premura nei confronti di “Mushka”,
il soprannome datole in famiglia con cui egli le
si rivolgeva abitualmente a sottolineare non
solo l’intimità di un rapporto, intonato innanzi-
Melanie von Nagel da giovane. La didascalia del giornale americano recita: la signorina Melanie Von Nagel da Firenze, Italia, una visitatrice degna di nota
della capitale dove sarà molto impegnata. Pernotterà
al Mayflover Hotel con la madre, la baronessa von
Nagel.
tutto a dolcezza, ma anche la consapevolezza
della fragilità -quasi infantile- di una creatura
siffatta. E quindi a conferma di un’intenzione
amorevolmente protettiva, che si spingeva fino
a desiderare di sollevarla dal peso del suo stesso
vissuto, nonostante Melanie -divenuta sister Jerome- avesse fornito l’esempio di una totale radicalità nelle proprie scelte di vita di fronte alla
quale talvolta Chiaromonte provava soggezione. «C’è in Mushka qualcosa che io non ho
ancora ben capito, ben visto -ben conosciuto.
Ha a che fare con la sua natura ‘imperiosa’ - con
un orgoglio segreto, con quello che lei mi dice
dei momenti in cui si sentiva ‘più grande di se
stessa’ - qualcosa di veramente singolare - anzi
singolo. Bisogna che lo capisca meglio -che la
senta meglio- prima di poter dire qualunque
cosa». Un enigma che si poteva sciogliere solo
nella dimensione poetica. «Sì, lo sento, quel che
c’è di misterioso in te - e non c’è dubbio che
viene da qualcosa di ancestrale: antiche correnti… Ma non so parlarne. So solo che è la tua
natura più profonda e più incantevole. Parla
nelle tue poesie, si esprime nei moti della tua
persona, e in questo gran dono che mi fai parlandomi. C’è qualcosa di un po’ terribile -sìcome in una figura di antiche saghe -o in una
statua arcaica- in un’immagine di mosaico, tutta
splendida e impenetrabile».
Se è vero che entrambi erano l’uno lo specchio
dell’altro, nutrimento e complemento spirituale
(«mi porti quello che mi manca» scriveva Chiaromonte), è anche vero che mentre Mushka era
il rifugio di Nicola dal secolo, dalla stupidità e
dalla violenza, sperimentate quotidianamente e da quella paura dell’insensatezza del mondo,
e della morte, che vi si affacciava- Nicola era
l’unico o almeno il principale sguardo -«vedo cerco di vedere- le cose con gli occhi tuoi e di
fartele vedere attraverso i miei»- profondo e
acuto quanto protettivo, che Melanie conservasse sul mondo esterno. Perché Melanie -come
testimonia anche il suo riferirsi, nell’identità
scelta all’atto dei voti, a Girolamo, esempio di
perfezione monastica, ma anche grande intellettuale e primo traduttore della Bibbia in latinonon sembrava intendere la ricerca di Dio -e la
conoscenza di se stessa- come rinuncia a comunicare con il mondo. Il silenzio del chiostro -la
ricerca dell’armonia spirituale nella contemplazione della bellezza e nell’ascesi- era infatti per
lei la condizione per l’esistenza stessa del giardino o di Paros, ove ritrovare il vero significato
delle parole e ristabilire la possibilità stessa di
una comunicazione significativa con l’altro -la
«parola alata»- nella ricerca della verità e dell’essenzialità delle cose. Era questo il «lavoro
comune» cui Chiaromonte e Melanie von Nagel
si accingevano insieme, ciascuno nelle forme
che gli erano proprie, che nel caso della seconda
erano innanzitutto rappresentate dalla creazione
artistica e dal linguaggio poetico, una dimensione invece negata a Chiaromonte (successivamente alla morte di Chiaromonte, Melanie von
Nagel ha pubblicato alcune raccolte di poesie
per una piccola editrice del Maine).
Non dobbiamo pertanto stupirci che Chiaromonte -lui, l’autore del Gesuita- vedesse nella
scelta della vita monacale operata da Mushka
una strada in fondo non così diversa da quella
che egli stesso aveva cercato di percorrere. Vi
leggeva infatti un gesto di ribellione, a suo
modo un atto di genuina “eresia” -anche se paradossalmente consumato all’ombra dell’ortodossia cattolica-, perché nato dal rifiuto di accettare il mondo così com’è.
se dovesse vivere una vita
“normale” (ossia normalmente
schiava) in una qualunque
delle metropoli occidentali
Significativamente, a Ludovica von Nagel,
dopo il loro incontro a Bethelem, scrisse della
scelta di sua sorella in questi termini: «Come
una donna così impetuosa, così ricca d’affetti,
così fremente, possa essersi ridotta in prigionia
volontaria, credo non lo si possa capire altro che
pensando a quello che Mushka soffrirebbe se
dovesse vivere una vita “normale” (ossia normalmente schiava) in una qualunque delle metropoli occidentali».
Una scelta che gli ricorda -istituendo un accostamento per tanti versi apparentemente sorprendente e quasi iconoclastico- quella a suo
tempo compiuta dal suo «unico maestro» Andrea Caffi, ma portata avanti con una diversa
forza d’animo e con più consequenzialità, senza
cioè quel lasciarsi andare dovuto allo «scoraggiamento» e all’«isolamento», che nel ricordo
ora in fondo gli sembrava caratterizzasse la personalità dell’amico.
storie
In questo senso, la sua relazione a distanza con
Melanie von Nagel assumeva -almeno per Chiaromonte- anche un valore implicitamente politico, se per politica intendiamo platonicamente
-come intendeva Chiaromonte- quell’arte che
ha cura della salute dell’anima e che preso atto,
come l’antico filosofo ateniese nella Lettera
VII, dell’impossibilità nell’immediato di dare
alla società un ordinamento giusto concentra la
propria azione nella “paideia”, nella ricerca associata e nell’educazione reciproca. Come
Caffi, anche Melanie sembrava infatti credere
che ogni speranza dovesse essere riposta nella
creazione di comunità per lo più informali, la
cui legge fosse agire come se la società fosse
regolata secondo giustizia e i cui aderenti dessero prova di condividere una rinnovata socievolezza. Tali associazioni, che per Chiaromonte
non abbisognavano appunto di una dimensione
organizzata, né tantomeno più di segretezza,
avrebbero rappresentato gli agenti di umanizzazione di un universo sociale a parere di entrambi ormai sconvolto da quella «disintegrazione dell’atomo umano», fatale prodotto di
forze che la civiltà stessa aveva suscitato nell’illusione di poterle addomesticare nel nome
del “progresso”.
Costituite di quei pochi devoti che “vi si riconosceranno, vi si ritroveranno e raggrupperanno” -non perché pensassero la ricerca della
verità fosse appannaggio di una élite, ma perché
le condizioni di quella ricerca lo disponevano
necessariamente- esse offrendo un punto di resistenza alla brutalità e alle violenza di un
mondo ormai interamente “meccanizzato” e
“fuori misura”, avrebbero atteso -inconsapevolmente?- a indicare di nuovo «le proporzioni
giuste» alla società.
Per tale ragione la loro azione avrebbe dovuto
avere per terreno di elezione non la politica e
neppure in un certo senso la cultura, ma le strutture profonde -se così possiamo dire- della vita
associata, ciò che innanzitutto tiene assieme gli
uomini: la religione -nel senso dell’insieme dei
valori e delle idee credute e accettate per vere,
e il linguaggio, ossia «il mondo della parola»,
«l’unico pienamente umano, perché solo la parola dà luogo a “discorso” e solo dal “discorso”
(e dal “dialogo”) nasce l’ordine, e con l’ordine
la possibilità d’armonia». Un interesse in particolare quello per la funzione e la natura del linguaggio testimoniato anche dai costanti riferimenti alle teorie strutturaliste -con cui Chiaromonte si confrontava criticamente- rintracciabili
in queste lettere, all’opera di Lévi-Strauss letta
giustamente nella sua relazione con il Cours de
linguistique générale di Ferdinand de Saussure,
ma che prendeva anche la forma giocosa della
ricerca etimologica e filologica cui Chiaromonte si prestava -quasi si trattasse di offrire a
Melanie un bouquet di parole- nel rintracciare
somiglianze e istituire differenze semantiche fra
le diverse lingue indoeuropee, procedendo a ritroso nel tempo, da quelle contemporanee alle
antiche, fino al sanscrito. Il linguaggio -del cui
destino in una società delle comunicazioni di
massa ormai completamente dispiegata, Chiauna città
35
Una lettera di Melanie a Nicola Chiaromonte, con la descrizione delle lane colorate.
romonte e von Nagel mostravano di essere tanto
preoccupati- era infatti ben più che una metafora del legame sociale, pareva infatti a Chiaromonte custodisse la chiave stessa per comprendere il rapporto fra l’io e il mondo. Patrimonio
ereditato -tradito- dal passato, esso è al tempo
stesso creazione collettiva a cui ogni giorno
quotidianamente -e in un certo qual senso liberamente- ciascuno partecipa, e un universo dato
per l’individuo, con leggi che nessuno ha stabilito. Gli sembrava vi si manifestasse quel fondo
oscuro della società - quella sua legge imperscrutabile che fa sì che anche nella più perfetta
solitudine l’individuo non possa astrarre dall’esperienza degli altri, così come non potrebbe
pensare se stesso senza il ricorso al linguaggio.
È precisamente questo -l’indissolubilità del legame sociale- ciò che, scriveva Chiaromonte,
tratteneva lui, ma anche Melanie, «nella confusione» del mondo loro contemporaneo, che rendeva impossibile volgergli completamente le
spalle, senza annichilire in fondo anche se
stessi.
Anche per questa ragione la comunità informale
-ma vivente- di cui Chiaromonte e Melanie von
Nagel con il loro dialogo volevano costituire
una delle cellule generative non poteva e non
doveva pensarsi come separata dal mondo -non
era più certo il tempo dei «cenobi»- ma come
un’oasi, o, come Chiaromonte scriveva, con il
suo caratteristico pessimismo circa la storia
umana, in queste sue lettere talvolta accentuato
da qualche amara considerazione personale,
come un’«arca» in vista di un nuovo diluvio, in
fondo già da tempo in corso, accessibile a tutti
gli uomini di buona volontà. E offerta innanzitutto ai giovani cui -verrebbe da dire secondo
un modello socratico- entrambi guardavano con
interesse e curiosità, psicologicamente motivata
-almeno nel caso di Chiaromonte- anche dalla
propria storia personale e posizione generazionale di uomo maturo, a suo tempo anch’egli
giovane in rivolta, che non si riconosceva in
quell’ordine sociale contestato dalle nuove generazioni.
Se vi è infatti un’eco delle coeve vicende storiche che riecheggiava in questo carteggio è proprio quello della ribellione studentesca del Sessantotto di cui peraltro Chiaromonte offriva anche in questa sede “privata” la lettura ambivalente affidata ai suoi articoli per la stampa. Se
vi riconobbe all’inizio e in alcune sue espressioni una genuina carica liberatrice -anche se
certo fin dalle origini confusa- da un autoritari-
“Sono legato:
1) A quello che si è formato in Italia, in Spagna, in Francia - a tutta
la vita, a tutte le vite distrutte, calpestate, umiliate.
2) Annie - E il cuore.
3) André (il cammino dello spirito) l’amicizia - la società.
4) Due o tre momenti d’estasi.
5) Il paradiso dell’arte e della natura. Firenze.
6) Il mare, i cavalli.
7) La nostalgia ‘Pax et justitia osculatae sunt’.
E questa domanda: ‘Sono realmente innamorato? è realmente
questo?’ davanti a quello che succede”.
Da un appunto, inedito, dei taccuini di Nicola Chiaromonte, citato nel saggio Leggere
Chiaromonte di Wojciech Karpinski, pubblicato nel libro Fra me e te la verità.
36
una città
smo vuoto e insensato, vi vide però con preoccupazione e per tempo precipitarvi antiche dinamiche e riprodursi quella costellazione di problemi -la pania in cui finisce inevitabilmente
qualsiasi azione politica che si pretende rivoluzionaria- che avevano caratterizzato tutto il Novecento: il feticismo per la storia e per il successo come unica misura di valutazione dell’agire umano e il culto delle ideologie e della
violenza che ne derivava.
i dissidenti dell’Europa dell’est,
esempi di un’ostinata resistenza
individuale che lo riempivano
di entusiasmo
Era insomma la sindrome che aveva condotto
alla diffusione delle mentalità totalitarie, a nuovi
conformismi soffocatori di ogni autonomia individuale di cui anche l’ovest, il “mondo libero”,
dava esempio, seppure in misura non comparabile, qualitativamente non comparabile, con
quanto accadeva al di là della “cortina di ferro”,
e che nasceva dal fallimento della politica come
arte della convivenza fra gli uomini orientata
dall’interrogazione attorno alla giustizia.
Come per Arendt, anche per Chiaromonte «ciò
che era andato storto era la politica», ma come
per Arendt, anche per lui, sebbene forse, almeno
qui, con un tono più pessimista, gli uomini conservavano intatta la possibilità, a partire dalla filosofia, dalla produzione di valori spirituali, di
pensare la politica diversamente, di porre nuovamente al centro della polis l’autonomia della
coscienza individuale, il sentimento della sua
inviolabile dignità, la libertà dell’individuo e il
tema del suo rapporto con gli altri, così facilmente obliterato -e mistificato- dalle ideologie
politiche novecentesche.
Che ciò fosse possibile lo dimostravano eloquentemente gli scrittori e gli intellettuali dissidenti dell’Europa dell’est -Solženicyn, Julij
Markovič Daniėl’, sua moglie Larisa Iosifovna
Bogoraz, Andrei Sinyavsky o Anatoli Márchenko, esempi di una «ostinata resistenza individuale» che lo riempivano di entusiasmocon la loro sofferenza e con la loro scelta di
un’opposizione a viso aperto e non violenta al
sistema.
Per questa sua in fondo irriducibile fiducia
nell’uomo, Chiaromonte non perse la speranza
-condivisa e sollecitata com’è facile immaginare dai cenni contenuti in questo stesso carteggio anche da Melanie e confermata dagli incontri coi giovani che ella stessa andava sperimentando- che quell’effervescenza giovanile cui si
stava assistendo non producesse solo un nuovo
conformismo, di segno opposto ma di natura
non diversa da quello della società dei padri, ma
anche delle energie genuinamente nuove, dei
fermenti di effettivo rinnovamento “spirituale”.
[...]
Non deve dunque essere motivo di stupore il
fatto che nel diagnosticare i mali della società a
lui contemporanea - ma si tratta di qualcosa che
affondava le radici ovviamente in processi assai
più remoti nel tempo - il “laico” Chiaromonte
indicasse proprio nella rimozione dell’esperienza del sacro il nodo su cui era più urgente
riflettere. Con una disfatta per la tradizione
dell’umanesimo, quasi un contrappasso di
quella ὕβρις di cui in parte aveva dato prova, il
venir meno delle religioni storiche quale orizzonte di senso delle società non aveva prodotto
una religione umana -l’instaurarsi del regno
della filosofia- ma, al contrario, una nuova
forma di superstizione -altrettanto e forse più
odiosa delle antiche giacché, contrariamente
alle prime, in evidente «malafede»- «la religione dell’al di qua delle cose - del momento
che passa - dell’oblio di sé nella distrazione continua dall’esistenza di un mondo - dal fatto della
mortalità - e persino dalla gioia profonda - perché la gioia chiede “altro” - rimanda a un significato splendente e nascosto». Era questa superstizione, che Chiaromonte e von Nagel rifiutavano, ad aver generato «un mondo vissuto alla
terza persona […] nel quale tutto è costretto, fatale, preordinato – e tutto è caotico. Il mondo
della violenza e della paura». Ed è contro di essa
che, in fin dei conti, i giovani si rivoltavano, facendo esperienza in massa di un sentimento che
anche la generazione di Chiaromonte aveva conosciuto ma solo in una minoranza intellettuale.
«Io credo che in fin dei conti cerchino non il comunismo, ma Dio. Solo non hanno la più lontana idea che si possa cercare una tal cosa - comunque: l’Assoluto».
Era dunque in ultima analisi esplorare le possibilità di una genuina restaurazione del «sentimento del divino» nel mondo -e della nozione
dell’«anima» per l’uomo- il «lavoro» che Nicola e Melanie attribuivano alla loro ricerca, nel
tentativo se non di formulare una risposta comune -non si trattava certo di “convertire” l’uno
alla fede dell’altro- di tracciare un cammino che
potesse essere percorso assieme, da chi aveva
fede in un Dio trascendente e personale e da chi
invece dell’assolutezza di quella fede era privo,
ma non mancava di avvertire in sé la dimensione del sacro. «Tu dici giustamente che il
senso del sacro non si raggiunge con l’intelligenza; infatti il “sacro” è il non intelligibile.
Tuttavia vorrei dirti due cose. La prima è che,
pensa e ripensa, se si vuole essere semplici, il
senso del sacro non è altro che il senso del “limite” -il sentimento (e la coscienza chiara) della
μοίρα, della “parte”- ossia di essere parte di un
tutto che non si conosce. Fermarsi al limite vuol
dire riconoscere il sacro -e il divino- piegare il
capo -inchinarsi. Fermarsi prima del limite è
mediocre saggezza. È in questa zona che sta
quello che i più chiamano “ragione” - “ratio”
(che è sempre “ragion pratica”). Ma l’intelligenza - il νούς è altra cosa: è il limite estremo
cui può giungere l’uomo -e non esclude il cuore,
anzi».
l’intelligenza... è altra cosa:
è il limite estremo cui può
giungere l’uomo -e non esclude
il cuore, anzi
Ritroviamo dunque in questo carteggio, la cui
stesura fu contemporanea a quella di Credere e
non credere, molti dei principali elementi di
tutta la riflessione matura di Chiaromonte che
qui -come in Che cosa rimane- prese soprattutto
la forma di un’appassionata riflessione sulla nozione di limite, di «misura», che si offre -quasi
spontaneamente- all’individuo quando questi
arrivi «in fondo - alla regione che tu esplori: “il
sacro”». Di questa concezione della condizione
storie
umana egli trovava traccia nella religione naturale degli antichi greci, in quel loro spontaneo
aderire alla natura delle cose -accettandone il
«labile», «l’effimero», il «mortale»- pur senza
rinunciare a porre l’uomo a sua misura, facendo
così del mondo un cosmo ordinato. E non a caso
-e qui sta uno dei tanti elementi di interesse documentari di questo carteggio- nelle lettere di
Chiaromonte abbondano le riflessioni, nutrite di
precisi riferimenti storico-antropologici, sull’antica civiltà ellenica e sul ruolo che in essa
era assegnato alla religione e al racconto mitico.
Nel recupero di questa antica e ascetica sapienza del limite trovava anche quiete provvisoriamente -giacché di fronte al sacro «non bisogna aspettarsi risposte né soluzioni: solo altre
domande, e assai più tormentose di quelle che
oggi ci tormentano» e in questa conclusione sta
naturalmente la più evidente differenza rispetto
alla sua interlocutrice- quell’interrogazione sul
senso ultimo del mondo e della vita che accompagnava angosciosamente Chiaromonte fin
dalla prima giovinezza, quando appunto avvenne il distacco -emotivamente violento- dalla
religione cattolica in cui lo avevano educato i
suoi genitori. [...]
Cesare Panizza
Fra me e te la verità
Lettere a Muska
di Nicola
Chiaromonte
a cura
di Cesare Panizza
con un saggio
di Wojciech Karpinski
Edizioni Una città
312 pagine
18 euro (15 euro
per gli abbonati)
vendita diretta: 0543-21422
[email protected] www.unacitta.it
una città
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APPUNTI DI UN MESE
blog: redazioneunacitta.wordpress.com
twitter: @Una_Citta
20 novembre 2013. Lo stato burocratico
Se oggi volessimo costruire una casa del popolo, lavorando gratis come fecero nonni e bisnonni, sarebbe “lavoro nero”. (tw)
20 novembre 2003
Ezio Mauro elenca in tv le malefatte telefoniche
della Cancellieri e conclude: “Poi 8 del marito!”. Siamo diventati la Repubblica della maldicenza? (tw)
21 novembre 2013. La maestra Myriam
Myriam Mazzo fa la maestra nella cittadina di
Armenia, nel centro della Colombia. La sua è
una scuola speciale: c’è un’unica classe con ragazzini di varie età e livelli che lavorano in piccoli gruppi. Anziché stare alla lavagna, la maestra Myriam gira tra i vari gruppi. Con il suo
metodo, noto come “Escuela nueva”, ha insegnato a generazioni di bambini -i figli e le figlie
degli agricoltori locali- a leggere, scrivere e far
di conto. Il sistema, sviluppato da Clara Victoria
(Vicky) Colbert de Arboleda negli anni Settanta,
è stato pensato proprio per chi si trova nelle sue
condizioni: classi miste in zone rurali. Uno dei
problemi principali di questi contesti è che molti
ragazzini rimangono assenti per lunghi periodi
a causa del lavoro che devono fare per aiutare
le famiglie. Ecco perché il metodo “Escuela
nueva” è perfetto, perché in questa formula il
ragazzino viene spinto all’autonomia, a partecipare, a condividere le sue idee senza paura, a lavorare assieme agli altri, ma anche da solo, così
se deve rimanere lontano dalla scuola per un po’
non deve smettere di studiare e quando torna saranno gli altri ad aiutarlo. Questa “nuova
scuola” è molto flessibile e permette agli studenti di fare le prove quando si sentono pronti.
Molte lezioni vertono sull’area in cui vivono, sul
calendario agricolo, così che lo studio diventi
parte integrante della vita quotidiana. I ragazzi
sono inoltre incoraggiati a coinvolgere anche i
genitori nel loro apprendimento. Il metodo è
stato riconosciuto (e finanziato) dal governo e
dalla Banca Mondiale e nel 1988 l’Unesco ha dichiarato che la Colombia è l’unico paese dell’America Latina dove le scuole di campagna
vanno nettamente meglio di quelle di città. Negli
ultimi anni il metodo è stato adottato anche da
Brasile, Filippine e India. La formula del mettere
lo studente al centro non è evidentemente nuova.
Ciò che Vicky Colbert ha portato di nuovo è
stata una formula “low-cost”, cioè quest’idea
che non occorreva pensare a grandi riforme
dall’alto, bastava pensare a una scuola diversa e
provarci. (International New York Times)
25 novembre 2013
Corruzione. Il problema non è il disonesto, che
comunque prende un rischio, ma gli “onesti”
che con la politica quadruplicano e più il reddito. (tw)
38
una città
26 novembre 2013. Una mappa delle scuole
Voluta dal sindaco di Londra, la “London Schools Atlas” è una mappa online interattiva delle
scuole pubbliche londinesi, incluse le cosiddette
Academy e le “free school”. Vi sono riportati,
tra l’altro, i risultati ottenuti alle ispezioni Ofsted, la quota di studenti con buoni voti nelle
materie principali (che si può confrontare con
la media di Londra), il numero dei ragazzini che
hanno diritto al pasto gratis e infine una panoramica sul numero di studenti previsti di qui a
cinque anni. Ne ha parlato Norberto Bottani sul
suo prezioso blog (http://oxydiane.net), chiedendosi perché non si possa far qualcosa del genere anche a Milano o a Roma. Grazie a questa
mappa, i genitori potranno avere informazioni
più ampie per prendere le loro decisioni. L’indagine sul lungo periodo permetterà inoltre a
quei gruppi di genitori e/o insegnanti che vogliono aprire una “free school” di farlo dove ce
n’è effettivamente bisogno.
27 novembre 2013. Colpite le pensioni d’oro
Ma la Suprema Corte, custode del sacrosanto
principio d’uguaglianza fra chi prende 800 e chi
80.000 euro al mese, cosa dirà? (tw)
27 novembre 2013
Tutti agognano la “stanza dei bottoni”, perché
da lì, credono, partono le soluzioni. Da lì invece,
dal centralismo, partono i problemi. (tw)
27 novembre 2013. Gayby boom
Nella famiglia Schulte-Wayser, uno dei due genitori è il classico “breadwinner”, quello che
porta a casa il pane, fa l’avvocato ed è il (quasi)
classico maschio “alfa” quando si parla di compiti, orari e regole; l’altro si definisce l’uomo
“che sussurra ai bambini”: sta a casa e si prende
cura dei sei figli, quattro maschi e due femmine.
Tutti adottati. Oggi le coppie omosessuali con
figli stanno aumentando a ritmo frenetico. Natalie Angier, del “New York Times”, parla di un
vero baby -o meglio gayby- boom. Alcuni manifestano preoccupazione per il rischio che questi bambini siano soggetti a stigma sociale o manifestino problemi relazionali o psicologici. Gli
studi più recenti però sfatano alcune paure.
Michael Rosenfeld, della Stanford University,
autore di “The Age of Independence: Interracial
Unions, Same-sex Unions and the Changing
American Family”, sostiene che i figli di genitori dello stesso sesso sono “indistinguibili” dagli altri sia sul piano scolastico che emotivo.
Di più: le coppie composte da due padri risultano essere quelle in assoluto più stabili. Judith
Stacey, della New York University, autrice di
“Unhitched: Love, Marriage and Family Values
From West Hollywood to Western China” ha
confessato di essere rimasta lei stessa scioccata
dal fatto che nel corso di 14 anni di studi, nessuna delle coppie composte da due maschi che
avevano uno o più bambini e che lei aveva seguito si era separata. Nessuna. Secondo il Williams Institute dell’Università della California,
il numero di coppie gay con figli è raddoppiato
nell’ultimo decennio. Oggi negli Stati Uniti,
circa 125.000 coppie dello stesso sesso stanno
allevando 220.000 bambini. (nytimes.com)
28 novembre 2013. vendereaicinesi.it
Ne hanno parlato Oscar Giannino, se n’è letto
sul “Sole24ore” e perfino Bruno Vespa gli ha dedicato un servizio. Vendereaicinesi.it si definisce
il “primo sito di annunci rivolto a imprenditori
cinesi in Italia”. Gli annunci sono tutti rigorosamente bilingui (con traduzione professionale) e
il target si è subito allargato ai cinesi che vivono
in Cina. L’idea è venuta ad Alessandro Zhou,
nato in Italia da genitori cinesi e laureato alla
Bocconi, e a Simone Toppino, che hanno avviato
il sito lo scorso febbraio.
Sul “Sole 24 ore” si legge che il sito conta 3.000
accessi giornalieri e 800 utenti cinesi. Gli stessi
fondatori non si aspettavano un boom di annunci
immobiliari. Da notare che, oltre a locali commerciali e capannoni, sono presenti edifici di
pregio e ville del valore di qualche milione di
euro. In tempi di caduta libera del mercato immobiliare a pensare ai cinesi non sono stati gli
unici. Se si fa una veloce ricerca in internet,
oggi, oltre a vendereaicinesi.it, c’è cinesichecomprano.com che traduce e pubblica il tuo annuncio su siti cinesi, e startcina.com che pubblica in cinese in Europa e in Cina.
29 novembre 2013
Domande da profani: ma la legge Severino è
giusta? Un giudice può far decadere un eletto
dal popolo dando un’aggravante o non dando
un’attenuante? (tw)
30 novembre 2013
A volte il disastro è non toccare il fondo. Immobili, aggrappati a pochi metri dal fondo, sovraccarichi di tutto, vediamo risalire la Spagna. (tw)
1 dicembre 2013
Domande da profani. L’idea che il parlamento
debba essere di onesti non è sbagliata? Ci vorrà
qualcuno al di sopra che dovrà valutare e decidere. Chi? (tw)
3 dicembre 2013. Il libro è morto?
Se, come molti sentenziano, il libro è morto,
non è ancora affatto chiaro cosa andrà a sostituirlo. Ne ha parlato anche David Streitfield sul
“New York Times” del 3 dicembre, elencando
le tante start-up che negli ultimi anni hanno provato a reinventarlo: “Social Books” consentiva
di commentare i propri passaggi preferiti di un
ebook e leggere le opinioni degli altri lettori;
“Copia” era un altro tentativo di “lettura sociale”; “Push pop press” era una piattaforma in
grado di mescolare testi, immagini, anche interattive, video e audio; “Small Demons” usava i
riferimenti culturali e i dettagli contenuti nei libri (personaggi, oggetti, ecc.) per aiutare i lettori
a scegliere il successivo libro da leggere. Tutte
lettera dall’Inghilterra
Cari amici,
una storia di Natale. C’era una volta, un
giorno d’inverno, un uomo che stava svolgendo le sue faccende quotidiane, quando,
tutto a un tratto, si accasciò al suolo colpito
da ictus. Era gravissimo, ma fu soccorso da
un paramedico accorso sul posto grazie alla
chiamata di un buon samaritano. Il paramedico e il suo collega aiutarono l’uomo e, rendendosi conto che soltanto una pronta assistenza specialistica avrebbe potuto garantirgli una qualche possibilità di ripresa, lo caricarono nel retro dell’ambulanza e si
lanciarono nel traffico caotico del venerdì
sera. Al primo ospedale -il più vicino- fu detto
loro che il medico specialista che si occupava degli ictus stava andandosene proprio
in quel momento per trascorrere un weekend fuoriporta. I due scortarono via il malato, si tuffarono nuovamente nel traffico e
bussarono a un secondo ospedale. «Niente
da fare», fu la risposta per nulla accogliente
dell’amministrazione. «I malati vanno portati
alla Stroke Unit, bisogna riempire un modulo, apporre timbri e trovare un letto prima
delle cinque del pomeriggio, ossia fra 2-3 minuti: proprio non c’è tempo per tutta la trafila». «Per favore», fece il paramedico.
«Senza cure immediate, quest’uomo non ce
la farà». Ma il cuore di chi porta costantemente lo sguardo all’orologio è duro come la
pietra: il malato grave fu respinto una seconda volta. Che scelta avevano i paramedici? Ritornarono all’ambulanza e viaggiarono un’ora intera prima di raggiungere
un’altra città, dove finalmente riuscirono a
trovare aiuto; ma ormai era troppo tardi.
Se solo i batteri, i virus, gli attacchi mortali,
le malattie cardiache, le polmoniti, gli ictus e
la malaria imparassero a colpire nella fascia
oraria che va dalle nove alle cinque! O forse
si tratta di malattie intelligenti: sanno che per
infettare in modo letale e uccidere è meglio
sorprendere gli esseri umani durante il fine
settimana. La mia storia di Natale è stata
resa nota di lunedì, il giorno successivo a
una dichiarazione del professor Sir Bruce
Keogh, direttore medico del sistema sanitario nazionale inglese, secondo cui i medici
specialisti dovrebbero lavorare nei fine settimana perché il rischio di decesso è più frequente il sabato e la domenica. Ha asserito
che gli ospedali che non forniscono uno standard costante di assistenza lungo tutta la settimana dovrebbero essere sottoposti a sanzione. I pazienti gravi ammessi in ospedale
durante il weekend hanno il 12% in meno di
possibilità di sopravvivere rispetto a quelli
che vengono ospedalizzati il martedì. Si
tratta di una denuncia shock. Riguarda la
mancanza di medici esperti in loco che dirigano e aiutino gli specializzandi, i quali, sempre più spossati, lottano per rimanere svegli
durante ripetuti turni di 12 ore. Altrettanto
scioccante è che si sia giunti a una situazione
di questo tipo, e cioè a ritenere normale che
lo staff medico esperto non sia reperibile durante i weekend. Che ne è stato della figura
tradizionale del dottore disponibile a ogni ora
e ogni giorno? Rammento ancora quando i
dottori si legavano alla famiglia, ne divenivano parte, ed erano a conoscenza di tutti i
malanni che si celavano in agguato nell’albero genealogico. Di dottori che lavorano
ogni giorno, a ogni ora, ce ne sono tutt’oggi:
non certo i medici membri dei vari circoli golfistici, ma gli specializzandi, che devono mettersi delle asticelle di fiammiferi sotto gli occhi
per riuscire a tenerli aperti.
Un’altra storia narra di un dottore che ha
scritto a Babbo Natale. Nella sua lettera,
pubblicata sul “Guardian”, il dottore chiede
di tenere conto del fatto che anche quell’anno gli operatori sanitari hanno dato ben
oltre il dovuto e che, tuttavia, a differenza dei
banchieri, non hanno ricevuto bonus gonfiati, bensì “tagli allo stipendio e revisioni
della pensione”. Denuncia inoltre che l’Nhs
sta per affrontare un inverno catastrofico e
che è necessario il contributo generoso di
diecimila elfi addestrati dal sistema nazionale che vadano a occupare i posti di lavoro
vacanti. C’è dell’altro: se Babbo Natale riuscisse a trovare altri ventimila letti (letti, non
barelle) e fornire più medicinali, be’... allora
sarebbe davvero arrivato il Natale. Il nostro
dottore chiede a Babbo Natale di regalare
orecchi ai politici, affinché ascoltino lo staff
del sistema sanitario costretto a lavorare
ventiquattro ore al giorno in condizioni precarie e a subire ingiurie di ogni tipo e minacce di denunce legali. Babbo Natale dovrebbe certamente depennarli dalla sua lista
dei bravi bambini: per non essere stati in
grado di prestare ascolto all’Nhs; per non essere riusciti a dare il giusto valore al suo
operato; per non aver saputo riconoscere e
custodire ciò è stato e, nonostante tutto, ancora è una risorsa per il mondo intero, un
dono alla gente, al pubblico, alla comunanza.
I ministri governativi e i membri del parlamento, timbrato il cartellino, si dirigeranno
verso le proprie circoscrizioni, dove troveranno torte ripiene, bottiglie di Grouse e
cialde allo zenzero. Il più pregiato dei regali
indirizzati al vecchio e povero sistema sanitario nazionale sulla lista di Babbo Natale
non costerebbe assolutamente nulla. Dopotutto non è possibile dare un prezzo a una
semplice parola: grazie.
Quest’anno c’è un tenue turbinio di acquisti
e raduni. In città, le luci di Natale sono state
disposte in modo grazioso come ragni brillanti appesi fra gli alberi e sulle strade. Da
certi angoli, le luci e i viottoli si combinano
per creare l’impressione di un vivace cielo di
Van Gogh. Ci sono canti e presepi, venditori
di castagne e uomini con la barba finta all’entrata delle grotte. C’è poi un altro paesaggio. Non proprio un quadretto natalizio,
quanto una visione che dura tutto l’anno: i
senzatetto che vendono copie della rivista
“Big Issue” o quelli che, assiderati e inutili,
sembrano pupazzi di neve sfiniti dal nuovo
freddo.
©Belona Greenwood
start-up fallite. Siccome la forma-libro stenta a
trovare un sostituto degno ecco allora che è partita la corsa in senso contrario: rendere il virtuale più simile al reale. Così, quando si scarica
un libro con un device apple, iBooks permette
di metterlo subito nello scaffale della propria libreria. Un’altra bizzarra proposta è quella che
propone di acquistare libri digitali completi di
autografo dell’autore. D’altra parte, nell’ultima
campagna per promuovere il proprio e-reader,
Amazon vanta l’innovativa possibilità di…
“sfogliare le pagine”! (nytimes.com)
5 dicembre 2013. Un’epidemia di demenza
L’11 dicembre prossimo, il Gruppo degli Otto
leader dei Paesi industrializzati si incontrerà a
Londra. Ospiti del Premier inglese Cameron, i
leader globali parleranno di demenza, la malattia degenerativa che colpisce le funzioni intellettive e che nella maggior parte dei casi prende
il nome di Alzheimer. Secondo Marc Wortmann, direttore dell’Adi (Alzheimer’s Disease
International), tutti gli indicatori fanno pensare
a una vera e propria epidemia globale. Negli ultimi 10 anni si è registrato un aumento del 17%
dei casi di demenza: un trend che, se restasse
costante, ci porterebbe nel 2050 dagli attuali 44
milioni di casi nel mondo a 135 milioni. Il costo
sanitario mondiale per le varie forme di demenza ammonta oggi a 600 miliardi di dollari (l’1% del prodotto interno lordo globale) ed è
evidentemente destinato a salire. Secondo l’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra,
infatti, solo 13 Paesi hanno predisposto piani terapeutici nazionali. Tra quelli che in questo
campo spendono di più c’è la Gran Bretagna
(37,6 miliardi di dollari all’anno: più del cancro,
dell’ictus e delle malattie cardiache messi insieme). I casi di demenza però si stanno rapidamente espandendo anche ai Paesi in via di sviluppo, che non dispongono né delle risorse, né
dei servizi sociali adeguati per occuparsi di questa emergenza.
4 dicembre 2013. Il federalismo scomparso
È bastata la laurea albanese del figlio di Bossi
perché la parola federalismo scomparisse dalla
scena politica? Non c’è speranza. (tw)
5 dicembre 2013. Lo Stato burocratico.
Irap e Ires: il 102,5% di acconto! Già un acconto
del 100% è una contraddizione in termini, ma
quel 2,5... Fantastico! (tw)
(traduzione a cura di Antonio Fedele)
5 dicembre 2013.
La Consulta cassa il porcellum. Qualcuno che diceva una cosa per farne un’altra è arrabbiato, le
uova nascoste nel paniere sono tutte rotte. (tw)
9 dicembre 2013. Bipolarismo
Incredibile il dibattito sulla legge elettorale: poiché non siamo bipolari (ci sono 3-4 grossi più
5-6 piccoli) dobbiamo esserlo. Punto. (tw)
10 dicembre 2013. Primarie e Forconi
Nel paese s’è alzato un vento di sinistra? O un
vento sinistro? (tw)
una città
39
Spero mi scuserete se vengo a disturbarvi e
farvi perdere qualche attimo del vostro prezioso tempo. Mi chiamo Mario Trudu, e sono
un fiero sardo, ormai sono un vecchietto di 63
anni, il tempo e la vita stanno passando anche
per me, anzi stanno volando via. Una vita
piena di sofferenze, una vita che da 34 anni è
relegata all’interno di una cella.
Mi trovo in queste condizioni dal mese di maggio del 1979, periodo interrotto solo da 10
mesi di latitanza, fra il 1986 e il 1987. E ci rimarrò per tutta la vita, non ho la minima speranza di poter abbandonare un giorno questo
orribile posto, a meno che la politica non si decida a cambiare le leggi, mettendo mano alle
varie riforme della giustizia che, come tutti
sanno, esperti e non, sono urgenti e necessarie.
Non mi dilungherò molto in questo mio umile
scritto e non vorrei che si pensasse che se mi
azzardo a parlare di queste cose sono un arrogante. Certamente non ho molta preparazione per affrontare certi argomenti; la scuola
che ho fatto è stata molto poca, ma poiché gli
argomenti che in questi giorni vengono dibattuti li vivo da decenni sulla mia pelle, mi sono
sentito invogliato a dire la mia, da vecchio galeotto. Non ho titolo per far parte di quei commentatori ed esperti che ogni giorno invadono
le varie trasmissioni televisive e non sono qui
per parlare di loro, voglio solo far notare che
tantissime volte dicono cose inesatte e in malafede. Ma voglio dire qualcosa a proposito
della concessione a noi poveri mortali dell’indulto e dell’amnistia.
È pur vero che la Comunità europea ha dato
all’Italia un anno di tempo per mettersi in regola sullo spazio delle celle da noi occupate
e sull’affollamento delle carceri. Eppure oggi
il dibattito è: amnistia sì, amnistia no! Indulto
sì, indulto no! Io potrei anche non interessarmi
alla questione tanto quelli come me, anche se
hanno scontato oltre 30 anni di carcere, non
potranno mai usufruire, come mai ne hanno
usufruito, di alcun beneficio. Perché io non ne
ho usufruito? Perché sono condannato all’ergastolo, reso per giunta ostativo (pena perpetua) da una legge su cui ci sono molti dubbi di
incostituzionalità. E tutto questo per via dell’emergenza mafia scoppiata dopo la morte
dei giudici Falcone e Borsellino: pago la colpa
di quelle stragi, se pur al momento del fatto
ero in carcere da 13 anni (per un sequestro di
persona compiuto nel 1986) e con pena definitiva; e pur non avendo mai fatto parte di nessuna associazione mafiosa, come le carte
confermano, mi viene applicato retroattiva-
10 dicembre 2013. Il tavolo
La sicumera fa dire strafalcioni. Per Renzi “tavolo” suona palude. Ohibò. Il “tavolo” è la politica, quando questa non è con altri mezzi.
Al “tavolo” ci si siede, disarmati e indifesi, per
parlare, conoscersi, accordarsi, diradare malintesi, decidere se fidarsi, simpatizzare... (tw)
13 dicembre 2013. Senza figli
Sul “Guardian” del 9 dicembre, Jody Day parla
delle donne senza-figli sotto Natale, da sempre
percepita come la stagione peggiore per coloro
che hanno “mancato” l’appuntamento che per
la società definisce l’ingresso ufficiale nell’età
adulta. In Inghilterra il numero delle donne
40
una città
mente l’art. 4 bis, di fatto condannandomi a
morte. Ma lo stato non avendo il coraggio di
farmi salire sul patibolo, lascia che io muoia
giorno dopo giorno dentro una cella, sperando
che prima o poi arrivi a togliermi la vita da
solo. Io sono stato condannato con altre leggi
e altre regole che erano in vigore al momento
dei fatti, e in base ad esse avrei dovuto scontare la pena; non in base a una legge varata
14 anni dopo (anche se nei dibattiti televisivi
ultimamente si afferma che mai una nuova
legge è stata applicata retroattivamente, mentre è cosa che si vuole fare solo ora con la
legge Severino per colpire qualcuno in particolare… ma che frottole raccontano!).
L’opinione pubblica sembra contraria a concedere amnistia e indulto, sono tutti convinti
che non servirà a sfoltire il numero dei carcerati perché nel giro di un anno le carceri torneranno a essere piene. Forse sembrerò pessimista, ma credo (pur facendo gli scongiuri)
che non verrà concesso nessun indulto o amnistia… Io comunque sarei favorevole alla loro
concessione anche non usufruendone perché, se le carceri si svuotassero un po’, a me
resterebbe più spazio dentro questa orrenda
struttura, così da potermi muovere senza correre il rischio di sbattere da una parte e dall’altra. Cosa che non posso fare oggi, perché
oggi mi è concesso lo stesso spazio di un maiale all’ingrasso in una porcilaia.
E se proprio non dovesse esserci nessun indulto o amnistia, mi permetto con molta modestia di fare un’altra proposta, che dovrebbe
piacere a parecchi.
Ecco, vengo a spiegare il mio azzardo, un
modo per sfoltire il numero dei carcerati senza
nessuna concessione di sconti di pena, nessuna cancellazione di reati e senza aggiunta
di spese per costruire nuove carceri: un cambiamento radicale a costo zero, proprio come
piace sentire alla gente e senza provocare
tanto allarme sociale.
Beh! Ora non pensate che stia proponendo la
soppressione del 50% dei carcerati, oh nooo!
Potrei capitare io stesso nel gruppetto da
mandare a “miglior” vita… Calma, non sono
un tipo suicida, io ci tengo alla vita anche se
la mia è una vita dannata per l’eternità. La mia
proposta è molto seria ed è semplice e la propongo da tempo: togliere l’aggravante dell’art.
4bis insieme a tutte le altre leggi e leggine
emanate sull’onda dell’emotività e che hanno
seppellito la legge Gozzini, l’unica vera legge
civile varata dal nostro Parlamento. Ripristinando la Gozzini verrebbero risolti tutti i problemi che oggi sono sul tavolo della “giustizia”.
senza figli sta aumentando (e non di poco): secondo uno studio dell’Office for National Statistics (Ons), se le quarantenni inglesi e gallesi
senza figli erano una su nove nel 1985 e una su
cinque nel 2010, nel 2015 diventeranno una su
quattro. Quanto bisogna tornare indietro per
trovare dati comparabili? Alla Prima guerra
mondiale, quando la leva obbligatoria di massa
si intromise tra i potenziali padri e le potenziali
madri.
La Day chiede provocatoriamente dove sono i
numeri che indicano la crisi di paternità. In
fondo, commenta, l’indagine dell’Ons è perfettamente coerente con l’atteggiamento diffuso in
una società che concepisce questo tipo di con-
lettere ostative
Perché permetterebbe, a chi è nei termini, di
usufruire della semilibertà, dell’art. 21 (lavoro
esterno), della condizionale, dei permessi, tutti
benefici negati, o meglio possiamo dire “sospesi”, dal 1992. Forse non vi sembra che sia
passato abbastanza tempo? In questo modo
si ridurrebbe l’affollamento delle carceri e questo aiuterebbe l’Italia a rientrare fra i paesi civili e democratici. Sappiamo tutti che, ad
esempio, con la semilibertà, al detenuto viene
permesso di lavorare all’esterno, dove può essere controllato in qualsiasi momento da assistenti sociali e polizia, e alla sera rientra in carcere per passarvi la notte: quindi, non creerebbe nessun allarme sociale, perché la sua
uscita temporanea dal carcere non necessita
di alcun sconto di pena e nello stesso tempo
chi gode del beneficio può essere sotto stretta
sorveglianza. Stessa cosa con la concessione
dell’art. 21, il lavoro esterno; anzi, in questo
caso c’è ancora maggiore controllo per via del
tragitto fisso, l’unico percorso che è permesso
utilizzare per recarsi al lavoro e rientrare poi
in carcere. La liberazione condizionale, poi,
può essere concessa a fine pena (per chi ha
l’ergastolo dopo 26 anni di prigione) e gente
che ne può usufruire, vi garantisco, ce n’è davvero tanta dentro questa galera.
Tutto questo si potrebbe fare in poco tempo.
Se il Parlamento lo volesse, credo che in poco
tempo si potrebbero cambiare i connotati alle
carceri, certamente non ci sarebbe più l’affollamento che tanto fa vergognare l’Italia e non
sarebbe cosa da poco visto che in Italia
quando si deve fare qualcosa se ne discute
per anni e non si conclude mai niente. Inoltre,
questo darebbe un po’ di fiato per poter discutere quelle riforme, come ho detto prima, urgenti e necessarie, senza mettere “pezze” in
fretta e furia, come si è spesso fatto. Sappiamo bene che le cose fatte in fretta non servono a niente, anzi complicano ancora di più
la situazione.
Spero in un vostro intervento che vada nella
direzione di eliminare tante ingiustizie, ripristinando la vera giustizia, non solo per noi carcerati, una razza odiata da quasi tutti, ma anche per il resto di quel popolo oppresso da politiche sbagliate e truffaldine da parte di “rappresentanti” non eletti dal popolo ma imposti
dal “dominatore” di turno.
Chiudo con la speranza che venga presentato
un emendamento alle norme che vi state proponendo di varare, oppure un disegno di
legge che, abolendo l’art. 4 bis, ripristini la
legge Gozzini. Distinti saluti,
Mario Trudu, Carcere di Spoleto
dizione come “invalidante” esclusivamente
quando riguarda la donna. (guardian.com)
17 dicembre 2013. Tredicesima
Sull’“Espresso”, Gloria Riva parla dei 4 milioni
circa di lavoratori che quest’anno rischiano di
non vedere la tredicesima. Le piccole imprese,
esaurita la liquidità per pagare “acconti” che superano il 100%, stanno chiedendo prestiti alle
banche per pagare le tredicesime ai loro dipendenti, che per il 90% le useranno per pagare
tasse e debiti. Anche il Comune di Messina, in
attesa che la Ragioneria di Stato invii 35 milioni
di euro per pagare le spese correnti (altri 5,7 milioni dovrebbero arrivare dalla Regione Sicilia)
è andato in banca a chiedere un anticipo per pagare la tredicesima ai suoi 4.000 dipendenti.
17 dicembre 2013. La Cina e i maiali
La Smithfield Foods è la più grande industria di
produzione e lavorazione di carne di maiale al
mondo: ogni anno alleva 16 milioni di capi e ne
macella 27. Da settembre non è più americana:
è stata acquistata dalla Shuanghui International
Holdings con un’operazione da 4,7 miliardi di
dollari, un record nella storia dello shopping cinese negli Usa. Il 10 dicembre, nella rubrica del
“Guardian” Sustainable Business, Heather Duncan si chiede se c’è da star tranquilli. Già nel
1997, quando ancora la proprietà era americana,
il colosso dell’industria suina era stato riconosciuto colpevole in Virginia di 7.000 violazioni
della legge contro l’inquinamento delle acque;
se la cavò con una multa-record da 12,6 milioni
di dollari. In seguito, la Smithfield ha fatto
molto per allinearsi agli standard più alti in materia di tutela ambientale, ottenendo riconoscimenti e portando tutte le fattorie controllate a
certificazioni Iso 14001 (specifiche per la qua-
lità ambientale). Come ci è riuscita? Scegliendo
come “direttore della sostenibilità” Dennis
Treacy, il cui precedente incarico era alla direzione del Dipartimento per la Qualità ambientale della Virginia. Proprio l’ufficio che aveva
riscontrato le violazioni della Smithfield! In merito al passaggio di proprietà e ai timori in fatto
di salvaguardia degli standard igienico-sanitari,
Treacy ha commentato: “Sicuramente saranno
loro a dover imparare qualcosa da noi”. Prima
dell’acquisizione, la Shuanghui macellava 15
milioni di maiali l’anno e il suo boss, Wan Long
come andava
Il caso Pasternak (novembre 1958)
Granzotto. Avrete notato anche voi, da alcune
delle dichiarazioni che abbiamo ascoltato
poco fa, soprattutto da quelle di Italo Calvino,
che sono stati espressi dei dubbi sulla opportunità, sulla utilità dal punto di vista umano di
queste proteste che si indirizzano in favore di
Pasternak. E vorrei che noi discutessimo di
questo, Muscetta mi pare che tu...
Muscetta. Ora io penso che non si possa, non
si debba andare avanti in una lotta di burocrati
del comunismo e burocrati dell’anticomunismo. Che si scontrino in una guerra fredda.
Tutto questo è artificioso, tutto questo non è
sentito nell’atmosfera che viviamo oggi. Se noi
vogliamo veramente stabilire un dialogo critico, che è quello che si richiede su Pasternak,
perché quest’opera ha avuto degli elogi, ha
avuto delle stroncature, ma non ha avuto ancora, io credo, una critica adeguata che metta
in evidenza i grandi valori poetici e anche il
fallimento. È una splendida opera fallita, se io
dovessi dare un giudizio. Una splendida
opera fallita. Io direi agli amici sovietici, cari
amici sovietici, ma non privatevi di quest’opera, tenetela cara come tenete care nei
vostri musei le icone della vecchia, santa
Russia.
Granzotto. Chiaromonte, ho visto che facevi
segno di voler intervenire...
Chiaromonte. E certo, certo. Perché ho sentito
dire un po’ troppo spesso qui che in Occidente
si è fatta una speculazione politica su Pasternak e che in particolare si è fatto di Pasternak
un caso politico. Ora, questo è assurdo, questo è contrario ai fatti. Si nega l’evidenza
quando si dice questo, perché qui in tutta questa storia, la politica l’ha fatta soltanto il governo sovietico, e l’ha fatta contro la cultura.
Nello stesso momento, si può dire, in cui veniva condannato Pasternak, venivano anche
proibite in Ungheria tutte le opere del filosofo
marxista e comunista György Lukács. Con
questi due atti combinati, io credo che ufficialmente il governo sovietico si sia messo fuori
dalla cultura.
Milano. Io volevo dire questo. Perché non facciamo parlare Pasternak medesimo? Cito testualmente: “Uno scrittore non deve fare propaganda né deve fare il moralista. No, non è
questo lo scopo del mio romanzo, né di alcuna mia opera. Ma un poeta può far conoscere agli uomini la vita in tutta la sua ricchezza e in tutta la sua intensità, e con ciò egli
fa più che tutte le dichiarazioni di pace, che
tutti i decreti ufficiali. Egli aiuta gli uomini a vivere nel loro tempo”. Mi pare che questo
metta in luce...
Muscetta. Tu non credi che Pasternak si sia
contraddetto, riempiendo il suo libro di decine
e decine di pagine in cui lui fa una grande propaganda di quelle che sono le sue rispettabili
-io non le condivido- concezioni del mondo...
Milano. Ma non ti pare che...
Muscetta. In forma retorica, in forma persino
noiosa...
Chiaromonte. Veramente di propaganda non
si può parlare, è veramente un’offesa.
Milano. Non ti pare che ti potrei dare un argomento...
Muscetta. Io non ho parlato di propaganda...
Chiaromonte. Parlare di Pasternak e dire che
fa propaganda è un’offesa.
Muscetta. Ma io non ho parlato di propaganda, tu mi vuoi attribuire un’offesa che io
non gli ho fatta...
Granzotto. Scusate, mi pare che la parola propaganda sia stata in partenza nelle dichiarazioni di Pasternak che ha letto Milano,
Chiaromonte. Negandola, negandola.
Granzotto. Muscetta ha detto una cosa un po’
diversa, sulla quale Chiaromonte è intervenuto dicendo che noi non dobbiamo offendere
Pasternak. Credo che tutti noi siamo d’accordo che Pasternak non ha fatto propaganda. Muscetta, vuoi spiegarti?
Muscetta. Scusa, il problema è che le buone
intenzioni degli scrittori, come di tutti gli uomini, non contano. C’è un processo di contraddizione fra il programma di uno scrittore e
quello che realizza, e bisogna discutere su
quello che ha realizzato, non sulle sue intenzioni.
Chiaromonte. E va bene pure, uno scrittore
obbedisce scrivendo a tutte le sue passioni!
Ha perfettamente ragione di obbedirci.
Granzotto. In questo poco tempo che ci rimane, c’è un punto di partenza che ha dato
origine al caso, e sono le accuse precise che
l’Unione degli scrittori sovietici ha mosso a Pasternak, che sono accuse in senso critico, letterario e in senso politico. Vogliamo esaminarle, brevissimamente?
Milano. È stato detto che il romanzo era artisticamente nullo, che il romanzo era volgare.
Queste mi pare siano accuse che si confutano
da sé. È stato detto che il romanzo è pieno di
odio per il suo paese. Mi pare che il lettore imparziale veda in questo romanzo una delle caratteristiche della tradizione letteraria russa,
un amore per il proprio paese addirittura mitico, addirittura appassionato... e questo mi
pare un esempio...
Muscetta. Per le foreste, soprattutto, molte foreste, foreste e cieli...
Milano. Vorrei semplicemente dire che l’amore
per il futuro del paese che ha Pasternak è an-
che rappresentato da queste parole. Ancora
una citazione, non del romanzo ma di sue parole recentissime: “La Russia, dopo la guerra,
è entrata in un periodo di raccoglimento. Qualche cosa di nuovo sta prendendo forma, un
nuovo modo di vedere la vita. Sì, le singole
misure ufficiali non hanno importanza, ciò che
di nuovo sta per svilupparsi cresce lo stesso,
cresce nonostante gli interventi delle autorità,
cresce organicamente nel seno stesso del nostro popolo”. Io mi chiedo se questo è un
uomo che non è nel presente e nel futuro del
suo paese.
Granzotto. La cosa veramente preoccupante,
che mi pare bisogna rilevare, e sulla quale
non ci sono dubbi, è sulla gravità che il caso
Pasternak sia accaduto, sulla gravità che questo caso riveste da qualunque angolo lo si
vede, da qualunque parte della barricata ci si
metta. Perché come fatto di cultura, direi è più
grave ancora di una nota diplomatica aggressiva, o di una crisi strettamente politica, perché la diplomazia può rapidamente mutare i
propri indirizzi e i propri interessi, ma quando
non ci si intende, quando si è così divisi sui
cardini essenziali della vita di società, della libertà della cultura, di certi valori fondamentali,
del rispetto della dignità umana, eh, ci si accorge che le cortine di ferro esistono veramente e che rischiano di diventare invalicabili.
Muscetta. Scusa se ti interrompo, ti vorrei domandare: ma credi che valga proprio la pena
di fare una crociata per liberare il santo sepolcro del dottor Zivago?
Chiaromonte. Ma che cosa c’entra la crociata!
Di crociate ne avete fatte parecchie voialtri
quando eravate nel Partito comunista!
Granzotto. Vi chiedo scusa, perché il nostro
tempo sta esattamente per scadere. Credo
che con questa accorata osservazione, e con
la speranza che non sia più il caso di doverle
ripetere, di dover fare dei dibattiti su questi argomenti, noi chiudiamo la nostra trasmissione
dopo avervi ringraziato e dopo aver dato a tutti
i nostri telespettatori la più cordiale buona
sera.
Trascrizione del dialogo, moderato da Gianni
Granzotto, fra Paolo Milano, Carlo Muscetta,
Nicola Chiaromonte, avvenuto nel corso di un
programma Rai trasmesso il 2 novembre del
1958 sul “caso Pasternak” (l’attribuzione del
premio Nobel allo scrittore russo, poi rifiutato
per pressioni del governo sovietico). Il servizio
comprendeva anche interviste a Italo Calvino,
Vasco Pratolini, Angelo Maria Ripellino, Ignazio Silone e Giangiacomo Feltrinelli, l’editore
in Occidente del “Dottor Zivago”. Il video è
consultabile su youtube.
una città
41
un appunto da Parigi
In Francia alle mail si risponde. E in Italia no.
Ti rispondono alle mail i professori delle università, ti rispondono i giornali, ti rispondono
agli annunci di lavoro. Anche solo per dire no.
Penso che se iniziassimo, sistematicamente,
a rispondere alle mail, il nostro paese andrebbe meglio. Non so dove, ma andrebbe
meglio. Un esempio: all’ultima dichiarazione
dei redditi che ho fatto ho pagato troppo.
Avendo la tessera da giornalista avevo diritto
a uno sgravio. Non lo sapevo, quindi l’errore
era mio. Ho scritto qualche mail (non fax, non
raccomandate), rompendo un minimo le scatole ed è bastato che inviassi i miei documenti
scannerizzati per avere il rimborso nel giro di
un mese. Con un assegno via posta. In Italia
per avere i rimborsi passano due anni. E se
nel frattempo hai cambiato lavoro, il sistema si
inceppa perché non sanno dove farti l’accredito (te lo farebbero in busta paga, ma ora che
le persone non hanno il posto fisso…) per cui
rischi di perderli.
In Francia ho avuto a che fare con l’Università,
con il Pôle emploi (che si occupa dell’assistenza e della ricerca di lavoro), con la Sanità
e con le l’Ufficio delle Entrate. Ho sempre
avuto risposte in giornata o nel giro di pochi
giorni. E ho sempre risolto i miei problemi.
La Francia ha tanta, tantissima burocrazia. Fogli su fogli, giri negli uffici pubblici… Telefonate,
richieste, chiarimenti, errori e soluzioni. Ma
non dico “troppa” perché una volta che entri
-soprannominato “Macellaio n°1 di Cina”- è
membro dell’Assemblea Nazionale del popolo
cinese. Ma soprattutto, è l’azienda che nel 2011
è finita sulle prime pagine di tutto il mondo per
esser stata riconosciuta responsabile di aver inserito additivi cancerogeni nel mangime dei
suini. Nessuna multa milionaria per loro: solo
pubbliche scuse. A detta di Treacy, non ci saranno problemi. I cinesi (che nel 2012 hanno
consumato 50 milioni di tonnellate di maiale, la
metà della produzione mondiale) non vogliono
trasferire la produzione dagli Usa, né modificare
alcuna politica aziendale, ma importare in Cina
carne americana di alta qualità: altro punto che
ha fatto storcere il naso agli scettici. Larry Baldwin, dell’organizzazione ambientalista Waterkeeper Alliance, ha commentato: “Esporteremo
più prodotto, ma sapete cosa ci lasceranno del
maiale? Gli escrementi”. Il che potrebbe rimettere la Smithfield sotto i riflettori di chi non si è
convinto della “svolta verde” degli ultimi anni.
17 dicembre 2013. Ancora maiali
Sulla rivista online Usa “Slate”, il 4 dicembre
Joshua Keating parla dell’ultimo viaggio di David Cameron in Cina: il premier inglese si è accordato per vendere seme suino “britannico” per
un valore di 53 milioni di euro l’anno. Pare che
i maiali britannici siano tra i migliori al mondo:
crescono più in fretta, mangiano meno e, cosa
fondamentale, si riproducono molto più velocemente dei loro simili cinesi. Cameron porta così
a casa un accordo soddisfacente per gli allevatori britannici, cui prima dell’accordo era vietato
esportare il prezioso seme suino in Cina. Pechino, dal canto suo, consolida la sua posizione
di dominio del mercato suino mondiale.
42
una città
nel sistema, che ti hanno “schedato” e che tutti
i tuoi dati sono chiari, beh, funziona. Sei tutelato.
Gli amici che in Italia, ad esempio, hanno
avuto a che fare con l’Inps, mi raccontano di
documenti richiesti, spesso inutili, che vengono persi. Di soldi che non arrivano, di ritardi,
di informazioni perse.
Altro esempio: i rimborsi delle spese mediche,
quindi i farmaci o le visite. Come funziona in
Italia? Ti devi tenere gli scontrini delle farmacie. E questo nonostante presenti il codice fiscale quando le compri (è un dato che permetterebbe a due ministeri di interfacciarsi ed evitare burocrazia, appunto). In Francia la tessera
sanitaria -che qui si chiama Carte Vitale- ha un
chip. Questa tessera la presenti in farmacia,
se hai un medicinale prescritto, oppure dal medico, dopo una visita. O anche se devi fare gli
esami del sangue.
Paghi dopo la prestazione e ogni dottore, ambulatorio o farmacia è dotato di un terminale
nel quale inserire la Carte Vitale. Nel giro di 20
giorni il rimborso relativo alla prestazione ti
viene accreditato sul conto corrente.
Basterebbe copiare. Si evaderebbero meno le
tasse, si avrebbero meno problemi. E potremmo tutti, con grande sollievo, smettere di
tenere gli scontrini.
Francesca Barca
17 dicembre 2013. I Forconi
Ora si misura la cecità dei politici a non tagliarsi
drasticamente lo stipendio. Come potranno
mandare la polizia contro gli esasperati? (tw)
17 dicembre 2013. Laurearsi
Venerdì si è laureato in filosofia Ciro Ferrara,
relatore il professor Giovanni Catapano, presidente di commissione il professor Antonio Da
Re. L’argomento della tesi: il “tempo”, tra
Sant’Agostino e Aristotele. Non essendo per lui
possibile uscire, per la discussione di laurea è
entrata la commissione, così come era accaduto
per gli esami. Erano presenti il direttore, il personale dell’area educativa e la polizia penitenziaria, oltre a volontari, insegnanti, sacerdoti e
operatori. La cerimonia e discussione di laurea
si sono svolte nella biblioteca “Tommaso Campanella” della Casa di reclusione di Padova.
Ciro è un “fine pena mai”, oggi ha 53 anni, di
cui oltre la metà passati in carcere.
(Ristretti Orizzonti)
17 dicembre 2013. Brutto tempo a Gaza
Su “Haaretz” del 15 dicembre, Amira Haas ha
raccontato gli effetti inattesi della tempesta che
tra il 10 e il 14 dicembre ha colpito il Medio
Oriente, provocando bufere di neve, piogge torrenziali e grandinate. Il nord della Striscia di
Gaza è stato dichiarato dall’Onu “zona alluvionata”: fino a due metri d’acqua per le strade e
più di 4.000 persone costrette a evacuare le proprie case. Per i già provati abitanti della Striscia,
l’alluvione ha avuto un effetto imprevisto:
Israele, che impone a Gaza sedici ore di blackout al giorno, ha deciso di ridurre l’interruzione di energia elettrica a otto ore.
(haaretz.com)
18 dicembre 2013. Più poveri dei genitori
Sul “Guardian” del 17 dicembre Larry Elliott illustra un’inquietante raccolta di statistiche elaborate dall’Institute for Fiscal Studies (Ifs) che
riguarda gli inglesi nati negli anni Sessanta e
Settanta. Rispetto ai nati del decennio precedente, il loro stipendio medio è rimasto uguale,
è diminuita la quota dei possessori di casa e le
loro pensioni saranno inferiori a quelle percepite
dai nati negli anni Quaranta e Cinquanta.
È la prima volta dalla Seconda guerra mondiale
che una generazione sta peggio della precedente. Se gli effetti nel tessuto sociale non sono
ancora più disastrosi è solo grazie alle ricchezze
familiari e alle eredità. La nota curiosa è che nel
2000 gli stipendi dei nati degli anni Settanta
erano significativamente più alti rispetto a quelli
dei loro genitori, ma quella ricchezza extra non
è stata risparmiata: è andata spesa.
18 dicembre 2013. La Spagna in vendita
C’è stato un tempo, ricorda Sandrine Morel,
corrispondente di “Le Monde” da Madrid, in cui
la città di Barcellona progettava di trasformare
la Casa Burès in un museo del modernismo.
Oggi quell’edificio è in vendita. Costruito tra il
1900 e il 1905 da Francesc Berenguer i Mestres,
amico di Antoni Gaudí, l’opera pare destinata a
diventare un Hotel. Acquistata nel 2007 per 26
milioni di euro dalla città, rivenduta al governo
catalano l’anno dopo, è stata rimessa in vendita
nel 2011. Nonostante il prezzo sia sceso a 20
milioni, all’ultima fiera immobiliare a Monaco
è rimasta invenduta. La Spagna, fatti “i compiti
a casa” per riequilibrare la situazione economica, deve ridurre debito e deficit. La soluzione
è vendere tutti i gioielli di famiglia: edifici storici, banche nazionalizzate, aeroporti, parchi nazionali, ospedali, immobili residenziali, grattacieli. “Tutto ciò che si può vendere verrà venduto”, ha spiegato il direttore generale del patrimonio di Catalogna. Il piano è di dar via un
quarto del patrimonio dello Stato. Anche la carta
di soggiorno è diventata merce di scambio: da
qualche tempo gli stranieri che acquistano un
immobile da 500.000 euro a due milioni, ricevono un permesso di soggiorno provvisorio, che
diventa definitivo dopo cinque anni di residenza. (lemonde.fr)
19 dicembre 2013. Per l’Italia?
Letta ha radunato gli ambasciatori: e chiedergli
di adeguare lo stipendio alla media dei colleghi
europei? Così, tanto per far qualcosa per l’Italia
che rappresentano. (tw)
20 dicembre 2013. Dall’altra parte
“Non voglio sapere cosa Dio ha in serbo per me;
spero solo che ciò avvenga dall’altra parte”. Redouane, 26 anni, è un giovane algerino. E
“dall’altra parte” c’è il Sud Europa che continua
a far sognare milioni di giovani del Maghreb e
dell’Africa sub-sahariana. “La giovinezza è una
materia prima che certo non manca all’Algeria”,
commenta Rachid Laireche, inviato speciale ad
Algeri per “Libération”: 38 milioni di abitanti
hanno meno di 19 anni. Solo che la maggior
parte di questi giovani, come Redouane, non ha
mai lavorato ed è costretto a vivere coi genitori
e i fratelli e le sorelle, senza alcuna prospettiva.
Così l’unica chance è il visto. “Dall’altra parte”
però non è proprio come questi giovani immaginano. E per qualcuno il sogno diventa quello
di tornare. Abdelaziz, 29 anni, cresciuto a Montréal, preso il diploma, nel 2009 ha fatto le valigie ed è tornato in Algeria, perché è un paese
ricco e “senza debiti” (una rarità in Occidente)
e quindi se c’è qualche chance di diventare ricchi è più facile che succeda qui. Nonostante alcuni incentivi, la strada per Abdelaziz si sta presentando in salita. Anche il rapporto con i familiari non è così facile: non capiscono. Lui invece
resta della sua idea: l’Algeria è un paese in
pieno sviluppo e pieno di possibilità. A pensarla
così è anche Madjid, 32 anni: è ad Algeri per
sondare, ma vive ancora in Francia, guida l’autobus a Parigi e sogna di investire i suoi pochi
risparmi “dall’altra parte”, in Algeria. Il suo
progetto è di aprire un’agenzia immobiliare. Il
cugino Sofiane (28 anni), lo prende in giro:
piuttosto di fare il povero in Francia, preferisci
fare il padrone qui. Sofiane invece non sogna
altro che di partire. Madjid lo provoca: “Qui
non sapete fare altro che lamentarvi”. Sofiane
sorride e risponde: “Anche voi in Francia non
fate che compatirvi… ma cosa credete? Vieni a
star qui, facciamo cambio e vedrai la differenza”. (liberation.fr)
21 dicembre 2013. Grattando briciole
Ma non lo vediamo che non ce la fanno? Che
stan lì a grattar briciole per spostarle di qua e di
là? Poi arriverà l’ennesimo salvatore... (tw)
21 dicembre 2013. Eyad El Sarraj
È morto Eyad El Sarraj, psichiatra palestinese,
era nato a Beer Sheva nel 1944. Nel 1948, lui e
la sua famiglia erano stati costretti ad andarsene
e si erano trasferiti a Gaza. Aveva studiato in
Egitto e si era laureato a Londra. Da sempre impegnato per la tutela dei diritti umani, è stato il
fondatore e presidente del Gaza Community
Mental Health Programme. Nel 1996 è stato incarcerato per aver denunciato e condannato la
tortura e le violazioni ai diritti umani commessi
dall’Autorità Palestinese. Il suo impegno primario era teso alla riabilitazione della popolazione
palestinese, con particolare attenzione ai bambini e agli adolescenti traumatizzati, e ai loro
modelli educativi. L’avevamo intervistato nel
2003, quando ci aveva raccontato, tra l’altro,
che il 55% dei bambini palestinesi aveva assistito al pestaggio del padre e che il 24% sognava di diventare un martire. E poi ancora nel
2009 all’indomani del ritiro dell’esercito israeliano da Gaza.
23 dicembre 2013
Bravo Renzi. Ottima l'idea del servizio civile
obbligatorio. Era una fissa di Vittorio Foa, inascoltato. (tw)
neodemos.it
LA SVOLTA DELLA CINA:
I FIGLI UNICI AVRANNO
UNA SORELLA, O UN FRATELLO!
di Steve S. Morgan
Il Plenum del comitato centrale del partito comunista cinese ha finalmente decretato il tramonto della politica del figlio unico (Pfu). Ne
ha dato notizia l’agenzia ufficiale Xinhua lo
scorso 15 novembre. Con cautela e gradualità,
ma la fine della politica inaugurata da Deng
Xiaoping nel 1979, imposta con pugno di ferro,
e mantenuta con poche varianti per più di un
terzo di secolo, è oramai certa. Potremmo dire
che si tratta di una morte “naturale”: nata con
un preciso scopo -il rallentamento della vertiginosa crescita demografica- la Pfu si estingue
poiché i suoi obbiettivi sono stati praticamente
raggiunti.
La politica del figlio unico e la sua riforma
La Pfu -ancora formalmente in piedi- si basa
sulla sottoscrizione, da parte delle coppie, di un
“certificato di figlio unico” che concede vantaggi
monetari e sociali ai sottoscrittori e penalità severe ai trasgressori. Nelle aree urbane le eccezioni sono possibili solo per una ristretta casistica, tra cui le coppie formate da partner ambedue figli unici. Dopo oltre trent’anni di vigenza
della Pfu, sono oramai una maggioranza i nuovi
matrimoni nei quali i contraenti sono ambedue
figli unici e quindi esenti dall’obbligo di fermarsi
al primo figlio. Nelle aree rurali, invece, la politica finora in atto permette alle coppie con una
figlia femmina di avere un secondo figlio. Infine,
nelle aree popolate da minoranze, le restrizioni
sono ancora minori. Nell’insieme, la rigida applicazione di queste norme implicherebbe un
numero medio di figli per donna pari a 1,5, poco
meno della media effettivamente registrata dalle
statistiche ufficiali. La nuova politica prevede
che tutte le coppie nelle quali un partner (e non
ambedue) è figlio unico possano avere un secondo figlio; le nuove regole entreranno in vigore man mano che ciascuna delle 33 Province recepirà le direttive emanate dal centro.
Gli effetti della svolta
Sugli effetti “numerici” della nuova normativa,
gli analisti hanno pareri abbastanza concordi:
si creerà un transitorio aumento delle nascite,
dato che un certo numero di coppie si trova
nella condizione prevista per beneficiarne
(coppie con un solo figlio, madre o padre figlio
unico, e in età di avere figli). Un’indagine della
National Health and Family Planning Commission valuta in 15-20 milioni il numero di queste
coppie, delle quali una metà interessate ad
avere un secondo figlio nei prossimi anni.
Wang Feng, un noto demografo che insegna
in Cina e negli Usa, valuta in 1-2 milioni l’anno,
nel prossimo triennio, le nascite addizionali,
con un incremento dell’ordine del 6-12% rispetto ai 16 milioni di nascite attuali; l’effetto
svanirebbe negli anni successivi. Non cambierà dunque la rotta della demografia cinese:
la bassa fecondità è oramai interiorizzata dalle
coppie e i processi di veloce invecchiamento
e il rallentamento, l’arresto e poi la flessione
della popolazione (il punto di svolta si situerebbe attorno al 2030), seguiranno il loro
corso.
Oltre la demografia, la politica
La motivazione della svolta non è stata dettata
da considerazioni demografiche, ma è di natura del tutto politica. La Pfu fu imposta su una
popolazione riluttante ad accettare un’intrusione così violenta nelle decisioni private: oltre
al generale scontento, le proteste e anche le
ribellioni sono state molto frequenti e solo episodicamente ne è trapelata notizia fuori del
paese. Il vertiginoso sviluppo economico ha
poi reso sempre più clamorosa la contraddizione tra la liberalizzazione dei comportamenti
individuali nei consumi e negli stili di vita e la
rigida regolazione dei comportamenti riproduttivi. Già da tempo, voci autorevoli di studiosi e
di organizzazioni scientifiche cinesi invocavano la fine della Pfu. Le nuove regole fanno
presagire che non sia lontano il momento nel
quale la Pfu verrà definitivamente e ufficialmente abbandonata. Essa ha oramai fatto il
suo tempo e ottenuto i suoi scopi: non fosse
intervenuta, oggi la popolazione cinese sarebbe di varie centinaia di milioni più elevata
dei 1.385 oggi (2013) raggiunti. La Pfu ha consentito di raggiungere l’autosufficienza alimentare, ha creato una “finestra” di opportunità
lunga qualche decennio che ha sostenuto lo
sviluppo, poiché una rigogliosa popolazione in
età attiva ha coinciso con una contenuta popolazione bisognosa di trasferimenti: bambini
e giovani via via meno numerosi e anziani ancora non in forte crescita.
La Pfu ha però una faccia oscura e minacciosa, e per vari motivi. Ha imposto forti penalità a coloro che trasgredivano la regola del figlio unico; ha causato un’abortività selettiva
per genere, che ha portato il rapporto tra nati
maschi e nate femmine a un insostenibile livello (fino a 1,2 nella media nazionale); sta determinando una distorsione del mercato matrimoniale per l’eccesso di giovani uomini rispetto alle giovani donne, con effetti ancora
tutti da verificare ma sicuramente negativi. Ha
attirato le critiche dei difensori dei diritti umani
di tutto il mondo per i suoi aspetti coercitivi.
Gli oppositori e gli scontenti della svolta
Ci sono, naturalmente, anche gli oppositori
della svolta. Anzitutto i conservatori, affezionati
a un regime assestato da decenni e al potere
di controllo sulle vite dei cittadini che la Pfu
esercitava. Poi gruppi organizzati, in primo
luogo la potente Commissione per la Pianificazione Familiare, un ente “indipendente” (solo
da quest’anno integrata nel Ministero della Sanità) con mezzo milione di dipendenti, attivisti
in tutto il paese, percettore delle multe inflitte
ai trasgressori della Pfu (2,7 milioni di dollari
nel 2012) e con notevole influenza politica. E,
infine, scontenti e feriti sono tutti coloro che
avendo “trasgredito” il patto del figlio unico
hanno pagato forti multe e subìto penalità: il
loro secondo figlio è stato cresciuto nelle ristrettezze per le imposizioni di una politica
adesso svanita. Come dare loro torto?
Per saperne di più
Gustavo De Santis e Massimo Livi Bacci, I tre
giganti. Cina, India e Stati Uniti, www.neodemos.it, 2013.
una città
43
NOVE MASSIME
da un intervento di Luigi Ferrajoli
Il mio contributo a questo congresso, come antico esponente di Magistratura democratica,
sarà l’indicazione di nove massime deontologiche, soprattutto in materia di giustizia penale,
suggeritemi proprio da quella pratica e da quella
concezione e che vanno ben al di là delle ovvie
regole stipulate nel codice deontologico elaborato dall’Associazione nazionale magistrati.
Prima. La consapevolezza del carattere “terribile” e “odioso” del potere giudiziario. La prima
regola di deontologia giudiziaria democratica è
forse la più sgradevole. Consiste nella consapevolezza, che sempre dovrebbe assistere qualunque giudice o pubblico ministero, che il potere giudiziario è un «potere terribile», come lo
chiamò Montesquieu (De l’esprit des lois, 1748).
Non dunque un potere buono o giusto, ma un
potere «odioso», come scrisse Condorcet
(Idées sur le despotisme, 1789); odioso perché,
diversamente da qualunque altro pubblico potere -legislativo, politico o amministrativo- è un
potere dell’uomo sull’uomo, che decide della libertà ed è perciò in grado di rovinare la vita
delle persone sulle quali è esercitato. Dunque,
un potere terribile e odioso -soprattutto quello
penale- che solo le garanzie possono limitare,
ma non annullare, e che è perciò tanto più legittimo quanto più è limitato dalle garanzie.
Seconda. La consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale e perciò
di un margine irriducibile di illegittimità dell’esercizio della giurisdizione. La seconda regola
muove anch’essa da una consapevolezza che
dovrebbe sempre assistere l’esercizio della giurisdizione: quella di un margine irriducibile di illegittimità del potere giudiziario, il quale può essere ridotto, ma non eliminato, dal rigoroso rispetto delle garanzie, prima tra tutte, come prosegue il passo sopra citato di Condorcet, la
«stretta soggezione del giudice alla legge». Se
è vero infatti che la legittimazione della giurisdizione si fonda sulla verità processuale accertata
mediante l’applicazione della legge e che la verità processuale è sempre una verità relativa e
approssimativa, opinabile in diritto e probabilistica in fatto, allora anche la legittimazione del
potere giudiziario -come del resto la legittimazione di qualunque altro potere pubblico, a cominciare dalla rappresentatività dei poteri politici- è sempre, a sua volta, relativa e approssimativa. […]
Terza. Il valore del dubbio e la consapevolezza
della permanente possibilità dell’errore in fatto
e in diritto. La terza regola della deontologia giudiziaria riguarda l’accertamento della verità fattuale e consiste nel costume e nella pratica del
dubbio conseguente a una terza consapevolezza: che la verità processuale fattuale non è
mai una verità assoluta o oggettiva, ma è sempre, come dicevo, una verità probabilistica e che
è sempre possibile l’errore. Intendo dire che le
sole verità assolute sono quelle tautologiche
della logica e della matematica, mentre in materia empirica -nelle scienze naturali, nella storiografia e quindi anche in qualunque indagine
o accertamento processuale- la verità assoluta
è irraggiungibile e per questo si richiede, quale
debole surrogato di un’impossibile certezza oggettiva, quanto meno la certezza soggettiva,
cioè il libero convincimento del giudice; che la
verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni,
ma solo di conferme e di induzioni e che quindi,
nonostante le prove e il convincimento, qualun-
44
una città
que sentenza può essere sbagliata perché le
cose potrebbero essersi svolte diversamente da
quanto da essa ritenuto. È su questo tratto epistemologico del giudizio che si basa questa
terza regola della deontologia giudiziaria: il valore del dubbio, il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, la prudenza del giudizio -da cui il bel
nome “giuris-prudenza”- come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria e in generale
delle discipline giuridiche, la consapevolezza, in
breve, che sempre è possibile l’errore, sia di
fatto che di diritto. Per questo è inammissibile
che un magistrato del pubblico ministero scriva
un libro intitolato Io so a proposito di un processo in corso da lui stesso istruito.
Quarta. La disponibilità all’ascolto delle opposte
ragioni e l’indifferente ricerca del vero. Di qui
una quarta regola deontologica: la disponibilità
dei giudici, ma anche dei pubblici ministeri, all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni e
l’esposizione alla confutazione e alla falsificazione, giuridica oltre che fattuale, delle ipotesi
accusatorie. È il classico principio popperiano
della falsificabilità quale banco di prova della
consistenza e della plausibilità di qualunque tesi
empirica. È in questa disponibilità sia del giudizio che della pubblica accusa a esporsi e a sottoporsi alla confutazione da parte di chi dell’accusa deve sopportare le penose conseguenze,
che risiede il valore etico, oltre che epistemologico, del pubblico contraddittorio nella formazione della prova. Quella disponibilità esprime
un atteggiamento di onestà intellettuale e di responsabilità morale, basato sulla consapevolezza epistemologica della natura non più che
probabilistica della verità fattuale. Essa esprime
lo spirito stesso del processo accusatorio, in opposizione all’approccio inquisitorio, il cui tratto
inconfondibile e fallace è invece la resistenza
del pregiudizio accusatorio a qualunque smentita o controprova, cioè la petizione di principio,
in forza della quale l’ipotesi accusatoria, che dovrebbe essere suffragata da prove e non smentita da controprove, è apoditticamente assunta
come vera e funziona da criterio di orientamento delle indagini, cioè da filtro selettivo delle
prove -credibili se la confermano, non credibili
se la contraddicono- e risultando perciò infalsificabile. Dipende principalmente da questa disponibilità all’ascolto di tutte le opposte ragioni
l’imparzialità e la terzietà del giudizio, e anche
delle indagini istruttorie. Il giudizio, come scrissero Cesare Beccaria e ancor prima Ludovico
Muratori, deve consistere «nell’indifferente ricerca del vero». È su questa indifferenza, che
è propria di ogni attività cognitiva e comporta la
costante disponibilità a rinunciare alle proprie
ipotesi di fronte alle loro smentite, che si fonda
il processo che Beccaria chiamò «informativo»,
in opposizione a quello che chiamò invece «processo offensivo», nel quale, egli scrisse: «il giudice diviene nemico del reo» e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto,
e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce,
e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose» (Dei delitti e delle pene,
1766). È chiaro che questa quarta regola deontica esclude in primo luogo l’idea dell’imputato
come nemico e, più in generale, ogni spirito partigiano o settario. Ma essa esclude anche l’idea,
frequente nei pubblici ministeri, che il processo
sia un’arena nella quale si vince o si perde.[...]
Quinta. La comprensione e la valutazione equitativa della singolarità di ciascun caso. La quinta
regola della deontologia giudiziaria è quella
dell’equità, che è una dimensione conoscitiva
del giudizio, di solito ignorata […]. Questa dimensione riguarda la comprensione e la valutazione delle circostanze singolari e irripetibili
che fanno di ciascun fatto, di ciascun caso, di
ciascuna vicenda sottoposta a giudizio un fatto
e un caso irriducibilmente diversi da qualunque
altro, pur se sussumibile nella medesima fattispecie legale. Giacché ogni fatto è diverso da
qualunque altro, e il giudice, ma ancor prima il
pubblico ministero, non può sottrarsi alla comprensione equitativa dei suoi specifici e irripetibili connotati. Ed è chiaro che la comprensione
del contesto, delle concrete circostanze, delle
ragioni singolari del fatto comporta sempre un
atteggiamento di indulgenza, soprattutto a favore dei soggetti più deboli. E questa indulgenza equitativa non può non intervenire nella
decisione della misura della pena detentiva, che
non può ignorare, come ha ricordato Luigi Marini, il carattere disumano, riconosciuto dalla recente sentenza della Corte europea dei diritti
umani, delle condizioni di vita dei detenuti, in
contrasto con il principio costituzionale che «le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità»; una consapevolezza
che dovrebbe sempre suggerire l’applicazione
della pena detentiva solo quando è inevitabile
e nella misura del minimo previsto dalla legge.
Sesta. Il rispetto di tutte le parti in causa. La sesta regola deontologica è il rispetto per le parti
in causa, incluso l’imputato, chiunque esso sia,
soggetto debole o forte, incluso il mafioso o il
terrorista o il politico corrotto. Il diritto penale nel
suo modello garantista equivale alla legge del
più debole. E non dimentichiamo che se nel momento del reato il soggetto debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue
garanzie sono altrettante leggi del più debole.
Questa regola del rispetto delle parti in causa,
e in particolare dell’imputato, è un corollario del
principio di uguaglianza, dato che equivale al
postulato della “pari dignità sociale” di tutte le
persone, inclusi quindi i rei, enunciato dalla nostra Costituzione. Ma essa è anche un corollario
del principio di legalità, in forza del quale si è
puniti per quel che si è fatto e non per quel che
si è, si giudica il fatto e non la persona, il reato
e non il suo autore, la cui identità e interiorità
sono sottratte al giudizio penale. Aggiungo che
nel processo penale questo rispetto per l’imputato vale a fondare quell’asimmetria che sempre
deve sussistere tra la civiltà del diritto e l’inciviltà
del delitto, che è la principale forza della prima
quale fattore di delegittimazione e di isolamento
della seconda.
Settima. La capacità di suscitare la fiducia delle
parti, anche degli imputati. La settima regola deontologica riguarda il rapporto con l’opinione
pubblica e con le parti in causa. Il magistrato, lo
si è detto più volte, non deve cercare il consenso della pubblica opinione: un giudice deve
anzi essere capace, sulla base della corretta cognizione degli atti del processo, di assolvere
quando tutti chiedono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione. Le
sole persone di cui i magistrati devono riuscire
ad avere non già il consenso, ma la fiducia,
sono le parti in causa e principalmente gli imputati: fiducia nella loro imparzialità, nella loro onestà intellettuale, nel loro rigore morale, nella loro
competenza tecnica e nella loro capacità di giudizio. Ciò che infatti delegittima la giurisdizione
è non tanto il dissenso e la critica, che non solo
sono legittimi ma operano come fattori di responsabilizzazione, bensì la sfiducia nei giudici
e ancor peggio la paura generate dalle viola-
zioni delle garanzie stabilite dalla legge proprio
da parte di chi la legge è chiamato ad applicare
e che dalla soggezione alla legge ricava la sua
legittimità. [...]
Ottava. Il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare. L’ottava è una regola di sobrietà e riservatezza. Ciò
che i magistrati devono evitare con ogni cura,
nell’odierna società dello spettacolo, è qualunque forma di protagonismo giudiziario e di esibizionismo. Si capisce la tentazione, per quanti
sono titolari di un così terribile potere, della notorietà, dell’applauso e dell’autocelebrazione
come potere buono. Ma questa tentazione vanagloriosa deve essere fermamente respinta.
La figura del “giudice star” è la negazione del
modello garantista della giurisdizione. Soprattutto è inammissibile -e dovrebbe essere causa
di astensione e ricusazione- che i magistrati
parlino in pubblico, e meno che mai in televisione, dei processi loro affidati. Invece abbiamo
assistito in questi mesi a trasmissioni televisive
desolanti, nelle quali dei pubblici ministeri parlavano dei processi da loro stessi istruiti, sostenevano le loro accuse, lamentavano gli ostacoli
o il mancato sostegno politico alle loro indagini,
addirittura discutevano e polemizzavano con un
loro imputato e, peggio ancora, formulavano pesanti insinuazioni senza contraddittorio. Qui
siamo di fronte non solo alla lesione di quel costume del dubbio e del rispetto per le parti in
causa di cui ho prima parlato, ma anche a una
strumentalizzazione del proprio ruolo istituzionale, talora con accenti di pura demagogia.
Sappiamo bene, per averlo sperimentato in
questi anni, quanto il populismo politico sia una
minaccia per la democrazia rappresentativa.
Ma ancor più minacciosa è la miscela di populismo politico e di populismo giudiziario. Quanto
meno il populismo politico punta al rafforzamento, sia pure demagogico, del consenso,
cioè della fonte di legittimazione che è propria
dei poteri politici. Ben più grave è il populismo
giudiziario, che diventa intollerabile allorquando
serve da trampolino per carriere politiche.
Nona. Il rifiuto anche solo del sospetto di una
strumentalizzazione politica della giurisdizione.
Vengo così alla nona e ultima regola deontologica. Essa consiste non solo, come è ovvio, nel
non piegare il giudizio penale a fini politici, ma
anche nel non dar luogo neppure al più lontano
sospetto di una strumentalizzazione politica
della giurisdizione. Oggi l’immagine della magistratura presso il grande pubblico rischia di
identificarsi con quella di tre pubblici ministeri
divenuti noti per le loro inchieste, i quali hanno
dato vita a una lista elettorale capeggiata da
uno di loro, promossa da un altro con il contributo del partito personale del terzo. È un’immagine deleteria, che compromette la credibilità
della magistratura, oltre che delle stesse inchieste che hanno reso noti quei magistrati. Ebbene, quell’immagine pone all’ordine del giorno
la questione della partecipazione dei magistrati
alle competizioni elettorali. [...] trovo convincenti, in proposito, almeno le indicazioni suggerite da Giuseppe Cascini in un recente articolo sulla non candidabilità del magistrato nel
luogo in cui ha esercitato le funzioni e poi nell’esclusione del suo rientro in tale luogo dopo
la fine del mandato elettorale. Forse sarebbero
opportune le dimissioni di chi si candida a funzioni pubbliche elettive: un onere che, se anche
non stabilito dalla legge, dovrebbe oggi essere
avvertito da qualunque magistrato come un dovere elementare di deontologia professionale.
Intervento pronunciato da Luigi Ferrajoli l’1 febbraio
al congresso di Magistratura democratica.
la visita
O ferito laggiù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e nel conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio
grazie, fratello.
Clemente Rebora
“Viatico”
Cimitero di Stresa
Comitato redazionale: Barbara Bertoncin, Guia Biscàro, Francesco Ciafaloni, Luciano Coluccia, Fausto Fabbri, Joan Haim, Silvana Massetti, Annibale Osti, Paola Sabbatani, Alessandro
Siclari, Gianni Saporetti (direttore responsabile).
Collaboratori: Isabella Albanese, Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Giorgio Bacchin, Luca
Baranelli, Sergio Bevilacqua, Marzia Bisognin, Stephen Eric Bronner, Thomas Casadei, Enrica
Casanova, Alessandro Cavalli, Carlo De Maria, Michele Dori, Ildico Dornbach, Bruno Ducci,
Enzo Ferrara, Andrea Furlanetto, Carlo Giunchi, Bel Greenwood, Anna Hilbe, Stefano Ignone,
Massimo Livi Bacci, Giovanni Maragno, Franco Melandri, Cristina Palozzi, Cesare Panizza, Giovanni Pasini, Iole Pesci, Edi Rabini, Alberto Saibene, Ilaria Maria Sala, Sulamit Schneider,
Franco Travaglini, Alessandra Zendron. Hanno collaborato: Nadia Bizzotto, Francesca Caminoli, Francesca De Carolis, Antonio Fedele, Paolo Ferri, Alberto Mattei. Foto. La copertina è di
Laura Spannenberg. Proprietà ed editore: Una Città società cooperativa. Amministrazione:
Silvana Massetti. Questo numero è stato chiuso il 23 dicembre 2013.
UNA CITTA’
una città
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reprint
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riandare al passato per ripensare il presente
L’OSPIZIO DEGLI INVALIDI
I giovedì, quando non si era puniti, e le domeniche, si dedicava la mattinata alle compere e alle faccende domestiche. Il pomeriggio, Pierre e Jacques potevano uscire assieme. Nella bella stagione c’era la spiaggia
delle Sablettes, oppure la piazza d’armi, vasto terreno sterrato, dove c’era un campo di
football rozzamente delimitato, con numerose corsie per giocatori di bocce. Vi si poteva giocare a football, il più delle volte con
un pallone di stracci e squadre di marmocchi arabi e francesi, che si formavano sul
posto.
Ma il resto dell’anno i due bambini si recavano nell’Ospizio degli Invalidi di Kouba,
dove la madre di Pierre, dopo aver lasciato
l’impiego alle poste, era capo-guardarobiera. Kouba era il nome d’una collina a
oriente di Algeri, a un capolinea tramviario;
qui, invero, la città finiva e cominciava la
mite campagna di Sahel, con i suoi dolci
colli, le acque relativamente abbondanti, i
prati quasi lussureggianti, i campi di terra
rossa e invitante, scanditi in distanza da
tronchi di alti cipressi o da canneti. Vigneti,
alberi da frutto, granturco vi crescevano
ubertosi, senza gran fatica. Per chi veniva
dalla città e dai suoi quartieri bassi, umidi
e caldi, l’aria sembrava tanto più viva, e la
si considerava salubre. Per gli algerini, i
quali non appena possedevano qualche
soldo o una piccola rendita d’estate scappavano da Algeri e se ne andavano in Francia,
dove il clima è più temperato, bastava che
in una località qualsiasi si respirasse un’aria
un po’ più fresca per battezzarla aria di
Francia. E così, a Kouba si respirava aria di
Francia.
L’Ospizio degli Invalidi, creato poco dopo
la guerra per i mutilati in pensione, si trovava a cinque minuti dal capolinea. Era un
vecchio convento, vasto, dall’architettura
complicata, dai molteplici ingressi sotto ali
aggiunte, dalle grosse mura imbiancate a
calce, porticati e ampie sale fresche con soffitti a volta. In esse erano stati collocati i refettori e i servizi. In una di queste sale si
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una città
trovava il guardaroba diretto dalla signora
Marlon, la madre di Pierre. Tra l’odore di
ferri caldi e di biancheria umida, affiancata
da due lavoranti, una araba e l’altra francese, ella si occupava per prima cosa dei
bambini, dava loro un pezzo di pane e cioccolato ciascuno e poi, rimboccandosi le maniche sulle belle braccia floride e robuste,
diceva: «Mettetevi questo in tasca per le
quattro e andate in giardino, che io ho da
fare».
I bambini incominciavano con le corse per
i porticati e i cortili interni; il più delle volte
consumavano la merenda immediatamente
per sbarazzarsi del pane, che non sapevano
dove mettere, e del cioccolato, che si fondeva tra le dita. S’imbattevano nei mutilati,
chi senza un braccio e chi senza una gamba,
e chi sistemato su una carrozzella a ruote di
bicicletta; non vi erano né sfigurati né ciechi: soltanto mutilati, vestiti con proprietà,
spesso decorati. La manica della camicia o
della giacca, o la gamba del pantalone, era
ripiegata con cura e fermata attorno al moncherino invisibile con una spilla di sicurezza: non era orribile. Ce n’erano molti, e
i bambini, passata la sorpresa del primo
giorno, li consideravano alla stessa stregua
di tutto ciò che scoprivano di nuovo e che
subito incorporavano nell’ordine naturale
delle cose. La signora Marlon aveva spiegato loro che quegli uomini avevano perduto un braccio o una gamba in guerra, e la
guerra faceva parte integrante del loro universo, non sentivano parlar d’altro. La
guerra aveva influito su tante cose attorno
a loro che non stentavano affatto a capire
che ci si potesse perdere un braccio o una
gamba, e che anzi la si potesse addirittura
definire come un’epoca della vita durante
la quale si perdono le gambe e le braccia.
Quindi quell’universo di storpi non era affatto triste, per loro: alcuni erano cupi e
taciturni, è vero, ma la maggior parte erano
giovani, sorridenti, e scherzavano persino
sulla propria infermità. Ce n’era uno
biondo, con un faccione quadrato, pieno di
salute, che si vedeva spesso in giro nel
guardaroba: «M’è rimasta una gamba sola
-diceva ai due bambini- ma a darvi un calcio nel sedere ci riesco benissimo» e, appoggiandosi con la mano destra sul bastone
e con la sinistra sul parapetto della galleria,
si drizzava e lanciava il suo unico piede
nella loro direzione. I bambini ridevano insieme a lui, poi se la davano a gambe: pareva loro normale d’essere i soli a poter correre o a servirsi delle due braccia. Una volta
però che giocando a football Jacques s’era
storto un piede e aveva trascinato la gamba
per qualche giorno, fu colpito dal pensiero
che gli invalidi del giovedì si trovavano per
esempio nell’impossibilità di correre, prendere un tram in movimento o colpire una
palla. Allora gli apparve tutt’a un tratto il
miracolo della macchina umana e, al tempo
stesso, lo colse un’angoscia cieca al pensiero che avrebbe potuto esser mutilato anche lui. Poi, la cosa gli passò di mente.
I bambini passavano accanto ai refettori
dalle persiane semichiuse, dove le grandi
tavole, tutte rivestite di zinco, luccicavano
debolmente nella penombra; poi, alle cucine, dai recipienti enormi, caldaie, pentole,
da cui esalava un odore persistente di
grasso fritto. Nell’ala estrema, scorgevano
le camere a due o tre letti con le coperte grigie, e gli armadi di legno bianco. Infine, per
una scala esterna, scendevano in giardino.
Tutt’intorno all’Ospizio degli Invalidi si
stendeva un gran parco quasi interamente
abbandonato. Alcuni invalidi s’erano assunti il compito di coltivare cespugli di rose
e aiuole di fiori, nonché un orticello, cinto
da grandi siepi di canne verdi; ma più in là
il parco, che in altri tempi era stato magnifico, era incolto. Eucalipti immensi, palme
regali, alberi di cocco, tronchi di ficus colossali, i cui rami bassi mettevano radici più
lontano, creando un labirinto vegetale
denso d’ombra e di mistero, cipressi folti e
compatti, aranci vigorosi, boschetti di oleandri rosa e bianchi straordinariamente sviluppati dominavano viali semicancellati
dove l’argilla aveva inghiottito la ghiaia e
il tracciato veniva corroso da un groviglio
odoroso di lillà, gelsomini, passiflora, clematide, caprifoglio in cespugli, invasi a loro
volta da un rigoglioso tappeto di trifoglio,
di acetosella e di erbe selvatiche. Passeggiare in quella giungla profumata, arrampicarvisi, nascondervisi col naso al livello
dell’erba, aprirsi il varco a colpi di coltello
nell’intrico dei rami, uscirne infine con le
gambe zebrate e il viso stillante d’acqua,
era inebriante.
Altra occupazione che riempiva gran parte
del pomeriggio era la confezione di terribili
veleni. Sotto una vecchia panca di pietra
addossata a un muro coperto di vite selvatica i bambini avevano accumulato tutto un
armamentario di tubetti d’aspirina, boccette
di medicinali, vecchi calamai, cocci rotti,
tazze sbeccate, che costituiva il loro laboratorio. Là, sperduti nel più fitto del parco,
a riparo dagli sguardi, preparavano i loro
filtri misteriosi. L’oleandro rosa ne era la
base, semplicemente perché avevano
spesso sentito dire che la sua ombra era malefica e che l’imprudente il quale si fosse
addormentato ai suoi piedi non si sarebbe
mai più svegliato. Le foglie dell’oleandro e
il fiore, quando era la stagione, venivano
dunque lungamente macinati, tra due pietre,
fino a farne una poltiglia maligna, il cui
solo aspetto prometteva una morte orribile.
Lasciata all’aria aperta, questa poltiglia assumeva subito iridescenze particolarmente
terribili; nel frattempo, uno dei bambini andava di corsa a riempire d’acqua una vecchia bottiglia. Poi venivano macinate le
bacche dei cipressi, le cui doti malefiche
apparivano certe ai bambini per l’incerto
motivo che il cipresso è l’albero dei cimiteri. Le raccoglievano sull’albero, non a
terra dove, ormai secche, asciutte e sode,
avevano un irritante aspetto di salute. Mescolavano in una vecchia tazza le due poltiglie, le coprivano d’acqua, poi le filtravano attraverso un fazzoletto sporco; il
succo che se ne ricavava, d’un verde inquietante, veniva maneggiato con tutte le
precauzioni che si devon prendere con un
veleno fulminante e poi travasato con cura
entro tubetti d’aspirina o boccette di farmacia che venivano tappate evitando di toccare il liquido. Quel che restava veniva mescolato con altre poltiglie composte di tutte
le bacche disponibili, al fine di confezionare una serie di veleni di virulenza progressiva, scrupolosamente numerati e riposti sotto la panca di pietra fino alla settimana seguente, affinché la fermentazione
rendesse quegli elisir irreparabilmente funesti. Terminata quell’opera tenebrosa, Jacques e Pierre contemplavano estatici la collezione di sinistre boccette, e annusavano
beati l’odore acido e amaro esalato dalla
pietra maculata di poltiglia verde. I veleni,
del resto, non erano destinati a nessuno:
quei chimici calcolavano il numero di persone che avrebbero potuto sopprimere spingendo talvolta l’ottimismo fino a supporre
d’averne fabbricata una quantità sufficiente
per spopolare la città; ma non avevano mai
pensato che quelle magiche droghe potessero sbarazzarli d’un compagno di scuola o
d’un insegnante antipatico. Il fatto è che
non detestavano nessuno, cosa che avrebbe
loro non poco nuociuto nell’età adulta e
nella società nella quale erano destinati a
vivere.
Ma le giornate importanti erano quelle di
vento. Uno dei lati dell’Ospizio che dava
sul parco confinava con quella che, in altri
tempi, era stata una terrazza. La balaustra
di pietra giaceva tra l’erba, ai piedi della vasta base di cemento coperta di mattoni
rossi. Dalla terrazza, aperta su tre lati, si dominava il parco e, oltre il parco, un dirupo
che separava la collina di Kouba da uno degli altipiani di Sahel. La terrazza era orientata in modo che, quando si alzava il vento
di levante, sempre violento ad Algeri, veniva sferzata in pieno per il lungo. I bambini, in quelle giornate, correvano verso i
primi palmizi; ai piedi di essi, c’erano sempre distesi lunghi rami secchi: ne raschiavano la base per asportarne la parte pungente e poterli impugnare a due mani; poi,
trascinandosi dietro le palme, correvano
verso la terrazza. Il vento soffiava furioso,
fischiava tra gli immensi eucalipti squassandone pazzamente i rami più alti, spettinava i palmizi, gualciva con un rumore di
carta le larghe foglie lucide degli alberi di
ficus.
Bisognava arrampicarsi sulla terrazza, issarvi le palme e mettersi spalle al vento;
poi, i bambini prendevano a piene mani le
palme secche e stridenti, le proteggevano in
parte con i loro corpi, e si voltavano di
scatto: la palma s’incollava immediatamente a loro, ed essi ne respiravano l’odor
di paglia e di polvere. Il gioco consisteva
nell’avanzare contro il vento, levando la
palma sempre più in alto: vinceva quello
che riusciva ad arrivare all’estremità della
terrazza per primo senza che il vento gli
strappasse la palma dalle mani, e poi a restare in piedi, la palma tenuta a braccia tese,
tutto il peso del corpo proiettato in avanti
su una gamba sola, lottando vittoriosamente, il più a lungo possibile, contro la
forza rabbiosa del vento. Là, ergendosi al
disopra del parco e del pianoro ribollente
d’alberi, sotto il cielo percorso da veloci
immense nuvole, Jacques sentiva il vento,
venuto dagli estremi confini del paese,
scendergli giù per le braccia dalla palma,
per riempirlo d’una forza e d’una esaltazione che gli facevano emettere senza tregua lunghe grida, finché, braccia e spalle
fiaccate dallo sforzo, finiva con l’abbandonare la palma, e la tempesta d’un colpo la trascinava via insieme alle sue grida.
E la sera, a letto, morto di stanchezza, nel
silenzio della camera dove la madre dormiva il suo sonno leggero, egli ascoltava ancora urlare dentro di sé il tumulto e il furore
di quel vento che avrebbe amato per tutta
la vita.
Albert Camus
Tratto da “Tempo presente”,
anno IX/numero 11, novembre 1964
su www.bibliotecaginobianco.it
sono online le prime tre annate della “Fiera
Letteraria” (’46-’48); tutta “La Critica Politica”
di Oliviero Zuccarini, repubblicano federalista
(il secondo periodo, ’45-’50); le prime quattro
annate di “Volontà”, rivista anarchica
orto-eterodossa (’46-’50).
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n.208 IX/2013
Rotocalco culturale. Anno XXIII, Dir. resp. Gianni Saporetti. Aut. Trib. di Forlì n. 3/91 del 18/2/91. Stampa: Galeati (Imola). Redaz. e amministraz.: via Duca Valentino n.11, Forlì. Poste Italiane SpA - Sped. in A. P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/04 n.46) Art. 1 c.1 CN/FC, n. 208/2013 - Tassa pagata