2 - Nicolò Terminio

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2 - Nicolò Terminio
C APITOLO P RIMO
I tre registri dell’esperienza psicoanalitica:
Simbolico, Immaginario e Reale
Una volta riconosciuta la struttura del
linguaggio nell’inconscio, quale sorta
di soggetto gli possiamo concepire?
J. LACAN, Sovversione del soggetto1
1. L’inconscio strutturato come un linguaggio
L’impegno teorico e clinico di Jacques Lacan ha avuto come focus d’indagine il
soggetto messo in questione dalla psicoanalisi. Lacan parte dai problemi clinici e
metodologici sollevati dall’esperienza analitica e cerca di sviluppare e trasmettere i
principi di una prassi che non indietreggi innanzi alle esigenze del soggetto. Il vettore
che anima il percorso lacaniano mira al cuore della posizione soggettiva e intende
render conto di ciò che fa sintomo nell’esperienza del soggetto.2
Con il suo testo intitolato Funzione e campo della parola e del linguaggio3 Lacan
dà inizio al suo insegnamento e concentra la sua ricerca sul rapporto tra l’uomo e il
linguaggio,4 mettendo al centro dell’esperienza psicoanalitica la parola del paziente.5
Il sintomo di cui si occupa la psicoanalisi viene quindi inserito nella cornice di
1
J. LACAN (1960b), «Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano», in
ID. (1966), Scritti, vol. II, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 802.
2
La prospettiva che sviluppa Lacan non intende configurarsi come una teoria filosofica, nel corso del
suo insegnamento precisa più volte che «la psicoanalisi non è né una Weltanschauung né una
filosofia che pretenda di dare la chiave dell’universo. Essa è diretta da un obiettivo particolare che
è storicamente definito dall’elaborazione della nozione di soggetto. Essa pone questa nozione in
modo nuovo, riconducendo il soggetto alla sua dipendenza significante» (LACAN 1964a, pp. 7677).
3
J. LACAN (1953a), «Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 230-316.
4
«L’uomo parla dunque, ma è perché il simbolo lo ha fatto uomo» (LACAN 1953a, p. 239).
5
«Si voglia agente di guarigione, di formazione o di sondaggio, la psicoanalisi non ha che un
medium: la parola del paziente» (LACAN 1953a, p. 240).
12
riferimento data dall’ordine simbolico. Lacan infatti, interessandosi alla tecnica
psicoanalitica, mette in valore la funzione della parola nel campo del linguaggio per
ottenere gli effetti attesi dalla cura.6
L’obiettivo di Lacan consiste dunque nel rivalutare il medium della parola e la
dimensione simbolica che essa veicola.7 Si tratta di una posizione epistemologica che
conduce al di là della semplice considerazione per cui i sintomi psichici vengono
assimilati a dei deficit da riparare o a epifenomeni del biologico. Questa visione della
malattia mentale è collocabile all’interno del più vasto panorama della psicopatologia
strutturale8 che raccoglie, tra gli altri, l’approccio fenomenologico. La psicopatologia
fenomenologica, inaugurata da Karl Jaspers con la pubblicazione nel 1913 del suo
Psicopatologia Generale, nasce in contrapposizione al mito positivista di una
psichiatria organicistica, che riduce l’incontro con il malato ad una mera descrizione
dei sintomi, per poi raggrupparli in entità nosografiche che richiamano semmai le
classificazioni della botanica. A tal proposito «il fatto che le malattie mentali siano
fondamentalmente umane ci obbliga – come osserva Jaspers – a non vederle come un
fenomeno naturale generale, ma come un fenomeno specificamente umano».9
Lacan, sin dai suoi inizi, accoglie questa prospettiva, facendo inoltre propria la
tesi della fenomenologia husserliana e dell’analitica esistenziale di Heidegger,
secondo cui il soggetto non è mai avviluppato su se stesso, in una interiorità
solipsistica, ma è sempre rivolto verso un’alterità. Secondo Lacan per il soggetto il
rapporto ad se ipsum non è possibile senza un rapporto ad alterum.10 Peraltro questa
6
«Per conto nostro affermiamo che la tecnica non può essere compresa, né dunque correttamente
applicata, se si misconoscono i concetti che la fondano. Il nostro compito sarà quello di dimostrare
che questi concetti non assumono il loro senso pieno se non orientandosi in un campo di
linguaggio, se non ordinandosi secondo la funzione della parola» (LACAN 1953a, p. 239).
7
A proposito del metodo psicoanalitico Lacan scrive: «i suoi mezzi sono quelli della parola in quanto
conferisce alle funzioni dell’individuo un senso; il suo ambito è quello del discorso concreto in
quanto campo della realtà transindividuale del soggetto; le sue operazioni sono quelle della storia in
quanto costituisce l’emergenza della verità nel reale» (LACAN 1953a, p. 251).
8
«Il punto decisivo, il punto che sta all’origine di tutta la psicopatologia strutturale, è la
consapevolezza che qualcosa può essere detto o mostrato solo se c’è qualcuno disposto ad ascoltare
e capire. L’orizzonte strutturale della psicopatologia si dischiude, pertanto, attraverso il progressivo
mutamento della relazione tra lo psichiatra e il malato psichico» (CIVITA 1999, p. 63).
9
K. JASPERS (1913-1959), Psicopatologia generale, ed. it. a cura di R. Priori, Il Pensiero Scientifico,
Roma 1964, p. 8.
10
«Basta far apparire al termine logico degli altri la pur minima disparità perché si manifesti quanto la
verità per tutti dipenda dal rigore di ciascuno, ed anche che la verità, se raggiunta solamente dagli
uni, può generare, se non confermare, l’errore negli altri. Inoltre, se in questa corsa alla verità si è
13
tesi è in sintonia con quanto pensava Freud,11 per il quale il mentale è sempre già
sociale e «il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale».12
Nella sua prospettiva teorica Lacan riprende inoltre, attraverso l’insegnamento di
Kojève, il contributo hegeliano sulla costituzione intersoggettiva del soggetto: la
funzione della parola è dialetticamente fondata sulla risposta che riceve dall’Altro,
ossia sul riconoscimento che l’Altro opera sul messaggio del soggetto. Da lì Lacan
sarà portato a dire che «il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro»,13 ovvero
desiderio di riconoscimento.
In questa prima fase del suo insegnamento Lacan mutua i suoi concetti anche
dagli studi e dalle ricerche dell’antropologia e della linguistica strutturale, il che
significa che il campo simbolico viene riconosciuto come la dimensione fondativa
del soggetto: è un campo14 dove la rete dei rapporti strutturali tra gli elementi
produce degli effetti sul soggetto.15 Prima ancora della nostra stessa venuta al mondo
ci sono già dei rapporti, in particolare di parentela, che organizzano il modo
inaugurale delle relazioni umane, gli danno una struttura e le modellano. Noi
entriamo in quel sistema che è il mondo dove già esistono dei rapporti interdetti e dei
rapporti autorizzati. L’inconscio entra in gioco appunto come un insieme di regole, di
ordini e di ripetizioni che funzionano in modo presoggettivo. Si tratta di regole che
definiscono le condizioni a partire da cui si può costituire la soggettività.
soli, se ad accostare il vero non si è tutti, nessuno tuttavia l’attinge se non attraverso gli altri»
(LACAN 1946, p. 206).
11
«Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come
soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente più
legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale» (FREUD
1921, p. 261).
12
J. LACAN (1946), «Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata. Un nuovo sofisma», in ID.
(1966), Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974, p. 207.
13
«In breve, in nessun punto appare più chiaramente che il desiderio dell’uomo trova il suo senso nel
desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto
perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro» (LACAN 1953a, p. 261)
14
Il concetto di «campo» indica un modello matematico che in fisica viene utilizzato per associare ai
punti di una certa regione di spazio una particolare proprietà.
15
«I simboli avvolgono infatti la vita dell’uomo con una rete così totale da congiungere prima ancora
della sua nascita coloro che lo genereranno “in carne ed ossa”, da apportare alla sua nascita insieme
ai doni degli astri, se non ai doni delle fate, il disegno del suo destino, da dare le parole che lo
faranno fedele o rinnegato, la legge degli atti che lo seguiranno persino là dove non è ancora e
persino al di là della sua stessa morte, e da far sì che per mezzo loro la sua fine trovi il suo senso
nel giudizio finale in cui il verbo assolve il suo essere o lo condanna – salvo raggiungere la
realizzazione soggettiva dell’essere-per-la-morte» (LACAN 1953a, p. 272).
14
L’inconscio trova inoltre il suo modello nel gioco combinatorio che opera,
anch’esso in modo presoggettivo, nel linguaggio. A tal proposito Lacan riprende la
concezione saussuriana che distingueva nel linguaggio due momenti: la langue e la
parole. La lingua si configura come il sistema grammaticale che struttura la sincronia
da cui discende il movimento diacronico dell’esercizio della parola. La parola
coincide con un atto comunicativo individuale che si avvale delle leggi della lingua,
cioè di quelle regole che vengono condivise dagli appartenenti ad una medesima
comunità linguistica. La parola assume così un carattere soggettivo, esprimendo dei
contenuti particolari, mentre il linguaggio è la dimensione universale di ogni atto
comunicativo che rispetta un codice linguistico (la lingua) determinato da condizioni
storiche e geografiche. Ecco come la parola del soggetto è strutturalmente articolata
al campo del linguaggio.
Ora, seguendo la teorizzazione di Lacan in Funzione e campo è possibile
osservare come l’inconscio venga ricondotto a una realtà transindividuale in grado di
permeare la vita e il discorso del soggetto: «l’inconscio è quella parte del discorso
concreto in quanto transindividuale, che difetta alla disposizione del soggetto per
ristabilire la continuità del suo discorso cosciente».16 Più precisamente l’inconscio si
presenta come quel capitolo censurato della storia del soggetto17 e il sintomo viene
considerato come «il significante di un significato rimosso dalla coscienza del
soggetto».18
D’altra parte Lacan rilegge Freud rimarcando che la nozione di inconscio serve a
chiarire la natura di quelle ragioni che, al di là del campo di giurisdizione dell’io
cosciente, delineano la trama simbolica del percorso esistentivo di ciascuno. Queste
ragioni, ovvero la verità dell’inconscio, che vengono veicolate dai sintomi,19 dai
sogni20 o dai lapsus sono una scrittura e rivelano una struttura linguistica. La tesi di
16
17
18
19
20
J. LACAN (1953a), «Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 252.
«L’inconscio è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco od occupato da una
menzogna: è il capitolo censurato» (LACAN 1953a, p. 252).
J. LACAN (1953a), «Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 274.
«Il sintomo psicoanalizzabile, sia normale che patologico, si distingue non solo dall’indice
diagnostico, ma da ogni forma afferrabile di pura espressività, per il fatto di essere sostenuto da una
struttura identica alla struttura del linguaggio» (LACAN 1957a, p. 436).
«Si riprenda dunque l’opera di Freud alla Traumdeutung, per ricordarsi che il sogno ha la struttura
di una frase, o meglio, stando alla sua lettera, di un rebus, vale a dire di una scrittura, di cui il sogno
15
Lacan consiste nel ricondurre l’inconscio freudiano allo statuto di una struttura
simbolica che opera nella vita del soggetto. L’inconscio viene dunque riletto da
Lacan come un’altra logica che funziona all’insaputa del soggetto. L’inconscio è un
funzionamento ed è strutturato come un linguaggio.
«Per Lacan l’inconscio freudiano non è ineffabile, né è una forma immaginaria,
ma è articolato. Articolato come un linguaggio. E quindi è una struttura simbolica.
Da qui l’aforisma che l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Secondo Lacan
la scoperta di Freud non è tanto da situare nello svelamento dei contenuti di questo
inconscio, sempre immaginari, ma nello svelamento delle leggi che presiedono al suo
funzionamento».21
In altre parole, il riferimento allo strutturalismo da parte di Lacan è volto a
dissipare due fraintendimenti storici fondamentali dell’inconscio freudiano, in base ai
quali esso non sarebbe stato altro che un serbatoio di pulsazioni arcaiche o un’istanza
non ancora cosciente, non ancora assorbita dal potere di sintesi dell’io. L’esperienza
della cura psicoanalitica evidenzia infatti una dimensione «altra» (inconscia) che
abita il cuore dell’io: in quest’altra scena c’è qualcosa del tutto analogo a quanto
avviene a livello del soggetto cosciente, qualcosa parla e funziona in modo
altrettanto elaborato che a livello del conscio, il quale perde così ciò che sembrava
essere il suo privilegio.
2. L’io (le moi) e il soggetto (le je)
In una seduta psicoanalitica la comprensione dei fenomeni clinici rimanda
necessariamente alla loro articolazione. E la struttura che sottende il manifestarsi dei
fenomeni non è altro che un’ipotesi che viene formulata rispetto ai rapporti che ne
regolano l’insorgere. L’inconscio è appunto l’ipotesi freudiana rispetto alla
sofferenza del sintomo e si configura come il principio della pratica analitica.
21
del bambino rappresenterebbe l’ideografia primordiale, e che nell’adulto riproduce l’impiego
fonetico e simbolico ad un tempo degli elementi significanti, che si ritrova sia nei geroglifici
dell’antico Egitto che nei caratteri di cui la Cina mantiene l’uso» (LACAN 1953a, p. 260).
A. DI CIACCIA, M. RECALCATI, Jacques Lacan. Un insegnamento sul sapere dell’inconscio, B.
Mondadori, Milano 2000, p. 146.
16
Nella cura psicoanalitica si cerca quindi di decifrare un funzionamento che seppur
non evidente si fa sentire nella vita del soggetto per le vie del sintomo:22 da un punto
di disfunzionamento che si ripete nell’esperienza del soggetto (pulsione) si arriva a
formulare un funzionamento (inconscio-trama significante).
I matemi lacaniani e l’articolazione della trama significante sono il tentativo per
estrarre quelle leggi attraverso cui leggere l’enigma del sintomo, ma anche tutte le
altre «formazioni dell’inconscio». Le manifestazioni dell’inconscio – sogni, sintomi,
lapsus, atti mancati, etc. – si configurano sia come un enigma cui rispondere sia
come segno di un’enunciazione in cui un soggetto è coinvolto, seppur senza saperlo.
È di fronte a fenomeni simili che Lacan distingue il soggetto dell’enunciato (le moi)
dal soggetto dell’enunciazione (le je).23 Il soggetto della psicoanalisi (le je) si
riferisce all’inconscio e la trama dell’inconscio si configura come un discorso che
abita il cuore dell’Io (le moi).
L’inconscio apre dunque una faglia nell’egemonia dell’Io e l’indicazione clinica
di Lacan è infatti quella di rivolgersi all’ascolto del paziente tenendo presente la non
coincidenza tra l’io che parla e il soggetto dell’inconscio: «l’inconscio sfugge a
questo cerchio di certezze in cui l’uomo si riconosce come io. […] È proprio ciò che
è più misconosciuto dal campo dell’io, che nell’analisi arriva a formularsi, sì, come
io (je)».24
La distinzione tra le moi e le je è un asse portante in tutto l’insegnamento di
Lacan. L’io (moi) corrisponde all’identità narcisistica in cui il soggetto si aliena nel
cosiddetto «stadio dello specchio».25 L’esperienza dello specchio viene teorizzata da
Lacan come un momento fondamentale per lo sviluppo del bambino, che tra i sei e i
diciotto mesi si riconosce, per la prima volta, nell’immagine che gli viene
specularmente riflessa. Fino ad allora infatti il bambino aveva avuto un’esperienza di
22
23
24
25
«Sull’inconscio, bisogna andare al dunque dell’esperienza freudiana. L’inconscio è un concetto
forgiato sulla traccia di ciò che opera per costituire il soggetto» (LACAN 1964b, p. 833).
«Freud dice – il soggetto non è la sua intelligenza, non è sullo stesso asse, è eccentrico. […] Il
soggetto è decentrato rispetto all’individuo. È questo che vuol dire Io (je) è un altro» (LACAN
1954-1955, p. 11).
J. LACAN (1954-1955), Il seminario, Libro II, L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della
psicoanalisi, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006, p. 10.
Nel 1936 Lacan ha proposto, nel primo intervento tenuto a un Convegno internazionale di
psicoanalisi, la sua teoria sulla formazione dell’Io, meglio nota come «lo stadio dello specchio».
Cfr. J. LACAN (1949), «Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io», in ID.
(1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 87-94.
17
sé caratterizzata dalla fluidità e dalla frammentazione del reale corporeo, vissuto che
tra l’altro non è mai afferrabile in modo univoco e stabile. L’immagine dello
specchio fornisce invece al bambino un’unità totalizzante che esercita un’attrazione
identificatoria, in un momento che Lacan non esita a definire «giubilatorio». Il
bambino può così rispondere alla domanda relativa al suo essere, dicendo: «Io sono
quello».
Ma l’io dello specchio è un altro, anzi è un oggetto che sta al di fuori del proprio
corpo, è un’unità alienante: infatti «l’essere umano non vede la sua forma realizzata,
totale, il miraggio di se stesso, se non fuori se stesso».26 A tal proposito Lacan parla
di alienazione immaginaria dell’io, effetto che introduce nel soggetto una faglia
incolmabile tra l’essere e l’io. «Se l’ego è una funzione immaginaria»27 allora non
può essere confuso con il soggetto, perché l’io è innanzitutto un oggetto.
Il rapporto che l’io intrattiene con l’altro speculare, con il simile con cui può
rispecchiarsi non è quindi un rapporto veramente intersoggettivo perché si tratta di
una relazione in cui l’io ritrova soltanto un’immagine o un’analogo di sé. Il rapporto
con l’altro dello specchio è il prototipo della relazione narcisistica.28 L’Altro
simbolico, con la A maiuscola, riguarda invece l’alterità che si intende mettere in
campo nella cura psicoanalitica.
Il livello dell’io (moi) è un asse immaginario (speculare e simmetrico) in cui
l’individuo oscilla tra il giubilo identificatorio e l’aggressività. L’aggressività è una
tensione
correlativa
alla
struttura
narcisistica
dell’identificazione:
sebbene
l’immagine offra un appiglio identificatorio al soggetto, rimane però soltanto come
un ideale irraggiungibile, come un miraggio. La passione suscitata dalle relazioni
immaginarie, qualora si riveli nel suo statuto di illusione immaginaria, può infatti
rovesciarsi su un piano completamente opposto rispetto a quello della riconciliazione
26
J. LACAN (1953-1954), Il seminario, Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, ed. it. a cura di G.B.
Contri, Einaudi, Torino 1978, p. 175.
27
Ivi, p. 241.
28
«La relazione narcisistica col proprio simile è l’esperienza fondamentale dello sviluppo
immaginario dell’essere umano. In quanto esperienza dell’io, la sua funzione è decisiva nella
costituzione del soggetto. Che cos’è l’io, se non qualche cosa che il soggetto sperimenta in un
primo tempo come estraneo a sé all’interno di sé? In un primo tempo il soggetto si vede in un altro,
più evoluto, più perfetto di lui. In modo particolare egli vede la propria immagine nello specchio a
un’epoca in cui è capace di percepirla come un tutto, quando invece non si sente ancora tale, ma
vive nella confusione originaria delle funzioni motrici e affettive, come avviene nei primi sei mesi
dopo la nascita» (LACAN 1953b, p. 27).
18
con l’altro (immaginario), che è appunto quello dell’aggressività. Inoltre sebbene l’io
ritrovi un’immagine unificata di se stesso nell’altro rischia però di vedere occupato il
proprio posto dall’altro, è l’altro dell’immagine che occupa infatti il posto dell’io
ideale dove il soggetto credeva di poter essere. È su queste coordinate che si situa il
fondamento paranoico dell’identità immaginaria da cui scaturisce quel rapporto
d’odio in cui può soltanto esistere o l’io o il tu.29
In questa prospettiva il problema dell’alienazione speculare appare superabile
attraverso un lavoro di analisi volto alla disidentificazione del soggetto
dall’evanescenza immaginaria dell’io.30 L’analisi avrebbe come scopo quello di
liberare il discorso del soggetto dalla trappola immaginaria di una parola che si
rivolge soltanto a un doppio dell’io (moi). Questa sarebbe soltanto una «parola
vuota», una parola priva dell’essere del soggetto, una parola che non assume e che
non veicola la dimensione transindividuale che invece fonda l’io (je) nel suo statuto
intersoggettivo. «Ritroviamo dunque sempre il nostro duplice riferimento alla parola
e al linguaggio. Per liberare la parola del soggetto, lo introduciamo al linguaggio del
suo desiderio, cioè al linguaggio primo nel quale, al di là di quello che egli dice di sé,
già ci parla a sua insaputa, e anzitutto nei simboli del sintomo».31
3. Parola piena e parola vuota: il soggetto e l’Altro
La distinzione tra «parola piena» e «parola vuota» indica due modi di
posizionamento del soggetto in relazione alla funzione della parola. Questa relazione
è ispirata dalla dialettica hegeliana del riconoscimento, nella quale il soggetto si fa
riconoscere attraverso il campo dell’Altro.32 Si trova un esempio di questo paradigma
29
30
31
32
Per approfondimenti su questo punto si rimanda alle tesi formulate in J. LACAN (1948),
«L’aggressività in psicoanalisi», in ID. (1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino
1974, pp. 95-118.
«È dunque sempre nel rapporto fra l’io [moi] del soggetto con io [je] del suo discorso che dovete
comprendere il senso del discorso per disalienare il soggetto. Ma non saprete riuscirvi se vi
atterrete all’idea che l’io del soggetto è identico alla presenza che vi parla» (LACAN 1953a, p. 297).
La separazione tra le moi e le je proposta dalla psicanalisi di Lacan trova un analogo nella
distinzione tra l’Io empirico e l’Io trascendentale così come viene formulata nell’analisi antropofenomenologica di Blankenburg. Cfr. W. BLANKENBURG (1971), La perdita dell’evidenza naturale.
Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche, Cortina, Milano 1998.
J. LACAN (1953a), «Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi», in ID., Scritti,
vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 287.
«L’Altro di Lacan non è univoco: è l’Altro del linguaggio, l’Altro del discorso universale. È anche
l’Altro della verità, il terzo di ogni dialogo, riferimento in ogni patto e controversia, l’Altro della
19
nella formulazione “tu sei la mia donna”: questo messaggio definisce la posizione del
soggetto nei termini di “io sono il tuo uomo”,33 formula che Lacan riprende per
mostrare la struttura simbolica della comunicazione intersoggettiva secondo la quale
«l’emittente […] riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita».34 La
funzione soggettiva della parola trova quindi una convalida del suo ex-sistere solo
nella dimensione dell’alterità del linguaggio, che articola il percorso di significazione
del soggetto. L’esistenza del linguaggio definisce l’orizzonte entro il quale la vita
può avvenire e, al contempo, condiziona la funzione della stessa parola: la lezione
dello strutturalismo linguistico consiste infatti nel mettere in evidenza che la
funzione diacronica della parola dipende dalla sincronia del linguaggio.
La forma dialettica con la quale la parola del soggetto trova il suo senso
nell’ascolto dell’Altro si traduce nel fatto che «non c’è parola senza risposta, anche
se non incontra che il silenzio, purché essa abbia un uditore».35 La funzione
soggettiva della parola è dialetticamente fondata sulla risposta che riceve dall’Altro,
ossia sul riconoscimento che l’Altro opera sul messaggio del soggetto. La risposta
dell’Altro determina quindi in modo retroattivo l’aspetto di domanda della parola.
Peraltro «la funzione della parola viene descritta nell’insegnamento classico di
Lacan come omologa a quella del desiderio, perché entrambe trovano la loro
significazione nel luogo dell’Altro, nella risposta dell’Altro».36 Lacan stabilisce
dunque un’omologia tra la parola e il desiderio, opponendo quest’ultimo al bisogno.
Il bisogno è infatti filogeneticamente determinato e la sua soddisfazione corrisponde
a quella istintuale: quando si ha sete si beve e quando si ha fame si mangia, tutto è
biologicamente programmato e perché tutto vada bene è semplicemente necessaria la
presenza degli oggetti di soddisfacimento. Il desiderio è invece «antropogeno»,
buona-fede; è anche l’Altro della parola, allocutore fondamentale, destinatario del discorso al di là
di ogni colloquio a due. Secondo il lessico della teoria della comunicazione, è il luogo del ‘codice’,
che è anche quello dove si elabora il messaggio» (MILLER 1981-1984, p. 79).
33
La funzione della parola «impegna il suo autore coll’investire il suo destinatario di una realtà nuova,
per esempio quando con un “Tu sei la mia donna”, un soggetto si suggella come l’uomo del
conjungo» (LACAN 1953a, p. 291).
34
J. LACAN (1955), «Il seminario su La lettera rubata», in ID. (1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B.
Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 38.
35
J. LACAN (1953a), «Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 241.
36
M. RECALCATI, «La cura e la parola. Pratiche cliniche del colloquio», in L. COLOMBO ET AL. (a cura
di), La cura della malattia mentale II. Il trattamento, B. Mondadori, Milano 2001, p. 21.
20
perché è rivolto verso un soggetto e in particolare verso il suo desiderio. «Ora,
desiderare un Desiderio è voler sostituire se stesso al valore desiderato da questo
Desiderio. Infatti, senza questa sostituzione si desidererebbe il valore, l’oggetto
desiderato, non il Desiderio stesso».37 Il desiderio – che è desiderio dell’Altro – va
dunque al di là del bisogno, aprendo nel soggetto la dimensione simbolica della
soddisfazione.
La «parola piena» si riferisce dunque all’annodamento della parola sul desiderio:
la parola si configura così come il precipitato della tensione che muove il soggetto
dell’inconscio verso l’Altro. La «parola vuota» è invece il medium della certezza
narcisistica, è un veicolo dell’Io e proprio per questo è un veicolo senza soggetto. La
parola vuota è infatti un taglio della dialettica del riconoscimento, l’individuo smette
di rivolgersi all’Altro, per appiattirsi su una dimensione che contempla solo
quell’altro narcisistico (e quindi speculare) in cui si era originariamente alienato.
La parola vuota trattiene quindi l’individuo al di qua di una dialettica con l’Altro,
lasciandolo nella relazione speculare con l’altro in cui si identifica. La parola piena
compare invece ogni qual volta la parola si apre sull’alterità e si configura come una
domanda di senso che può trovare il suo compimento nel messaggio ricevuto
dall’Altro.38 La parola quindi «si situa nell’Altro, con la mediazione del quale si
realizza ogni parola piena, quel tu sei ove il soggetto si situa e si riconosce».39 Nel
corso dell’esperienza psicoanalitica il soggetto può riconoscere il suo inconscio, può
«completare la storicizzazione attuale dei fatti che hanno determinato già nella sua
esistenza un certo numero di “svolte” storiche».40
4. Significante e significato: il soggetto diviso
Nella prima fase dell’insegnamento di Lacan la parola sembra restituire al
soggetto il senso della sua esperienza: la relazione con l’Altro può ricongiungere il
soggetto a quel capitolo che era rimasto censurato nell’inconscio. Nelle successive
37
A. KOJÈVE (1947), Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996, p. 21.
«L’Altro è il luogo ove si costituisce colui che parla con colui che ascolta. [...] L’Altro dev’essere
considerato anzitutto come un luogo, il luogo in cui la parola si costituisce» (LACAN 1955-1956,
pp. 323-324).
39
J. LACAN (1955-1956), Il seminario, Libro III, Le psicosi, ed. it. a cura di G.B. Contri, Einaudi,
Torino 1985, p. 190.
40
J. LACAN (1953a), «Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 255.
38
21
scansioni del percorso di Lacan però il luogo del soggetto viene diviso e separato
dalla possibilità di realizzarsi in modo esaustivo nella parola. La funzione della
parola viene marcata da una frattura interna, da un’impossibilità strutturale (e non
accidentale) che determina una discrepanza irriducibile tra il piano dell’esistenza e il
piano dell’enunciato, tra l’essere e il dire. Con l’accentuazione del binario
significante-significato – che trova il suo culmine nel testo l’Istanza della lettera – il
piano dell’enunciato non coincide più con il piano dell’enunciazione. L’enunciazione
si configura semmai come un resto irriducibile al potere rappresentativo
dell’enunciato. È a tal proposito che Lacan descrive «uno scivolamento incessante
del significato sotto il significante».41
La concezione del segno linguistico di Lacan risente in particolare dell’influenza
di Saussure, Jakobson e Trubeckoj, dei quali sviluppa, in modo originale, la tesi della
separazione – ovvero del nesso arbitrario – tra significante e significato: il
significante, cioè l’immagine acustica di una parola, è in rapporto con il significato
solo per il principio di arbitrarietà. Saussure propone una rappresentazione grafica
del segno linguistico come rapporto tra significato (s) e significante (S), s/S, che
Lacan rovescia, dando priorità assoluta al significante, poiché questo precede la
costituzione del significato. Nella costituzione dell’enunciato ogni singolo elemento
è composto da un insieme di lettere che, considerate singolarmente, non hanno alcun
significato e solo nel loro concatenarsi (nella frase) possono assumere un significato.
La teorizzazione di Lacan dell’algoritmo saussuriano rovescia e stravolge la
concezione del segno di Saussure: oltre a rovesciarne i termini, ponendo il
significante sopra il significato (S/s), marca infatti la barra di separazione dei due,
per cui il significante non potrà mai coincidere con il significato.
Il significante dunque, in quanto segno linguistico, differisce dal «segnale»42 e non
corrisponde mai in modo univoco al significato (polisemia del significante). Dalla
non coincidenza tra significante e significato scaturisce la presenza di un «resto» che
rimane insaturo rispetto al potere rappresentativo del significante, è quell’al di là del
senso che ci consente di osservare la «significazione» particolare che ricevono certe
41
J. LACAN (1957b), «L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 497.
42
Per questa precisazione ringrazio il Prof. Sergio Sabbatini, docente di Linguistica strutturale presso
l’Istituto freudiano di Roma.
22
frasi o eventi relazionali. Lo stesso evento può avere effetti e risonanze opposte in
soggetti diversi. Oltre ai detti, osserviamo il dire del soggetto, l’«enunciazione» a cui
rimandano i suoi «enunciati».
Il soggetto dell’enunciazione (le je) non è il soggetto padrone del senso (le moi),
appare semmai nel margine di non coincidenza tra significante e significato. Sebbene
il significato sia effetto del significante, non cessa di sottrarsi alla sua presa: c’è
sempre uno slittamento del senso che consente ad ogni enunciato di caricarsi di una
significazione peculiare. L’enunciazione è la tensione che proietta il dire oltre gli
enunciati. Le parole che il soggetto pronuncia sono pronte a caricarsi di una
significazione che, nonostante sia effetto della serie dei significanti, non può
compiersi del tutto nel registro del significante.
La catena significante43 è quindi concepibile come una trama sintattica che dà un
ordine formale a dei simboli senza riguardo per il loro significato: «il significante per
sua natura anticipa sempre il senso, dispiegando in qualche modo davanti ad esso la
sua dimensione».44 L’apparente non-senso espresso da un lapsus può infatti originarsi
perché c’è un piano sintattico che sovradetermina la manifestazione semantica di un
enunciato. Chi è il soggetto del lapsus? Non è il soggetto che sa ciò che vuole dire,
c’è un’intenzione a dire (enunciazione) che supera il soggetto padrone del senso.
Oppure, spostandoci su un versante più clinico: chi è il soggetto di un pensiero
tormentoso che ostacola un paziente nel raggiungimento dei suoi obiettivi e che si fa
ancora più forte proprio quando più si avvicina ad essi? La psicoanalisi ritiene che
tali manifestazioni non siano frutto di un disfunzionamento neurocognitivo, ma che
piuttosto siano l’indice di una divisione soggettiva che separa il sapere che un
soggetto ha su di sé dalla sua verità. Lacan parla infatti della «divisione del soggetto,
come divisione fra il sapere e la verità».45 Ecco come la barra che separa significante
e significato (S/s), rendendo quest’ultimo inassimilabile al primo, ricade sullo statuto
del soggetto che da un lato nasce ed è rappresentato dall’effetto del significante ma
43
«Con la seconda proprietà del significante, di essere composto secondo le leggi di un ordine chiuso,
si afferma la necessità del substrato topologico di cui il termine di catena significante che uso di
solito, dà un’approssimazione: anelli la cui collana si sigilla nell’anello di un’altra collana fatta di
anelli» (LACAN 1957B, p. 496).
44
J. LACAN (1957b), «L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 497.
45
J. LACAN (1965), «La scienza e la verità», in ID. (1965), Scritti, vol. II, a cura di G.B. Contri,
Einaudi, Torino 1974, p. 860.
23
dall’altro non trova mai la sua coincidenza nel significante che lo rappresenta. Il
significante rappresenta il soggetto per un altro significante, il soggetto si manifesta
dunque come effetto dell’articolazione significante. Il soggetto non può realizzare il
suo essere sul piano dell’enunciato e rimane piuttosto come un effetto
d’enunciazione. Si situa qui la scrittura di S (Soggetto barrato) per indicare lo statuto
del soggetto barrato, del soggetto diviso tra la funzione di essere rappresentato dal
significante e da quella di non poter essere rappresentato dal significante.
L’enunciazione, che può scaturire dall’articolazione dei significanti, è quindi un
aspetto costitutivo dell’essere parlante e si tratta di un effetto che dipende dal fatto
stesso di parlare. In analisi il piano dell’enunciazione viene esplorato mediante
l’«associazione libera da rappresentazioni finalizzate»:46 il paziente parla liberamente
senza pensare al fatto che ciò che dice sia coerente, logico o sensato. Il principio che
sta alla base del dispositivo analitico si fonda sulla formula seguente: «quel che tu
dici va al di là di quel che tu sai».47
5. Metafora e metonimia
In conformità a quanto già detto, la funzione della parola suppone l’esistenza di
una catena, una rete di significanti che consiste appunto nell’uso della lingua. Lacan
parte da questa prospettiva e riprende i testi freudiani L’interpretazione dei sogni,
Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito nella sua relazione con
l’inconscio per ritrovarvi le operazioni essenziali del significante, «ovvero quelle
funzioni attraverso cui il vomere del significante scava il significato nel reale,
letteralmente lo evoca, lo fa nascere, lo maneggia, lo genera».48
A tal proposito Lacan prende in considerazione la battuta di spirito e la definisce
come un messaggio che assume significatività nella sua differenza rispetto al codice.
Il motto di spirito qualche volta può essere prodotto nel modo meno intenzionale che
ci sia e in un certo qual modo viene da solo, in questo senso non è altro che «il
46
47
48
S. FREUD (1899), «L’interpretazione dei sogni», Opere, vol. 3, a cura di C.L Musatti, Bollati
Boringhieri, Torino 1967, p. 484.
J.-A. MILLER (1999), «L’esperienza del reale nella cura analitica», La Psicoanalisi, n. 29, 2001, p.
173. [Corso tenuto al Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII nell’anno
accademico 1998-1999].
J. LACAN (1957-1958), Il seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, ed. it. a cura di A. Di
Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 26.
24
rovescio di un lapsus».49 Lacan cerca di individuare da un lato l’articolazione degli
elementi significanti che sovradeterminano queste espressioni linguistiche e
dall’altro ciò che il motto di spirito – così come anche le altre formazioni
dell’inconscio – cerca di far intendere come un eco che superi la censura del codice
linguistico. Quindi il motto di spirito è l’esempio di un funzionamento significante
attraverso cui il soggetto cerca di significare qualcosa che rimane escluso (rimosso)
dal «filtro che mette ordine e fa ostacolo a ciò che può essere ricevuto o
semplicemente inteso».50 Entra qui in gioco l’appello che il soggetto rivolge all’Altro
in quanto essere vivente e luogo simbolico.
L’Altro è quel «tesoro dei significanti» che permette di riassorbire quelle
formazioni linguistiche che trasgrediscono il codice. Occorre infatti l’avallo
dell’Altro affinché un messaggio possa essere iscritto nel codice come battuta di
spirito. L’Altro consente il passaggio da «un di poco di senso» a «un più di senso».
L’Altro del linguaggio è quel luogo sovraindividuale senza il quale il motto di spirito
non può assumere il suo valore e la sua portata. Quindi «lo scandalo
dell’enunciazione» di un messaggio (o di un sintomo) che si sottrae al codice viene
inserito nel funzionamento stesso della catena significante e in tal modo Lacan può
rivolgersi alle formazioni dell’inconscio leggendole come operazioni significanti.51
Le operazioni di metafora e metonimia permettono a Lacan di render conto del
lavoro dell’inconscio, con esse traduce i concetti freudiani di «condensazione» e
«spostamento», che indicano appunto due dei modi essenziali del funzionamento dei
processi inconsci. Lacan rilegge i meccanismi descritti da Freud approfittando del
contributo della linguistica sviluppata da Jakobson, in particolare del celebre testo
Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia.52
49
50
51
52
«Come vi ho mostrato, il motto di spirito qualche volta non è altro che il rovescio di un lapsus, e
l’esperienza mostra che molti motti di spirito nascono in questo modo – ci si accorge a posteriori di
essere stati spiritosi, ma il motto di spirito è venuto da solo» (LACAN 1957-1958, p. 149).
J. LACAN (1957-1958), Il seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, ed. it. a cura di A. Di
Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 119.
«Quando Freud ci parla dell’inconscio, non ci dice che esso è strutturato in un certo modo, eppure
ce lo dice, nella misura in cui le leggi che propone, quelle della composizione dell’inconscio,
ricalcano alcune delle leggi di composizione fondamentali del discorso» (LACAN 1957-1958, p.
64).
Cfr. R. JAKOBSON (1956), «Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia», in Saggi di linguistica
generale, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 22-45.
25
Quando Jakobson si pone il problema di fondare un’interpretazione convincente
dell’apprendimento e dei disturbi del linguaggio impiega lo stesso strumento
conoscitivo utilizzato per fondare una teoria fonologica universale: la logica
binarista. Il binarismo si basa sul concetto di opposizione distintiva: l’opposizione è
infatti un principio strutturale che unisce due cose distinte ma che allo stesso tempo
le lega indissolubilmente perché l’una non può essere mai definita senza l’altra. Tra
le nozioni binarie fondamentali che Jakobson prende in considerazione nei suoi studi
sull’afasia quella che viene poi ripresa da Lacan riguarda l’opposizione tra
«selezione» e «combinazione».53 L’opposizione fondamentale tra selezione e
combinazione consiste in una riformulazione degli assi paradigmatico e sintagmatico
introdotta in linguistica da Hjelmslev, che a sua volta si basa sulla differenziazione
saussuriana tra rapporti associativi e rapporti sintagmatici intercorrenti tra gli
elementi linguistici. L’asse paradigmatico si organizza intorno alla similarità
concettuale, mentre quello sintagmatico intorno alla contiguità non necessariamente
di natura concettuale. I due principi di similarità e contiguità mostrano secondo
Jakobson due parallelismi: da una parte quello tra similarità e metafora e dall’altra
quello tra contiguità e metonimia.
La metonimia è dunque la figura del sintagma in quanto il discorso vi si presenta
come concatenazione di entità successive, ossia come tessitura testuale di rapporti di
contiguità significante.54 Lacan introduce la metonimia mediante il paradigma delle
«trenta vele». Si tratta di un esempio in cui si mostra come la parte («trenta vele»)
possa esser presa per il tutto («trenta navi»): «si vede che la connessione tra la nave
e la vela non è altrove che nel significante, e che è nel parola per parola, nel mot à
53
54
Ogni codifica di un’espressione verbale si organizza mediante una selezione degli elementi
linguistici che precede la loro combinazione. Se nel processo di codifica la selezione precede la
combinazione, nella decodifica invece si verifica una inversione dei due meccanismi. Jakobson
impiega questi due modi di organizzazione (selezione e combinazione) che operano nel linguaggio
per spiegare l’afasia motoria o di Broca e l’afasia sensoriale o di Wernicke. Nel caso dell’afasia di
Broca viene compromesso il meccanismo di combinazione degli elementi al momento della
codifica, mentre rimane intatto quello di selezione. Nel caso dell’afasia di Wernicke si verifica una
situazione clinica opposta, ciò che si osserva infatti è una buona capacità combinatoria, mentre
risulta danneggiata quella selettiva.
«La Verschiebung, o spostamento: cioè, più vicino al termine tedesco, il viraggio della
significazione dimostrato dalla metonimia e che, fin dalla sua apparizione in Freud, è presente
come il mezzo più adatto per eludere la censura» (LACAN 1957b, p. 506).
26
mot, di questa connessione che poggia la metonimia».55 Lacan intende qui
evidenziare che è la connessione tra i segni linguistici che produce la figura
metonimica, e non quella tra i referenti.56 Il senso della frase si costituisce infatti
nella trasfigurazione significante operata dalla figura della metonimia e non in virtù
dell’attrezzatura della nave, ovvero le vele, gli alberi, etc. La metonimia viene messa
sullo stesso piano dello spostamento freudiano poiché si tratta appunto di un
funzionamento che fa slittare il senso sulla catena significante.
La metafora invece si articola nel gioco della sostituzione di un significante con
un altro, sostituzione che avviene sulla base di una similarità semantica.57 «La
scintilla creatrice della metafora non scaturisce dal fatto che sono messe in presenza
due immagini, cioè due significanti ugualmente attualizzati. Essa scaturisce fra due
significanti uno dei quali s’è sostituito all’altro prendendone il posto nella catena
significante, mentre il significante occultato rimane presente per la sua connessione
(metonimica) col resto della catena».58 La formula è dunque quella di «una parola
per un’altra, un mot pour un autre».59
La rilettura lacaniana dei testi di Freud intende ricondurre le operazioni di lettura
inaugurate nella Traumdeutung ad una analitica del linguaggio che valorizza
l’istanza del significante nella decifrazione della «significanza del sogno». Freud
esemplifica queste strategie di lettura quando esemplifica i modi in cui intendere il
rebus del sogno.
Con la metonimia e la metafora Lacan cerca di trovare due operazioni che gli
permettano di render conto del lavoro dell’inconscio: la prima corrisponde
all’articolazione dei significanti, mentre la seconda alla sostituzione di un
significante con un altro. Se nella metonimia i significanti si combinano sulla base di
rapporti sintagmatici, ossia sulla sequenzialità e contiguità, nella metafora un
55
J. LACAN (1957b), «L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 500.
56
Il «referente» è ciò di cui parla il «nome». Per questa annotazione ringrazio il Prof. Roberto Presilla,
docente di Logica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.
57
«La Verdichtung, o condensazione: cioè la struttura di sovrapposizione dei significanti in cui prende
campo la metafora, e il cui nome, condensando in sé la Dichtung, indica la connaturalità di questo
meccanismo con la poesia, fino al punto di includere la funzione propriamente tradizionale di
quest’ultima» (LACAN 1957b, p. 506).
58
J. LACAN (1957b), «L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 501-502.
59
Ivi, p. 502.
27
significante prende il posto di un altro in virtù di un rapporto associativo che
seleziona gli elementi linguistici per somiglianza o analogia. Il fatto che la
metonimia faccia scivolare l’effetto di significazione da un significante all’altro
produce un «poco di senso», poiché un significante rimanda sempre a un altro senza
però trovare mai un punto di condensazione del senso. Invece la metafora con il suo
meccanismo di sostituzione mostra la modalità secondo cui si produce un «più di
senso», ossia un significante riassume su di sé gli effetti di significazione della
catena. Ciò che mostra il carattere peculiare di questa operazione è la famosa
«metafora paterna»: il significante del Nome-del-Padre viene sostituito al
significante del Desiderio della Madre producendo un effetto di significazione che
introduce il soggetto nella dimensione del desiderio.
6. La famiglia: la funzione paterna e il desiderio
La famiglia è una struttura complessa per opera della quale ogni soggetto si trova
vincolato ad una costellazione originaria i cui elementi si ripetono di generazione in
generazione, come il testo di una storia genealogica. La costellazione del soggetto si
costituisce dunque nel racconto di una trama che veicola una tradizione familiare e il
soggetto può essere definito a partire dal suo sistema particolare di relazioni.
«Noi diciamo che la situazione che più dà una norma al vissuto originale del
soggetto moderno, in quella forma ridotta che è la famiglia coniugale, è legata al
fatto che il padre si ritrova il rappresentante, l’incarnazione di una funzione
simbolica che condensa ciò che c’è di più essenziale nelle altre strutture culturali,
vale a dire i godimenti quieti e tranquilli, o meglio simbolici, culturalmente
determinati e fondati, dell’amore della madre, cioè del polo a cui il soggetto è legato
con un legame, questo sì, incontestabilmente naturale. L’assunzione della funzione
paterna suppone una relazione simbolica semplice, in cui il simbolico ricoprirebbe
pienamente il reale».60
Dunque ciò che nella prospettiva di Lacan risulta cruciale è il nodo strutturale tra
simbolico e reale, ossia ciò che fa del corpo-organismo (Körper) un corpo vissuto
60
J. LACAN (1953), «Il mito individuale del nevrotico», in J. LACAN
nevrotico, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 1986, p. 27.
ET AT.,
Il mito individuale del
28
(Leib). Questo nodo si iscrive grazie ad una funzione simbolica che in ambito
psicoanalitico lacaniano viene chiamata «Nome-del-Padre».
Il Nome-del-Padre segna il tempo dell’Altro e «dal punto di vista clinico questo
[…] è il tempo di una determinazione decisiva: c’è stata o meno significazione
fallica? Ovvero: la metafora paterna, l’azione della Legge edipica, è stata o meno
operativa? Il desiderio dell’Altro è stato adeguatamente simbolizzato? Il Nome del
Padre ha sbarrato sufficientemente il godimento materno, ha separato il soggetto
dall’identificazione al fallo oppure il soggetto resta nella posizione di puro oggetto
del fantasma materno? Sono questi interrogativi, clinicamente decisivi, che aprono il
campo per la diagnosi strutturale»61 e a cui è opportuno rispondere.
La famiglia, in ambito psicoanalitico così come negli studi di storia e
antropologia, non è mai riducibile ad una unità naturale, dove avviene cioè soltanto
la riproduzione biologica degli individui, ma è il luogo dove un soggetto incontra il
proprio destino, nel bene e nel male. «Il bambino è la verità del legame che unisce i
due genitori».62 Ciò che eredita non è solo un patrimonio genetico, ma la
declinazione particolare con cui la parola del padre viene accolta dalla madre, ossia il
posto che ha riservato alla funzione paterna.
Nel «sistema del triangolo edipico familiare»63 – così come avviene nella rilettura
lacaniana di Freud – possono essere individuati quegli operatori psichici che
introducono il soggetto in un mondo attraversato e ristrutturato dal simbolico. Nel
complesso di Edipo Lacan distingue «tre tempi»,64 ossia tre scansioni logiche che si
svolgono in una certa successione cronologica. In un primo tempo, in una fase
precoce dello sviluppo, il bambino sente di essere tutto per la madre, ciò che appaga
la madre completamente. L’entrata in scena del Nome-del-Padre segna la
separazione della coppia madre-bambino, instaurando il passaggio da questa
dialettica immaginaria al secondo tempo dell’Edipo: quello dell’interdizione paterna.
61
M. RECALCATI, Per Lacan. Neoilluminismo, neoesistenzialismo, neostrutturalismo, Borla, Roma
2005, p. 138.
62
J. LACAN (1969), «Due note sul bambino», La Psicoanalisi, n. 1, 1987, pp. 22-23.
63
J. LACAN (1957-1958), Il seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, ed. it. a cura di A. Di
Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 473. Occorre precisare che alla triade madre-bambino-padre
Lacan aggiunge un quarto termine: il fallo. Si vedrà più avanti uno degli aspetti della
«significazione fallica» che vengono implicati dal e nell’Edipo.
64
Per maggiori approfondimenti sui passaggi del pensiero di Lacan che sono qui selezionati si
rimanda al Seminario V (sessioni del 22 e 29 gennaio 1958) e alla Questione preliminare (Scritti),
nonché al relativo commento di Miller contenuto ne Il nuovo (pp. 58-68).
29
La funzione paterna opera una duplice manovra d’interdizione (castrazione
simbolica), rivolgendosi sia al bambino che alla madre: quest’ultima non può più
soddisfarsi completamente nel bambino, che a sua volta viene sganciato
dall’identificazione immaginaria al fallo, cioè dall’identificazione all’oggetto del
Desiderio Materno.
Lacan cerca di chiarire «la relazione del bambino […] con l’oggetto del desiderio
della madre».65 Si tratta del fallo e l’identificazione immaginaria ad esso si configura
come una strategia del bambino per arrivare alla soddisfazione, venendo al posto
dell’oggetto del desiderio materno. Il punto di partenza di questa maglia concettuale
implica infatti che il desiderio del soggetto sia il desiderio di un desiderio, quello
della madre.
Lacan sottolinea più volte che «ciò che deve essere oltrepassato è questo D, cioè il
desiderio della madre»,66 affinché possa entrare in gioco «l’al di là della madre, che è
costituito dal suo rapporto con un altro discorso – quello del padre».67 Si situa qui «il
momento in cui il padre si fa sentire come colui che proibisce».68 In questo secondo
tempo dell’Edipo il padre «appare mediato nel discorso della madre».69 Lacan è
molto preciso e scrive: «dire ora che il discorso del padre è mediato non vuol dire
che facciamo di nuovo intervenire quel che la madre fa della parola del padre, ma
che la parola del padre interviene in modo effettivo sul discorso della madre».70
L’interdizione paterna mette in questione l’identificazione primitiva del bambino,
che rimane «a bocca asciutta per quanto riguarda il suo ritrovarsi nel desiderio del
desiderio della madre».71 Dopo questo momento privativo la tappa seguente
configurerà un giro di boa nelle identificazioni del soggetto, che potrà assumere i
tratti significanti – i «titoli» li chiama Lacan – in grado di garantire una posizione
rispetto al proprio desiderio.
La legge veicolata dal Nome-del-Padre non è soltanto un’interdizione del
godimento, infatti il tramonto dell’Edipo apre al bambino una dimensione che sta al
65
J. LACAN (1957-1958), Il seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, ed. it. a cura di A. Di
Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 201.
66
Ibidem.
67
Ivi, p. 204.
68
Ivi, p. 205.
69
Ibidem.
70
Ibidem.
71
Ivi, p. 206.
30
di là del sacrificio del suo godimento. In questa terza fase, definita da Lacan la tappa
«feconda», la funzione del padre consiste nel fornire al soggetto un modello in cui
identificarsi, ma questa volta su un piano simbolico. Il padre risarcisce il sacrificio
pulsionale del bambino con un dono simbolico: un ideale che struttura nel soggetto
l’annodamento tra legge e desiderio. Freud indicava con questo concetto l’«Ideale
dell’Io». L’intervento del Nome-del-Padre è dunque necessario affinché il soggetto
trovi posto in un apparato simbolico. Questo è il carattere duplice della funzione
paterna dal punto di vista della legge: da una parte l’interdizione e dall’altra
l’abilitazione al desiderio. Nella metafora paterna il significante del Nome-del-Padre
si sostituisce al significante enigmatico del Desiderio della Madre, simbolizzandolo e
producendo un effetto di significazione che Lacan chiama «significazione fallica».
«Lacan, nella Questione preliminare, introduce il fallo nel simbolico, non come
significante, ma come significazione. Per la precisione, come una significazione
prodotta dalla metafora paterna».72 Questa concettualizzazione viene però
riaggiustata nel testo La significazione del fallo,73 dove il fallo è un significante e non
più una significazione evocata nell’immaginario.
7. Il Nome-del-Padre: il significante dell’Altro
Occorre riprecisare che il Nome-del-Padre non coincide con il padre reale, ma
corrisponde piuttosto alla funzione paterna. Nell’orientamento lacaniano il Nomedel-Padre è un operatore psichico che consente al soggetto di accedere alla funzione
simbolica, alla possibilità cioè di dare un senso all’esperienza. A rigore, il Nome-delPadre è la condizione di possibilità perché un soggetto diventi soggetto d’esperienza,
di un’esperienza propriamente umana, che per Lacan significa avere una trama
significante.74 In termini più strutturali, sappiamo che il Nome-del-Padre è stato
72
J.-A. MILLER (1995), «Silet», La Psicoanalisi, n. 22, 1997, p. 198. [Corso tenuto al Dipartimento di
Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII nell’anno accademico 1994-1995 (lezione del 5 aprile)].
73
J. LACAN (1958c), «La significazione del fallo», in ID. (1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri,
Einaudi, Torino 1974, pp. 682-693.
74
Lacan riprende il concetto di «Nome-del-Padre» dalla Bibbia: possiamo anche sottolineare che in
ebraico antico «essere figlio di» vuol dire «essere destinato a». Per questo riferimento ringrazio il
Prof. Giuseppe Bellia, docente di Teologia biblica presso la Pontificia Facoltà teologica di Sicilia –
Palermo.
31
costituito da Lacan sin da Una questione preliminare75 come un significante con
«funzione trascendentale», letteralmente come l’Altro dell’Altro: il Nome-del-Padre
è «il significante che nell’Altro, in quanto luogo del significante, è il significante
dell’Altro, in quanto luogo della legge».76
Nel Seminario V il Nome-del-Padre è definito «come ciò che permette al soggetto
di percepire l’Altro, luogo della parola, come esso stesso simbolizzato».77 Con il
grande Altro Lacan designa, per schematizzare, l’oggetto primordiale: la madre, il
cui desiderio, grazie all’intervento del Nome-del-Padre, appare «regolato»,
sottoposto cioè alle leggi del significante. Ecco perché si parla di «metafora
paterna»:78 avviene una sostituzione significante che istituisce l’Altro come il luogo
dove si situa la possibilità di introdurre il bisogno nel dimensione significante,
istituendo in tal modo la funzione della parola nella domanda che viene rivolta
all’Altro.79
8. La psicosi e la forclusione del significante paterno
La presenza di un rapporto dialettico con l’Altro garantisce al soggetto la
possibilità di entrare nel campo del linguaggio,80 e se «il nevrotico abita il
linguaggio, lo psicotico ne è abitato, posseduto».81 Ciò che appare «sfasato» nello
psicotico è il rapporto che il soggetto intrattiene con l’Altro. Il carattere essenziale
75
J. LACAN (1958a), «Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi», in ID.
(1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 527-579.
76
Ivi, p. 579.
77
J. LACAN (1957-1958), Il seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, ed. it. a cura di A. Di
Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 473.
78
La metafora del Nome-del-Padre è «la metafora che sostituisce questo nome al posto
primitivamente simbolizzato dall’operazione dell’assenza della madre» (LACAN 1958a, p. 553).
79
«I bisogni del vivente, nell’uomo, sono trasformati dal fatto di doversi formulare in una domanda
diretta all’Altro; in modo generale, il significante si sostituisce ad essi, perché la domanda all’Altro
tende per se stessa a farsi pura domanda della sua risposta, domanda del suo amore; è a partire dal
significante dell’‘Altro onnipotente’ che si opera l’identificazione primaria del soggetto. Lo scarto
tra il bisogno e l’amore rende conto di quello che Freud ha scoperto nel sogno sotto il nome di
Wunsch, e che è il desiderio (il voeu)» (J.-A. MILLER, «Schede di lettura lacaniane», in J. LACAN ET
AL., Il mito individuale del nevrotico, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 1986, p. 80).
80
«L’Altro è il luogo ove si costituisce colui che parla con colui che ascolta […]. L’Altro dev’essere
considerato anzitutto come un luogo, il luogo in cui la parola si costituisce» (LACAN 1955-1956,
pp. 323-324).
81
J. LACAN (1955-1956), Il seminario, Libro III, Le psicosi, ed. it. a cura di G.B. Contri, Einaudi,
Torino 1985, p. 298.
32
della psicosi è di oggettivare «il soggetto in un linguaggio senza dialettica».82 La
pietrificazione delle significazioni psicotiche83 rivela infatti una struttura psichica
marchiata dall’assenza di «un significante primordiale»: il Nome-del-Padre.
Nel pensiero di Lacan il Nome-del-Padre è un significante paterno - ha cioè valore
fondativo - proprio perché significante.84 Nella psicosi viene meno la funzione
costitutiva del Nome-del-Padre, non offre alcuna garanzia alla stabilità dell’Altro; in
un certo senso il soggetto ne scopre l’arbitrarietà e lo rigetta in quanto sembiante:
l’assenza dell’Altro dell’Altro è sempre a rischio di rivelarsi in assenza di quella
significazione fallica che attraverso la metafora paterna garantisce un funzionamento
normale (nevrotico) della struttura.
Lacan parla di «un’insondabile decisione dell’essere», di un momento
imperscrutabile nella storia di un soggetto, che si ricostruisce solo da un punto di
vista logico, attraverso il reperimento di una non «marcatezza»85 del significante
nella struttura.
«La forclusione del Nome-del-Padre vuol dire che, per un soggetto, non c’è
sembiante del Nome-del-Padre, non c’è il tenue sembiante del padre».86 La psicosi si
configura dunque come il fallimento del sembiante, per cui «tutti i nostri discorsi non
sono che difese contro il reale».87 E in particolare il soggetto schizofrenico dice che
«l’Altro non esiste, che il legame sociale è in fondo una truffa, che non c’è discorso
che non sia del sembiante».88
Il rifiuto psicotico del significante paterno riguarda dunque la funzione costituente
della parola, funzione che richiede il consenso del soggetto, che con la libertà di
82
J. LACAN (1953a), «Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi», in ID. (1966),
Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 273.
83
A tal proposito Lacan nel corso del suo Seminario XI (lezione del 10 giugno 1964) introdurrà il
concetto di «olofrase».
84
«Il significante paterno non è significante perché paterno, ma è paterno perché significante» (DI
CIACCIA 2004, p. 19).
85
Il termine viene qui ripreso da Jakobson che, sulla base della logica binarista che a sua volta
sviluppa il concetto di opposizione distintiva, dà ampio spazio alle sue elaborazioni sulla teoria
della «marcatezza».
86
J.-A. MILLER (1991), «Della natura dei sembianti», La Psicoanalisi, n. 12, 1993, p. 159. [Corso
tenuto al Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII nell’anno accademico 19911992 (lezione del 27 novembre 1991)].
87
J.-A. MILLER (1988), «Clinica ironica», in I paradigmi del godimento, a cura di A. Di Ciaccia e S.
Sabbatini, Astrolabio, Roma 2001, p. 210.
88
Ivi, p. 211.
33
«un’insondabile decisione dell’essere» può rigettare il carattere convenzionale dei
sembianti, rigettando quella che è ormai diventata l’impostura paterna.89
L’idea che ispira il percorso di Lacan all’inizio del suo insegnamento consiste nel
ritenere le psicosi come declinazioni diverse di una stessa ragione segreta che ritrova
nell’esclusione dall’ordine significante sia la fonte della sua libertà che l’origine
della sua follia.
9. Dalla forclusione del Nome-del-Padre allo scatenamento psicotico
In conformità a quanto affermato, si comprende che laddove non sia riuscita la
metafora paterna troviamo «un buco scavato nel campo del significante»,90 cui
corrisponde una lotta che impegna il soggetto nell’impossibile ricostruzione
immaginaria del simbolico. Lo psicotico si rapporta quindi a un doppio dell’Io che
non anticipa l’entrata nell’Edipo: con l’Edipo c’è la comparsa di un oggetto terzo,
non più narcisistico, ma sublimato. Nella psicosi non c’è il passaggio all’oggetto
sublimato, permane il confronto con l’evanescenza dell’oggetto narcisistico, che con
la medesima evanescenza si stacca dalla realtà e diventa delirante.
Tra il Seminario III dedicato alla psicosi e la Questione preliminare (testo coevo
del Seminario V) Lacan compie un passaggio in cui cerca di precisare il punto dove
si situa il buco simbolico nella struttura psicotica. Nel Seminario III parlava ancora
di forclusione dell’Altro, ma nel suo testo del ’58 afferma che «nella psicosi non è
tutto il significante ad essere precluso, ma è il punto di iscrizione del Nome-delPadre. Quindi non è corretto affermare che nella psicosi l’Altro è forcluso perché è
piuttosto la funzione di capitonaggio dell’Altro che è – in quanto garantita dal Nomedel-Padre – forclusa».91
Nella psicosi la forclusione (Verwerfung) del Nome-del-Padre indica una
mancanza nel luogo dell’Altro, un buco nel simbolico, che comporta una serie di
conseguenze, come il ritorno nel reale di ciò che non è stato simbolizzato, e le
allucinazioni uditive ne sono un drammatico esempio. Prima dello scatenamento
89
Cfr. J. LACAN (1958a), «Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi», in
ID. (1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 576-578; J.-A. MILLER
(1988), «La lezione delle psicosi», La Psicoanalisi, n. 4, 1988, p. 68.
90
J. LACAN (1958a), «Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi», in ID.
(1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 560.
91
F. BIAGI-CHAI, «La voce nella psicosi», Studi di Psicoanalisi, 2000, p. 36.
34
della psicosi il soggetto riesce a mantenersi grazie a una compensazione
immaginaria, quasi come uno sgabello a quattro piedi che può però appoggiarsi solo
su tre, essendo forcluso il sostegno del Nome-del-Padre, ossia del piede mancante.
L’esordio della psicosi si manifesta dunque con la scompensazione di un equilibrio
immaginario, che fino a quel momento sembrava adeguato per il percorso del
soggetto. Nello scatenamento della psicosi interviene un incontro che scardina il
soggetto proprio nel punto di vuoto che abita la sua struttura: «perché la psicosi si
scateni, bisogna che il Nome-del-Padre, verworfen, precluso, cioè mai giunto al
posto dell’Altro, vi sia chiamato in opposizione simbolica al soggetto».92
Ma in che modo può avvenire l’incontro dello psicotico con il Nome-del-Padre? E
proprio nel punto in cui gli manca da sempre? Lacan risponde facendo riferimento ad
un padre reale, che non incarnerà necessariamente il padre del soggetto, ma
semplicemente «Un-padre»:93 «si cerchi all’inizio della psicosi questa congiuntura
drammatica. Che si presenti per la donna che ha appena partorito, nella figura dello
sposo; per la penitente che confessa la sua colpa, nella persona del confessore; per la
ragazza innamorata, nell’incontro col «padre del ragazzo», la si troverà sempre, e
tanto più facilmente quando ci si orienti sulle «situazioni» nel senso romanzesco del
termine».94
Prima dello scatenamento psicotico, il soggetto fa un incontro che assume le
sembianze dell’enigma. Per interpretare l’incognita che gli si presenta come un
significante puro, si appella al Nome-del-Padre, ma questo gli è irrimediabilmente
precluso. L’enigma trascina così il soggetto nella perplessità dell’atmosfera delirante
(Wahnstimmung).
Se consideriamo il celebre caso freudiano del Presidente Schreber95 – caso clinico
che Lacan esamina appunto nella Questione preliminare – «possiamo affermare che
92
J. LACAN (1958a), «Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi», in ID.
(1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 573.
93
Ibidem.
94
Ivi, p. 574.
95
Nel giugno 1893 Schreber fu nominato presidente della Corte d’Appello di Dresda. Assunse la
carica soltanto dall’ottobre dello stesso anno, ma nel periodo che trascorse tra la nomina e l’entrata
in ruolo ebbe diversi sogni a cui poi diede molta importanza – si trattava di esperienze oniriche che
raffiguravano il ritorno della sua vecchia malattia – e in più un episodio che segnò l’inizio del suo
decorso clinico: un giorno, nel dormiveglia, il presidente Schreber si trovò a pensare che «dovesse
essere davvero molto bello essere una donna che soggiace alla copula». A partire da questo punto si
sviluppò in lui un prodigioso delirio, che lo fece passare per tutti gli estremi della tortura e della
35
per lui è stato possibile funzionare per molto tempo della sua esistenza facendo
riferimento soltanto all’altro immaginario. Lo vediamo, così, far parte di un tribunale
e orientarsi sugli altri giudici per trovare una guida alle sue azioni; quando, però,
viene nominato presidente, questo suo riferimento immaginario non funziona più di
fronte ai suoi colleghi. […] Questo avvenimento costituisce per lui un enigma che lo
obbliga a cercare il significato delle proprie azioni al di fuori del rapporto con i
pari».96 Il suo nuovo incarico lo mette di fronte all’appello rivolto al Nome-delPadre, che nel suo caso è caratterizzato da un posto vuoto. «Questo è il motivo dello
scatenamento; Lacan dice che, a questo punto, egli incontra un buco nella
significazione. Alla mancanza del significante paterno, della quale si vede qui
l’effetto, risponde, nell’immaginario, un buco di significazione, un’insensatezza per
il soggetto».97
«Nel tempo dello scatenamento l’identificazione rigida all’altro speculare si
frantuma a causa dell’irruzione di un elemento eterogeneo»98 e «una volta apertosi il
fallimento del Nome-del-Padre»99 si innescherà una catena di disastrosi tentativi volti
ad arginare ciò che era stato escluso dal simbolico e che adesso ritorna nel reale sotto
forma di fenomeni elementari o anideici: illusioni della memoria, intuizioni deliranti,
stati passionali, allucinazioni verbali, sentimenti di estraneità e divinazione del
pensiero. Si tratta di fenomeni che segnano allo stesso tempo l’eclissi della
voluttà, coinvolgendo Dio, il sole, complotti, «assassinii dell’anima», catastrofi cosmiche e
rivolgimenti politici. Le sue costruzioni deliranti ruotavano attorno alla convinzione di trovarsi in
procinto di essere trasformato in donna e allo stesso tempo di dover lottare strenuamente contro
Dio. Lo scenario che di pagina in pagina prende forma nel testo di Schreber contempla l’alternanza
di una sconvolgente architettura d’immagini, di nessi e di illuminazioni che ci vengono tra l’altro
presentate con la precisione e il rigore logico di un inappuntabile magistrato. Dopo sei anni di
malattia Schreber voleva infatti dimostrare di non essere pazzo e alla fine ci riuscì, cosicchè fu
accolto il suo ricorso alla sentenza d’interdizione. Questa contemporanea presenza di costruzioni
deliranti e di ragionamenti che ne delucidavano la sequenza resero le Memorie schreberiane come
uno dei testi più frequentati dagli studiosi della vita psichica del ventesimo secolo. Della
eccezionale importanza di questo testo si accorse per primo Jung, che lo studiava già nel 1907 e lo
fece leggere a Freud nel 1910. Freud scrisse addirittura a Jung che l’ex presidente Schreber avrebbe
avuto i titoli per diventare professore di psichiatria. E così lo psicoanalista viennese si interessò allo
studio di questo caso, dando molto valore a quella storia in quanto «caso paradigmatico» di
demenza paranoide, ma in particolar modo perché nel racconto di Schreber rintracciava una
conferma degli assunti teorici ai quali era già precedentemente pervenuto.
96
A. STEVENS, «Entrare nella soggettività del delirio», Studi di Psicoanalisi, 2000, pp. 80-81.
97
Ivi, p. 81.
98
M. RECALCATI, «Psicosi fuori scatenamento nelle nuove forme del sintomo», Studi di Psicoanalisi,
2000, p. 139.
99
J. LACAN (1958a), «Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi», in ID.
(1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 579.
36
comunicazione interpersonale e la comparsa di un abisso soggettivo che si
stabilizzerà solo «nella metafora delirante».100
Nel caso Schreber ciò che il soggetto cerca di stabilizzare e di non «lasciar
cadere» è l’Altro che alterna la sua ritirata − che lascia cioè un vuoto di
significazione − a un movimento verso il soggetto stesso a cui richiede un godimento
del corpo. Schreber si preoccupa quindi di non esser «piantato in asso» dall’Altro e
di mantenerne l’esistenza attraverso la sua costruzione delirante, costruzione
significante che, al contempo, svolge una funzione regolatrice nei suoi rapporti con
l’Altro. «Ecco perché Schreber ci spiega quanto Dio sia stupido: è senza regole,
senza leggi, non capisce nulla degli uomini. Il Dio di Schreber è un Dio osceno, che
non capisce niente e che lascia cadere. Per questo motivo Schreber sente il dovere di
spiegargli come fare, e così mantiene l’ordine dell’universo contro questo Altro
capriccioso».101
Il delirio si configura quindi come una ricerca di senso che, seppur erronea e
incondivisibile, rappresenta il tentativo disperato di supplire a quell’assenza di
significato che il mondo ha ormai assunto, perché «quel che è escluso dalla
simbolizzazione resta fuori senso».102
«Il soggetto psicotico troverà il modo di colmare questo buco nel simbolico
attraverso un rimedio metaforico, che utilizza il significante, iscrivendo nel posto
assente della metafora paterna una «metafora delirante». Per questo motivo Freud
dice che il delirio è un processo di guarigione, che permette una stabilizzazione del
soggetto. Uno scatenamento psicotico si produce a una certa età, ma non è collegato
a una nevrosi infantile, non c’è quindi una premessa infantile, ma piuttosto uno
scatenamento brutale, sorprendente, inatteso. Immaginatevi il presidente Schreber:
quarantott’anni, una posizione eminente a livello sociale, qualcuno che aveva dato
prova di muoversi molto bene nella realtà, improvvisamente si trova di fronte a
questa catastrofe, in cui la realtà è trasformata in una sorta di crepuscolo».103
100
Ivi, p. 573.
A. STEVENS, «Entrare nella soggettività del delirio», Studi di Psicoanalisi, 2000, p. 86.
102
E. SOLANO, «Lo scatenamento della psicosi», Studi di Psicoanalisi, 2000, p. 95.
103
Ivi, p. 99.
101
37
10. Il significante fallico e il desiderio
Nel primo Lacan il concetto del Nome-del-Padre viene utilizzato per formalizzare
l’azione del simbolico sul reale con l’idea che il reale possa essere colmato dal
significante. La problematica della relazione del soggetto con l’Altro viene
interamente immersa nel campo della significazione: la metafora paterna introduce il
soggetto nel simbolico e lo abilita alla dimensione del desiderio attraverso la
significazione fallica. La funzione del fallo come significante indica una
significazione di castrazione104 in quanto sostituisce il significante al reale del
bisogno e gli impone la via del simbolico, che è quella della domanda da rivolgere
all’Altro.105
La questione che orienta gli andirivieni dell’insegnamento di Lacan riguarda ciò
che della libido riesce ad essere rappresentato dalla parola. Ad esempio «il caso di
psicosi illustra quel che si produce quando la significazione del fallo non giunge a
catturare la libido».106 Il concetto di funzione significante del fallo viene quindi
adoperato da Lacan per «designare nel loro insieme gli effetti di significato, in
quanto il significante li condiziona per la sua presenza di significante».107 Il fallo è
quel significante che riassume e condensa in sé gli effetti di significato.108 Il fallo in
quanto «significante del desiderio» configura la possibilità di significantizzare il
resto che si produce quando il bisogno passa nel registro della domanda: il fallo è
dunque «il significante della distanza della domanda del soggetto dal proprio
desiderio».109 Il desiderio è lo scarto tra il bisogno e la domanda, è ciò che riappare al
104
«La castrazione vuol dire che bisogna che il godimento sia rifiutato perché possa essere raggiunto
sulla scala rovesciata della Legge del desiderio» (LACAN 1960b, p. 830).
105
Gli effetti della funzione del significante fallico «anzitutto sono quelli di una deviazione dei
bisogni dell’uomo per il fatto che parla, nel senso che quanto più i suoi bisogni sono soggetti alla
domanda, tanto più gli ritornano alienati. Ciò non è effetto della sua dipendenza reale (non si creda
di ritrovare qui quella concezione parassita che è la nozione di dipendenza nella teoria della
nevrosi), ma della messa in forma significante come tale, e del fatto che è dal luogo dell’Altro che
il suo messaggio è emesso» (LACAN 1958c, p. 687).
106
J.-A. MILLER (1995), «Silet», La Psicoanalisi, n. 22, 1997, p. 199. [Corso tenuto al Dipartimento di
Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII nell’anno accademico 1994-1995 (lezione del 5 aprile)].
107
J. LACAN (1958c), «La significazione del fallo», in ID. (1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri,
Einaudi, Torino 1974, p. 687.
108
«È dunque come un significante che fa parte dell’Altro che il fallo si inscrive, mentre designa quel
che ha luogo nel significato. Gli altri significanti designano molte altre cose, gli altri significanti
designano le cose del mondo, eccetera, mentre il significante fallico è specializzato a designare
tutto quel che succede nel significato» (MILLER 1998, p. 129).
109
J. LACAN (1957-1958), Il seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio, ed. it. a cura di A. Di
Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 292.
38
di là della domanda e che non si lascia assorbire nella dialettica soggetto-Altro,
d’altra parte il fallo in quanto significante del desiderio permette un accesso al
desiderio passando per il luogo dell’Altro.110 Nel significante fallo «la parte del logos
si congiunge con l’avvento del desiderio».111
La funzione significante del fallo implica dunque la mediazione dell’Altro per il
raggiungimento della soddisfazione. Nel primo Lacan il significante fallico è lo
strumento concettuale per render conto dei rapporti tra la dimensione eccentrica del
desiderio e la struttura del linguaggio. In fondo l’obiettivo di Lacan è quello di
teorizzare il percorso che permette di positivizzare il reale attraverso il simbolico.
Tuttavia, nonostante le sue sempre più sofisticate teorizzazioni, Lacan sarà sempre
più portato a delineare l’insufficienza del significante nel trattare ciò che del reale
risulta refrattario al simbolico.
11. La funzione dell’angoscia e l’oggetto a
Con il Seminario X dedicato all’«angoscia» e con il Seminario XI su «i quattro
concetti fondamentali della psicoanalisi» Lacan imprime un cambiamento di rotta al
suo insegnamento: abbandona «l’impero del significante»112 per valorizzare sempre
più quel reale che non si può positivizzare del tutto nel significante. Lacan ricentra il
focus dell’esperienza psicoanalitica su quel resto che scaturisce dalla stessa
operatività della funzione della parola. È pur vero che di lezione in lezione Lacan
continua a servirsi della parola, benché abbandoni la pista del significante, nel senso
che la sua impalcatura concettuale tiene sempre più conto di ciò che non si lascia
significantizzare. Lacan dunque continua a parlare, tuttavia l’oggetto del suo discorso
è situato su un piano che si sottrae alla rappresentazione nel luogo della parola.
Ciò che orienta il percorso del Seminario X è che «l’Altro è l’Altro perché c’è un
resto. […] Questo vuol dire: c’è qualcosa nell’Altro che non è il significante».113 E
110
«La funzione costituente del fallo nella dialettica dell’introduzione del soggetto alla sua esistenza
pura e semplice e alla sua posizione sessuale è impossibile da dedurre, se non ne facciamo il
significante fondamentale tramite cui il desiderio del soggetto deve farsi riconoscere come tale, che
si tratti dell’uomo o della donna» (LACAN 1957-1958, p. 281).
111
J. LACAN (1958c), «La significazione del fallo», in ID. (1966), Scritti, vol. I, a cura di G.B. Contri,
Einaudi, Torino 1974, p. 689.
112
Cfr. J.-A. MILLER (2004a), L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, pres. di A.
Di Ciaccia, Quodlibet, Macerata 2006.
113
Ivi, p. 19.
39
l’angoscia si configura come una via d’accesso a questo resto che è il registro del
reale. L’angoscia è il segnale dell’incursione del reale nel simbolico. L’angoscia è un
affetto non rimosso,114 un affetto che non inganna su ciò che vi è di reale nel luogo
dell’Altro.
Lacan fa ricorso «all’angoscia come una via alternativa in rapporto a quella
dell’Aufhebung, per cogliere ciò che sfugge a ogni Aufhebung, per cogliere quello
che
non
è
significabile,
per
cogliere
quello
che
è
resto
di
ogni
significantizzazione».115
Il resto in questione nel Seminario L’angoscia non è il resto del desiderio che
entra in una dimensione dialettica, ma è piuttosto un resto godimento che non cede
all’Aufhebung significante. L’angoscia è un segnale116 sul lato non significante che il
soggetto reperisce nel luogo dell’Altro. L’Altro stesso è marcato da una Spaltung, da
una divisione tra l’Altro del significante e l’Altro barrato, l’Altro del desiderio.117
L’angoscia è dunque un affetto in relazione con il desiderio enigmatico dell’Altro,
c’è un «rapporto essenziale tra l’angoscia e il desiderio dell’Altro».118
Il desiderio dell’Altro introduce il soggetto alla questione del «Che vuole da
me?», interrogativo cruciale che apre la dimensione perturbante della relazione con
l’Altro. Ed è a proposito del perturbante (Unheimlichkeit) che Lacan si appoggia alla
metafora della mantide religiosa, figura inquietante che rappresenta il destino
enigmatico che il soggetto può incontrare quando l’Altro manifesta il suo desiderio.
La tesi di Lacan però è ancora più radicale perché l’angoscia non è soltanto il
segnale del desiderio dell’Altro, ma è anche la via che – se attraversata – permette al
soggetto di trovare il suo fondamento desiderante. L’angoscia è il segnale
114
«L’angoscia che cos’è? Abbiamo scartato che si tratti di un’emozione. Per introdurla dirò che è un
affetto. […] Quel che invece ho affermato dell’affetto è che non è rimosso. […] A essere rimossi
sono i significanti che lo ancorano. Il rapporto dell’affetto con il significante necessiterebbe un
intero anno di teoria degli affetti» (LACAN 1962-1963, p. 17).
115
J.-A. MILLER (2004a), L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, pres. di A. Di
Ciaccia, Quodlibet, Macerata 2006, p. 27.
116
«L’angoscia, ci ha insegnato Freud, svolge la funzione di segnale rispetto a qualcosa. Io dico che
questo segnale è in rapporto a quello che succede riguardo alla relazione del soggetto con l’oggetto
a in tutta la sua generalità. […] L’angoscia è il segnale di certi momenti di tale relazione. Più tardi
cercheremo di mostrarvelo precisando quello che intendiamo come oggetto a» (LACAN 1962-1963,
p. 94).
117
«L’Altro è qui connotato come A barrato, perché è l’Altro nel punto in cui si caratterizza come
mancanza» (LACAN 1962-1963, p. 28).
118
J. LACAN (1962-1963), Il seminario, Libro X, L’angoscia, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi,
Torino 2007, p. 7.
40
dell’oggetto causa del desiderio, che Lacan chiama oggetto a: «l’oggetto a non è
fine, scopo del desiderio, ma la sua causa».119 L’oggetto che si fa causa del desiderio
si distingue infatti dall’oggetto mira del desiderio.120
La certezza dell’angoscia, il fatto che l’angoscia non inganni dipende dalla sua
relazione con il reale: «è proprio sul lato del reale, in prima approssimazione, che
dobbiamo cercare ciò che, nell’angoscia, non inganna».121 E l’oggetto a è punto di
certezza perché non lasciandosi assorbire dal significante122 rimane immune
dall’erosione della combinatoria linguistica, che nel rilancio da un significante
all’altro può incidere sugli eventi di corpo imprimendo un avvento di significazione.
L’oggetto a non si lascia catturare dal significante e si configura semmai come
un’irruzione del reale corporeo che sovrasta ogni possibile dialettica con l’Altro.
L’oggetto causa del desiderio non si lascia addomesticare dalla dialettica del
desiderio che vede invece come protagonista l’apertura del soggetto verso il luogo
dell’Altro. L’oggetto a è piuttosto un’impasse che ostacola le vicende del desiderio.
Con il concetto di oggetto a Lacan indica un nucleo di godimento che è ribelle ad
ogni mitigazione significante,123 si tratta di un eccesso libidico non risolubile nella
significazione fallica.124
In questo seminario sull’angoscia Lacan sposta la prospettiva psicoanalitica sulla
castrazione dal suo ancoraggio edipico: l’angoscia di castrazione non è più dovuta
all’interdetto che proviene dall’Altro, non è correlativa ad un mancanza istituita dal
simbolico, ma è dovuta ad una mancanza che si manifesta nel corpo. Il fallo non
119
Ivi, p. 345.
«L’a, supporto del desiderio nel fantasma, non è visibile in quella che costituisce, per l’uomo,
l’immagine del suo desiderio. […] Ma più l’uomo si avvicina, circoscrive, accarezza quello che
crede essere l’oggetto del suo desiderio, più ne è, di fatto, distolto e disorientato. Tutto quello che
egli fa su questa via per avvicinarsi a esso dà sempre più corpo a ciò che, nell’oggetto del desiderio,
rappresenta l’immagine speculare. Più si spinge avanti e più vuole preservare, mantenere e
proteggere, nell’oggetto del suo desiderio, il lato intatto di quel vaso primordiale che è l’immagine
speculare. Più si inoltra in questa via – spesso impropriamente chiamata la via della perfezione
della relazione oggettuale –, e più viene illuso» (LACAN 1962-1963, p. 46).
121
J. LACAN (1962-1963), Il seminario, Libro X, L’angoscia, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi,
Torino 2007, p. 187.
122
«Vi ho già insegnato a situare il processo della soggettivazione. Infatti il soggetto ha da costituirsi
nel luogo dell’Altro sotto le specie primarie del significante, e sul dato di quel tesoro del
significante già costituito nell’Altro […] a è ciò che resta di irriducibile nell’operazione
dell’avvento del soggetto nel luogo dell’Altro, ed è da qui che prenderà la sua funzione» (LACAN
1962-1963, p. 175).
123
«Il significante è ciò che salta con l’intervento del reale» (LACAN 1962-1963, p. 164).
124
«Detto in altri termini l’oggetto a vale come scacco del Nome-del-Padre, in quanto il Nome-delPadre è il maggior operatore della simbolizzazione» (MILLER 2004a, p. 96)
120
41
viene preso nel suo versante simbolico bensí nella sua funzione di organo che viene
implicato nel desiderio e che è esposto ad un’eventuale insufficienza: «l’angoscia da
parte dell’uomo non è più legata alla minaccia paterna, ma a un non potere, cioè al
suo rapporto con uno strumento che viene meno, per lo meno che non è sempre
disponibile».125 Il principio dell’angoscia di castrazione nell’uomo è legato allo
«svanire della funzione fallica al livello in cui ci si aspetta che il fallo funzioni».126
Per la donna l’angoscia è invece relativa non alla dimensione del non potere ma a
quella del «desiderio dell’Altro, di cui non sa bene, in fin dei conti, che cosa
copra».127
La via dell’angoscia segnala un’economia di godimento che non si lascia
includere nella dialettica con l’Altro. L’oggetto causa del desiderio coincide con un
resto libidico che scaturisce dalla costituzione del soggetto nel luogo dell’Altro.
L’angoscia sorge quando quest’oggetto appare nel campo dell’Altro, quando nel
luogo del significante si manifesta la dimensione enigmatica del desiderio, ossia
quando l’Altro del linguaggio mostra la sua faccia desiderante e rivolge la sua
mancanza in direzione del soggetto, che in questo caso si trova assoggettato
all’interrogativo perturbante sul desiderio dell’Altro: Che vuoi da me? Quale oggetto
a sono per te?128
L’angoscia fa la sua comparsa nel corpo del soggetto e si colloca «nella faglia
beante tra il desiderio e il godimento».129 Per chiarire meglio: «il godimento, se
prendiamo le cose in modo semplice, come luogo ha il proprio corpo, mentre il
desiderio è in relazione con l’Altro».130 Ora, l’angoscia è il segnale della distanza che
separa «il mondo, luogo in cui si accalca il reale»131 dalla scena in cui il mondo può
125
J.-A. MILLER (2004a), L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, pres. di A. Di
Ciaccia, Quodlibet, Macerata 2006, p. 47.
126
J. LACAN (1962-1963), Il seminario, Libro X, L’angoscia, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi,
Torino 2007, p. 282.
127
Ivi, p. 206.
128
«L’angoscia si manifesta sensibilmente come qualcosa qualcosa che si riferisce in modo complesso
al desiderio dell’Altro. […] La funzione angosciante del desiderio dell’Altro è legata precisamente
a questo; che non so quale oggetto a io sia per tale desiderio» (LACAN 1962-1963, pp. 355-356)
129
J. LACAN (1962-1963), Il seminario, Libro X, L’angoscia, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi,
Torino 2007, p. 189.
130
J.-A. MILLER (2004a), L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, pres. di A. Di
Ciaccia, Quodlibet, Macerata 2006, p. 79.
131
J. LACAN (1962-1963), Il seminario, Libro X, L’angoscia, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi,
Torino 2007, p. 126.
42
arrivare a dirsi. Il tempo dell’angoscia segna lo scarto tra il reale del godimento e «la
scena dell’Altro, in cui l’uomo come soggetto deve costituirsi, deve prendere posto
come colui che prende la parola».132 Il fondamento dell’oggetto causa del desiderio si
costituisce sul tempo dell’angoscia quando il soggetto vuol far entrare il godimento
nel luogo dell’Altro: è in questo transito che il soggetto si precipita e si ritrova
desiderante. L’Altro del significante diventa allora il campo in cui la tensione del
desiderio può essere annodata alla parola. Ciononostante l’Altro non è soltanto il
luogo dove il desiderio del soggetto trova la sua convalida nel senso, ma è anche la
strada su cui ricercare la traccia di godimento che è rimasta irriducibile al simbolico.
Sulla via dell’angoscia si incontra il desiderio dell’Altro e la faglia aperta dalla
mancanza dell’Altro introduce quella questione che interroga il soggetto sul resto che
causa il proprio desiderio. L’oggetto a infatti «è costituito solo tramite
l’intermediazione del desiderio dell’Altro».133
L’angoscia è quindi ciò che orienta verso la messa a fuoco dell’oggetto proprio
all’esperienza psicoanalitica, oggetto che Lacan indica con la a piccola. È l’oggetto a
che distingue la psicoanalisi dalle altre pratiche semiotiche: la psicoanalisi infatti non
cerca di ricostruire il «codice della langue»134 come si propone la linguistica e
neppure intende classificare le unità semantiche o narrative proprie del mondo delle
passioni, ma concerne piuttosto la decifrazione di un punto di discontinuità
nell’esperienza del significante.
12. L’inconscio come pulsazione temporale
Con il Seminario XI l’insegnamento lacaniano trova una nuova bussola, dopo il
significante l’accento viene sempre più posto sul reale. In questa scansione Lacan
dedica la sua attenzione ai quattro concetti fondamentali freudiani: l’inconscio, la
ripetizione, il transfert e la pulsione vengono interrogati per mettere in questione il
Nome-del-Padre. Lacan critica la posizione di Freud in riferimento alla preminenza
che viene data alla significazione del padre e all’Edipo, infatti il complesso di Edipo
viene analizzato nella sua funzione di mito: «il complesso d’Edipo è l’esperimento
132
Ibidem.
Ivi, p. 222.
134
Cfr. F. DE SAUSSURE (1922), Corso di linguistica generale, introd. e tr. it. di T. De Mauro, Laterza,
Bari 1967.
133
43
freudiano per universalizzare il particolare dell’iscrizione dell’essere umano in un
mondo che non è naturale, poiché è attraversato e ristrutturato dal simbolico. Il
complesso di Edipo è il colpo riuscito di Freud. Se non fosse che anch’esso è ridotto
a mal partito da Lacan che ne mostra la struttura di mito: il mito è un modo di dire la
verità, ma la verità si dice solo a metà. L’altra parte non si può dire. Così il mito
stesso, se da un lato svela, dall’altro copre, protegge, difende. Per questo Lacan potrà
dire che il complesso di Edipo è un sogno di Freud».135
I Seminari X e XI implicano un passaggio epistemologico poiché Lacan si accosta
alla clinica seguendo la pista del reale e non più quella del significante.136 Lo studio
dei quattro concetti fondamentali è infatti il tragitto che conduce Lacan dall’Altro del
significante all’Altro del godimento: l’Altro si configura come quel campo dove il
soggetto va a trovare l’oggetto della sua soddisfazione. L’Altro non è più soltanto
l’Altro della parola, ossia del riconoscimento, o l’Altro del linguaggio che veicola la
struttura simbolica per ex-sistere, l’Altro del godimento è lo strumento al servizio
della soddisfazione del soggetto.
Ai quattro concetti freudiani Lacan aggiunge due altri termini: il soggetto e il
reale.137 In tutto il Seminario XI Lacan tenterà di situare i concetti freudiani nella loro
relazione con i due termini che ha introdotto.
Lacan comincia occupandosi dell’inconscio, di quella concezione dell’inconscio
come un gioco combinatorio presoggettivo che funziona tutto da solo. L’inconscio
strutturato come un linguaggio non è localizzabile nell’ipotalamo o in altre aree del
sistema nervoso centrale poiché si tratta di un meccanismo di cui non abbiamo
alcuna prova se non quando questo meccanismo si inceppa e il corso previsto della
catena significante trova un punto d’inciampo. Sostenere l’ipotesi che la prova
dell’inconscio sia un fallimento implica una riconsiderazione del funzionamento
135
A. DI CIACCIA, «Introduzione», in J.-A. MILLER (a cura di), Il sintomo psicotico. La conversazione
di Roma, Astrolabio, Roma 2001, p. 7.
136
Il cambiamento di prospettiva dell’elaborazione lacaniana avviene sullo sfondo di quello che Miller
ha chiamato il Seminario inesistente. Il Seminario XI inizia infatti nel gennaio del 1964, dopo
l’espulsione di Lacan dal ruolo di didatta dell’IPA. Il titolo di quel seminario che poi non fu tenuto
sarebbe stato I Nomi del padre. Per Lacan il Nome del Padre non era più unico. Il riferimento
edipico su cui Freud aveva costruito la sua psicoanalisi viene relativizzato, ossia non viene più
considerato come l’unica forma di legame tra legge e desiderio. Il Nome del Padre è soltanto il
modo più classico con cui i soggetti annodano i tre registri dell’esperienza.
137
J. LACAN (1964), Il seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, ed. it. a
cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 21.
44
dell’inconscio secondo la legge del linguaggio, che prevede l’alternanza e la
combinazione di metafora e metonimia. L’esistenza dell’inconscio si manifesta
soltanto quando il gioco linguistico della metafora e della metonimia falliscono, è in
questi momenti che il soggetto si confronta con qualcosa di cui ignora la
significazione. Nel fallimento della metafora e della metonimia il soggetto produce
una significazione inattesa per lui stesso, quando vuole dire una frase e quando
invece ne dice un’altra, quando vuole andare da una parte e va da un’altra.
L’inconscio è l’ipotesi per spiegare quei fenomeni analizzati in dettaglio da Freud
ne L’interpretazione dei sogni e nella Psicopatologia della vita quotidiana.
L’inconscio della seconda topica freudiana – esposta ne L’Io e l’Es – non è però
riducibile né all’inconscio della linguistica né a quello dell’antropologia, non è
l’inconscio della legge del linguaggio. Riconoscere una struttura di linguaggio
all’inconscio e porre in evidenza non il gioco linguistico ma il suo fallimento
conduce alla questione che Lacan enuncia chiaramente in Sovversione del soggetto e
che riportavamo in epigrafe all’inizio di questo capitolo: «una volta riconosciuta la
struttura del linguaggio nell’inconscio, quale sorta di soggetto gli possiamo
concepire?»138
Se nel primo Lacan la distinzione tra le moi e le je, tra l’io e il soggetto consisteva
nello scarto tra la dimensione dell’io della coscienza e il funzionamento linguistico
dell’inconscio, nel Lacan del Seminario XI è lo stesso inconscio che trova una sua
dipartizione, una nuova divisione: da un lato l’inconscio strutturato come un
linguaggio e dall’altro l’inconscio come pulsazione. Se l’inconscio della legge del
linguaggio può dar adito alle critiche che sono mosse verso l’impostazione
strutturalista, approccio che ucciderebbe il soggetto riducendolo ad un puro
funzionamento presoggettivo che opera tutto da solo, con l’inconscio come inciampo
il soggetto viene reintrodotto diventando il referente di questa pulsazione-fallimento.
Se l’inconscio è un fallimento, cioè se il soggetto non sa ciò che dice quando parla,
se sogna qualcosa che non voleva sognare, allora chi è l’agente dei suoi sogni, dei
suoi lapsus, dei suoi inciampi? Tutto ciò fa apparire la supposizione di un soggetto
nella struttura del linguaggio. Il soggetto dell’inconscio (le je) non coincide dunque
138
J. LACAN (1960b), «Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano»,
in ID. (1966), Scritti, vol. II, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 802.
45
con il funzionamento di quei fenomeni di cui l’io (le moi) non comprendeva la
significazione. In questa scansione dell’insegnamento di Lacan osserviamo l’io (le
moi), l’inconscio (struttura di linguaggio) e il soggetto dell’inconscio (le je). Il
soggetto trova una nuova collocazione, non viene più individuato nelle leggi del
linguaggio, ma quando queste leggi vacillano.
L’inconscio come pulsazione non ha dunque uno statuto ontico, «non è», non è
qualcosa ben presente e individuabile nelle leggi del linguaggio, ma si manifesta
piuttosto come un voler essere. È per questa ragione che Lacan dice che lo statuto
dell’inconscio è etico e non ontico.139
L’inconscio appare sempre come qualcosa che viene eliso dalla spiegazione, si
manifesta semmai in un istante evanescente e come effetto di sorpresa:
nell’inconscio emerge qualcosa che, come nel motto di spirito, fugge al senso. Anche
per il lapsus vale la stessa considerazione: se vi si ricerca un senso, l’effetto di
sopresa svanisce nella catena dei significanti che vi si aggiunge. Allo stesso modo il
soggetto dell’inconscio (le je) si manifesta più come un effetto di perplessità che
sloggia l’io (le moi) dalle sue certezze. Il soggetto dell’inconscio è un effetto
prodotto da un fallimento, dal non sapere cosa si dice, cosa si vuole o cosa si sogna.
Il soggetto dell’inconscio lo si individua nell’après coup, nell’effetto di retroazione
provocato da una pulsazione temporale.
13. La ripetizione: la rete dei significanti e il reale
Se all’inizio del suo insegnamento Lacan aveva caratterizzato il suo ritorno a
Freud privilegiando l’inconscio in quanto strutturato come un linguaggio, in questa
seconda fase, a dieci anni da Funzione e campo, reintroduce la dimensione pulsionale
che aveva tentato di simbolizzare costruendo l’impero significante. I matemi
lacaniani e l’articolazione della trama significante erano serviti per estrarre quelle
leggi attraverso cui leggere l’enigma del sintomo, ma anche tutte le altre «formazioni
dell’inconscio», quelle manifestazioni (sogni, sintomi, lapsus, atti mancati, etc.) che
si configurano sia come un enigma cui rispondere sia come segno di un’enunciazione
in cui il soggetto è coinvolto senza saperlo.
139
«Lo statuto dell’inconscio, che vi indico così fragile sul piano ontico, è etico» (LACAN 1964, p. 34).
46
Il sintomo è una metafora, un messaggio, ma ciò non esaurisce del tutto il suo
statuto.140 A differenza delle altre formazioni dell’inconscio il sintomo ha però uno
statuto temporale diverso, esso cioè ritorna a manifestarsi nella vita del soggetto con
un certo carattere ripetitivo. L’evanescenza o l’effetto di sorpresa non si applicano
facilmente al sintomo, al contrario il sintomo si caratterizza per la sua insistenza, per
la sua ripetizione e sebbene possa travestirsi o trasformarsi rimane sempre lo stesso.
Il sintomo si situa quindi più dal lato della «coazione a ripetere» che dal lato
dell’effetto di sorpresa.
Il concetto di ripetizione è presente in Lacan sin dagli inizi del suo insegnamento.
Il Seminario II o più in dettaglio lo scritto Il seminario su «La lettera rubata»
mettono l’accento sull’articolazione significante che fa da trama all’automatismo
della ripetizione. Nelle prime righe degli Scritti leggiamo: «La nostra ricerca ci ha
condotto
al
punto
di
riconoscere
che
l’automatismo
della
ripetizione
(Wiederholungszwang) prende il suo principio in quello che noi abbiamo chiamato
l’insistenza della catena significante».141 Questo è il modo in cui Lacan riprende il
testo freudiano Al di là del principio di piacere per ridurre la compulsione alla
ripetizione simbolica, ossia ad una struttura combinatoria che si riassume nella
scrittura minima della catena significante: S1-S2.142
Sulla base del valore di determinazione inconscia che Freud attribuisce
all’associazione libera Lacan sottolinea che nella struttura combinatoria dei
significanti una cifra, ad esempio, non si manifesta mai per caso. Per la
localizzazione di ciò che si produce con un carattere di sorpresa è dunque necessario
reperire la sintassi
dei
significanti
che si
ripetono.
Nella prima fase
dell’insegnamento di Lacan però la referenza della ripetizione alla pulsione viene
eliminata al fine di mettere l’accento sull’automatismo. Lacan infatti traduce il
concetto freudiano di Wiederholungszwang con quello di automatismo di ripetizione.
Nel Seminario XI la precedente riduzione della ripetizione alla sua determinazione
140
Cfr. C. SOLER (1986), «Il sintomo», La Psicoanalisi, n. 12, 1992, pp. 39-56.
J. LACAN (1955), «Il seminario su La lettera rubata», in ID. (1966), Scritti, vol. II, a cura di G.B.
Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 7.
142
«Questa posizione di autonomia del simbolico è la sola che permetta di liberare dai suoi equivoci la
teoria e la pratica dell’associazione libera in psicoanalisi. […] È precisamente la questione su cui
Freud torna una volta di più in Aldilà del principio di piacere, e per sottolineare che l’insistenza in
cui abbiamo trovato il carattere essenziale dei fenomeni dell’automatismo di ripetizione, non gli
sembra poter trovare altra motivazione che previtale e transbiologica» (LACAN 1955, p. 49).
141
47
simbolica conduce Lacan a differenziare il gioco combinatorio dell’automatismo di
ripetizione dalla causa della compulsione. La ripetizione in quanto ritorno dei segni è
ciò che permette di circoscrivere il luogo del soggetto dell’inconscio. Freud infatti
situava la dimensione del soggetto nelle formazioni dell’inconscio.
Nel Seminario XI l’automatismo della ripetizione viene dunque ripartito in due
assi,
più
precisamente
Lacan
distingue
l’automatismo
dalla
ripetizione.
L’automatismo è dal lato dell’insistenza della catena significante, del ritorno dei
segni. L’automatismo è la modalità in cui si manifesta qualcosa, ma non dice nulla
sulla natura di ciò che si manifesta. L’insistenza della catena significante che ritorna
sempre allo stesso modo verrà ricondotta da Lacan – nei Seminari XIX e XX – alla
categoria del necessario. Lacan scriverà la formula della necessità come «ciò che non
cessa» di insistere sempre nella stessa maniera. Ciò che Lacan riconduce dal lato
dell’automatismo si situa dunque nella dimensione della legge del linguaggio. Sul
piano clinico ciò che non cessa di ripetersi sempre allo stesso modo è il sintomo. Nel
sintomo il messaggio dell’inconscio continua ad insistere, ad aprirsi un varco verso
la coscienza.
Sul versante dell’automatismo però il lavoro dell’inconscio, inteso come ritorno
dei significanti, viene collocato da Lacan sul piano del principio di piacere, mentre
invece Freud situava la ripetizione al di là del principio di piacere. I passaggi
argomentativi di Lacan partono dal considerare gli schemi che Freud espone nel
settimo capitolo dell’Interpretazione dei sogni come un modo in cui connettere le
tracce della rappresentazione, ossia come una sintassi della catena significante. Si
tratta della sintassi del processo primario, che nel testo del 1920 Freud situa dalla
parte del principio di piacere. L’insistenza della catena significante sarebbe dunque
destinata a eliminare il dispiacere, eppure qualcosa non si lascia assorbire dal
principio di piacere e ritorna nell’esperienza del soggetto attraverso una ripetizione
che sfugge al principio di piacere, che è al di là.
Nell’insegnamento di Lacan il registro del Reale è in riferimento a quest’elemento
inassimilabile. Il Reale pertiene un circuito in cui il meccanismo delle formazioni
dell’inconscio produce un residuo che si manifesta come nucleo irriducibile al
ritorno dei significanti: ciò che dunque si ripete è il ritorno di un fallimento, il
fallimento del principio del piacere che lascia spazio a un modo in cui il soggetto si
48
pronuncia al di là del principio di piacere. Il traumatismo della ripetizione consiste
dunque nell’incontro con il dispiacere. Il sogno traumatico è l’esempio del nucleo
che rimane impossibile da riassorbire per il principio di piacere, ossia per il processo
primario inteso come circuito significante.143 Se l’insistenza dei significanti è
situabile dal lato di «ciò che non cessa di scriversi», l’incontro con questo nucleo
inassimilabile al Simbolico lo si può esprimere con la formula «ciò che non cessa di
non potersi scrivere».
A partire dal Seminario XI Lacan legherà in modo sempre più chiaro il «ciò che
non cessa» della ripetizione con ciò che è inassimilabile al registro significante,144
impossibile da ridurre e da metabolizzare per il Simbolico. Il reale è ciò che nella
clinica non si lascia riassorbire dal Simbolico. In termini bioniani si potrebbe dire
che il reale è in riferimento a quegli «elementi beta» che non si lasciano
metabolizzare dalla «funzione alfa».145 «Il reale qui è ciò che ritorna sempre allo
stesso posto – in quel posto dove il soggetto in quanto cogita, dove la res cogitans,
non lo incontra».146
Il reale è dunque in rapporto a un resto inassimilabile. Anche Freud nel suo testo
Costruzioni in analisi dice che con l’associazione libera possiamo recuperare un
parte dimenticata della storia del soggetto, ma allo stesso tempo c’è una parte che
non si rinviene mai.
143
«Freud, contrariamente a tutti i neurofisiologi, i patologi e altri, ha ben sottolineato che, se al
soggetto fa problema il fatto di riprodurre in sogno il ricordo, ad esempio, del bombardamento
intensivo da cui parte la sua nevrosi, la cosa non sembra fargli, allo stato di veglia, né caldo né
freddo. Qual è, allora, la funzione della ripetizione traumatica se nulla – anzi al contrario – sembra
giustificarla dal punto di vista del principio di piacere? Vi si dirà – padroneggiare l’evento
doloroso. Ma chi padroneggia, dov’è qui il padrone che deve padroneggiare? Perché parlare tanto
in fretta se, per l’appunto, non sappiamo dove situare l’istanza che opererebbe questa padronanza?»
(LACAN 1964a, p. 50).
144
«Tutta la storia della scoperta, da parte di Freud, della ripetizione come funzione si definisce solo
se si indica così il rapporto tra il pensiero e il reale» (LACAN 1964a, p. 49).
145
«La funzione alfa esegue le sue operazioni su tutte le impressioni sensoriali, quali che siano, e su
tutte le emozioni, di qualsiasi genere, che vengono alla coscienza del paziente. Se l’attività della
funzione alfa è stata espletata, si producono elementi alfa: essi vengono immagazzinati e
rispondono ai requisiti richiesti dai pensieri del sogno. Se invece la funzione alfa è alterata, e quindi
inefficiente, le impressioni sensoriali coscienti e le emozioni provate dal paziente restano
immodificate: chiamerò queste elementi beta. Mentre gli elementi alfa sono sentiti come fenomeni,
gli elementi beta sono avvertiti come cose in sé […]. Anche gli elementi beta vengono
immagazzinati: si differenziano però dagli elementi alfa perché sono conservati non già come
ricordi, bensì come fatti indigeriti» (BION 1962, pp. 27-28).
146
J. LACAN (1964a), Il seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, ed. it.
a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 49.
49
14. L’autómaton e la tuché
Cosa fare dunque con quegli elementi che la catena significante non cessa di
mancare? Lacan dice che il soggetto si sbroglia da questa situazione attraverso una
costruzione fantasmatica che rende conto di ciò che manca nella catena significante.
È ciò che Lacan riprende quando sottolinea la funzione del fantasma in relazione al
reale: «il piano del fantasma funziona in relazione al reale. Il reale sostiene il
fantasma, il fantasma protegge il reale».147
Il fantasma si presenta come ciò che dissumula la mancanza, il punto impossibile
da simbolizzare, che è insito nella struttura significante.148 Attorno alla costruzione
fantasmatica Lacan fa ruotare le due facce della ripetizione: la rete dei significanti e
l’incontro con il reale. È in questo punto che egli introduce la differenza tra
l’autómaton e la tuché per spiegare il rapporto tra il significante e il reale.149
Tuché e autómaton sono due termini che Lacan preleva dal vocabolario della
Fisica di Aristotele. Nel quarto e nel quinto capitolo della Fisica, Aristotele
differenzia le quattro forme causali: materiale, formale, efficiente e finale.150
Aristotele fornisce l’esempio della scultura per illustrare la causa: il blocco di marmo
è la causa materiale, lo scultore e lo scalpello la causa efficiente, la causa formale è
l’idea e il progetto di scultura in cui trasformerà il blocco di marmo, la causa finale
ciò che egli si aspetta.
A queste quattro cause Aristotele ne sovrappone due, che sono cause accidentali:
il caso (autómaton) e la fortuna (tuché). La differenza corrisponde alla distinzione
che si manifesta tra i fenomeni naturali e i fenomeni umani. La tuché possiede una
caratteristica che invece non riguarda l’autómaton: sebbene la fortuna si verifichi
senza intenzione può essere essa stessa prodotta in seguito ad una scelta intenzionale.
A tal proposito Aristotele ci parla di qualcuno che si dirige verso l’agorá per vendere
dell’olio e lì trova qualcuno che vuole comprare l’olio. Il fatto di andare all’agorá è
147
Ivi, p. 41.
«Il fantasma è solo lo schermo che dissimula qualcosa di assolutamente primo, di determinante
nella funzione della ripetizione» (LACAN 1964a, p. 58).
149
«Si tratterà, dunque, di rivedere il rapporto che Aristotele stabilisce tra αυτοµατον – e noi
sappiamo, al punto in cui siamo con la matematica moderna, che si tratta della rete dei significanti
– e ciò che egli designa come τυχη – che è, per noi, l’incontro con il reale» (LACAN 1964a, p. 51).
150
ARISTOTELE, Fisica, a cura di M. Zanatta, UTET, Torino 1999.
148
50
la causa accidentale della vendita. Ci sono due serie causali indipendenti: a) un
soggetto X và all’agorá per vendere dell’olio; b) un soggetto Y và all’agorá con
l’intenzione di comprare dell’olio. Sulla base di queste premesse si verifica un
evento inaspettato, ma non inesplicabile, che chiamiamo tuché. A differenza
dell’autómaton, la tuché implica la presenza di un fattore causale che pertiene
l’intenzionalità: il fattore umano della scelta è incluso nell’incontro fortunato.
Lacan cerca di cogliere la funzione del reale nella ripetizione e si interessa non
tanto alla dimensione di fortuna della tuché, ma al suo aspetto di evento inatteso,
accidentale, seppur non inesplicabile. Il reale è un intoppo dell’automatismo della
catena significante,151 è un inciampo che si manifesta come un incontro mancato. Per
Lacan la tuché non è un buon incontro, ma un incontro mancato, non si incontra ciò
che si vuole.152 È in questo passaggio della sua argomentazione che riprende il
trauma come un incontro, un cattivo incontro. Il trauma è ciò che non si lascia
tamponare «dall’omeostasi soggettivante che orienta tutto il funzionamento definito
dal principio di piacere».153 Il trauma insiste al di là del principio di piacere, non è
assimilabile nelle maglie del simbolico. Lacan interroga la funzione del reale che
riappare tra i significanti e si interroga, ancora una volta, sul sogno traumatico:
«come può il sogno, portatore del desiderio del soggetto, produrre ciò che fa sorgere
a ripetizione il trauma – se non proprio la sua figura, almeno lo schermo che ce lo
indica dietro?»154
Il sogno non è dunque soltanto un modo per esaudire un voto, ma anche la
commemorazione di un incontro mancato, di un incontro con il reale, nella faglia che
il reale apre nella catena significante, ossia nella «mancanza di ciò che fa funzione di
rappresentazione».155 È in tal modo che Lacan ricolloca il versante pulsionale
nell’esperienza del soggetto.
151
«Il reale è al di là dell’αυτοµατον, del ritorno, del ritornare, dell’insistenza dei segni a cui ci
vediamo comandati dal principio di piacere. Il reale è ciò che giace sempre dietro l’αυτοµατον»
(LACAN 1964, pp. 52-53).
152
J. LACAN (1964), Il seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, ed. it. a
cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, pp. 53-54.
153
Ivi, p. 54.
154
Ibidem.
155
Ivi, p. 59.
51
16. Il soggetto dell’inconscio e la pulsione
Se nel primo Lacan il soggetto dell’inconscio è dal lato della catena significante,
con il mutare del concetto di inconscio – non solo «strutturato come linguaggio» ma
anche come tuché del reale – assistiamo a nuova centratura del soggetto sul piano
della pulsione. La «coazione a ripetere» del sintomo trova dunque una sua
espressione formale nelle leggi dell’inconscio strutturato come un linguaggio, ma
interroga la questione del soggetto a partire da un reale corporeo e pulsionale non
completamente metabolizzabile nell’universo simbolico.156
L’oggetto della psicoanalisi è quindi un punto di inciampo nel fluire della vita del
soggetto, è un «vuoto» che, con una certa ripetitività, emerge al di là del senso.
Lacan – come si è già detto – chiama «verità» il luogo simbolico aperto da questa
faglia, poiché si apre una questione-sintomo che interroga il soggetto e che in quanto
interrogativo si articola in elementi discreti e isolabili, come quelli di un
messaggio.157 E i referenti di questa questione-messaggio sono il desiderio e il
godimento.
Desiderio e godimento indicano la doppia eccedenza del soggetto rispetto
all’ordine significante. La dimensione del desiderio apre il soggetto a un movimento
di trascendenza, alla ricerca di una soddisfazione che rimanda sempre ad altro: il
desiderio è un dire, un’enunciazione che non si lascia condensare in nessun detto. Il
desiderio rimane comunque in dialettica con l’Altro, il godimento segnala invece la
fissazione ad un soddisfacimento che disarciona l’incidenza del significante sul
soggetto.158
Il godimento non è il piacere, ma esprime semmai la soddisfazione nel dispiacere,
un parodosso soggettivo per cui si arriva a dire dei propri sintomi: «non ne posso più
ma non ne posso fare a meno». Con il costrutto di godimento (jouissance) Lacan
indica una soddisfazione autodistruttiva, una tendenza che è al di là del principio di
piacere, il godimento spinge il soggetto verso qualcosa (ad es. un pensiero o una
fantasia) che sfocia nella sofferenza e che tuttavia lo fa godere. Il godimento ci
156
«L’essenziale di ciò che determina quello con cui si ha a che fare nell’esplorazione dell’inconscio è
la ripetizione. […] La ripetizione è la denotazione precisa di un tratto che nel testo di Freud ho
circoscritto come identico al tratto unario, al bastoncino, all’elemento della scrittura – un tratto che
commemora l’irruzione del godimento» (LACAN 1969-1970, p. 92).
157
Cfr. L. COLOMBO, «Saussure e Lacan: il significante», La Psicoanalisi, n. 26, 1999, pp. 55-83.
158
«Il desiderio viene dall’Altro, e il godimento è dal lato della Cosa» (LACAN 1964c, p. 857).
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indica l’esperienza soggettiva del «reale». Il reale non è la realtà, infatti il godimento
contraddistingue un modo di funzionamento che non tiene conto di nessun criterio di
adattamento alla realtà. Il godimento è ciò che nell’esperienza del soggetto rimane
fisso, è ciò che si ripete. E l’inconscio definisce da una parte le coordinate
significanti di tale ripetizione e dall’altra l’inciampo del fluire della catena
significante.
In riferimento alla clinica, questa pulsione autodistruttiva – la pulsione di morte di
Freud – è rintracciabile per esempio nella relazione del masochista con il partner o
nel rapporto dell’anoressica con il cibo. La costruzione del caso ha come focus il
godimento, tornaconto paradossale del sintomo che nel colloquio possiamo dedurre
da frasi simili: «godo nel vedermi soffrire mentre immagino che …».159
Il godimento è quel resto che nell’esperienza del soggetto rimane sordo al potere
del senso e della parola. La pulsione rappresenta infatti nell’esperienza del soggetto
la presenza di una dimensione che risulta inassimilabile al senso e che appartiene
semmai all’insensatezza delle scelte umane, che sembrano così sfuggire alla
teleologia del principio di adattamento. Il godimento è il correlato pulsionale (Reale)
di un eccesso che surclassa la temperanza del significante (Simbolico).
Questo rapporto tra significante e pulsione attraversa tutto il pensiero di Lacan,
tanto che Jacques-Alain Miller ne ha riproposto una lettura considerando il posto che
di volta in volta, nel corso degli anni, Lacan assegna al godimento.160
Il godimento rappresenta l’inciampo della catena significante. Il nucleo di
godimento è un punto di eccedenza rispetto al potere rappresentativo del registro
significante. Non si tratta solo di un vuoto irrappresentabile, asemantico, ma si
manifesta anche come la dimensione pulsionale del soggetto. Il godimento apre la
faglia del reale nel simbolico, che implica da un lato il vuoto della rappresentazione e
dall’altro il nucleo di soddisfazione della pulsione di morte.
Parlare di pulsione equivale a specificare i «modi di godimento» del soggetto,
ossia le modalità della coazione a ripetere del sintomo che si manifestano in
159
160
È questo il lato scabroso del soggetto.
Cfr. J.-A. MILLER (1999), «I sei paradigmi del godimento», La Psicoanalisi, n. 26, 1999, pp. 1554. Questo testo riprende tre lezioni (24, 31 marzo e 7 aprile 1999) del Corso L’esperienza del
reale nella cura analitica tenuto al Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII
nell’anno accademico 1998-1999.
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contrapposizione ad una possibile sublimazione.161 Nonostante il godimento sia ciò
che segnala l’eclissi della presa significante sul reale pulsionale, possiamo abdurne la
presenza solo leggendo il testo che il paziente produce in seduta.
Va inoltre sottolineato che nell’esperienza psicoanalitica il godimento è quel
fattore che fa sì che l’interpretazione non possa esaurirsi nel «circolo ermeneutico»,
poiché deve confrontarsi innanzitutto con il carattere pulsionale del sintomo. Il
sintomo infatti in quanto interpretabile potrebbe essere ricondotto al suo versante
inconscio attraverso una qualsiasi «semantica dei sintomi», anche la più delirante.
Ecco perché evidenziando soltanto l’aspetto interpretabile del sintomo non possiamo
cogliere l’esperienza psicoanalitica nel suo statuto di pratica terapeutica. È questo il
punto che caratterizza il focus della pratica psicoanalitica lacaniana: «in fondo il
problema del caso è come una pratica simbolica, come quella della psicoanalisi,
possa interferire e modificare una pratica pulsionale […]. Quindi la difficoltà del
caso è misurare l’azione del simbolico nel modificare, nel trattare la spinta della
pulsione».162
161
La «sublimazione» è un modo simbolico (si avvale cioè di significanti) per circoscrivere «la faglia
del reale» nel simbolico. Per maggiori approfondimenti sul concetto di sublimazione si rimanda a
M. RECALCATI, «La sublimazione artistica e la Cosa», in Il miracolo della forma. Per un’estetica
psicoanalitica, B. Mondadori, Milano 2007, pp. 3-35. A partire dalle riflessioni che Recalcati
espone in questo testo, dedicato all’arte e alla creatività, è possibile dedurre una serie di
formulazioni sul cambiamento che avviene nel corso di una cura psicoanalitica.
162
M. RECALCATI, in J.-A. MILLER (a cura), Tu puoi sapere… come si pratica. La conversazione di
Bologna, Astrolabio, Roma 2002, p. 142.
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