vincenzo cardarelli

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vincenzo cardarelli
I RITRATTI DI AUGUSTO
VINCENZO CARDARELLI
DI AUGUSTO BENEMEGLIO
1. Un uomo senza famiglia
Ormai vecchio e malato da anni , senza un lavoro, una pensione, una casa, una
famiglia, seduto per parecchie ore del giorno ad un tavolo all’aperto del Bar
Strega di via Veneto, dove Fellini cercava l’ispirazione per la sua “Dolce vita” ,
ridotto ormai a larva umana (“Ora la mia giornata non è più | che uno sterile
avvicendarsi | di rovinose abitudini | e vorrei evadere dal nero cerchio... | E sogno
partenze assurde, | liberazioni impossibili... | Io annego nel tempo»), ridotto
a
macchietta di caffè, col suo cappottone scuro liso e la sua sciarpa grigia ormai
consunta,
che indossava sempre
- anche d’estate
-
appartato,
coll’aria
disdegnosa e burbera , con la voce ormai ingarbugliata dalla paralisi , deriso e
beffeggiato dai camerieri e dai garzoni, dai passanti, spesso irriso dai giovani
cronisti a caccia di indiscrezioni e impertinenze, che speravano di estorcergli
ancora qualche battuta sferzante, qualche sentenza fulminante, per cui andava
famoso, - moriva - cinquant’anni fa , a Roma, praticamente dimenticato da tutti,
Vincenzo Cardarelli , uno dei più importanti scrittori e poeti della prima metà del
novecento.
I barman e i camerieri lo sfottevano chiamandolo “ professore” e non sapevano
– ignari - che era stato uno dei pochi veri autentici “maestri” della nostra non
eccelsa letteratura di quell’epoca .
L’ etrusco ( era nato a Corneto-Tarquinia, nell’alto Lazio, ) era sempre stato un
“uomo senza famiglia” , fin da piccolissimo. Il padre, con cui era cresciuto, ( la
madre se ne era andata da casa e l’aveva abbandonato in fasce )
gestiva un
buffet nella piccola stazione del paese, e non aveva mai trovato il tempo di
occuparsi di lui. «Non potendo badare a me, mio padre si vide costretto a
collocarmi ora qui ora là, a dozzina... Conobbi altre case... Il mondo mi allevò...”
Nazareno
Caldarelli
(questo il nome all’anagrafe) aveva frequentato di
malaggenio le scuole d’obbligo di Tarquinia , senza particolari risultati, anzi si
era liberato al più presto
della scuola
perché
non si sentiva
integrato, i
compagni lo sfottevano a causa di una poliomelite al braccio sinistro. Ma forse,
al di là di queste frustrazioni, Cardarelli era anche un po’ misogino per sua
natura («Io non crederò mai nella donna. Questa è la mia dannazione»), eppure
scrisse bellissimi versi d’amore eterosessuale: “Pure qualcuno ti disfiorerà,
bocca di sorgiva”…Su te, vergine adolescente, | sta come un'ombra sacra …Se ti
veggo passare/ a tanta regale distanza/ con la chioma sciolta/ e tutta la persona
astata/ la vertigine mi si porta via ), versi che io , nella mia adolescenza, spesso
ricopiavo sulle cartoline
che
mandavo alle ragazze di cui m’innamoravo
praticamente ogni giorno, in quel gioco di sogni, di incantesimi e di misteri che è
l’età dei primi suoni e canti d’amore.
Era
uomo anonimo, da camere ammobiliate e da caffè ( “ Luce senza colore,
esistenze senza attributo, inni senza interiezione, impassibilità e lontananza,
ordini e non figure, ecco quel che vi posso dare”) , eppure fu nei caffè di Roma
- in particolare - , ma anche di Firenze, di Genova e di Milano, fu nelle camere
d’albergo di quelle città che scrisse le sue più belle opere – I prologhi, Viaggi nel
tempo, Favole e memori ,
Il Sole a picco, Villa Tarantola, Il
Viaggiatore
insocievole, Il cielo sulle città e Astrid , scritto, quest’ultimo singolare racconto
d’amore, in una pensioncina di Milano. Un idillio segnato da ombre e sottintesi,
da tenera ansietà , da amaro rimpianto , forse autobiografico. Ma del resto tutte le
sue poesie “ discorsive “ ( odiava questo termine con cui l’avevano bollato alcuni
critici) avevano la matrice della autobiografia, nascevano da situazioni reali,
esperienze dirette , come ad esempio “La circolare”. Mi sembra di rivederlo il
vecchio Cardarelli che fa il giro due o tre volte con la vecchia circolare rossa di
una volta e si mangia con gli occhi le belle ragazze romane ( “Era di quelle/
romane bellezze /che son rare anche a Roma , /dove mai non s’incontrano / senza
un muto
stupore/ . Era un grande segreto / della vita di Roma/ che m’appariva in luogo men
propizio, / nella forma più degna).
2. La vita l’ho castigata vivendola
Cardarelli era stato in giovinezza un innamorato tempestoso e costantemente deluso
(“ O grande ragazza crucciosa, nei cui occhi fondi si mescolano a profusione tenebre
e azzurro!...Se tu sapessi quanto è l’amore che mi fa smaniare la notte nella mia
camera come un albero che cerca l’aria!...O angelo nero…vergine ingiusta e
dannata… Adesso capisco che tu potresti essere l’espiazione e il contagio della mia
vita”) per il quale la donna era stato “mistero senza fine bello “ attraente,
luminoso, adorabile, ma anche creatura inafferrabile, volubile, sfinge e chimera. Le
esperienze amorose erano state per lui sempre sofferenza e pena , poiché aveva
trovato in agguato «una spaventevole divergenza», che , inevitabilmente , finisce per
ingenerarsi nel rapporto fra i sessi.
Del resto era un uomo vocato alla letteratura e quindi alla solitudine. Polemista
mordace , severo, uomo di risentita passione, senza amici, fragile e impassibile, la sua
esistenza non poteva che essere difficile, problematica , sofferta, piena di disillusioni
e umiliazioni , fino al punto di dover quasi mendicare per vivere (in una lettera
del 1946 - quando il suo nome era ancora fulgido negli arenghi e nei consessi
letterari ( aveva vinto il premio Bagutta , due anni dopo , nel 1948, vincerà lo
Strega) – scrisse al giovane poeta Bigiaretti : “ …Languo e soffro in una cameretta
esposta a tramontana …e tremo, perché non dirlo?, pensando alla morte che
s’avvicina…Le mie condizioni non mi permettono di lavorare . Che fare dato che non
ho il coraggio di uccidermi? Spero che (lei) possa dirmi una parola rassicurante”
(Bigiaretti fece la colletta con i letterati del tempo e gli mandò qualche soldo) . Ma
lui lo sapeva , fin dall’inizio, dagli esordi , che quella vita vagabonda e solitaria che
si era scelto, di austera e scontrosa dignità, quella vita da “ enfant de fortune” (“Sono
figlio dei tempi…mi sento come un grillo nell’uragano , come la cicala sorpresa dai
primi freddi dell’autunno“) , in cui aveva
commesso di un
negozio di orologi,
tentato
tutti i mestieri (fattorino,
giovane di studio presso un avvocato,
sindacalista, impiegato di cantiere, e compilatore - lui che aveva fatto appena le
elemetari!) - di tesi universitarie, infine cronista dell’ Avanti!) sarebbe stata “tutta d a
mortificare e da reprimere in vista dell’opera che ne dovrà scaturire “, sarebbe stata
“una perpetua attesa e una costante vigilia”. E c’erano giorni in cui quasi si
smaterializzava, teso sul letto, sospeso e quasi inesistente, oscillava come un ago
calamitato , o si sentiva come un animale ferito , una preda difficile da riavere , un
essere malizioso , sempre in pericolo di sospensione e allora se ne usciva con quelle
sentenze fulminanti, quelle battute sferzanti per cui andava famoso e spesso erano
autoironiche: “ io la vita l’ho castigata vivendola”
3. Un Socrate moderno ?
No, piuttosto un lirico inquieto pieno di grazia.
Forse – dice qualcuno – avrebbe potuto essere un Socrate moderno , con i suoi
apologhi, aforisma, e le sue sentenze morali mai sottratti al controllo dell’ironia
(“All’innocenza ci sono dovuto arrivare…Mi sono sempre alzato da una disfatta”;
non sono vittorioso che in certe fulminee ricapitolazioni; il segreto delle mie
conoscenze è l’insoddisfazione” ; le parole, se hanno qualche valore , è solo in virtù
dei loro sottintesi”) . I suoi maestri sono stati – e si sente – Leopardi, Baudelaire,
Pascal, Nietzsche, è attraverso la loro conoscenza che Cardarelli compì il viaggio
dalla passione alla ragione, senza esaltazioni spirituali o retoriche renitenze
pedagogiche. La sua meditazione morale non rifiuta la fantasia; il suo naturale slancio
epigrammatico, ironico, sentenzioso, è frenato da un eccezionale facoltà di
concentrazione espressivo di tipo lirico. Cardarelli riesce a dare movimento visivo,
ritmo musicale , esemplarità pittorica ai ricordi, ai paesaggi, ai sentimenti umani, alla
realtà naturale, alla cronaca autobiografica. Per avere conferma di tutto ciò
basta
leggere le sue poesie, vere e proprie architetture descrittive lineari di parole umane,
temporali, razionali , semplici “ in cui si rivela scrittore intensamente moderno,
maestro di un’inquietudine essenziale e di una liberazione lirica nuova, piena di
grazia”. Nel poeta –scrisse Sapegno – si ritrova l’uomo con i suoi umori, le sue ire, le
sue avventure. Ma anche il fascino delle grandi distanze, un fuoco alto e lontano
immediatamente reso dalla fermezza dell’arte. Il cuore della sua poesia rimanda in
qualche modo alle “ Ricordanze” di Leopardi, “la sua grave opera più eccitante e
tendenziosa”
4.La Ronda
Oggi , nelle enciclopedie letterarie,
Vincenzo Cardarelli
è
ricordato
quasi
esclusivamente come “ rondista” . Fu lui il fondatore de “La Ronda” , di cui
facevano parte Cecchi, Bacchelli, Saffi , Barilli , Baldini e Montani, rivista nata nel
1919, che esercitò una certa influenza sui letterati d’epoca, col richiamo alla
chiarezza e al rigore formale della scrittura , in un momento di estrema confusione
per le sorti della nostra letteratura. “ E su quella rivista furono pubblicate le prime
prose d’arte di Cardarelli. Con lui – dirà Giansiro Ferrata - era sorto il modello più
puro della della prosa italiana contemporanea , in un senso evocativo ricchissimo
che risplende di immagini tutte urgenti . “ La mia fiducia di creatore sta nei molti e
profondi errori che ho da riparare”) . Ma era anche severo , addirittura intransigente
nei suoi giudizi : “ Odio le improvvisazioni, i fuochi di paglia, i libri scritti tutti di
seguito e che si leggono di un fiato. E talora
scontroso, categorico, non privo di
malignità . C’era tutta un’aneddotica che circolava nei caffè di Roma per riferire le
sue sentenze e le sue bruschezze . Ad un giovane critico che gli aveva dedicato un
saggio totalmente laudativo e glielo portò trionfante disse: “Erano meglio i
denigratori di una volta”.
Ma
quando era in vena
aveva il dono di
un’immaginazione densa, un parlare metaforico e per allusioni ( “Di ogni cosa vedo
l’ombra in cui culmina“) , che ti incantava , per il suo spirito mordente ( “Il segreto
delle mie conoscenze è l’insoddisfazione”) , ma anche per la sua malinconia calda e
disperata ( “Le cornacchie tornano alle torri schiamazzando, con un lungo desiderio
di volo). C’era in lui, dentro di lui, un gabbiano pieno di abbandoni solitari, di attese
vane , di destini segnati: “ Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace.
Io son come loro, in perpetuo volo. La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il
cibo. E come forse anch’essi amo la quiete ,la gran quiete marina, ma il mio destino è
vivere balenando in burrasca…
Non credeva che la sua vita fosse un ammasso orrendo di combinazioni, un errore
mostruoso della natura, come Buzzati, ma neppure credeva all’arte come rivelazione
di Dio, “e altre bubbole del genere”. “Io sono un cattivissimo uomo e forse un
discreto artista. Ad ogni modo per me l’Arte è tutto , e ciò che voi dite sulle voci del
cuore e del sentimento non può aver significato per me se non nell’incorruttibile
regno dell’arte, che è fine a se stessa. Credeva nella ”verità” innanzi tutto. “Noi
abbiamo sete di giustizia e di verità. Poco importa i fastidi a cui questa pericolosa
voglia ci espone. Siamo fatti in maniera da poter avere col prossimo , e specialmente
con i nostri amici, se non rapporti chiari, onesti, leali. Non teniamo conto delle
parole, ma delle azioni”.
Fu questo singolare autodidatta geniale , che amava il teatro ( scrisse di opere di
Shakespeare e Ibsen sul Tempo e la Tribuna ) , e si era immerso nelle “Operette
Morali” di Leopardi, nei “Poemès en prose” di Baudelaire , nelle “Illuminations “di
Rimbaud , nella lettura golosa di Nietzsche , che aveva maturato una levigatezza di
stile classico straordinario e una grazia evocativa rara ( Volata sei, fuggita/ come
una colomba / e ti sei persa là, verso oriente”) , che creò il punto più alto di una
nuova forma d’arte , mediante una espressione di scrittura , un linguaggio
che
conferiva alla prosa le movenze, i sentimenti, la musicalità, il ritmo propri della
stessa poesia ; e fu sempre lui , per contro ,
a dare alla poesia un linguaggio
discorsivo , “prosastico”, e , al contempo , di incontestabile classicità . “Che la mia
poesia discorra non c’è dubbio. Anzi corre precisamente allo scopo, con un ritmo che
non ammette divagazioni, non concede indugi…Il discorrere è privilegio dell’uomo e
perciò , in grado superbo, dei poeti di tutti i tempi e di tutte le nazioni… In Dante,
Petrarca, Leopardi, ragionare è sinonimo di poetare”.
5.L’Etrusco fragile e impassibile
Eccolo il Cardarelli nottambulo del caffè Aragno, col suo profilo etrusco, di cui si
compiaceva , col fare sentenzioso e il dito spesso didascalicamente alzato all’insù ,
con la capigliatura folta e l’eloquio che egli espandeva sui più disparati argomenti,
pronto nel motteggiare , ironizzare , stupire , eccolo l’ insonne animatore e
protagonista assoluto della vita letteraria romana, che deambula da un caffè
all’altro, con pochi compagni intellettuali (“Chi tiene un poco alla mia compagnia
bisogna che si prepari a lasciarsi annullare”) . Una notte, sul grande sterrato del Corso
dove sarà costruita la Galleria Colonna, vede apparire Gordon Craig avvolto in un
gran mantello nero, inseguito e preso a schiaffi da Isadora Duncan, li chiama, li placa
e invita entrambi al caffè, a discorrere d’arte e di danza. I due artisti ritrovano
d’incanto l’armonia e il sorriso davanti ad un bicchiere di whiskey, e fanno sodalizio,
discorrono tutta la notte con il poeta, ridono, si divertono, ma tutto finisce lì. Non
divennero suoi amici. Del resto Cardarelli non ebbe mai discepoli , né duratori
amici: “La vera amicizia è rara e difficile, i tradimenti reciproci sono sempre in
agguato”. Il suo – come già detto - era un destino dì solitudine: «E’ dunque scritto
che io me ne debba star solo...Quanto io sono staccato dagli uomini, nessuno Io vorrà
mai credere» …Nascita, dolore, educazione, tutto contribuì a fare di me un uomo
amato da pochi, ingiuriato dai più, e compreso veramente da nessuno».
Ma se la solitudine era stata accettata, in gioventù, sotto la suggestione nicciana, con
la fiera consapevolezza di essere un uomo forte, bastante a se stesso, anche se
costretto presto ad ammettere i propri cedimenti, le presunzioni tramutatesi in
sconfitte («Ho alle spalle il vuoto. Sono pieno di convinzioni contrastate
dall'esperienza»), ora , per il vecchio Cardarelli, diventa una cosa tristissima e
inaccettabile . C’è soprattutto la sua paura del tempo, come di uno spettro sempre in
agguato, di un pericolo incessante, cui si associa l'idea della morte, «ingiuria suprema
(“Morire , sì, / non essere aggrediti dalla morte/ Morire persuasi/ che un siffatto
viaggio sia il migliore./ E in quell’istante essere allegri/ come quando si contano i
minuti/ dell’orologio della stazione/ e ognuno vale un secolo” ).
Ora che sente approssimarsi il viaggio non c’è più a confortarlo quella sua grazia
poetica ( “il silenzio a mezzogiorno si fa marea”), quella sua profonda capacità di
leggerezza, quel piacere letterario fresco d’umanità verso i capitoli più alti e
malinconici della musica dei “viaggi” e delle “ memorie”; forse ricorda ancora
quello scampanio delle reti che i pescatori liguri lasciavano andare alla deriva ,
quell’annusare l’odore del vento d’autunno sui monti della sua Etruria , gravido di
memorie , quei vagabondaggi, quei ricordi nella spettralità dell’insonnia ; non c’è più
quel suo stile che sembrava un calco sulla rena ,quel calore cosmico, quell’emozione
visiva , quella musica che è lo sfondo bianco delle sue poesie , che porta , immobile,
i più vari e delicati colori. Oh, quella liquida intimità musicale, quel guerriero
etrusco che ride nello splendore della terra , che è dentro di lui , quelle ombre troppo
lunghe del nostro breve corpo, che sono i ricordi , quella suggestione armoniosa di
ogni figura , la melodia immobile, il respiro, l’onda splendidamente trattenuti
all’orlo, e quelle scoperte e reminiscenze leopardiane fuse nel sentimento e nel
ritmo. Tutto ciò è diventato “ un povero autunno romano che tempesta con furia
senile – e tuona con fragore – e lampeggia con improvvise accensioni di lampadina.
«La vita per me non è stata che una lunga malattia contro la quale ho sempre
fortemente e astutamente lottato... Ho sempre vissuto come un convalescente...»
«Quante cose cominciate | e rotte, nella mia vita!»Tutto si è concluso – sempre - con
il disinganno, il distacco, gl'inevitabili addii , o con la solitaria fuga.«Oh senza sosta
io vissi | ed esule dovunque...E’ rimasto «fuori dalla vita» della gente, dai segreti
delle case». Il malinconico viaggiatore che sta al finestrino del treno, che oltrepassa
«città fervide e ridenti ci saluta e guarda se stesso , la sua perenne insoddisfazione,
le sue sospensioni, le sue cadute, le frantumazioni, la penosa ricerca di nuovi
equilibri, l'irraggiungibile interezza («Le mie giornate sono | 'frantumi dì vari universi
| che non riescono a combaciare. | La mia fatica è mortale»).
Cerca – impassibile e fragile – e trova , tra le tante , una parola sola : disperazione .
“Dolce infinita profonda parola”. E poi , sul filo leopardiano, “ Vaga e triste è degli
uomini la sorte”. Meglio la morte. Ma poi, in un soprassalto quasi giocoso e
ineffabile, il vecchio profeta armato d’ironia guarda l’ultimo orizzonte , dietro i
platani di Roma , socchiude gli occhi e dice: “ Per tutta la vita la fortuna mi è corsa
appresso senza riuscire ad acciuffarmi” .
Roma, 22 MARZO 2012