Il ricatto “C`è una donna che ti cerca”, mi ha detto la

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Il ricatto “C`è una donna che ti cerca”, mi ha detto la
Il ricatto
“C’è una donna che ti cerca”, mi ha detto la Doris
quando, quel giorno, come quasi tutti i giorni, sono entrato
nel suo bar per farmi il decaffeinato di mezza mattina: “Ha
telefonato già due volte chiedendo di te.”
La Doris è la proprietaria nonché factotum non più di
primo pelo ma comunque ancora tutta curve di un pubblico esercizio frequentato prevalentemente da pensionati
come me, quasi tutti ex poliziotti come me, inoltre da una
clientela più o meno fissa di impiegati e di commesse che
vengono a farsi l’aperitivo con il panino svelto a mezzogiorno o il prosecchino prima di tornare a casa la sera, e
infine da una congerie eterogenea di turisti che, dopo aver
apprezzato le bellezze gotiche del duomo dirimpetto, sentono il bisogno di ristorarsi rumorosamente e di servirsi
della toilette.
La Doris ha una teoria tutta sua sulle nazionalità più
sporcaccione, nel senso che le basta sentirli parlare, i turisti, per sapere, ancora prima che ci entrino, se le ridurranno il gabinetto a un immondo porcile oppure no.
Quelli che danno da vivere alla Doris – luridoni o meno
che siano – sono gli avventori della seconda e della terza
categoria. Noi, quelli della prima, siamo più che altro dei
pezzi (scadenti) dell’arredamento, e come tali lei ci tratta.
Ci manca poco che, ogni tanto, ci spolveri.
Mentre non si sognerebbe di curiosare negli affari degli altri, la Doris si sente invece quasi in dovere di ficcare
il naso in quelli nostri. Sa di quali mali soffriamo, quali
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sono le nostre condizioni anagrafiche ed economiche, offre spalle su cui piangere a quelli che hanno problemi con
i figli, e suggerimenti a quelli che hanno appena bisticciato
con la moglie. Se facciamo troppo baccano nella saletta in
cui stiamo accampati, ci richiama all’ordine con urlacci
che mi ricordano ogni volta quelli d’una maestra che avevo alle elementari la quale, quando non ne poteva proprio
più di noi, ci gridava: “Ora vi butto fuori tutti!”
Per questo, quando la Doris mi ha detto “C’è una donna che ti cerca”, il suo non è stato solo un generico “C’è
una donna che ti cerca”. Nel tono e nella cadenza erano
implicite anche le seguenti altre domande e osservazioni:
“Da quando in qua ti telefonano le donne?”, “Chi sarebbe
questa donna? La conosco?”, “Stai attento a quello che fai,
Marlòve, perché alla tua età le donne possono anche essere
un veleno.”
“Quale donna?” ho chiesto io, come se ne avessi un
mazzo assortito sempre all’affannosa caccia del mio ormai
decisamente spento fascino.
“A me lo chiedi? Eccoti il numero. È di un telefonino.
Ha solo lasciato detto che la devi chiamare. Presto.” Anche
quest’ultima precisazione è stata pronunciata dalla Doris
con una certa sospettosità, con un filo di apprensione, quasi con disapprovazione.
Sono uscito dal bar e ho raggiunto una delle vicine
cabine telefoniche, che poi non sono cabine ma trespoli
piazzati sui marciapiedi con una specie di mezza cupola
trasparente sopra. Io non ho il telefonino, non l’ho mai
avuto e non lo voglio. Più vedo gente che va in giro con lo
sguardo ipnotizzato dallo schermetto del cellulare stretto
in mano come un tesoro, che a furia di fissarlo non si accorge nemmeno più di quello che gli succede attorno, che
cammina col rischio continuo di andare a sbattere contro
il prossimo o un lampione, più mi dico che non mi ridurrò
mai a un fissato di quel genere. Io apprezzo anche il mar-
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Altre indagini abusive di Marlòve, l’investigatore precario
gine di libertà che consiste nel non essere reperibile per un
buon numero di ore al giorno.
Avrei potuto chiedere alla Doris di usare il telefono del
bar, e lei non mi avrebbe certo negato il favore, ma è una
forma di scrocco che non mi piace. Già le consumiamo,
noi pensionati, più le sedie e il pavimento che le consumazioni vere e proprie. Inoltre me la sarei trovata appiccicata accanto alla cornetta, curiosa di capire subito se la
donna che mi aveva cercato poteva costituire, a suo modo
di vedere, un pericolo o una indebita intromissione nel suo
regno di ape regina circondata da vecchi fuchi sfiancati
che le piace governare e anche tiranneggiare un po’, ma ai
quali non ha mai concesso né mai concederà i suoi lombi
da godere.
Sotto la cupoletta dunque, dopo aver infilato nella fessura la scheda prepagata e formato il numero che la Doris
aveva scritto su una schedina del Totocalcio, mi presento:
“Pronto? Sono Giovanni Ruvidotti.”
“Chi?”
“Beh, Marlòve...”
“Ah, Marlòve! Avrei bisogno di parlarle.” Una voce
femminile autoritaria, appena appena roca, come d’una
che si sciroppi mezza stecca di sigarette al giorno.
“Di che cosa?”
“Di un lavoretto che le vorrei affidare.”
“Mi dica dove posso raggiungerla e...”
“Verrò io. Lei è sempre in quel bar più o meno di fronte
al duomo, vero?”
“Sempre no, però...”
“Ho da sistemare una cosa, ma fra una mezz’oretta sarò
lì. Le va?”
“Senz’altro. Ci vediamo.”
“Mi stia bene.”
Sono rientrato nel bar fischiettando e con le mani in tasca. Allegro all’idea del lavoretto e del relativo compenso
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che si stavano profilando sul mio magro orizzonte finanziario, ma anche per irritare e sfidare un po’ la Doris che,
dopo essere rimasta zitta per un po’, dopo aver sbattuto sul
bancone un paio di tazzine di caffè fumante e consegnato
spazientita un paio di schedine a un signore in attesa davanti allo sportello delle quasi sempre vane speranze milionarie settimanali, non ha saputo resistere alla tentazione
di chiedermi: “L’hai trovata?”
“Sì.”
“Cosa vuole?”
“Me.”
“Ma va là, spennacchiato.”
“Vedrai. Verrà addirittura qui.”
Non ha commentato oltre e io mi sono spostato nella
“nostra” saletta, fatta di tavolini e sedie fantasiosamente
scompagnate, dove ho seguito per un po’ una partita di
scopone scientifico fra tre ex colleghi e un ex mariuolo
che, licenziato dalle patrie galere e in un certo qual modo
ormai in pensione anche lui, preferisce – vallo a capire il
perché – la compagnia dei poliziotti a riposo a quella dei
lestofanti in attività o meno.
Per quei pochissimi che ancora non lo sapessero, chiarirò a questo punto di essere stato poliziotto in servizio
per 43 anni, la maggior parte dei quali passati dietro uno
sportello della Questura di Bolzano a rilasciare passaporti
e porti d’arma, senza partecipare a una indagine che fosse
una nonostante la mia qualifica di graduato della pubblica
sicurezza e la mia qualità di smanioso di dar la caccia ai
delinquenti. Ora però, da quando lo Stato ha deciso di fare
a meno del mio lavoro e mi passa un miserrimo mensile
per “godermi” la vecchiaia, investigo a tutto spiano, nel
senso che sbrigo affarucci, provvedo a verifiche, accerto
circostanze, sbroglio matassine in cambio di modestissimi
compensi che sottraggo sistematicamente alla voracità del
fisco. Vado per i settanta ormai, sono scapolo da sempre e
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Altre indagini abusive di Marlòve, l’investigatore precario
sempre scapolo rimarrò, mi reggo ancora in piedi abbastanza bene, sono tuttora alto sul metro e 78 benché mi dicano
che cammino un po’ curvo, peso 75 chili, ho pochi capelli e
quei pochi sono d’un grigio così irrimediabilmente sporco
che li tengo tagliati cortissimi per nasconderne il colore.
Mi chiamo Giovanni Ruvidotti, sono friulano d’origine ma
abito ormai da un’eternità a Bolzano dove tutti mi conoscono come Marlòve, storpiatura italianizzata di Marlowe, il
mio investigatore privato letterario preferito, del quale, per
un certo ormai lontanissimo periodo, avevo avuto il torto di
parlare troppo spesso e con eccessiva ammirazione, tanto è
vero che ne avevano subito approfittato per appiopparmi il
soprannome che ora conoscete anche voi.
Io non gioco a carte, però mi piace stare a guardare gli
altri che giocano, specialmente se, come i pensionati del
bar della Doris, sanno condire le partite di battute salaci,
osservazioni pepate, commenti pungenti e spiritosi, e imprecazioni da far impallidire i preti dall’altra parte dello
slargo su cui si affaccia il locale, in cui passiamo stancamente le giornate in attesa di rientrare a casa la sera per
scimunirci davanti alla tivù.
Il toc-toc-toc-toc che ha a un certo punto percosso il pavimento nell’ambiente principale del bar, quello in cui troneggia la Doris, è stato talmente imperioso oltre che promettente di imminenti visioni muliebri che, nella nostra
saletta, si sono azzittiti tutti e il Beppo Larcher è rimasto
con una carta sospesa a mezz’aria. Le teste si sono voltate
verso la porta ad arco senza battenti e gli occhi sono rimasti incollati lì fino a quando, trasportata dal toc-toc-toc-toc
di due tacchi d’un’altezza mai vista, si è affacciata alla
nostra saletta una sberla di femmina, di quelle che si stenta
a credere che siano vere.
Era alta forse più di me, con certe gambe che sembravano finire solo provvisoriamente all’altezza d’una minigonna che fasciava un culetto imperiale. Il bolerino nero
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portato direttamente sulla pelle lasciava scoperte abbondanti porzioni di tette sicuramente sode. Aveva i capelli
d’un rosso ramato che le scendevano fin sulle spalle, come
fin sulle spalle le penzolavano due cerchi d’oro che teneva
appesi alle orecchie.
Se qualcuno di noi era stato per caso tentato di lanciare
un fischio o un’esclamazione di apprezzamento, la potenziale reazione gli è stata gelata in gola dallo sguardo di quella femmina. Occhi nerissimi, d’una aggressività che mi ha
ricordato subito il sergente maggiore istruttore che mi aveva
fatto dannare poco dopo che mi ero arruolato in polizia.
Ci ha guardati tutti, uno per uno, e poi: “Marlòve? Chi
di voi è Marlòve?”
Mi sono fatto avanti in mezzo allo stupore e all’invidia
generali.
“Sono io.”
“Bene. Le dispiace seguirmi? Andiamocene di qui.”
Il “di qui” le è uscito dalla larga bocca rossa e dalla
chiostra dei denti aguzzi come quelli d’un gatto quando
era già di nuovo “di là”, davanti al bancone. Ed è risuonato come se avesse detto “da questo letamaio”. La Doris è
avvampata e ha impugnato istintivamente una bottiglia di
Tocai, però il tronco di femmina è uscito dal bar prima che
la sua indignazione potesse materializzarsi in qualcosa di
più corposo. E io dietro, come un cagnolino.
“Andiamo a sederci in un posto più simpatico”, ha dichiarato voltandosi appena appena verso di me. E poi, sempre marciando in direzione di Piazza Walther con l’impeto
di un bersagliere e facendo oscillare il borsone che reggeva a tracolla, si è informata su come stavo, se ritenevo che
il tempo si sarebbe mantenuto buono, mi ha comunicato di
avere un certo languorino di stomaco e infine di ricordare
Bolzano meno bella di come la stava vedendo ora.
Io non sono riuscito a infilare neanche una parola in
questa sfilza di superficiali banalità, anche perché ero trop-
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po occupato a tenere il passo, a non farmi distanziare, a
ignorare le occhiate di caloroso apprezzamento che le rivolgevano tutti i maschi d’età compresa fra i quindici e i
cent’anni, e le espressioni fra lo sbalordito, l’umiliato e
l’indignato di tutte le donne oltre i dodici che transitavano
o sostavano nei paraggi.
Lei, quella che era venuta a prelevarmi nella riserva di
vecchiacci della Doris, ne avrà avuti quaranta, ma erano
quei quaranta che, in una donna, fanno venire in mente una
succulenta albicocca matura. Non so se mi spiego.
Si è diretta verso uno dei caffè che schierano tavolini
e poltroncine nella piazza-salotto della città, ha scelto una
posizione un po’ defilata, ha fatto accorrere il cameriere
con un gesto autoritario e ha ordinato “un bicchiere di
bianco buono con qualche stuzzichino, ma sì, vanno bene
anche le patatine, le noccioline, quello che ha, insomma.”
“E lei che cosa beve?” ha domandato infine, guardandomi per la prima volta da quando eravamo usciti dal bar
della Doris.
“Un succo di pomodoro, scondito per favore.”
Non ha commentato, ma la veloce occhiata che mi ha
scoccato ha chiaramente spiegato che lei, da un uomo, si
aspettava di più: anche in Piazza Walther all’ora dell’aperitivo.
Ha bevuto un sorso di vino bianco e ha cominciato a
sgranocchiare patatine prima di decidersi di venire al sodo.
“Dunque lei sarebbe Marlòve. Mi hanno parlato di lei.”
“Chi?”
“Un collega. Io sono avvocato, mi chiamo Gemma
Bentivegna, esercito a Vicenza, ma una volta abitavo e lavoravo qui, a Bolzano. Il collega mi ha detto che lei si occupa con discrezione e competenza di indagini riservate.”
“Discreto lo sono, competente non so, ma quanto a indagare, è bene che sappia subito che io sono soltanto uno
che curiosa un po’ qui e un po’ là, senza alcuna autorizza-
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zione o qualifica. Più che un investigatore privato, sono un
investigatore ufficioso, abusivo...”
“Non m’importa, se ci sa fare. Quanto prende?”
“Cinquanta euro al giorno più le spese.”
So che certi avvocati si fanno pagare cento, a volte anche duecento euro all’ora perfino il tempo che impiegano
per telefonare, e quindi sono stato per un attimo tentato
di alzare il prezzo. Ma poi ci ho rinunciato, tanto più che
ancora non sapevo che cosa volesse da me.
E lei: “Male. Troppo poco. Se è bravo come mi è stato
riferito, dovrebbe chiedere di più.”
“Mi accontento. Io non sono un professionista. Faccio
lavori occasionali, giusto per integrare la pensione e non
annoiarmi.” E anche per divertirmi, avrei potuto dirle, anche per fare il poliziotto vero dopo quaranta e passa anni di
vita da finto poliziotto passacarte. Ma non gliel’ho detto.
La giornata, di primavera inoltrata, era bella, e il vecchio centro della città, come al solito, pieno di turisti. Al
tavolino vicino al nostro era seduto un tizio massiccio e
dall’aspetto pletorico, un russo mi è parso di capire, il quale ha cominciato a fissare l’avvocatessa come se fosse stata
un bignè. Lei lo ha spento con uno sguardo solo, brevissimo, violento come un cazzotto.
“Che cosa posso fare per lei?” ho domandato per stemperare la tensione.
“Giusto. Veniamo al dunque. Ho la sensazione, ma è una
sensazione corposa, quasi una certezza, che qualcuno estorca soldi a mio marito, o meglio al mio ex marito. Voglio che
lei scopra chi è, che mi sappia dire sulla base di che cosa lo
fa e che mi metta nella condizione di neutralizzarlo.”
“Neutralizzarlo?” L’ho osservata allarmato. Dal piglio
che aveva e dal suo modo di fare, sembrava capacissima di
circolare con un bazooka nella borsa.
“Non tema. Non nel senso di farlo fuori.”
“Perché non si rivolge alla polizia? O ai carabinieri?
Loro hanno mezzi ben più efficaci e persuasivi dei miei.”
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