Sulla letteratura vociana: la riforma dei generi e

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Sulla letteratura vociana: la riforma dei generi e
SULLA LETTERATURA VOCIANA: LA RIFORMA DEI GENERI E
DELLO STILE
Clelia Martignoni
La stagione vociana, anche a guardarla da lontano e con il distacco dei posteri restii a
fabbricare o riprodurre miti, fu davvero per la nostra letteratura un’esperienza intensa e spesso
rivoluzionaria – e parlo soprattutto della ricerca di stile e linguaggio.
Un gruppo difforme di giovani talenti, «la generazione degli anni ’80», converge da molte
parti d’Italia nella società intelligente e baldanzosa dei vociani, in un sodalizio provvisorio,
fragile per più aspetti, ma che la storia di quegli anni, precipitando verso la guerra, bollò con
segno definitivo. «La storia che», scriveva uno di essi, Riccardo Bacchelli, sulla «Ronda» del ’21,
«se ha buon senso, ci dimenticherà»1. Proprio la storia, invece, ritorna volentieri a interrogarsi sui
protagonisti me sui fatti di allora, alla ricerca di quelle avviluppate e faticose radici della nostra
modernità su cui i bilanci imminenti di fine secolo sollecitano chiarezza.
Molti gli uomini, e molti i contrasti, sia su questioni di fondo (che non a caso producono
nel lungo cammino della rivista, 1908-’16, violente separazioni), sia su problemi minori, con un
carico di beghe malumori risentimenti battibecchi, rivelato dagli epistolari (epistolari di cui non
ci si stancherà di sottolineare l’abbondanza e il pregio, auspicandone possibili incrementi).
L’unità nazionale non arriva nell’8 a mezzo secolo; di lì a non molto la guerra avrebbe
affiancato drammaticamente italiani di ogni razza e paese. E prima della guerra, in campo
culturale e letterario toccò proprio alla «Voce» di funzionare come uno dei più attivi e battaglieri
banchi di confronto dell’Italia regionale. Il che avvenne sempre sul filo di un continuo e
problematico dissenso, su cui vale la pena di spendere preliminarmente qualche parola, censendo
con rapidità i dati offerti in parallelo dalla rivista e dai carteggi. 1909: già emergono forti critiche
antivociane da parte del severo Amendola e qualche rivista da parte dell’inquieto Papini («Voi
siete crociani troppo e sempre» è il drastico giudizio di Amendola)2. 1910: Amendola attacca
velenosamente Soffici, per le pretese arroganze e superficialità artistiche (così il 15 settembre ne
* Il testo è la rielaborazione di un lavoro presentato al convegno internazionale «La Voce» e l’Europa (Lugano,
ottobre 1987).- Si ringrazia G. Curonici, della Segreteria del convegno, per la cortese autorizzazione.
1
Lo scritto di Bacchelli da cui è estratta la citazione, explicit del testo ( «Lasciate, vorremmo dire, che tutti ci metta a
posto la storia, la quale, se ha buon senso, ci dimenticherà»)., comparve nella rivista romana nel n. 11-12, novembredicembre del 1921, con il titolo Sulla soglia del quarto anno, e con firma redazionale «La Ronda» (ora in Giorno per
giorno dal 1912 al 1922. Entusiasmi e passioni letterarie, Milano, Mondadori, 1966, vol. XXII di Tutte le opere di
Riccardo Bacchelli, pp. 383 s.)
2
In una lettera a Prezzolini del 27 maggio 1909, raccolta di G. Prezzolini, Amendola e «La Voce», Firenze, Sansoni,
1973, pp. 110-112. Papini per parte sua consente, ma con maggiore spirito conciliativo: «Siamo d’accordo su molte
cose, e anche contro la troppa croceria, murreria ecc. della “Voce”. Nonostante tutto, credo che “La Voce” non va
abbandonata» (si cita dal fondamentale repertorio allestito da G. Prezzolini con la collaborazione di Emilio Gentile e
Vanni Scheiwiller, La Voce 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, Milano, Rusconi, 1974, pp. 7778).
scrive a Prezzolini: «A Soffici, beato lui, piace la stupidità (…) ma perché Soffici, quest’italiano
che è stato più volte a Parigi, percorrendo più di mille chilometri, non viene qui [a Roma] a
passar una volta quindici giorni? Vedrebbe per es. la Cappella Sistina, di cui parla senza averla
vista»3, eccetera su questo tema). Aprile 1991: Casati, turbato dall’acceso antigiolittismo, ritira
l’adesione e sostegno finanziario alla rivista. Estate 1911: le zuffe con i futuristi provocano dure
proteste di Amendola contro Prezzolini. Ottobre 1911: adesione vociana alla guerra di Libia,
uscita di Salvemini, soddisfazione di Croce, nascita dell’«Unità». Febbraio-aprile 1912: forte
scontro sulle pagine vociane tra Boine e Croce, risentimento di Boine; aprile 1912: dimissioni
temporanee di Prezzolini; aprile-ottobre 1912: interregno di Papini direttore. 1913: si tacca la
costola di «Lacerba».
Ci si domanderà dunque: tra tante divisioni, qual è la carta d’identità sintetica e unitaria
della rivista? O. più radicalmente, esiste? La minima cronologia sopra esposta riguarda il profilo
della «Voce» 1908-’13, quella che Prezzolini polemicamente mostrò di considerare l’unica
«Voce», la sua «Voce» – sua copia e suo ritratto, a essa soltanto riservando l’antologia-inventario
del 19744: la «Voce» civile e politica; quella antigiolittiana e meridionalista finché Salvemini la
indirizzò, sino al settembre dell’11; la stessa pazientemente sorvegliata da Croce, con inviti alla
prudenza e a temperare personalismi: «Sfrondate la Voce dalle contingenze e tutto andrà bene» (8
luglio 1911 a Prezzolini)5. Ma a noi preme altrettanto che venga a galla «La Voce» della scrittura
e dello stile, su cui Prezzolini si sofferma poco o niente. Una «Voce» malgrado Prezzolini,
potremmo dire un po’ provocatoriamente dalla sua Relazione del primo anno (11 novembre 1909,
n. 48):
Ho escluso, anzitutto, ogni scritto puramente artistico, e alle questione letterarie in genere
ho dato un posto secondario, rompendola così con l’abitudine di tutti i settimanali che sorgevano
e sorgono in Italia. (…) Incitando così i giovani al lavoro di critica, allo studio storico, all’esame
preciso di qualche questione pratica non credo di avere scoraggiato o soffocato nessuna genialità
poetica, ma, se qualche efficacia ho avuto, ho ottenuta la tendenza dell’oziosità latina a
espandersi nella scioperataggine letteraria.
Sotto questo rigore, apparentemente ineccepibile, pare annidarsi la convinzione che
letteratura significhi sempre cattiva letteratura (ma perché mai lo dovrebbe?), e viceversa che
ideologia e cultura pratica equivalgono necessariamente a buona ideologia e buona cultura, il che
ovviamente non è. Ciò che conta è la qualità: e sulla qualità della letteratura vociana non ci sono
dubbi (mentre sulla qualità dell’ideologia ancora si discute, e spesso con energiche
3
Ancora da G. Prezzolini, Amendola e «La Voce», cit., pp. 131-133.
Cfr. n. 2.
5
La Voce 1908-1913, cit., p. 168.
4
contrapposizioni). Anzi si aggiungerà che, in ottica retrospettiva, la rivista deve la sua forte
identità anche alla stabilità e all’eccellenza dei suoi scrittori e del suo stile.
A questo punto è utile fare un po’ d’ordine nel vasto gruppo vociano tra autori della prima e
della seconda serie, cioè tra quelli già presenti sul foglio di Prezzolini, nel vivo di questioni civili
e politiche, dove la letteratura si fa strada a fatica e tra ostacoli; e tra quelli che approdano alla
«Voce» nella seconda serie, sin troppo dedita alla letteratura, con austero e religioso fervore. La
rassegna riserva qualche piccola sorpresa, pur nelle conferme. Tacendo degli onnipresenti
Prezzolini, Papini, Soffici e Slataper, si rivelerà ad esempio che Emilio Cecchi, temperamento di
grande sottigliezza e cautela, fa il suo eccellente mestiere di critico tra ‘9 e ’13 e non oltre; e in
più non concede alla «Voce», che pure è così determinante nel suo lavoro inventivo, nessuno dei
numerosi frammenti in prosa e versi che tra ’15 e ’16 escono sull’amichevole «Riviera Ligure».
Abbastanza irregolare anche il diagramma di presenze dell’estrosissimo – e amico di Cecchi –
Giovanni Boine, sempre a capofitto nelle polemiche: in campo dal ‘9 con pezzi di varia cultura e
informazione, coinvolto nel ’12 nell’urto con Croce, e poi presente tra ’12 e ’13 con pezzi
inventivi, sino al congedo del ’14 – vedi caso burrascoso – in discussione con Prezzolini
sull’idealismo militante della «Voce» (e va detto che anch’egli dirottò molte pagine creative sulla
più pacifica «Riviera Ligure»).
Per venire a casi limpidamente divaricati: è del tutto tranquillo che Amendola taccia dal ’13
e Gentile e Croce dal ’14; e che per converso il languido frammentista Cesare Angelini compaia
soltanto dal ’15. Vociano della prima ora è Jahier con note religiose e culturale, e con molte delle
pungentissime Delizie indigene, di denuncia civile e sociale; dal ’13 anch’egli consente alla
svolta letteraria pubblicando verso e prose, ma serbandone parecchie per la rivista di Novaro.
Questo cruciale ’13, su cui Prezzolini nel suo repertorio 1974 imprime il segno luttuoso della
decadenza, sarebbe invece da festeggiare per la poesia, poiché segna l’ingresso di parecchi
(Govoni, Lucini) e in particolare di tre grandi come Sbarbaro, Rebora, Palazzeschi. Per Campana
occorrerà aspettare il ’15, e accontentarsi di un solo intervento. Bacchelli già militava nella prima
serie, con schede varie (anche politiche), ma il letterato in proprio salta fuori solt6anto nel ’16
con due prose liriche. Diverso il caso-Cardarelli, che corteggiò invano la prima «Voce» avendone
molti rifiuti e la porta aperta solo nell’11 per un appassionato pezzo critico su Péguy (nell’estate
del ’16 De Robertis gli pubblicherà materiali soprattutto lirici). Della seconda ora, et pour cause,
sono integralmente: Linati, Onofri, Savinio. Tutto ciò per dire che per avere un quadro della
produzione letteraria vociana non basta scandagliare le annate della rivista e i relativi e paralleli
«Quaderni» della Libreria6, ma occorre anche tenere ben aperta sul tavolo la solidale e tranquilla
«Riviera Ligure», nonché la dissidente e libertaria «Lacerba».
Se poi volessimo verificare il giudizio di Prezzolini maturo nei confronti della straordinaria
copia di poeti e letterati con cui lui, pragmatico, ambizioso, smaliziato organizzatore di cultura, si
trovò a fare i conti, basterà osservare la confusa e sommaria descrizione della scrittura vociana
che compila nell’antologia del ’74: i libretti vociani sarebbero «confessioni, aperture di orizzonte,
eccitamenti all’azione, fatterelli sentiti e allargati a simbolo di vita indipendente (…) il tutto
scelto con energia, semplicità, chiarezza, spontaneità, pulitezza e con uno zinzino di sorriso e di
corbellature» ecc. Tante parole, ridondanti quanto inefficaci, che non arrivano al sodo del
problema, e che in sostanza mostrano la sordità di scrive alla tecnica letteraria. Eppure, verrebbe
da aggiungere, lo stile nitido, spiccio, perentorio del Prezzolini vociano (pensiamo all’energico
manifesto La nostra premessa, sul n. 2 dell’8; o alle varie Relazioni annuali), ha da spartire
parecchio con quello dei letterati che gli stanno intorno: ne condivide sprezzatura, aggressività,
modernità, e l’instabile equilibrio tra enfasi e secchezza; nasce e si alimenta dagli stessi maestri
(Rolland, Péguy). Con la differenza, tuttavia, che per il pratico Prezzolini la lingua non è altro
che veicolo di comunicazione, mai strumento di lavoro e d’analisi per se stessa.
Volendo ora indicare in sintesi i principi costitutivi della riforma stilistica vociana (senza
scordarci beninteso di insistere sulla difficoltà di gestire un bilancio unitario), l’elenco potrebbe
essere il seguente: autobiografismo generale e tenacissimo; frammentismo altrettanto persistente;
equivalenza, rivoluzionaria, dei registri di prosa e poesia; rinnovamento delle strutture
linguistiche (difforme e variamente inteso a seconda degli autori). Di autobiografismo e
frammentismo, categorie-base dello stile vociano, sempre congiunte, si potrà parlare senz’altro
insieme. Entrambi i fenomeni reagiscono alla crisi di crescita e assestamento del romanzo:
tramontati naturalismo e verismo, l’Italia letteraria tra i due secoli, già pochissimo allenata a fare
i conti con il genere-romanzo, impostava faticosamente una revisione del vecchio organismo
naturalista introducendovi ingredienti simbolico-lirici. Pensiamo su questa traiettoria all’astuto
itinerario del d’Annunzio narratore – maestro guardato perlopiù con sospetto e fastidio dai
vociani, ma di fatto fruito dall’interno per le amplissime risorse linguistico-stilistiche, ma
pensiamo anche a romanzieri minori, più rappresentativi del gusto medio: alle virate in direzione
simbolica di Capuana e della Serao, agli accorti compromessi di Fogazzaro, all’accentuata
volontà epico-mitica della Deledda. Quanto ai vociani, essi constatano la crisi delle strutture
romanzesche – che è crisi di una cultura e di un’epoca – e sono ben lontani dall’adoperarsi per un
rinnovamento interno del genere. Al contrario, accertatane la morte (presunta), lavorano in
6
Il cui prezioso e finalmente completo regesto si deve a C. M. Simonetti (Le edizioni della «Voce», Firenze, Giunta
Regionale Toscana – La Nuova Italia, 1981).
tutt’altra direzione; aderendo alla crisi, propongono di registrare discontinuità, caos, disordine
epocali nelle forme altrettanto nervose e asistematiche del frammento. E qui vale la pena, poiché
siamo nel cuore del rinnovamento dei generi tentato dai vociani, che l’analisi si faccia più minuta
e registri una campionatura almeno delle numerose testimonianze sull’argomento cruciale del
romanzo e delle forme antitetiche praticate dal gruppo7.
La cronologia impone che si parta da una lettera di Slataper a Sofffici dall’aprile ’11, che
insiste sulla comune propensione all’autobiografia e prevede limpidamente:
Noi faremo qualche cosa: e siccome ogni periodo concretizza in uno speciale,
predominante genere d’arte la sua visione interiore, il nostro genere sarà probabilmente il diario8.
«La Voce», 15 giugno 1911, n. 14: esce il saggio di Giovanni Papini Le speranze di un
disperato, che punta alla valorizzazione di un’«arte interna», introspettiva, analitica, giudicata
irrimediabilmente incompatibile con il romanzo, e ben più feconda: ed ecco in Papini rispuntare
per la finestra, già ricacciato dalla porta, l’inconscio e obbligato, ma equivoco, crocianesimo che
tanti vociani – anche i più anticrociani – dimostrano a tutte lettere nel corso del dibattito contro il
romanzo: il romanzo, che è struttura, sarebbe perciò tout court artificio e non-poesia, mentre la
poesia starebbe congenitamente dalla parte della registrazione e perlustrazione lirica. Dentro il
fiacco panorama letterario 1911 (che suscita caustiche punzecchiature contro i grandi d’Annunzio
e Pascoli stancamente imperanti), il romanzo cui Papini allude prendendosene gioco è quello
minore e commerciale, mondano e fatuo, costruito su avventure galanti o di spada, su
marchingegni esterni.
Io vorrei che si capisse come le vicende spirituali, cerebrali, intellettuali di un uomo (…)
possono esser materia d’arte come le solite vicende sentimentali, amorose, dongiovannesche,
spadaccinesche o sportive di cui ci deliziano da trenta anni. Vorrei far capire che la perdita della
fede o la conquista di una verità metafisica possono essere avvenimenti così tragici e drammatici
come la fuga di un’amante o la conquista di una signora.
E infine:
Ora di questa arte interna – ch’è il rovescio della grande arte decorativa, artistica, esteriore,
sensuale e troppo umana, anche sotto i panneggi dei broccati e degli arazzi, del D’Annunzio –
abbiamo pochi esempi e mi pare che potrebbe promettere molto a una generazione che non ha per
7
Di questi fatti già si ragionava tra l’altro, e in sintesi, nel nostro Per una storia dell’autobiografismo metafisico
vociano, in «Autografo», n. 2 (giugno ’84). E sull’argomento vedi anche P. Briganti, I trentenni alla prova:
l’autobiografia dei vociani, in «Quaderni di retorica e poetica», II (1986), n. 1; R. Cavalluzzi, Prove della scrittura
separata. Prosatori della «Voce» e crisi del romanzo, in «Lavoro critico», n. 27 (settembre-dicembre 1982).
8
La lettera, datata 11 aprile 1911, si legge in S. Slataper, Epistolario, a cura di G. Stuparich, Milano, Mondadori,
1950, pp. 268-270.
il pensiero il dispregio di quella sommarughiana. (…) Il poeta – già si sa – è percorritore e profeta
e deve sempre rinunziare ai beni presenti perché le anime future vedan di più.
Certamente più esplosivo, giocato, invece che sulla provocazione e sulla satira come
piaceva a Papini, su un più teso registro lirico-drammatico, lo scritto sempre vociano di Giovanni
Boine Un ignoto (8 febbraio 1912, n. 6), destinato ad aprire – come si ricorderà – il violento
dibattito con Croce. Eppure il rifiuto del romanzo, espresso nello stile incandescente e
oltranzistico che è di Boine, in perenne conflitto tra tensione verso la totalità e afasia, s’innesta su
un terreno culturale ancora ambiguamente crociano: il romanzo, in quanto struttura e congegno, è
paventabile e impoetica prigionia, ineff8icace a rispecchiare le fratture del presente; mentre la
nuova realtà pretende una nuova arte. Davvero notevole che l’alternativa possibile al romanzo, in
questo sforzo di adeguamento all’epoca, sia indicata non nella troppo generica « arte interna » di
cui discorreva Papini, ma nelle forme dell’aforisma (e si penserà ovviamente all’eversiva lezione
di Nietzsche, carissimo a Boine).
La mia vita è amalgama, è pienezza aggrovigliata e commossa di pensiero e d’immagine.
(…) Dico che questo amalgama deve pur avere un’espressione. (…) Qualcosa come un’interiore
costrizione meccanica obbliga oggi un uomo che voglia esprimersi e dire, allo schema del
romanzo antico di millenni (…); allo schema della narrazione ordinata in terza persona. (…)
Io non difendo il pensiero aforistico: ho delle idee che esporrò, sul pensiero aforistico. Ma
se uno pensasse a scatti, gli scoppiassero dentro cose profonde come lampi senza alone, senza
riverbero logico, senza echeggiamenti di concatenamenti sillogistici, farebbe male a non dirci
come gli viene il pensiero suo, a scatti, a guizzi, a motti senza mettere tra l’un motto e l’altro un
artificiale lavorio di apparente lavorazione. Vogliamo l’aforisma vivo non il rabberciamento di
facciata secondo le regole solite; l’improvviso bagliore non un annegamento diluito secondo i
bisogni correnti del raziocinare comune. (…) Brevità d’espressione per una brevità abitudinaria
di spirito. La complessità libera e nuova dello spirito nuovo dovrà dunque crearsi la libertà delle
forme.
Il precetto stilistico predicato nel ’12 non resta, per Boine scrittore, lettera morta:
l’«aforisma vivo» verrà di fatto tentato con risultati di straordinario interesse nei cinquantacinque
frammenti comparsi sulla «Riviera Ligure» del marzo ‘159. La serie sembra leggibile infatti come
una silloge concatenatissima di aforismi, in bilico tra discontinuità e durata: nonostante la
scansione in fulminei paragrafi numerati, la durata è perseguita sia con studiatissime ricorrenze
ritmico-melodico-foniche, sia nell’articolazione in più blocchi di un solo grande campo tematico
(l’esplorazione dell’io sociale e psicologico) che comporta il ritorno ossessivo di più parolechiave. In terreno «critico» (la virgolettatura è d’obbligo nel caso di Boine), la ben nota
9
Sui frammenti, parte del volume frantumi sùbito postumo, si rinvia a C. Martignoni, I «Frammenti» di Boine:
aforisma, autobiografia, divisione dell’io, in «Autografo», n. 15 (ottobre 1988). Cfr. anche G. Bertone, in Il lavoro e
la scrittura, saggio in due tempi su Giovanni Boine, Genova, Il melangolo, 1987.
recensione a Clarice Tartufari del ‘1410 contiene ancora una volta la drastica condanna del
romanzo secondo la formula già individuata: è la struttura con le sue forme chiuse e
ingannevolmente continue a scontentare Boine, sensibilissimo alle discontinuità culturali del
tempo e ansioso di esprimerle in registri adeguati.
Il fatto è questo: che la Tartufari ha scritto un ottimo romanzo (…) mi sia dunque permesso
di dir finalmente la mia opinione sugli ottimi romanzi vivi e veri e quadratamente rappresentati.
Ed è che non so come ci soffoco dentro, ma proprio ci soffoco, ma proprio non ci colgo da
ultimo che pena e desiderio di scattare comunque pazzamente fuori, fuori d’ogni quadratura e
d’ogni regolare verità. Che ciò non è arte, o è quell’arte di cui non so assolutamente più che
farmi, che è un congelare, un rifinire fotografico (un ripetere la vita ) uno sperperare
narrativamente una emozione la quale, nuda, era un grido, od un lamento, era un bagliore od una
interiore colorazione. (…)
Io piangerò, io griderò o starò zitto. Starò con, dirò la mia anima nuda. Non scriverò
romanzi.
Ma la posizione più complessa e problematica compete al sottile Emilio Cecchi, che
rifuggendo dai personalismi esasperati di Boine conduce a più riprese, soprattutto nei Taccuini,
un’analisi critica sulla narrativa italiana contemporanea, calandola nel contesto più ampio dei
fenomeni sociopolitici e delle grandi esperienze europee del romanzo borghese. Il che comporta
non tanto il veemente rifiuto del romanzo, su cui si attestavano perlopiù i vociani, quanto una
nitida e oggettiva registrazione – tuttora preziosa –delle difficoltà italiane nella gestione del
genere. Notevolissimo in questo senso un appunto del ’12, dove molto modernamente si
riconosce nel romanzo un genere di contrasti, capace al massimo grado di restituire una visione
globale e complessa di società e individuo, visione mai pacifica ma sempre dissidente e
conflittuale. La società italiana, troppo recente, né compatta né unitaria, non ha consentito come
altrove l’affermazione di una narrativa solida, centrale e continua, bensì ha prodotto al più le
varie e pur non disprezzabili esperienze regionali:
ritirarsi istintivo dei nostri romanzieri verso la vita provinciale, perché in quella persistono
meglio i contrasti, è più possibile sentire l’urto di certe forze: non fossero che forze primordiali,
brutali. Riproduzione della vita paesana locale, delle parti diverse d’Italia; era l’unica cosa che si
potesse fare, lateralmente alla grande linea centrale, ed è ciò che è stato fatto. D’Annunzio ha
fatto l’Abruzzo, Neri Tanfucio la Toscana, Verga la Sicilia, la Deledda la Sardegna (…)
Mancanza di vita centrale in Italia, come era in Francia al tempo di Balzac, come era in
Inghilterra, per l’aristocrazia di Meredith, per il mondo villereccio di Hardey. (…) Ma il romanzo
non può nascere che in società dove sia forte il contrasto morale: contrasto qui non c’è, perché
c’è istintiva immoralità e buon senso. Ritornano qui le ragioni per le quali i romanzieri hanno
dovuto isolarsi nella vita provinciale. La guerra dell’indipendenza italiana non ha mica
trasformato tutto, non è mica avvenuta dentro (…) Ci sarebbe, dico io, il romanzo tragico, della
10
«La Riviera Ligure», n. 35 (novembre 1914).
vita di questa società sfibrata e corrotta. (…) Tutti i romanzieri, pure in una vita potente e vera,
hanno scritto in dissidio. Cfr. Meredith, Dostoievski, ecc.11
Altrettanto interessante una nota del ’13 che indaga con acutezza i caratteri-base necessarî
alla forma-romanzo (epicità, spessore e violenza del materiale), denunciando insieme, a
confronto, gli evidenti limiti della narrativa di casa:
Romanzieri, sono gli epici d’oggi, e sono perfettamente inutili se non trasportano una
grande materia germinale, se non hanno qualità violente, spesse di succhio, alla Meredith, alla
Tolstoj, alla Dostoewskij. Romanzieri, novellieri puramente ironisti, come i nostri, sono ridicoli e
inammissibili (Taccuini, p. 192).
Alla luce di queste premesse generali va intesa la severa e ferma riflessione personale del
’12:
Io non potrei mai scrivere un romanzo, e finora infatti ho cominciato ma non ho mai
continuato. Il personaggio mi diventa, in me, la lirica di sé stesso, e mi pare disonestà seguitare a
darlo al grado di personaggio di romanzo (Taccuini, p. 93).
Come a dire che, nel rispetto di un’attenta disciplina dei generi, se il romanzo precipita
senza resistenze interne verso il côté dell’autobiografismo lirico e vi si sfalda («il personaggio mi
diventa, in me, la lirica di se stesso»), il progetto-romanzo-opera eminentemente corale, quadro
sociale, dalle qualità epiche e violente, spesse di succhio (per rifarci alla suggestiva terminologia
cecchiana) – in sé è fallito.
Sul versante della valutazione del genere autobiografico, così apprezzato e frequentato dai
compagni di strada, il giudizio di Cecchi è non meno acuto e illuminante criticamente. Una ferma
volontà
di
architettura
e
costruzione
lo
trattiene
costantemente
dalle
lusinghe
dell’autobiografismo puro: così il giudizio in merito oscilla di continuo tra il riconoscimento del
fascino e la segnalazione dei limiti, sia che nel ’12 il pretesto sia l’amico Boine:
maniera letteraria di Boine, eccellente per un diario, per un carnet intimo: a quel modo si
affermerebbe il proprio pensiero fin nelle sfumature più dubbie e momentaneamente infruttuose:
si lascerebbe tutto vibrante e sospeso, in atto: ma come forma anche per gli altri, quella forma lì
ha il torto di una involontaria disonestà, sembra portare seco molta più ricchezza concreta di
quella che per avventura essa non porti (Taccuini, p. 20);
sia che, nel ’17, lo spunto sia nientemeno che André Gide:
11
E. Cecchi, Taccuini,a cura di N. gallo e P. Citati, Milano, Mondadori, 1976, pp. 89-90.
La forma-libro di André Gide, certamente, è il «taccuino»; ma così non ha da essere per
me. Eppoi per me, particolarmente è nocivo: io mi devo liberare delle suggestioni particolari,
descrittive, dei miei soggetti; li devo denudare, devo buttare giù le decorazioni floreali, ancora; e
questo sis6tema di lavoro, induce invece a ripulirle ma a conservarle (Taccuini, p. 202).
Un’ultima citazione cecchiana, questa volta dalle lettere a Boine (1912), illumina con uno
sguardo d’insieme sia il senso di un lavoro difficoltosamente comune tra i vociani, sia
l’attenzione di Cecchi nel soppesarlo, selezionarlo e distinguersene, ancora alla ricerca di quella
ferma disciplina strutturale che tenga a freno impressionismo e frammentismo, che gli dia ordine
e disegno razionali:
io mi sono seccato di questa poesia alla Slataper, di questo darsi come cocottes (…) la poesia è
architettura, è sistema, come la filosofia, come la religione: loro mi danno la freschezza sensitiva,
ma quella ce l’ho da me, ce n’ho anche troppo se mi pigliasse la voglia di fare il panteista, e altre
idiozie. La questione è che sono o dei romantici sentimentali (…) o dei romantici naturisti
(Slataper, Soffici, etc.), non so chi peggio. Perciò mi piace Benda, con il suo furore di organismo,
di architettura12.
Slataper e Soffici, talora (non qui) in compagnia di Papini, fanno le spese dell’intransigenza
di Cecchi, rappresentando nel gruppo l’ala più irriducibilmente frammentista e più refrattaria
all’esigenza di «architettura».
Sta di fatto che, nonostante i moniti e i parziali dissensi del vigile Cecchi, Slataper davvero
non sbagliava testimoniando nel ’12 «il nostro genere sarà probabilmente il diario». Sotto questa
etichetta elastica e mobile si potranno infatti comprendere le varie scritture vociane in volume tra
’12 e ’16. Ma con alcuni importanti distinguo. Dentro l’autobiografismo, la specie più
interessante e innovativa – tanto più nell’età post-romantica che vede l’avvento del pensiero
negativo, la morte dell’io, e la disumanizzazione dell’arte – è quella «metafisica», secondo
l’illuminante formula continiana già penetrata nel comune lessico critico. L’accezione metafisica,
gelida, astratta, di fatto distrugge l’io che racconta, riducendolo a maschera, a semplice veicolo
linguistico per cucire il testo in unità. A questo polo geometrico appartengono i testi più
convincenti del vocianesimo: in ordine cronologico, i Frammenti lirici reboriani; Bacchelli,
Poemi lirici; Sbarbaro, Pianissimo; Campana, I cantio rofici; per Boine e Cecchi i frammenti
usciti sulla «Riviera» tra ’15 e ’16; Cardarelli, Prologhi, Bacchelli, Memorie e Riepilogo sulla
«Voce» nel ’16. Si tace Soffici, perché esponente, a suo modo esemplare, di un autobiografismo
di tipo spicciolo, marcatamente impressionistico, trascrizione immediata e sensuale della realtà: è
la ricetta – gradevole, ma tecnicamente molto dissimile – con cui sono costruiti Giornale di
bordo, Arlecchino e Giostra dei sensi. Qualche problema di classificazione, poiché i fenomeni
letterari non obbediscono a formule matematiche, pongono operette di natura più ibrida come:
Slataper, Il mio Corso; Papini, Un uomo finito; Jahier, Ragazzo – ognuna improntata a una sua
gamma fondamentale: il vitalismo di Slataper, il titanismo papiniano, la drammaticità severa di
Jahier – troppo concrete, almeno a segmenti, per appartenere al registro metafisico: molto vicine
al genere del «romanzo di formazione», eppure ben vociane in virtù della corrosione operata sulle
strutture narrative dalla qualità della scrittura, lirica (nei casi di Slataper e Jahier) o argomentativa
(nel caso di Papini). Esperimenti dunque che si insediano – non senza interesse – all’intersezione
di più registri, secondo quella prassi contaminatoria e trasgressiva che è, ancora, tipicamente
vociana.
Ritornando al nostro inventario generale, possiamo associare i due punti residui della lista:
osmosi prosa-poesia e rinnovamento stilistico. Per quanto riguarda la collaborazione, o
concorrenza, tra prosa e poesia, talora realizzata all’interno della stessa opera (dunque con
singolare presenza di prosimetri), si dirà subito che le responsabilità maggiori del processo sono
caricate sulla prosa: la quale è piegata in funzione antinarrativa, frantumata in sequenze statiche,
liricizzata nella forma (con predominio del livello ritmico-fonico, fitto impiego di parallelismi,
simmetrie, iterazioni). La liricizzazione della prosa è più o meno blanda, più o meno sfrenata (ai
vertici del dérèglement porremo Campana e Boine). Siamo dunque già, con questi fatti, nel vivo
della riforma stilistica puntuale: e qui occorrerebbe il sussidio di tante analisi separate, fuori
luogo in questa sede, che andrebbero a incrementare le molte già disponibili, non di rado
eccellenti (a partire dalle magistrali e precoci pagine di Contini su Rebora e Boine)13. Si dirà in
generale che i più consapevoli (Rebora, Boine, Jahier, un po’ meno Slatapèer, molto
discontinuamente Campana) utilizzano una sintassi scorciata e contatta, spesso alogica, talora
anacolutica; un lessico dove si mescolano lingua colta e arcaica, lingua quotidiana, dialetto; un
forte sperimentalismo linguistico (con formazioni neologistiche, fusione di epiteti e di sostantivi,
energia e deformazione specie in area verbale); e una sapiente dosatura ritmico-fonica. I risultati
più originali e intensi si apprezzano quando la scrittura evolve verso l’espressionismo (come nei
suddetti Rebora, Boine, Jahier, Slataper, Campana). Ma esiste, né va sottovalutata, anche una
scrittura vociana più cerebrale e secca, dallo scheletro sintattico limpido e perspicuo, dal gusto
12
La lettera, datata 6 dicembre 1912, è in G. Boine, Carteggio. II. Giovanni Boine-Emilio Cecchi (1911-1917), a
cura di M. Marchione e S. E. Scalia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983.
13
Il saggio su Rebora (Clemente Rebora), del ’37, si legge in Esercizi di lettura. Nuova edizione aumentata di «Un
anno di letteratura», Torino, Einaudi, 1974; quello su Boine (Alcuni fatti della lingua di G. Boine), del ’39, in
Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970. Altre notevolissime indagini formali su Rebora e Boine nel solco
delle continiane si devono soprattutto a F. Bandini, Elementi di espressionismo linguistico in R., in Ricerche sulla
lingua poetica contemporanea, Quaderni del Circolo Filologico-Linguistico Padovano, Padova, Livinia, 1966; V.
Coletti, La lingua «maschia» di G. B., in Giovanni Boine. Atti del convegno nazionale di studi, a cura di F.
Contorbia, Genova, Il melangolo, 1981.
lessicale più sobrio e smorzato: cui tendono Cardarelli, Bacchelli, Cecchi, Sbarbaro. Papini
conserva invece una misura prosastica abbastanza tradizionale: il Papini formalmente più
inventivo si può additare nei versi, che ribaltano – ma confermano – la tendenza vociana alla
mescolanza dei generi: qui è la poesia che insegue timbri, sprezzature, e realismo ruvido della
prosa.
Ma a proposito della convergenza – notevolissima e ormai indiscussa14 – espressionismo
europeo/vocianesimo, parlano chiaramente molti dei fattori stilistici elencati, tutti inclinanti verso
impeto e trasgressione: audacie e violenze linguistiche, frammentismo, osmosi prosa-poesia.
Sono in Europa gli anni laboriosi e inventivi delle avanguardie storiche, operanti perlopiù sotto
l’insegna del negativo e dell’iconoclastica. Se nella provinciale Italia risponde a voce molto alta il
futurismo, l’avanguardia stilistica dei vociani agisce e lavora più in sordina, e il suo ruolo
innovativo sarà riconosciuto più lentamente. Il segreto della scrittura vociana è forse la
conduzione avventurosa ma calibrata del gioco su più piani correlati: non si rifiutano le creazioni
linguistiche più vitali del futurismo, specie nell’ambito dell’invenzione metaforica, delle
sinestesie e dell’energia verbale; nonostante il fastidio di tanto naturalismo regionalistico, non si
disprezza affatto il ricchissimo serbatoio dei dialetti regionali (cui attingono senza timidezza
Rebora, Boine, Jahier, Slataper, più pacatamente Linati); né ci si sottrae al turbolento confronto
con le grandi esperienze europee, anche a rischio di incroci e innesti in qualche modo selvaggi (la
tardiva scoperta di Rimbaud e Baudelaire si allea alla seducentissima voga di Nietzsche, il
fascino litaniante e religioso di Péguy al nutrimento ideologico di Rolland e Claudel).
Se alla definizione dello stile vociano può giovare ancora una serie di accertamenti singoli
per afferrare l’individualità dei varî testi e l’insieme, tra varianti e invarianti strutturali e formali,
un grimaldello particolare pare utile all’esplorazione del sistema: i libretti vociani si apparentano
tra loro variamente anche a seconda del preminente modello formale e culturale che vi agisce. Per
esempio l’astro Nietzsche governa il piccolo cielo di Prologhi (1916); e per fortuna con leggi
diverse (ogni autore è rieseguito nei modi proprî, oggetto di una rilettura che è sempre personale
travisamento) Nietzsche governa anche Un uomo finito (1913). Prologhi e Un uomo finito,
tramite il reagente Nietzsche, si scoprono in un prezioso rapporto di collisione che non esclude
14
Per la definizione puntuale dell’espressionismo vociano si rinvia ancora ai saggi continiani su Robera e Boine
citati alla nota precedente, cui s’aggiunga la splendida voce dedicata da Contini all’Espressionismo letterario già nel
vol. II dell’Enciclopedia del Novecento (Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977) e poi raccolta in Ultimi
esercizî ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1988. Di un espressionismo diffuso e generale come carattere-base del gruppo,
hanno ragionato sia Edoardo Sanguineti, in particolare nell’introduzione alla sua Poesia del Novecento (Torino,
Einaudi, 1968), sia Franco Fortini e Romolo Luperini nel Novecento laterziano (1976), sia Luperini, ancora nel suo Il
Novecento. Apparati critici, ceto intellettuale, schemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Torino,
Loescher, 1981 (vedi al capitolo La generazione degli anni Ottanta, t. I. soprattutto alle pp. 135-141; 197-217; 223244).
l’autonomia ma che riesce illuminante: pare indubbio a spoglî puntuali che Cardarelli lesse oltre
che Nietzsche anche Papini, pur prendendone le distanze in pubblico e in privato, e che lo
memorizzò e lo assimilò proprio sull’asse nicciano.
Altri esempi di industriose intersezioni: il Rimbaud di Une saison en enfer
puntigliosamente ritagliato da Bacchelli nei suoi esercizî cerebrali del ’16 – Memorie e Riepilogo
– è altra cosa (ma ancora giova il confronto) rispetto al Rimbaud rutilante, sensuale, analogico
che si ritrova superficialmente in Campana e che fu proposto per primo da Soffici (1911). Il
Péguy severo, patetico e gonfio che si intravvede sul fondo della pagina di Jahier non collima del
tutto con la lezione sintattica energica e tagliente che dal medesimo Péguy estrae il Cardarelli di
Prologhi (grazie ad altri incroci). Ma i due Péguy, di Jahier e di Cardarelli, e anche di Boine
(grande lettore del maestro francese), un pochino coincidono – per finire – con l’intelligente e
azzeccata parodia che ne fece il per solito grave e serioso Amendola. In un biglietto a Prezzolini
non datato ma forse dell’1115, Amendola si diverte a fare il verso a Péguy, mimandone lo stile
enfaticamente iterativo, e ironizzando così su intemperanze e manierismi di alcuni compagni di
strada:
Caro Prezzolini,
Credo che faresti bene, veramente bene, a pubblicare lo scritto di Soffici, dico di Soffici,
Ardengo Soffici, su Péguy, figlio di Péguy, il quale sarà contento di veder che il suo stile, il suo
vero stile, lo stile ch’è di lui, si diffonde, si afferma, si propaga, trionfa, invade, dilaga (…).
Amendola, Amendola
Giovanni, Giovanni Amendola
il tuo amico, veramente amico
Giovanni Amendola
dico Amendola
Amendola.
In «Strumenti critici», n.72 (1993), pp.189-203
15
Raccolto in G. Prezzolini, Amendola e «La Voce», cit., p. 160.