sommario 2/2010
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sommario 2/2010
sommario Club Alpino Italiano Sezione di Padova 2 Cronache Il premio Gilardoni - Della Torre a Giuliano Bressan di Leri Zilio 8 Dialoghi Ad Arquà in compagnia del Petrarca di Gabriella Rossignoli 12 Diario Alpino Patagonia: Torri del Paine e il trekking a W di Lucio De Franceschi Potrei raccontare di Elena Facco 12 Gavarnie, l'emisfero di ghiaccio di Francesco Cappellari Aconcagua 2010, ancora buca di Angelo Soravia Marmolada Parete Nord discesa con gli sci di Federico Battaglin 43 Proposte Gita fra amici del gemellaggio Cai Padova - Dav Friburgo 44 Itinerari Alpini Cima d'Oltro di Nicola Bolzan 48 Personaggi La montagna, gli amici, il canto. Prigioniero della bellezza. Umberto Marampon l'uomo dei Tetti di Caterina Secco 58 Escursionismo Alla scoperta dello sci di fondo: una grande avventura Alla riscoperta della memoria di Primo Stivanello di M. Cuomo 64 In libreria 68 Canti 80 Ricordiamo Germano Gazzetta SEMESTRALE SEGRETERIA REDAZIONALE c/o Sezione CAI 35121 Padova - Galleria S. Bernardino, 5/10 Tel. 049 8750842 - www.caipadova.it - [email protected] Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DR PD Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 401 del 5.5.06 DIRETTORE RESPONSABILE: Giovanni Piva VICE-DIRETTORE: Lucio De Franceschi COMITATO DI REDAZIONE: Francesco Cappellari, Leri Zilio IMPAGINAZIONE GRAFICA e STAMPA: Officina Creativa sas - Padova IN COPERTINA: Il Perito Moreno (foto Elena Guabello) 1 2/2010 cronache cronache IL PREMIO GILARDONI-DELLA TORRE A GIULIANO BRESSAN Agosto 1974. Il comasco Pietro Gilardoni ed il milanese Guido Della Torre vengono travolti dal crollo di un seracco mentre percorrono la via Major sulla parete della Brenva nel Monte Bianco. Sono entrambi Istruttori Nazionali ed Accademici, impegnati in primissima persona nell’attività didattica e divulgativa delle rispettive Sezioni. Per ricordare il loro nome la Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo, Sci Alpinismo e Arrampicata Libera del Club Alpino istituisce un riconoscimento triennale. Questo sarà assegnato ad un alpinista o a una Scuola di Alpinismo “che abbiano svolto attività di assoluto rilievo nell’insegnamento dell’alpinismo e nella prevenzione degli incidenti in montagna, che abbiano introdotto innovazioni tecniche nelle metodiche di arrampicata e nei materiali; e ancora che abbiano lasciato un segno nella cultura alpinistica con particolare riferimento ai problemi relativi alla pedagogia e alla didattica”. Nel 2009 il prestigioso riconoscimento è stato assegnato ad un alpinista padovano, l’Istruttore Nazionale ed Accademico Giuliano Bressan. La cerimonia di premiazione si è svolta a Pordenone durante il Congresso Nazionale degli Istruttori, con un Giuliano felice e commosso che ha ricevuto il simbolico dono in cristallo dal Presidente della CNSASA Maurizio Dalla Libera. Per Padova è un attesissimo ritorno, perché il premio mancava ad un esponente cittadino da tantissimi anni, essendone stati insigniti Bruno Sandi nel 1981 e Giuseppe Grazian nel 1985. Il riconoscimento va a premiare un uomo tuttora 2 attivissimo sia nel campo prettamente alpinistico, sia in quello didattico, che in quello tecnico-divulgativo. Giuliano, che arrampica da più di 30 anni, ha all’attivo più di 1000 vie, con una poliedricità notevole, che spazia dall’ambiente dolomitico al granito del Monte Bianco, dai percorsi innevati in alta quota alle verticali cascate di ghiaccio. Notevole è anche l’attività esplorativa e di ricerca, ed emblematiche sono le numerose esperienze alpinistiche nell’Africa Sahariana, con prime ripetizioni ed aperture di nuovi itinerari dal Marocco alla Giordania fino al Mali. Significative, solo per ricordarne alcune, sono in Marocco la via “Anna e Fiorenza” sulla Cima Coda dell’Avvoltoio ed in Mali sul Kaga Pamari la via “Meridiana Tropicale”. Giuliano ha aperto nuove vie anche in Dolomiti, e qui ricordaimo tra le tante la “Via del Nostromo” in Catinaccio (dedicata a Luigi Bettuolo) e la “Via del Ricordo” su Cima Val di Roda nelle Pale di San Martino (dedicata a Franco Gessi e Toni Gianese). Questa intensissima attività non gli ha però impedito di dedicarsi con passione e competenza alla vita della Scuola della nostra Sezione, dirigendo numerosi corsi e tenendo le sue memorabili lezioni sui materiali e le tecniche di assicurazione. Campo nel quale è un’autorità assoluta, avendovi maturato un’esperienza di decenni tantoché presiede dal 1999 il Centro Studi Materiali e Tecniche. È stato nel 1990 uno degli ideatori, assieme a Grazian e Zanantoni, della “Torre di Padova”, struttura realizzata per i test sulle prove di assicurazione. Non si contano poi gli articoli pubblicati sulle riviste specializzate e la partecipazione alla stesura di manuali tecnici e ancora l’organizzazione di alcuni convegni nazionali ed internazionali su argomenti di interesse per il CAI e per l’UIAA. È inoltre volontario della Croce Rossa ed ha fatto parte per molti anni del Soccorso Alpino, incarico dal quale ha rassegnato le dimissioni nel dicembre 2008. Un’overdose di impegni a tutto campo che ci fa chiedere dove trovi il tempo per seguire tutte queste attività, perché sono proverbiali il suo entusiasmo e la sua professionalità. Io stesso ho avuto la ventura di partecipare ad un suo corso come allievo e devo dire che niente è lasciato al caso, con un giusto connubio tra attività pratica in parete e certosina preparazione tecnica. Una particolare attenzione Giuliano Bressan viene premiato dal presidente CNSASA Maurizio Dalla Libera è inoltre riservata al risvolto umano essendo per lui prioritario il rapporto di amicizia con i suoi compagni di cordata. Essendo un figlio, alpinisticamente parlando, degli anni ’70 ha iniziato ad arrampicare con gli scarponi, per poi seguire tutto l’evolversi dell’alpinismo. Ha saputo così cogliere gli aspetti rivoluzionari ed innovativi delle nuove tecniche e dei nuovi materiali, ma con intelligenza non comune li ha coniugati con l’esperienza derivatagli da un mondo alpinistico che si affidava più all’uomo e alla sua preparazione. Ancora oggi nei suoi corsi si tende ad evidenziare più di ogni altra cosa il rapporto uomo e montagna, si insegna all’allievo a calarsi nell’ambiente in cui opera, inculcandogli il concetto che l’alpinismo non è una scala di spit da seguire a 3 testa bassa, e non è neppure il grado in più o in meno che si riesce a superare. La lezione che io stesso ho recepito è quella che si va in montagna per vivere un’avventura in un ambiente naturale, dove esiste un certo rischio che va calcolato ed in un certo senso addomesticato, ma questo solo contando sulle proprie forze, che sono la preparazione tecnica e fisica, la consapevolezza dei propri limiti e la giusta preparazione psicologica. Leri Zilio cronache cronache KAGA PAMARI PARETE SUD Via “Meridiana Tropicale” (G. Bavaresco, G. Bressan, F. Busato, S. Campillo, A. Giambisi, L. Manzana, F. Miori e O. Piazza, dal 24/11 al 1/12/1995); difficoltà ED (6b, A2); dislivello 400 m. La via sale lungo lo strapiombante pilastro sud aggirando sulla destra (a metà parete circa) un settore caratterizzato da enormi strapiombi. Le soste sono rimaste tutte attrezzate (tasselli Ø 10 mm) come pure i tratti superati in arrampicata artificiale; qualche chiodo in via. Per una ripetizione prevedere, procedendo con tecnica di big-wall, almeno due giornate (data l’esposizione è necessaria molta acqua). Itinerario: vedi schizzo (materiale consigliato: 2 corde da 50 m, 20 rinvii, friend misure dal n° 2 al n° 5, chiodi vari, staffe, eventuali corde statiche per attrezzare la parte iniziale del pilastro). Discesa: dalla cima scendere brevemente in direzione sud ed aggirare la cuspide finale, sul suo versante ovest, traversando su una stretta ed espostissima cengia (attenzione!), sino a raggiungere una non ben evidente, stretta spaccatura. Passare faticosamente per la breve galleria portandosi così sul versante est del Kaga Pamari; con una corda doppia di 40 m si raggiunge un’ampia cengia che si percorre verso nord sino al suo termine. Scendere, con una corda doppia di 40 m, obliquamente verso destra (faccia a monte) pervenendo ad un aereo terrazzino; calarsi, con un’altra corda doppia di 40 m, raggiungendo il cavo d’acciaio che collega il Kaga Pamari al Kaga Tondo. Lungo il cavo, con una espostissima “tirolina” (traversata alla corda) di 18 m circa, si perviene così alle rocce dello zoccolo del Kaga Tondo. Foto di Gruppo Kaga Pamari - parete Sud 4 5 cronache TAGOUJIMT N’TSOUIANT (LA “CODA DELL’AVVOLTOIO”) 2977 m Parete: NE Via: “Anna e Fiorenza” 25/26 ottobre 1993 Difficoltà: TD; roccia ottima sino all’anfiteatro, buona ma con vegetazione sino alla cima Dislivello: 600 m Orario prima salita: ore 11; bivacco in vetta Materiale impiegato: 13 chiodi di passaggio e 12 chiodi di sosta; nut e friend medio-larghi Salita da: Gianni Bavaresco, Giuliano Bressan e Almo Giambisi. grandi cenge che ne solcano il lato destro sono percorse dalle capre e la notte brillano dei fuochi di bivacco accessi dai pastori berberi. Il nuovo itinerario si sviluppa a sinistra del grande sperone centrale, sulla riga di destra, delle due ben evidenti righe biancastre che scendono dall’anfiteatro centrale e prosegue, obliquamente a sinistra, per una grande rampa-canale che dall’anfiteatro sale sino alla cresta sommitale. Accesso: da Tarhia raggiungere il piccolo passo a nord dell’Oujdad e scendere verso l’akka n’Tarhia; attraversarlo e risalire un largo pendio, con vegetazione mediobassa, sino alla base della grande parete. L’attacco della via è situato circa 30 m a destra di una caratteristica grande grotta e si raggiunge risalendo un breve zoccolo roccioso (80 m circa di dislivello - passaggi di II). Da Tarhia: ore 1 - 1,30. Itinerario: salire direttamente lungo la riga biancastra su roccia liscia e compatta fino ad un terrazzino; sosta 1. 50 m, IV, V- e IV (sosta fornita da uno spit - probabile tentativo francese). Traversare 2 m verso destra, superare un liscio strapiombo e salire direttamente su belle placche sino ad un comodo terrazzo; sosta 2 (un chiodo - lasciato). 50 m, V, V+ e IV. Proseguire direttamente per 15 m circa e traversare poi obliquamente verso destra (un chiodo - lasciato); superare uno strapiombetto e nuovamente in obliquo verso sinistra, aggirando una strapiombante parete, raggiungere un terrazzo con albero; sosta 3. 40 m, IV e V. Traversare 2-3 m a sinistra e salire direttamente un verticale pilastro; al suo termine proseguire obliquamente verso sinistra sino a raggiungere una piccola nicchia; sosta 4. 50 m, V, V+ e IV. Ci si trova sotto a grandi e compatte placconate; proseguire per l’unico punto vulnerabile offerto da un’esile fessura che si risale per 30 m fino a raggiunge- Il Tagoujimt con la via Anna e Fiorenza Il Tagoujimt è l’immensa parete che chiude verso sud-ovest il circo di Tarhia ed è anche la cima più alta di questo imponente e maestoso complesso roccioso. Le 6 cronache re una cengetta; traversare brevemente verso sinistra ed entrare nel sovrastante colatoio; superando uno strapiombetto, pervenire infine alla sosta, sopra ad un masso incastrato; sosta 5 (un chiodo - lasciato). 50 m, VI. Proseguire lungo un corto diedro; superare sulla destra un liscio strapiombo (un chiodo - lasciato) e obliquando leggermente verso sinistra raggiungere un aereo ballatoio sottostante ad uno strapiombante pilastro; salirlo direttamente (un chiodo - lasciato) fino ad una cengetta; sosta 6 (clessidra; un cordino - lasciato). 50 m, VI, passaggi di A1. Salire prima direttamente, poi obliquamente verso sinistra, in direzione dell’ampio anfiteatro; sosta 7. 50 m, III e II. Superare l’anfiteatro per facili roccette, tratti detritici e gradoni erbosi; sosta 8 (spuntone). 50 m, passaggi di II. Salire per brevi pareti e caminetti in direzione della grande rampa-canale che solca la parte superiore della parete; sosta 9. 50 m, III e IV. Superare, aggirandolo sulla destra, un piccolo strapiombo ed entrare nella rampa- canale; lungo questa, superando irregolari diedrini e lisci camini, raggiungere una piccola terrazza; sosta 10. 50 m, V, IV+ e IV. Dapprima per una verticale placca e successivamente per un largo camino, si perviene ad una larga cengia; sosta 11. 50 m, IV e III. Percorrere facilmente la cengia verso sinistra per 30 m circa raggiungendo la linea di camini e fessure su cui salgono le ultime tre lunghezze della via “la fessura diagonale” (B.Foucher e P. Gleizes - 12/13 ottobre 1975); salire dapprima lungo un grande camino, poi lungo una serie di corte fessure, sino ad una cresta; per questa facilmente, all’ampio plateau sommitale; 150 m circa, V, IV, V, IV e III. E’ altresì possibile, percorrendo lungamente la cengia verso destra, pervenire al canalone dove passa la via di discesa. N.B. Nella relazione è indicato solo il materiale lasciato in parete. Discesa: dalla sommità del vasto altopiano scendere verso ovest sino ad una ben marcata forcella che porta sul versante di Tarhia. Seguire una larga cengia orizzontale per un lungo tratto verso ovest sino ad un primo canalone; non scendere lungo questo, ma proseguire sino ad un secondo canale. Seguirlo sulla sinistra (idrografica) sino al suo termine. Traversare verso destra (idrografica) ed entrare in un terzo ampio canalone; scendere lungamente, per gradoni e facili paretine, superando due tratti verticali (possibilità di effettuare due calate a corda doppia di 25 m - ancoraggi naturali), sino ad un ultimo salto. Traversando brevemente verso sinistra (idrografica), si raggiunge uno sperone roccioso; per facili gradoni erbosi, si perviene infine, alla base della parete. Ore 3 circa. (Relazioni di Giuliano Bressan) Giuliano Bressan 7 dialoghi dialoghi AD ARQUÀ IN COMPAGNIA DEL PETRARCA pire certe sfumature o per interessarsi di qualcosa che sembrava appartenere al passato. Avvicinandomi ad Arquà,mi sentivo un po’ emozionata al pensiero che molto probabilmente avremmo fatto lo stesso sentiero che chissà quante volte aveva fatto Francesco Petrarca e così ho voluto fare un confronto fra noi Veterani e lui. Mi sembrava di vederlo proprio come si descrive nel sonetto L’ “Solo e pensoso” Solo e pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti e gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio uman l’arena stampi. (dove l’impronta dell’uomo segni il terreno) Altro schermo non trovo che mi scampi (altra difesa non trovo che mi salvi dal fatto che gli altri si accorgano della mia passione per Laura) dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d’allegrezza spenti di fuor si legge come io dentro avvampi; escursione nei dintorni di Arquà Petrarca ha risvegliato in me i ricordi della mia vita da insegnante, ricordi che, dopo essere andata in pensione tre anni fa, avevo rimosso per dedicarmi ad interessi completamente diversi,come se cominciassi una nuova vita. Andando in macchina verso Arquà, cercavo di farmi ritornare alla mente i versi di qualche poesia che avevo obbligato i miei allievi ad imparare a memoria, ma, con grande mia costernazione, non mi veniva in mente niente. E pensare che ogni anno per sedici anni a ragazzi diversi l’avevo spiegata e l’avevo richiesta ad ognuno di loro. Poi invece indagando fra le pieghe della mia memoria, pian pianino sono riuscita a ricostruire due sonetti che mi erano piaciuti tanto e che avrei volentieri comunicato ai miei compagni Veterani, perché avessero un approccio più ricco e più completo con la realtà del paesaggio che avremmo visto. sì ch’io mi credo omai che monti e piagge (terreni) e fiumi e selve sappian di che tempre (genere) sia la mia vita ch’è celata altrui. Ma pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so, ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io con lui. Arrivata al punto di ritrovo, ho constatato che l’atmosfera brulicante ed effervescente che prevaleva, non era quella più adatta alla poesia. Però non voglio rinunciare a rendere partecipe del piacere che dà la poesia, chi magari si sente più disposto alla meditazione o chi anche solo vuole rinverdire i suoi ricordi sbiaditi di un programma svolto malvolentieri a scuola, in un’età in cui non c’era ancora la maturità per ca- Vediamo dunque il Petrarca camminare lentamente in luoghi deserti, cercando di evitare la gente, perché questa non si accorga di quanto egli soffra per l’amore di Laura (che non lo ricambia) e per questo sentimento che lui considera peccaminoso, in accordo con la mentalità del suo tempo. Ma il poeta non riesce a trovare luoghi così selvaggi, in cui non sia seguito sempre dall’Amore, che però continuamente parla con lui e con cui egli del resto ama parlare. 8 Il confronto coi Veterani mi pare che evidenzi qui un netto contrasto. Intanto questi non sono soli (in questa escursione addirittura ci ritroviamo in un centinaio). Non sono neanche proprio molto assorti nei loro pensieri, o almeno così non pare, a giudicare dall’allegro intrecciarsi dei loro discorsi. È vero però che spesso camminando si discute di argomenti seri, visti naturalmente da diversi punti di vista. Comunque fra di noi, quando si parla, in genere non c’è voglia di drammatizzare e si condisce il tutto con l’ironia. Del resto noi pensionati ora forse ci sentiamo fuori dalla mischia e ci possiamo permettere di vedere le cose con un certo distacco. Il Petrarca qui fa un paragone fra lui e un vecchio pellegrino. Come questo con grande sacrificio va a Roma per vedere l’immagine di Cristo, così lui va in cerca di qualche donna che almeno assomigli un po’a Laura. A noi però interessa il “vecchierel canuto e bianco”, perché, a parte il termine”vecchierel” che forse a parecchi sarà poco simpatico, anche fra i Veterani a volte c’è qualcuno che la famiglia cerca di trattenere a casa, perché non vada ad affaticarsi o addirittura a farsi del male, mentre lui, magari trascinandosi perché ha male ad un ginocchio o ad un’anca o ad un piede o ad una caviglia, non vuole rinunciare, e, per quanto gli è possibile , si aiuta con la buona volontà, pur non avendo in pieno tutte le sue forze a causa dell’età. Un altro sonetto che mi veniva in mente era “Movesi il vecchierel” Movesi il vecchierel canuto e bianco (pallido) del dolce loco ov’à sua età fornita (dal luogo a lui tanto caro dove ha passato la sua vita ormai quasi finita) e da la famigliuola sbigottita che vede il caro padre venir manco; Il Petrarca visse ad Arquà nell’ultimo periodo della sua vita, dal 1370 al 1374, dai 66 anni ai 70, quindi anche lui, quando percorreva questi sentieri, rientrava nella fascia d’età di noi Veterani. Sarebbe bello incontrarlo e camminare per un po’ al suo fianco, conversare amabilmente con lui parlando dei tempi passati e di quelli più recenti, e magari anche di donne, come fanno a volte i Veterani… indi traendo poi l’antiquo fianco (di lì trascinando con fatica le sue vecchie membra) per l’estreme giornate di sua vita quanto più pò col buon voler s’aita (si aiuta) rotto dagli anni e dal cammino stanco; Gabriella Rossignoli e viene a Roma, seguendo ‘l desio, (desiderio) per mirar la sembianza di Colui (per vedere l’immagine di Cristo impressa nel velo della Veronica) ch’ancor lassù nel ciel vedere spera: così, lasso, talor vo cercand’io, Donna, quanto è possibile in altrui la disiata vostra forma vera. 9 REDAZIONE La Redazione informa che la stessa, per meglio rispondere alle esigenze di una più attenta e veloce comunicazione, si è allargata ed è ora così composta: Giovanni Piva (direttore responsabile), Lucio De Franceschi (vice direttore), Francesco Cappellari (redattore e responsabile sito web), Federico Bernardin (informatico sito web), Giuliano Bressan, Daniela Grigoletto, Luigina Sartorati, Caterina Secco, Tonino Tognon, Leri Zilio (redattori). Chi volesse collaborare è pregato di scrivere a: [email protected] SITO WEB la nuova Redazione, oltre ad occuparsi del Notiziario, curerà maggiormente il sito internet www.caipadova.it in modo da dare ai soci e non soci notizie più tempestive sul mondo della sezione e della montagna in genere. La Redazione crede che entrambe gli strumenti abbiano la loro funzione. Il Notiziario continuerà a pubblicare cronache, dialoghi, esperienze alpinistiche mentre il sito internet si occuperà di aggiornare maggiormente i soci sulle iniziative derivanti dalle varie commissioni del CAI Padova, oltre a news di altre realtà del mondo della montagna. Attendiamo quindi i vostri articoli e le vostre foto entro il 20 settembre 2010 su [email protected] CONSIGLIO DIRETTIVO 2010 PRESIDENTE RAGANA ARMANDO VICE PRESIDENTE FERRO ODDO SEGRETARIO SARTORATI LUIGINA TESORIERE SORAVIA ANGELO CONSIGLIERI BARATELLA VALERIA, BERIOTTO RENATO, BERNARDIN FEDERICO, CAPPELLARI FRANCESCO, DE FRANCESCHI LUCIO, EDIFIZI STEFANO, GOBBIN CRISTIANO, MAGRO PAOLO, MARRONE MICHELE, MONTECCHIO GIANNI, TOGNON TONINO, TOSATO ANTONIO, VENTURATO RAFFAELLO, ZECCHINI GIORGIO REVISORI DEI CONTI CURTARELLO AUGUSTO, LAZZARIN LUIGI, MUNARI GIANFRANCO, DELEGATI RAGANA ARMANDO presidente CARRARI LUCIANO, FANTIN STEFANO, MASTELLARO ANTONIO, SARTORATI LUIGINA, TOSATO ANTONIO, ZECCHINI GIORGIO diario alpino diario alpino PATAGONIA: TORRI DEL PAINE E IL TREKKING A W 31 dicembre 2009, mezzo panino ciascuno e qualche biscotto; niente male come cenone di S. Silvestro al Campamento Italiano allo sbocco della Valle dei Francès sotto i Cuernos del Paine, curiose e mastodontiche strutture bicolori metà granitiche e metà basaltiche. Siamo al primo giorno di quello che è uno dei trekking più celebrati nel Parco delle Torri del Paine e della Patagonia ed è possibile definirlo ancora “discretamente selvaggio” in quanto i punti d’appoggio fissi tipo rifugi, sono abbastanza distanziati ed è quindi giocoforza portarsi tutto a spalla compresi viveri e tenda. E una buona tenda in quanto, come tutti i libri narrano e abbiamo avuto modo di provarlo, il vento della Patagonia mette a dura prova teli e paletti oltre che visi e mani. Perché trekking a W? Questo percorso che passa tra una serie di laghi dai diversi colori, si incunea in due profonde vallate, una che porta sotto le Torri del Paine e l’altra che, lambendo i Cuernos, porta nella zona del Cerro Catedral e del Cerro Fortaleza. E così il primo dell’anno eccoci a percorrere la Valle dei Francès fino a raggiungere, dopo una poliedrica e ruvida camminata (bosco, terreno erboso, morena), un “mirador” dal quale Il Glacier Grey 12 possiamo ammirare questi stupefacenti scudi rocciosi che mettono bene in mostra le loro lisce e verticali pareti, a sfidare gli eterni venti che tormentano i pochi alberi e flagellano spigoli e creste. Al Campamento Inglese i nostri discorsi si concentrano sui primi “pionieri-alpinisti” che hanno affrontato tali avversità e quindi facciamo a gara nel ricordarci i vari Guido Monzino e Armando Aste fino ai più recenti Fabio Leoni e Mario Manica che su queste vette hanno scritto pagine di storia alpinistica. E che dire del Lago Grey, imponente e finale bacino naturale del frastagliato ed omonimo ghiacciaio che con i suoi crepacci “lamellari” lambisce le pareti rocciose subito sopra il simpatico ed appartato rifugio in perfetto stile alpino. E non poteva concludersi in modo migliore questo trekking a W; in una giornata insolitamente radiosa e soleggiata giungiamo alla base delle Torri del Paine; osserviamo rapiti queste monolitiche costruzioni e il grazioso laghetto glaciale che sembra sostenere questi spavaldi pilastri granitici solcati da vertiginosi diedri e strapiombanti fessure. Viene spontaneo allora tornare indietro con la mente di qualche giorno quando, dopo aver effettuato i classici approcci ai campi base del Cerro Torre e Fitz Roy, osservavamo con il naso all’insù questi altri capolavori naturali che facendo capolino tra le nuvole sembravano gareggiare in slancio e arditezza con le Torri del Paine. Difficile e anche inutile fare dei paragoni, l’unica vincitrice qui è solo la Patagonia questa splendida terra divisa tra Cile e Argentina che da sempre ha attratto coloni, commercianti ed esploratori, alpinisti e semplici turisti. Questa splendida terra che ti abbraccia con le sue montagne e i suoi laghi, che non sempre ti lascia vedere ciò che vorresti, che ti accoglie tra i suoi boschi tra alberi piegati dal vento e una moltitudine Fitz Roy e Cerro Torre Al lago del campamento Torre di uccelli che danno vita a questi luoghi, severi posti ai margini del mondo. Certo sono tramontati i tempi in cui mosse i primi passi da esploratore il De 13 Agostini, ma anche luoghi ormai “iperturistici” come il Ghiacciaio Perito Moreno o il Lago Argentino possono assumere l’aspetto di “porta d’ingresso” di que- diario alpino sto mondo, un modo per capire questo territorio formato da ghiacciai che muoiono dentro specchi d’acqua per rivivere poi in contorti iceberg vaganti come fantasmi sulle grigie acque dei diversi laghi. Ultima tappa Puerto Natales, piccolo, accogliente e ventoso (ma và!?) paese di pescatori posto vicino al Parco delle Torri del Paine. Un paese fatto di case prefabbricate rivestite di lamiera ondulata di vari colori, stretto tra il “Seno de Ultima Esperanza”, un fiordo che con percorso molto contorto lo mette in contatto con il Pacifico, e la leggenda del Milodòn, un bradipo gigante preistorico i cui resti sembrano essere stati rinvenuti in una grotta nelle vicinanze del paese. Qui, come in parte a El Calafate o ad El Chalten, si respira ancora l’aria dei primi coloni che nel tardo ‘800 cominciarono ad arrivare in Patagonia; e allora vengono in mente i vari Bridges ed Eberhard che iniziarono l’attività di allevamento di pecore vivendo, lavorando e coinvolgendo i nativi di questi luoghi. Oggi gli Yahgan, gli Haush e gli Ona non esistono più, di loro rimane solo qualche sbiadita fotografia nel grazioso museo di Puerto Natales. Rio Gallegos: ci siamo arrivati con il bus da Punta Arenas attraversando la parte più piatta della Pa- diario alpino tagonia. Questa anonima cittadina ci accoglie con la sua polverosa periferia infestata da sacchetti di plastica trascinati via dal vento e trattenuti dai bassi arbusti della pampa. Rio Gallegos perché quando ancora non esistevano né El Calafate né tantomeno El Chalten (quest’ultimo paese è nato praticamente nel 1985), le prime spedizioni di Cesare Maestri, Walter Bonatti, ecc. partivano da qui in camion per raggiungere il Cerro Torre e le vette della Cordigliera Patagonica. E da qui noi partiamo per tornare a casa e finalmente, in aereo, non sentiamo più il vento che ininterrottamente ci ha accompagnato in questa nostra escursione. Lucio De Franceschi Con l’approvazione e la partecipazione emotiva di Gianni Capaldo, Elena Guabello e la famiglia Facco Daniela, Elena, Alberto e Francesco. P.S.: a chi si reca in Patagonia per la prima volta, consiglio di leggere prima della partenza: G. Buscaini, S. Metzeltin: Patagonia, Terra magica per viaggiatori e alpinisti Corbaccio Ed. E. Lucas Bridges: Ultimo confine del mondo, Viaggio nella Terra del fuoco Einaudi Ed. Vita dura ...! 14 15 diario alpino diario alpino 16 17 Le Torri del Paine diario alpino diario alpino POTREI RACCONTARE Oppure delle serate passate a bere tè fuori dalla tenda (almeno quattro tè al giorno a testa), tutti infreddoliti nelle giacche a vento; Oppure delle quattro case battute dal vento di El Chalten, sperduta e deserta, e del locale in cui si mangiava volentieri e ancora più volentieri si beveva. Ma non sono che istantanee, ricordi di un momento, frammenti di un’esperienza Volendo descrivere la Patagonia, potrei raccontare di quando ci rifugiammo dietro un muricciolo di sassi sulla morena; davanti a noi il lago glaciale, dietro la foresta, il vento a raffiche furibonde e noi ad aspettare che le nuvole si diradassero, e poi davanti ai nostri occhi, in un istante, il Cerro Torre magnifico con le pareti vertiginose e il picco proteso nel cielo. Oppure potrei dire di quando piantammo le tende al Campo Italiano, sulle Torres del Paine, e dal ghiacciaio che chiudeva la valle franavano le seraccate con un rombo cupo, come di tuono, che rompeva il silenzio della foresta (qui festeggiammo il capodanno con una cena a base di panettone). Potrei raccontare delle ore passate a guardare dal finestrino la pampa sempre uguale a se stessa, o potrei descrivere la massa immensa del Perito Moreno, che da secoli affonda nel lago Argentino, con i suoi settanta metri d’altezza, e le sue lame di ghiaccio azzurro. Potrei dire di quando col sudore sulla schiena arrivammo ai piedi delle Torres del Paine, tre pale grandiose svettanti nel cielo, e sedemmo tutti insieme stanchissimi e soddisfatti. che non sanno descrivere se non con la forza evocativa di un odore, un suono, una luce. Non avrei raccontato cos’è la Patagonia. E allora dirò: immagina un deserto, nessun suono all'infuori del vento sull'erba morta, sui cespugli spinosi, in cui ogni rara strada è un filo teso fra due luoghi umani attraverso la desolazione. Immagina ghiacciai che si perdono fin dove l'occhio vede, e foreste contorte dai secoli, e gelidi laghi e picchi inviolabili. Questa è la Patagonia; una terra di spazi immensi e silenzi sconfinati, in cui il vento si ripete da millenni, e lo sguardo si perde nella solitudine. Elena Facco I Cuernos 18 19 diario alpino diario alpino GAVARNIE, L’EMISFERO DI GHIACCIO Il Cirque du Gavarnie 20 21 diario alpino È proprio questa la sensazione che si ha quando, dopo 1350 km di autostrade italiane e francesi, ed essersi introdotti nel cuore dei Pirenei alle spalle della religiosa Lourdes, si approda a Gavarnie, piccolo villaggio francese a pochi passi dal confine spagnolo. Dietro le case si erge il famoso Cirque du Gavarnie, un vero emisfero roccioso che in inverno si tappezza di ghiaccio. Giacomo Benacchio su Ice Folle Le cascate più alte d’Europa, recita la pubblicità turistica. Quelle che in un solo salto (o quasi) giungono a terra sono alte più di 500 metri. Se uniamo l’altezza alla quota e all’esposizione troviamo la fabbrica del ghiaccio. Colate a breve distanza, la più corta di 300 metri, una vera overdose. L’avventura ha inizio in sordina. Dopo una mancata vacanza in Islanda saltata per scarsità di adepti, ci ritroviamo in otto dentro automobili cariche di ogni cosa, dalle piccozze, agli sci, alle ciaspe. Perché non si sa mai che condizioni troveremo. E in effetti non sono delle migliori, a parte il primo giorno. Usciamo dal rifugio che è ancora buio. Le cascate, ci dicono, sono dei veri viaggi, è meglio prendersi per tempo. Tre cordate per tre cascate diverse, a pochi metri l’una dall’altra ma ognuna con simili caratteristiche. Facciamo a gara per prenderci la più bella. Il freddo oggi è intenso e il tempo bellissimo. Parte Jack per un tiro che gli dà del filo da torcere. I polpacci, atrofizzati dalle lunghe ore passate in auto e usati al massimo per frenare ed accelerare, sono di punto in bianco messi sotto pressione dalle punte dei ramponi che entrano per pochi millimetri. Le braccia non sono più rilassate. Bisogna andare veloci vi22 diario alpino sta l’altezza della parete. In verità il Circo di Gavarnie, con la sua forma a ferro di cavallo, è alto circa 1000 metri ed è diviso in tre grandi gradini. Quello più basso ha qualcosa come una ventina di cascate, la più corta di 240 metri, la più lunga di 550 metri. Il secondo gradino, collegato da un lungo pendio di neve, ha una decina di colate di altezza attorno ai 250 metri, mentre l’ultimo, il più colossale, sale strapiombante e roccioso con una sola via di uscita glaciale. Il tutto crea una bieca e sinistra apprensione. L’intera montagna ti avvolge e ti circonda. Appena ti sei alzato senti il “grande” in tutte le direzioni e ti è necessaria la concentrazione sulle cose che sai fare altrimenti rischi di lasciarti travolgere dall’ambiente. Un’altra lunghezza ci fa avvicinare all’uscita del primo gradino, poca cosa in confronto al tutto, ma abbastanza per noi poveri italiotti venuti dall’est. La vista di Ettore e Daniela sulla cascata di destra e le voci di Giovanni e Michele su quella di sinistra ci fa sentire meglio in questo scivolo sempre più ripido. Usciamo e quasi contemporaneamente ci salutiamo in cima, cioè sulla prima grande cengia. La parte alta è ancor più impressionante da qui. Le distanze da lontano ci avevano ingannati. Per ar- rivare al secondo gradino ci vorrebbero almeno due ore di camminata sulla neve profonda. Per fortuna non era nei nostri piani questa “scammellata” così ci appropinquiamo alle numerose corde doppie che ci aspettano. E quando tocchiamo terra è pomeriggio inoltrato. Giusto il tempo di cambiarsi gli scarponi, attaccarsi gli sci ai piedi ed infilarsi nella traccia di andata. Arriviamo al nostro rifugio che ormai è quasi buio. Non c’è che dire, niente male come prima uscita. Confidiamo che domani il tempo sia brutto. E così è. Una bufera di vento e neve ci coglie oltre il margine superiore delle piste da sci di Gavarnie. Il nostro intento sarebbe stato quello di andare ad ammirare la famosa Breche du Roland, profonda spaccatura incisa con un colpo di spada da Rolando per scappare dai vicini Spagnoli che volevano catturarlo. Non ce la fecero anche perché da questa parte Rolando, inforcati gli sci, scese velocemente grazie alle piste tirate a biliardo. Ci accontentiamo della Cima des Pierres, così chiamata per un paio di ometti di dimensioni umane nati spontaneamente proprio in vetta. Per la discesa tiriamo fuori gli occhialini 3D che ci fanno vedere le vere dimensioni dei pendii avvolti nella bufera. Ettore Bona sulla lunghezza chiave della Cascade des Banzayous Giorno 3: piove! Va bene il riposo ma non troppo. Ora sta cominciando a rompere questo brutto tempo. Ci sgranchiamo le gambe en23 trando incappucciati in una valle selvaggia dove ci hanno detto ci sono delle cascate vicino alla stradina. Scopriamo che è proprio diario alpino diario alpino Da sin. Michele Stockner, Daniela Grigoletto, Ettore Bona, Giovanni Cesare, Stefano Ferro, Roberta De Lorenzo, Francesco Cappellari, Giacomo Benacchio vero, peccato che siano alte 10 metri. E così, sotto la pioggia (e chi sa di montagna sa che non è molto divertente arrampicare con la pioggia) andiamo su e giù per allenare il fisico a future conquiste. Peccato che l’umidità non faccia molto bene ai cinquantenni e così già dalla notte mi ritrovo steso e dolorante alla schiena. Se mi giro a destra soffro, se mi giro a sinistra peggio. Andate ragazzi, io sto qui a lavorare al computer che ne ho di cose da fare…! Il tempo naturalmente è stupendo e c’è chi va a sciare sulla neve fresca caduta ieri e chi va a scalare sul ghiaccio. Mi alzo con difficoltà, guardo fuori dalla finestra. L’aria corre veloce e pulisce il cielo e sembra spingere anche me fino in camera, mi fa calzare i pantaloni d’arrampicata, un altro soffio di vento mi fa mettere la giacca e un altro ancora mi fa infilare calze e scarponi. Cavolo, mi tocca uscire anche col mal di schiena. Un’ora e mezza per arrivare al Circo e constatare che è pura follia arrampicare. Tutto è impiastricciato di neve e continue valanghe spazzano la gradinata fino a terra. I miei amici si sono fermati all’ingresso, di fronte al Refuge du Cirque, dove un paio di corte cascate fanno da sentinella. Saranno anche corte ma cavolo che dure! Per fortuna ho mal di schiena e mi tocca arrampicare da secondo. Bene ragazzi, se domani è ancora bello facciamo un 24 altro cascatone e poi la settimana si può dire bella piena, ce ne possiamo tornare a casa in forma e realizzati. E il tempo conferma le previsioni: pessimo! Le alternative che ci restano sono: torneo a carte, giochi francesi incomprensibili, ennesima lettura della guida “Gavarnie, cascadas de hielo-cascades de glace” già ormai oltre la normale usura. Ma non era a colori quando l’ho comprata l’altro giorno? Votiamo e a maggioranza assoluta, decidiamo di andare via da questo buco di maltempo. I Pirenei, vicini al mare e alla Spagna, vicini a Lourdes… nulla è servito a far venir fuori il sole. Ce ne andiamo sulle Alpi che lì è sempre bello! E infatti ad Argentiere la Bessée, dopo circa 10 ore di macchina, piove. Ma le previsioni qui sono più ottimiste. Danno bello e il bello arriva. Una fantastica giornata di sole ci vede con il sacro fuoco sulle gambe e la speranza nel cuore inoltrarci nel famoso vallone di Fournel. Qui c’è l’imbarazzo della scelta: più di 150 cascate di tutte le difficoltà, sia a destra che a sinistra della valle, con un avvicinamento non troppo lungo. E poi ci sono già stato negli anni ’90 durante i meeting di arrampicata su ghiaccio, lo conosco bene il Fournel. Entriamo con buon passo. Io voglio fare questa, tu fai quella, voi andate un po’ più avanti, ok? Ok. Ma il Fournel non vede l’ora di cucinarci per bene, ora capiamo perché si chiama così. Ci illude facendoci trovare un’iniziale bella traccia che porterà dritta dritta alla base del ghiaccio e ci fa gioire della fantastica neve fresca caduta anche qui nei giorni scorsi. Ma dopo due ore e mezza passate a scavare un solco sempre più profondo e ad imprecare per gli sci e le ciaspe lasciate a riposare in macchina, ci arrendiamo. Di questo passo il ghiaccio lo tocchiamo domani mattina. Per fortuna vicino al parcheggio c’è una cascata, Hiro- shima, una vera bomba atomica per il nostro morale che fa pace con il chimerico ghiaccio d’oltralpe. Francesco Cappellari GAVARNIE ICE & SNOW TOUR 2010 Partecipanti: Giacomo Benacchio (Padova) Ettore Bona (Tambre BL) Francesco Cappellari (Padova) Giovanni Cesare (Spilimbergo) Roberta De Lorenzo (Quarto d’Altino VE) Stefano Ferro (Quarto d’Altino VE) Daniela Grigoletto (Padova) Michele Stockner (Merano) SALITE EFFETTUATE Cascate: Fluide Glacial – 280 m – IV 4+ Ice Folle – 300 m – IV 4+ Cascade des Banzayous – 300 m – IV 4+ Free Standing – 50 m – II 5 Hiroshima – 150 m – II 4+ Sci alpinismo: Pic entre les Ports 2476 m - 800 m - BS Pic de Tracens 2551 m - 1200 m - BSA Giacomo Benacchio raggiunge la prima cengia del Cirque du Gavarnie Daniela Grigoletto batte traccia nel Vallone di Fournel 25 diario alpino diario alpino ACONCAGUA 2010, ANCORA BUCA La prima volta che ci provai fu nel 2004, con Lorenzo Marchi, Mario Santuliana, Maurizio Manno. Negli anni precedenti con loro avevo salito vari seimila finendo in bellezza in Bolivia con la salita dell’Illimani; una montagna di quasi 6.500 m. Era sempre andato tutto benissimo: viaggi interessanti, cime salite senza problemi, giornate calde e ben soleggiate ma sempre con gran fatica. A quel punto decidemmo scherzosamente di non faticare più per un seimila: avremmo tentato un settemila o ci saremmo accontentati di cime più basse ma meno faticose. A settembre 2003 Lorenzo mi chiamò: “ Ciao Angelo, riesci a prenderti tre settimane tra gennaio e febbraio?”, “per fare?” “l’Aconcagua”. L’Aconcagua oltre ad essere la montagna più alta di tutto il continente americano e di tutto l’emisfero meridionale, è la più alta montagna e l’unico settemila della Terra al di fuori dell’Asia. Non è proprio un settemila, con i suoi 6962 m è un settemila mancato: un “quasi settemila”. Il massiccio si trova nella Ande Argentine della provincia di Mendoza vicino alla frontiera con il Cile, all’interno del Parco Provinciale Aconcagua. La vetta fu raggiunta per la 26 prima volta nel 1897 dallo svizzero Matthias Zurbriggen, una guida alpina della spedizione guidata da Briton Edward Fitzgerald, che operava a Macugnaga,. In passato alcuni padovani hanno tentato la salita, ma soltanto Leri Zilio e Nicola Bonaiti sono riusciti nell'impresa. Le principali vie di salita sono: la via del ghiacciaio dei Polacchi, le creste sud e sud-est con vie di notevoli difficoltà alpinistiche e le via normali. Le vie normali non presentano particolari difficoltà tecniche, i rischi maggiori sono legati alla quota ed alle brusche variazioni meteorologiche. Ambedue partono dalla strada che collega Mendoza a Santiago, pochi chilometri prima del confine Cile – Argentina: una a Punta de Vacas (2408 m), l’altra, quella classica e molto più frequentata, a Puente del Inca (2717 m) e segue la valle del Rio Horcones. Nel 2004 tentammo la salita per la via normale classica. Arrivati al campo Nido de Condores (5500 m ca), per acclimatamento salimmo fino al Campo Berlin (5900 m ca), ma ritornati al Nido fummo avvisati dell’arrivo di una perturbazione che avrebbe reso pericoloso qualsiasi tentativo e che sarebbe durata almeno tre giorni. La prendemmo con filosofia, ci infilammo in tenda uscendo di tanto in tanto sfruttando sprazzi di sereno, cercando di far passare al meglio i tre giorni. doli tornare avvisarono il soccorso che passò la notte a cercarli. Trovarono i loro corpi alla mattina sotto un masso dove avevano cercato riparo. Si erano persi e la fatica e il freddo La parete sud dell’Aconcagua La sera del secondo giorno, alcuni membri del soccorso andino vennero a chiederci se avevamo qualche sacco a pelo in più. Quella mattina due alpinisti tedeschi, scambiando forse alcune ore di sereno per il bel tempo, erano partiti per la cima. La notte prima una abbondante nevicata aveva coperto tutto e resa faticosa la progressione. Alla sera i compagni di accampamento non veden27 della notte non li aveva risparmiati. A questa brutta notizia si aggiunse quella delle previsioni meteo che davano almeno altri cinque giorni di perturbazione, inoltre dopo 4-5 giorni in quota non eravamo proprio in gran forma. Decidemmo di scendere, ce ne andammo in Cile a visitare Santiago e Valparaiso. diario alpino diario alpino I colori delle cime 28 29 diario alpino Il campo a Plaza de Mulas, sullo sfondo il rifugio Pensavo di non ritornare più da quella parti. Invece in gennaio 2009 mi telefonò Tonino Tognon chiedendomi di ritentare la salita. Con un gruppo di amici l’anno prima aveva salito l’Island Peak (6189 m) in Nepal e ora il gruppo si sentiva pronto a provare qualche cima più impegnativa. Conoscendo quella cima li informai che c’era una bella differenza: settecento metri di dislivello in più e una organizzazione da vera spedizione, con campi intermedi e portando su e giù il materiale a spalla. Poi c’ero già stato, prendere tre settimane di ferie per tornarci non mi andava proprio. Mi convinse Mauro Cantarello: “In dicembre vado in pensione, perché invece di tre settimane non ne prendiamo sei, così dopo l’Aconcagua andiamo a Buenos Aires, poi a Iguazzu, poi in Patagonia, poi in Terra del Fuoco, …” “Ok!”. Così, dopo alcuni incontri organizzativi e un paio di mesi di allenamento a far salite e pestar neve, il 16 gennaio 2010 in sette partiamo da Venezia per raggiungere Mendoza in Argentina. Il gruppo è composto da: Alberto Arzenton, Mauro Cantarello, Augusto Curtarello, Sandro Guzzon, Franco Longo, Tonino Tognon, e il sottoscritto. Il viaggio è lungo, si devono prendere tre voli: VeneziaRoma-Buenos Aires-Mendoza: trenta ore complessive delle quali sedici di volo effettivo. A Mendoza ci servono due giorni per ritirare i permessi di salita, fare gli ac30 diario alpino quisti dei generi alimentari, del gas, organizzare le tappe di avvicinamento al campo base e prenotare i muli. Di giorno si lavora, la sera si va a ristoranti: con meno di 10 euro, infinite bistecche e squisite grigliate con ottimi vini di Mendoza, tra i migliori dell’America Latina. Finalmente il giorno 19 gennaio si parte in pullman per Penitentes (2599 m), piccolo insediamento quattro chilometri prima di Puente de Inca, dove ci sono alcuni alberghetti, il rifugio Cruz de la Cagna (base di partenza per le spedizioni) e il centro operativo della storica agenzia dei Grajales che organizza la logistica e il trasporto con i muli per le tappe di avvicinamento al campo base. Il luogo è desolato ma affascinante, colpiscono le forme e i colori delle rocce. Più avanti, un curioso fenomeno prodotto da acque termali ricche di sali, ha formato un ponte naturale sul rio Mendoza utilizzato dagli Inca per raggiungere Cuzco, la loro capitale. È il Puente de Inca, luogo dove si abbandona la strada Mendoza – Santiago per raggiungere l’Ingresso del Parco Regionale de Aconcagua. All’ingresso del parco viene effettuato il primo controllo da parte dei guardaparco. Controllano i permessi per le attività previste: Trekking breve, Trekking lungo, salita alla vetta (300 euro a persona in dicembre e gennaio). Seguono le informazioni principali: le immondizie vanno riportate a valle, ma si può fare un accordo con l’agenzia che li riporta a valle con i muli; i bisogni vanno fatti negli appositi “bagni” allestiti nei due campi attrezzati. Al campo base, Plaza de mulas, bisogna fare un controllo medico per avere il consenso alla salita; inoltre, verrà consegnato un apposito sacchetto dove raccogliere i propri bisogni durante la salita. Il sacchetto, numerato e collegato al numero di passaporto, dovrà essere consegnato al rientro dai campi alti. Seguono altre informazioni: per la salita della cima la percentuale di successo è del 20% distribuita in modo molto disomogeneo. A dicembre per esempio su 302 permessi rilasciati nessuno aveva raggiunto la vetta, mentre i primi 10 giorni di gennaio, molti alpinisti ce l’avevano fatta. Le previsioni meteo per noi sono: buone per alcuni giorni, poi per una settimana tempo variabile con nuvole sulla cima e precipitazioni al pomeriggio, quindi una settimana di bel tempo ma con “muchissimo frio”. Il tutto da verifi- care e controllare alla stazione internet installata al campo base. Una organizzazione ammirevole! In contrasto però con quanto visto su YouTube (youtube -Aconcagua, la spedizione italiana) in occasione dell’incidente accaduto agli alpinisti italiani nel 2009, e con altri episodi accaduti a noi nei giorni seguenti. Passati questi primi controlli finalmente si inizia a camminare. Prima tappa il campo attrezzato di Confluencia (3400 m). Impieghiamo tre ore e mezza a camminare passando dai prati della laguna Los Horcones, alle spianate sabbiose del campo seguendo il Rio Horcones. Ritroviamo i nostri borsoni con tende, materassini e sacchi a pelo portati dai muli. Il sole è a picco, fa molto caldo, non c’è una nuvola ne un arbusto dove ripararci. Piantiamo le tende, mangiamo in una tenda-ristorante. Il giorno successivo lo utilizziamo per acclimatarci e ci portiamo a 4000 m sotto la parete sud dell’Aconcagua, quella ‘nobile’ con imponenti ghiacciai e le vie di salite più difficili. Ritorniamo a Confluencia e il giorno dopo, con una lunga camminata di sette ore raggiungiamo, Plaza de Mulas (4370 m) accolti da una bufera di neve. I muli possono arrivare fin lì, scaricano i borsoni e ritornano a Puente de Inca. Dal campo base in poi tutti i trasporti avvengono a spalla. Il campo è abbastanza attrezzato, noi però optiamo per una sistemazione in un rifugio a quaranta minuti dal campo: è una struttura di setto/otto anni ma già terribilmente obsoleta. Comunque un po’ più confortevole dell’affollato campo. Si cucina a 5500 31 diario alpino diario alpino Le cascate di Iguazzù 32 33 diario alpino Chi sarà il pinguino? Il giorno successivo lo dedichiamo alle visite mediche e all’acclimatamento muovendoci nei paraggi. I controlli medici sono soddisfacenti perciò iniziamo ad attrezzare i campi alti utilizzando la prima parte della giornata perché il pomeriggio nevica regolarmente. Raggiungiamo prima il campo Canada (5050 m) dove portiamo tende, fornelli, gas, ecc …. Il giorno successivo portiamo altro materiale al campo Alaska (5200 m) e, dopo aver recuperato anche il materiale lasciato al Canada, ritorniamo al rifugio sotto una forte nevicata. Il giorno dopo il tempo è brutto. Ne approfittiamo Colonia di leoni marini 34 diario alpino per riposare aspettando le schiarite che arrivano il giorno seguente, secondo le previsioni. Raccogliamo le ultime cose e risaliamo al campo Alaska. Nel pomeriggio raggiungiamo il Nido de Condores (5500) e ritorniamo a dormire all’Alaska. Qualcuno comincia a dare segni di cedimento. Fa molto freddo e per sciogliere la neve e far bollire l’acqua ci vuole molta pazienza. Il giorno seguente portiamo il campo al Nido del Condores dove ci fermiamo per permettere a tutti di recuperare. La mattina dopo ci saremmo dovuti spostare al campo Berlin (5900 m), fermarci a dormire e poi provare a salire la cima, ma qualcuno continua ad avere problemi. Decidiamo quindi di lasciare il campo a 5500. Saliamo comunque al Berlin per acclimatarci, ma torniamo a dormire al Nido de Condores. Arriva così il 31 gennaio, giorno della salita finale. Ci svegliamo alle quattro per sciogliere neve e fare un po’ di the; ma l’acqua non bolle e ci dobbiamo accontentare di liquidi tiepidi. Alle cinque partiamo, siamo in sei, uno ha rinunciato ed è rimasto in tenda. Ci precedono di poco un gruppo di otto persone (francesi con una guida) e due ragazzi. Dopo un po’ uno dei due ragazzi ci aspetta per chiederci il funzionamento delle bustine scaldamano. Glielo spiego, ha le mani gelate ed è molto spaventato. Chiama l’amico poi non li abbiamo più visti, probabilmente sono scesi. In un’ora e quaranta raggiungiamo il campo Berlin (5900 m). Ci fermiamo a riposare; dalle tende del campo escono altri due gruppi di due persone e iniziano a salire. Fa molto freddo e siamo continuamente disturbati da fortissime raffiche di vento. Due del nostro gruppo si levano gli scarponi e cercano di scaldarsi i piedi inutilmente, decidono di scendere assieme a due del gruppo dei francesi. Proseguiamo in quattro; a 6100 m un altro dei nostri decide di scendere assieme a tre del gruppo dei francesi che nel frattempo abbiamo raggiunto. Ad uno spiazzo poco prima di un lungo traverso, campo Independencia a 6300 m, ci fermiamo nuovamente dietro una parete al riparo dal vento. Due degli alpinisti che ci precedevano sostano vicino a noi, mentre ciò che rimaneva del gruppo di francesi inizia a scendere. Ci consultiamo, sono le nove, il sole è già alto ma la temperatura è ancora a -25° e il vento, raffiche continue a 45/60 Km/ora, non accennano a diminuire. Stando alle indicazioni dateci dalle guide, da lì Le colorate rocce andine mancano ancora sette ore alla cima e sei per ritornare al campo. Io sto discretamente ma non riesco a scaldare le mani, anche gli altri hanno qualche problema. Si potrebbe continuare ancora un po’ ma senza pensare alla vetta. Decidiamo di scendere, i due seduti accanto a noi ci seguono. Continua soltanto l’ultimo gruppo da due, un ufficiale dell’esercito argentino con la guida. Ci seguiranno dopo mezz’ora. Nemmeno per quel giorno e per alcuni giorni successivi, nessuno raggiungerà la cima. Ritorniamo al campo, gli altri sono chiusi nelle tende. Li facciamo uscire, utilizziamo l’ultimo gas per farci una minestrina calda e nel frattempo “leviamo le tende”. Dopo tre giorni siamo nuovamente a Mendoza: vino e bistecche. Poi si parte Foto di gruppo alla Laguna Los Horcones 35 diario alpino • Puente del Inca, 2740 m. Si tratta di un paese sulla strada principale, da cui ha inizio l’ascensione vera e propria. Vi sono diversi posti dove alloggiare, compreso un rifugio. • Confluencia, 3380 m. Accampamento nel Parco, ad alcune ore di marcia dalla partenza. • Plaza de Mulas, 4370 m. Campo base, con tende, docce, accesso internet. C’è un rifugio a circa 500 m. • Plaza Canadá, 5050 m. Rifugio in posizione panoramica sopra Plaza de Mulas. • Plaza Alaska, 5200 m. Detto cambio di pendenza, in quanto posizionato nel punto dove la pendenza della salita cala improvvisamente. È un campo predisposto per tende, ma non è molto utilizzato. • Nido de Cóndores, 5400 m. Un vasto altipiano panoramico; normalmente, vi si trova accampato un guardiaparco. • Berlín, 5900 m. Tipico campo d’alta quota, ventoso ed esposto. È abbastanza sporco, per cui molti andinisti lo evitano, preferendo spostarsi un po’ più in alto, in località Piedras Blancas. Vista aerea del versante sud per visitare Buenos Aires, vedere le cascate di Igazzu, i pinguini di Punta Tombo, gli elefanti e i leoni marini della Penisola di Valdes, Il canale di Beagle, le torri del Paine, ecc. Insomma inizia un altro viaggio. Angelo Soravia diario alpino Caratteristiche La montagna è costituita da rocce appartenenti al periodo Permo-Triassico; la sua genesi è comunque di era terziaria ed è dovuta alla subduzione della placca di Nazca sotto la placca sudamericana nel quadro dell’orogenesi andina. L’origine del nome è incerta. Il Coleti riporta l’esistenza, in Cile, del popolo Aconcagua, dal quale avrebbero preso il nome la valle da loro abitata e, di conseguenza, anche la montagna [1]. Il popolo Aconcagua è citato anche da altri autori [2]. Secondo quanto riportato dal Secor, il nome potrebbe derivare dal quechua Anco Cahuac, ovvero “sentinella bianca”, oppure Ackon Cahuak, ovvero “sentinella di pietra” [3][4]. Lo stesso autore riferisce che in lingua Aymara il termine kon kawa significa “montagna innevata” [3][4], mentre nella lingua mapudungun del popolo mapuche Aconca Hue significa “che viene dall’altra parte” [3]. Il sito Andes Argentinos riporta una probabile origine dal quechua accon cahua, col probabile significato di “la grande rocca che guarda intorno”. Il primo tentativo europeo di raggiungere la vetta dell’Aconcagua risale al 1883, quando una spedizione tedesca guidata dal geologo ed esploratore Paul Güssfeldt tentò di raggiungere la vetta dallo sperone nord-ovest, arrivando ad una quota di 6500 m. La spedizione seguì quella che oggi è la via normale. La prima donna a raggiungerne la vetta fu la francese Adriana Bance, il 7 marzo 1940, accompagnata da diversi membri del Club Andinista de Mendoza. In molti atlanti figura ancora la vecchia misura dell’altitudine (6959 m s.l.m.) presa in quel frangente. Una spedizione italiana dell’Università di Padova, nel 2002, ha rilevato che l’esatta altitudine dell’Aconcagua è di 6.962 m s.l.m..[6].Il limite delle nevi permanenti si aggira intorno ai 5000 m.Da uno dei suoi versanti scende il fiume omonimo che raggiunge il Pacifico dopo un corso di 200 km. Ascensione alla vetta L’accesso al parque provincial Aconcagua è limitato: per intraprendere l’ascensione alla vetta, è necessario chiedere un permesso all’autorità di gestione del parco, la Dirección de Recursos Naturales Renovables della provincia di Mendoza. Il costo del permesso varia di anno in anno; inoltre, è legato alla stagione, essendo più alto in alta stagione. Il periodo consigliato per intraprendere l’ascesa è l’estate (da dicembre a marzo nell’emisfero australe). Tracciato della via normale 36 37 diario alpino diario alpino MARMOLADA PARETE NORD DISCESA CON GLI SCI PREMESSA Le righe che seguono sono state scritte parecchi anni fa, più precisamente nel 2003, ma il testo è rimasto archiviato per lungo tempo nel mio PC. Mettendo un po’ di ordine tra i miliardi di bytes, è saltato fuori e finalmente mi sono deciso di farlo pubblicare. Nei primi di luglio 2000, assieme a Giovanna e Marco, miei compagni di cordata, dopo una certa titubanza mi sono deciso a tentare di percorrere la parete nord della Marmolada costituita da neve, ghiaccio e da alcuni tratti di rocce scoperte. Nel tratto più ripido, avendo i miei compagni sotto di me, mi potevo rendere conto della buona pendenza della parete e mi dicevo che “buttarsi” giù con gli sci era proprio da pazzi. Ma… Ma devo fare un doveroso salto indietro. Il mio primo contatto con la montagna è stato grazie allo sci, disciplina che ho iniziato all’età di 6 anni (1979) e praticata ininterrottamente per una decina di anni. Poi nel 1997 ho ripreso in mano gli sci, quasi per necessità, in quanto, assieme all’amico Marco, avevo intenzione di usarli negli avvicinamenti primaverili alle vie di arrampicata in montagna. Così ho iniziato la pratica dello sci-alpinismo, prima come “mezzo”, poi come “fine”. Per comodità di approccio autostradale e la bellezza dell’ambiente, spesso e volentieri, mi sono esercitato con gli sci nella zona delle Piccole Dolomiti. Lì, nei ripidi e stretti canali, 38 talvolta non in condizioni ottimali, mi sono accorto che riuscivo a scendere meglio e con più tranquillità sul ripido che non sul falso piano o su pendenze moderate! Può sembrare un controsenso, ma è una cosa che mi è rimasta dentro ancora adesso. E così l’idea di affrontare il famoso pendio della Parete Nord della Marmolada ha cominciato a farsi concreta. All’inizio dell’estate del 2001, durante la salita lungo una via su roccia nella zona del passo Falzarego, ho buttato l’occhio sulla Nord della Marmolada, trovandola in buone condizione. Grazie ad un amico, sono riuscito a recuperare il numero di telefono di Toni Valeruz e a scambiare con lui due parole per avere un parere sulle condizioni dello scivolo nevoso. E così mi sono sentito pronto per affrontare la discesa. Ma restava da risolvere un secondo problema, ovvero cercare un amico, con sufficiente esperienza, che mi seguisse in salita, ma soprattutto in discesa, per effettuare le foto. Dopo qualche giro di telefonate, trovo Cristian disposto a seguirmi e così in breve fissiamo il giorno: sabato 23 giugno. Partenza all’alba per essere molto presto al Lago Fedaia, dove ci aspettano, non solo la parete, ma anche un gran caldo. Esageriamo un po’ e arriviamo ancor prima che apra la funivia e ci incamminiamo direttamente dal parcheggio auto, lasciandoci alle spalle parecchie persone in attesa dell’apertura della funivia. Durante la salita mi rendo conto che la neve, sebbene duretta, è quella giusta. A metà salita, qualche tratto ghiacciato mi avverte di 39 prestare maggior attenzione in discesa. Il caldo ci sfianca, già un po’ stanchi per aver dormito poco la notte precedente. In vetta, dopo una doverosa stretta di mano, timidamente Cristian mi chiede se potrebbe scendere, anche da solo, per la normale: lo capisco, ma in questo modo niente foto, uno dei motivi della presenza dell’amico. Iniziamo a scendere, Cristian a piedi, a gambero, io invece con gli sci. Il pendio si fa sempre più ripido, fino a raggiungere i 55° di pendenza o poco più nel tratto chiave. Sono un po’ teso, ma noto con piacere che tutto procede alla perfezione: gli sci ten- I T N SCO CIALI I SPE OCI CA AI S VISITA IL SITO www.cremasport.it CONCESSIONARIO • ALPINISMO • • TREKKING • • SCI • • SCI ALPINISMO • • SNOWBOARD • • ABBIGLIAMENTO SPORTIVO • • FITNESS • IMPORTATORE IMPORTATORE CONCESSIONARIO diario alpino diario Proposte alpino GITA FRA AMICI DEL GEMELLAGGIO CAI PADOVA - DAV FRIBURGO gono bene e soprattutto rispondono ai miei precisi comandi. A metà ci dividiamo momentaneamente, a causa di isole di ghiaccio lungo il percorso. Sono così costretto a scendere “a vista”, usando un termine d’uso proprio dell’arrampicata sportiva, a sinistra di una spalla rocciosa. Non conosco ciò che mi aspetterà, in quanto riesco solo a vedere lo scivolo ripido che si restringe sempre di più. Scendo fino al punto più stretto, largo un paio di metri: il passo chiave, un tratto ancora più ripido, 60°, mi permetterà di raggiungere pendii più tranquilli. Decido di aspettare Cristian per l’ennesima fotografia, ma non vedendolo arrivare e sentendo i crampi alle gambe e la neve cedere sotto gli sci, affronto il tratto chiave, superandolo senza problemi. Più sotto poi vedo il mio compagno scendere passo dopo passo; ci ricongiungiamo e ci scattiamo a vicenda altre foto. La discesa procede tranquilla per me e piuttosto monotona per Cristian (cerco di consolarlo:“Beh, dai, almeno ti fai le ossa!”, ma la risposta è bella secca: “Mai più!”. Finalmente arriviamo alla fine della neve e ci cambiamo, sparpagliando in giro tutto il materiale che abbiamo: ci concediamo un momento di riposo, stendendoci sull’erba come lucertole. Infine schizziamo giù alla macchina, poi a casa. Sinceramente mi aspettavo una discesa più impegnativa, visto la nomea che la parete si porta dietro, ma evidentemente le 42 buoni condizioni hanno reso la discesa, tutto sommato, anche divertente. Per esempio ho trovato più impegnativo, anche se è valutato più facile, il canale che scende da passo del Travignolo verso nord, verso il Passo Rolle: un centinaio di metri molto stretto e assai ripido. La considerazione che mi porto dentro ancora oggi e che vale per qualunque discesa impegnativa è che risulta quasi più difficile trovare le condizioni giuste e un compagno disponibile a fare foto, che l’impegno tecnico della discesa stessa! Federico Battaglin Il DAV FRIBURGO organizza il seguente incontro: il percorso della gita di quest’anno si snoda lungo un tratto del Sentiero Roma, nello spettacolare ambiente delle Alpi Retiche, sotto lo sguardo vigile del Pizzo Badile. • • • • • • • Periodo: dal 10 al 12 Settembre Pernottamento: in rifugio Dislivelli: primo giorno circa 1.000 m; secondo giorno circa 600; terzo in discesa circa 1.400 Difficoltà: a tratti sentiero esposto, attrezzato con catene Costi: ancora da definire la mezza pensione con i rifugisti. Le spese di viaggio e i pranzi al sacco Cartografia: Pizzo Badile Ed. Meridiani Montagne Per approfondire: http://www.diska.it/rifgianetti.asp ttp://www.waltellina.com/escursioni/sentieroroma/giorno2b.htm Primo giorno 10 Sett: partenza da Padova con mezzi propri per raggiungere Bagni Masino. Verso le 14.00 incontro con gli amici del DAV e salita al rifugio Omio a 2.100 m Secondo giorno 11 Sett: traversata per Passo del Barbacan (2.598 m) sino al rifugio Gianetti-Piacco a 2.534 m Terzo giorno 12 Sett: discesa a Bagni Masino per la Val Porcellizzo. Bicchierata finale e ritorno a casa. Per informazioni: Pino Dall'Omo - Cell. 329 2283911 43 itinerari alpini itinerari alpini CIMA D’OLTRO Nello scorso numero del Notiziario Sezionale sono stato molto incuriosito dall’articolo degli amici Francesco Cappellari e Leri Zilio, forti alpinisti Accademici del CAI, sulla loro “avventura-disavventura” a Cima d’Oltro. Se non ricordate quanto accaduto vi invito caldamente a rileggere quell’articolo. Ciò che mi spinge a scrivere questo articolo è il fatto di essere stato sulla Cima d’Oltro assieme al caro amico Bruno seguendo un altro itinerario, la classica via dello spigolo NO, aperta dalla formidabile cordata Castiglioni-Detassis il 17 luglio del 1934. L’articolo di Leri e Francesco non sembra invogliare molto ad andare a ripetere la via dei fratelli Grazian e a calcare le crode sommitali dell’Ol- tro, invece vi assicuro che tale cima è una vetta che merita veramente di essere salita e la CastiglioniDetassis è una classica da non mancare. La Cima d’Oltro è posta in un sottogruppo delle Pale di limitato interesse alpinistico, ma paesaggisticamente suggestivo, incontaminato e unico nel suo genere. Questo settore riserva delle sorprese sconosciute ai più, provate infatti a frequentare luoghi come la Pala d’Oltro, lungo la sua via normale, o il settore del Caldrolon, salendo all’omonima forcella, luogo ricco di pinnacoli e veramente affascinante. Tornando alla via Castiglioni-Detassis, essa è un’ascensione di media difficoltà e veramente “alpinistica”, molto interes- sante, complessivamente impegnativa dal punto di vista fisico nonché rilevante per lo sviluppo della salita e la lunghezza e laboriosità della discesa, che avviene in un ambiente a dir poco “tetro ed infernale”. Quindi un’ascensione assolutamente da non sottovalutare. Gli amanti delle salite “d’autore”, alpinistiche e d’avventura rimarranno veramente soddisfatti. L’ambiente è estremamente solitario, man mano che si avvicina la Cima d’Oltro dalla Val Canali (Nord), essa appare come un’imponente piramide, invece è molto particolare e diversa da Sud, con il suo caratteristico pianoro erboso sommitale cinto da precipizi. E’ una cima ricca di innumerevoli pinnacoli, torri e spaccature. L’avvicinamento non è breve e la discesa richiede circa una decina di corde doppie e pertanto dimestichezza in tali manovre per ridurre notevolmente i tempi. Di seguito pertanto trovate la relazione dettagliata della via e della discesa, si consiglia inoltre la consultazione della Guida CAI-TCI appena pubblicata “Pale di San Martino Est” di Lucio De Franceschi. Nicola Bolzan 44 Cima d’Oltro m 2397 Via Castiglioni-Detassis spigolo N-O Ettore Castiglioni e Bruno Detassis, 17 luglio 1934 stra oltrepassando un enorme masso con scritto “Regade” per giungere, appena sopra il sentiero, alla base di un pilastrino (avancorpo) in prossimità dello spigolo Nord-Ovest (tempo di avvicinamento totale, 1h 30’ - 1h 45’). L’attacco vero e proprio si trova in cima a tale pilastrino. Gruppo: Pale di San Martino Dislivello: 400 m circa Sviluppo: 500 m circa Difficoltà: III, IV, qualche passo di V Tempo previsto:almeno 5 ore Roccia: sempre buona, a tratti ottima Materiale: due mezze corde (consigliabile) oppure corda singola da 60 m, martello e chiodi, nut, friend, cordini per le numerose clessidre. Punti d’appoggio: Normalmente si parte dal parcheggio della Val Canali, volendo può essere utilizzato quale punto di appoggio il Rifugio Treviso, CAI Treviso, aperto dal 20/06 al 20/09, tel. 0439 62311 Cartine: Tabacco foglio 022, Pale di S. Martino (1:25.000) Avvicinamento: Dal parcheggio al termine della strada della Val Canali si prende il sentiero nr. 707 in direzione del Rifugio Treviso. Dopo 10 minuti si segue il sentiero che stacca a destra (cartelli indicatori) in direzione di Forcella d’Oltro e Passo Cereda, che subito attraversa il torrente tramite un ponticello. Questo sentiero prende il nome di “Troi dei Todesc”. In alternativa, subito dopo la sbarra del parcheggio, si può scendere a destra, attraversare il torrente Canali e seguire la forestale dall’altro lato fino a trovare il “Troi dei Todesc” che stacca verso destra. Imboccato il sentiero si supera il tratto in salita nel bosco per giungere dopo circa 45 minuti in località Campigol de l’Oltro (m 1700), da dove si prosegue sempre in direzione Forcella d’Oltro/Passo Regade/Passo Cereda. Al bivio successivo si va a destra (direzione Passo Regade/Passo Cereda) lasciando a sinistra il sentiero dell’Alta Via nr. 2 che va a valicare Forcella dell’Oltro (anche questa traccia conduce comunque a Passo Cereda). Si prosegue dunque verso de- Salita: Si risale il pilastrino alla sua sinistra (faccia a monte - 50 m circa, pp. II) raggiungendone la sommità (ometto) di sassi, utilizzando quale sosta iniziale un cordino su clessidra. 45 itinerari alpini cata atletica (V, chiodo e clessidra), obliquando poi verso destra andando a sostare su clessidre o spuntoni alla base di un diedro-camino grigio. 30 m, V poi III, 1 chiodo e clessidre. (9) Si risale il diedro-camino per 8-10 m (III), si evita il successivo diedro verticale obliquando verso destra per 10 m e risalendo poi facilmente alla cengia superiore (ometto di sassi). Una volta in cengia si obliqua nuovamente e facilmente verso sinistra per altri 10 m, andando a sostare su un chiodo sotto un blocco incastrato. 30 m, III, tiro articolato, rinviare con attenzione allungando le protezioni nei traversi, per limitare l’attrito delle corde. (10) Superare agevolmente lo strapiombo formato dal blocco incastrato (IV) e proseguire poi per la successiva parete andando a sostare su spuntone nei pressi di un spaccature orizzontale, alla base di un camino ascendente verso destra. 40 m, IV poi III, presenti varie possibilità di protezione naturali. (11) Si risale il canale di destra e la successiva parete senza particolari difficoltà (IV poi III) fino ad arrivare in vetta al grande pilastro staccato dalla cima principale e separato da essa da una profonda e tetra spaccatura. In vetta al pilastro si va tutto a sinistra sostando preferibilmente sugli spuntoni che offre la cresta oppure su un chiodo con anello presente sulla parete oltre la spaccatura, a sinistra. 50 m, IV poi III, presenti varie possibilità di protezione naturali. (12) Se si è sostato su spuntoni ci si abbassa a sinistra nel punto in cui la spaccatura è più stretta e si traversa sulla parete finale della cima in prossimità del chiodo ad anello. Da qui si risale la successiva parete che presenta varie clessidre (IV+, IV, III) e si sosta dopo 50 m su clessidre. 50 m, IV+/IV/III, 1 chiodo e varie clessidre. (13) Si sale senza via particolarmente obbligata, affondando un canalino e poi le rocce di cresta finale, sostando su blocco in cima. 40 m, III/II. 1-2) Da qui si prosegue, senza via obbligata, fino a raggiungere una rampa-camino in alto sulla destra che porta in prossimità dello spigolo sostando su un chiodo. 100-120 m circa, II/III, possibilità di procedere in conserva, altrimenti sono almeno 2 tiri di corda. (3) Risalire il camino sovrastante obliquando poi verso destra e andando a sostare su clessidre. 40 m, III, presenti numerose clessidre. (4) Si risale verso sinistra, senza via obbligata, sostando su spuntone (verso destra è possibile raggiungere una cengia che può costituire un’utile via di fuga in caso di maltempo verso forcella Gamberina). 50 m, II/III, presenti varie possibilità di protezione naturali. (5-6) Continuare, sempre senza via obbligata e su difficoltà limitate, fino a raggiungere una comoda cengia. Da sinistra in cengia si presentano un evidente diedro di 20 m formato da roccia bianca non molto buona, una fessura ascendente verso destra con chiodo nero all’attacco ed una seconda fessura più lunga sempre ascendente verso destra, caratterizzata da una bella lama. Si sosta alla base di quest’ultima presso un chiodo nero ad “U”, rinforzabile con una piccola clessidra poco più in alto o con eventuale friend piccolo (anche in questo punto, seguendo la cengia verso destra è possibile sfruttare un’utile via di fuga in caso di maltempo verso forcella Gamberina). 60 m, II/III, presenti varie possibilità di protezione naturali. (7) Si risale la fessura per 15-20 m (V/ IV+, 1 chiodo, varie possibilità di utilizzo di friend medio-piccoli), utilizzando la lama per qualche passaggio in “Dulfer”, con bella arrampicata e su difficoltà continue. Si arriva ad un’altra cengia (chiodo con anello vecchio), la si segue verso sinistra per altri 15 m fino a sostare nel diedro sotto un piccolo strapiombo, fettuccia su masso incastrato. 35 m, V, IV+ poi II, 2 chiodi. (8) Si supera lo strapiombo con arrampi46 itinerari alpini Discesa La discesa è lunga e impegnativa, ma non propone mai problemi di orientamento. Dalla vetta scendere verso Sud verso i caratteristici prati erbosi della cima. Prima di arrivare ai prati, sulla sinistra, in una nicchia sotto dei blocchi di roccia, è presente il contenitore con il libro di vetta (bagnato e marcio quindi non più utilizzabile, ai futuri salitori si chiede di portare un nuovo contenitore ed un nuovo libretto). Scendere per il pendio erboso (pieno di fioriture e stelle alpine) per una cinquantina di metri fino ad incrociare una spaccatura-trincea che scende in direzione sud (destra, faccia a valle); seguirla ed al suo termine scendere sul fondo della stessa dove si troverà la prima sosta di calata, all’inizio di un profondo canalone che termina nei pressi di Forcella Gamberina. Da qui ci aspettano 8-10 doppie (lunghe dai 20 ai 30 m) ben attrezzate su clessidre e chiodi (verificare comunque lo stato dei chiodi, dei cordini e delle fettucce). Se si dispone di 2 mezze corde alcune doppie possono essere accoppiate (prestando molta attenzione che le corde non si incastrino o che non smuovano sassi). Il canalone si presenta come un ambiente veramente tetro ed “infernale”, assoluta- mente da evitare con pioggia e temporali; va prestata la massima attenzione alla caduta di sassi che andrebbero ad incanalarsi proprio dove si volgono le corde doppie. Al termine delle doppie si arriva nel canalone Sud di Forcella Gamberina; da qui è sconsigliabile valicare la Forcella stessa per scendere poi dal canalone Nord, anche se sarebbe la soluzione nettamente più sbrigativa, sia a causa della friabilità del canalone stesso sia perché recenti frane lo hanno reso molto pericoloso, pieno di grandi massi instabili. Conviene pertanto scendere per il canalone Sud senza via obbligata per circa 150 m fino ad incrociare il sentiero nr. 718 (Alta Via nr. 2), prenderlo verso Nord (sinistra faccia a valle), in direzione Forcella d’Oltro; dopo un tratto a mezza costa si risale ripidamente e faticosamente verso Forcella d’Oltro (m 2085) e da qui si scende verso la Val Canali in circa 1h 15’. Dalla cima al parcheggio della Val Canali per tale discesa calcolare almeno 3h (dipende dalla velocità di esecuzione delle manovre di corda doppia). 47 personaggi personaggi LA MONTAGNA, GLI AMICI, IL CANTO, PRIGIONIERO DELLA BELLEZZA UMBERTO MARAMPON L'UOMO DEI TETTI Moiazza, Croda Spizza - Via del Ricordo - 1995 Lo incontro al Ristorante dalla Mena, in Valle Santa Felicita, in occasione di una serata organizzata dall’associazione di Bassano Dimensione Montagna. Non vuole dirmi la sua data di nascita. Dicembre il mese e una sessantina gli anni. Va da sé, la gente lì lo conosce! Non vuole perché “il compleanno è un fatto personale, non se ne parla e lo si festeggia da soli!”. Non insisto. È Umberto Marampon e lo si sa: è un personaggio! Lo chiamano Rampegon, Ma- rampa, o semplicemente Berto. Ha al proprio attivo l’apertura di una quarantina di vie in artificiale. È l’uomo dei tetti, l’uomo che sale usando staffe e chiodi a pressione. Si schernisce, sorride ammiccando, fa un po’ il prezioso, ma poi decide che “sì, non è male fare quattro chiacchiere con me”. Ci siamo già incontrati qualche anno fa sulle pareti della sua valle, la Santa Felicita, dove ha trascorso la bellezza di 37 anni. Tra il mio materiale da roccia c’è la staffa che Berto mi regalò quel giorno: una 4 48 gradini in alluminio uniti da un cordino blu, azzurro e arancione. Staffe moderne? Ma nemmeno per sogno! Berto usa ancora il modello tradizionale: abbinate alle scarpe da tennis Superga bianche funzionano che è una meraviglia. I ganci per appendersi, a forma di grande uncino, e i chiodi fatti a mano completano la sua personalissima attrezzatura. E ci siamo già visti al CAI di Padova l’anno scorso, durante una serata organizzata nell’ambito del corso di arrampicata artificiale, diretto da Giuliano Bres- san. L’invitato? Era proprio lui: un po’ imbarazzato, un po’ sornione, allegro e sorridente, pronto a insegnare come funziona l’artificiale classica. E lì a spiegare, con dovizia di particolari, a mostrare una miriade di foto, a indossare tutto quello che serve per aprire una via ... lì, in sala, all’attacco della via, appunto, pronto a partire per chiodare un nuovo tetto. Berto non apre vie senza tetti, non ci pensa nemmeno, e tanto più attraente è una linea di salita quanti più tetti ha. Normale, no? Al Ristorante dalla Mena, mentre parla con me, tiene lontani gli amici, che lo guardano con l’aria di chi vuol dire: “ti conosciamo, stai attento a come ti comporti!” È tutto un programma quest’uomo, che nell’ambiente ormai è diventato una vera e propria istituzione. È nato a Este e la sua famiglia è di Bassano. È schivo, uno zingaro. Gli piace essere così, e così racconta sé stesso, il proprio credo, i ricordi, i compagni di cordata. La montagna per Berto significa prima di tutto amicizia. Con gli amici l’ha vissuta e con gli amici ama riviverla. Crede in Madre Natura e a lei si rivolge con il proprio canto. “Non credo in nessun dio - mi spiega - e in nessuna religione. Fin da piccolo canto, nel bene e nel male. Nei momenti difficili della mia vita, e anche in quelli di grande felicità, con il mio canto mi rivolgo a Madre Natura, non a un Dio, di nessun tipo, e nemmeno agli spiriti, com’è stato detto da qualcuno, se pur bonariamente (1). Perché non credo? Penso di aver ereditato que- religioni portano le guerre. Guai a quella persona che non lascia crescere l’altra persona. Allora non capivo e la tempestavo di domande. Tra le tante ricordo una risposta: Da ragazza andavo in chiesa, a quei tempi ci obbligavano, e mi domandavo: perché le donne entrano da un lato e gli uomini dall’altro? Peché i signori, i ricchi hanno Berto mostra la sua attrezzatura al corso organizzato dal CAI Padova sto mio modo di sentire in gran parte da mia madre. Ho già scritto di mia madre e di questo suo diverso modo di concepire la religiosità. Quand’ero ragazzo mi diceva: Figliolo, se incontri una puttana rispettala, è una donna che soffre, ha grossi problemi. Se incroci un prete evitalo e ricordati che le 49 i posti riservati con l’inginocchiatoio imbottito e noi contadini, povera gente, abbiamo l’inginocchiatoio di legno duro? Perché solo le ricche signore entrano in chiesa col cappello e noi contadine povere solo col velo? Perché predicano che siamo tutti uguali davanti a dio? La chiesa non é la casa di dio? Un gior- personaggi no, avevo 15 anni, entrai in chiesa col cappello. All’inizio della messa il prete mi vede, si avvicina, prende a due mani una sedia, la mette tra me e lui, e mi spinge fuori dalla chiesa. Penso ancora oggi al perché di quella sedia, forse nella sua mente malata il solo sfiorarmi era peccato. Mah! Dicevano che ero tanto bella... Non mi detti per vinta, andai a casa di un’amica che abitava vicino, mi feci prestare un velo, lo misi sopra il cappello, rientrai in chiesa. Il prete non disse nulla. Tornata a casa mio padre mi riempì di botte (2). Mia madre è stata una grande donna e una grande Madre. Vedi - precisa Berto - mi chiedi qual'è la mia età. Si cresce e si cambia, sempre in peggio. Si ammalano le persone più care e noi cambiamo. Gli appuntamenti della vita lasciano il proprio segno e ci rendono tristi. Ma non ci sono poi grossi limiti di età a quello che si vuole realizzare, se ci si allena con passione. O quasi!”. Sorride, lui che nel 2007, a 59 anni, ha salito la via Hasse-Blandler sulle Tre Cime di Lavaredo insieme a Franceso Scandolin, che tre anni fa ne aveva 57. altre occasioni, durante le serate trascorse a parlare degli anni vissuti attaccato alla roccia, tra un tetto e l’altro. “Ero in Valle - narra - ed era morto da poco il caro amico Claudio Carpella, colpito da una pietra in testa all’attacco della parete nord del Gran Zebrù. Ero solo e tutto intorno a me era bello; ero circondato dai colori del verde, dal canto degli uccelli, dal vento, quello che da Cima Grappa scende e se ne va in pianura. personaggi Cantavo canzoni di montagna con parole mie, inventate, parole dettate dal vento. Senti vento, ti voglio parlare, voglio cantare una canzone d’amore con le parole d’oro e tu vento, portala sui monti, portala nelle valli falla sentire agli amici che non sono più tra noi. Arriva in Valle una ragazza che non conosco e si ferma vicino al grande masso che sta ai piedi del diedro giallo. Un pensiero comu- Berto associa la morte, l’amicizia e il canto; mi narra un episodio ricordato in ne quasi si materializza. La ragazza e io pensiamo a Claudio. Continuo a cantare, lei resta lì per un po’, poi se ne va silenziosa. La ritrovo alle quattro del pomeriggio dell’estate 1990 al rifugio Treviso, mentre sto mangiando polenta, formaggio con le gocce e del buon rosso. Entra con un amico e, dopo aver chiacchierato un po’, mi confessa di essere lei la ragazza che ascoltava il mio canto. Claudio si allenava sul muro di casa sua e fu lui a farle conoscere la palestra di roccia della Valle. Dopo la sua morte la ragazza sentiva forte il desiderio di ritornare in quel luogo, ma non ci riusciva. Quando arrivava nelle vicinanze qualcosa la bloccava e ritornavo indietro. Al Treviso lei mi confessa che quel giorno, mentre io cantavo, seduto in cima alla parete della Sette col buco, lei sentì il mio canto, e il mio canto la accompagnò nella Valle” (3). Berto si commuove pensando a Claudio e alla ragazza. I compagni di cordata per lui sono stati e sono ancora, prima di tutto, amici. E quando gli amici ricordano il suo canto Berto si emoziona e gli vengono le lacrime agli occhi. “Loro tiravano la libera quando si decideva di aprire una nuova via - mi spie- Uscita dal tetto di 9 m - 1994 ga – e io pensavo ai tetti. E sono Luca Zulian, Vincenzo Muzzi, soprannominato l’Orbo (te si orbo, te salti i ciodi, gli dicevo sulla Castiglioni alla Torre Venezia nel 1974), Gianmarco Rizzon, Paolino Visentin, Renato Piovesan, Mario Feltrin, Lorenzo Massarotto, Roberto Campana, detto Sul Campanile di Val Montanaia 50 51 il Cismonero, Domenico Rossetto, Ivano Cadorin, Paolo Benvenuti. Senza questi e molti altri compagni non avrei fatto quello che ho fatto. È bellissimo ritrovarsi ora, dopo 20 anni, ancora uniti da una passione comune. È bello ripetere le vie insieme”. personaggi Perché Marampon apre le vie cercando i tetti? Perché ama l’artificiale? La sua storia di arrampicatore ha inizio nel 1972, quando mette piede per la prima volta in Valle Santa sera si divertono insieme. Tre o quattro giorni alla settimana Berto si allena in Valle. Passa il sabato e la domenica in montagna. Dedica un giorno al riposo e se ne Tre Cime di Lavaredo - parete Ovest della Cima Grande Sugli strapiombi della Via S. Pertini Felicita. L’anno dopo frequenta il corso roccia alla scuola di alpinismo Ettore Castiglioni di Treviso, la sua città preferita. Al CAI di Treviso nascono le prime amicizie. I ragazzi si frequentano non solo per arrampicare, ma vanno a giocare al pallone e la va dove non avremmo mai pensato: a Iesolo! Berto era allora sergente dell’aeronautica e viveva in aeroporto, se pur molti si siano sempre chiesti come facesse a sopravvivere in un ambiente militare con il carattere indipendente che si ritrovava. Lui stesso 52 personaggi ammette di essersi preso dei bei castighi. Passata l’estate sulla roccia, in ottobre il suo comandante decide di farlo lavorare anche di domenica. “Dall’hangar del 2° stormo di Treviso - ricorda Berto - vedevo nubi nere quel giorno sulle Pale di San Martino. Era il 9 ottobre del 1973. Sullo Spigolo del Velo in quel momento c’erano quattro miei cari compagni e amici. A due tiri dalla fine li sorprese una bufera di neve. La temperatura scese a -15 gradi. Morirono in tre: Paolo De Tuoni, Roberta Dalle Feste e Sergio Lovadina. Io arrampicavo da solo un anno e l’impatto fu duro. Cominciai ad avere un chiodo fisso. Perché si muore così, senza una ragione apparente? Di colpo mettiamo fine alla nostra vita. La risposta fu: arrampicare ancora e dedicare una via alpinistica a ciascuno degli amici morti in parete. Apro in solitaria, in libera, nel settembre del 1976, sulla Gusela di Cismon, una via di 220 metri, di V e VI, e la dedico a Paolo De Tuoni. Mi rendo conto che pianto troppi chiodi. 4700 chiodi sono un’esagerazione. Altri, più bravi di me, mi dico, si muoverebbero su questa parete verticale con più facilità, chiodando e azzerando meno. E l’amico Massarotto in quell’occasione battezza i miei chiodi chiodi a impression! Da allora li abbiamo sempre chiamati così. Decido di aprire altre vie, ma non più in libera. Non voglio togliere a chi è più bravo di me la possibilità di seguire una linea verticale in modo pulito. È finita la mia stagione della libera, durata dal 1973 al 1976. Non uso più gli scarponi, ma le scarpe da tennis Superga. Mi metto a scrutare le pareti alla ricerca dei tetti. A quei tempi era quasi impensabile. I tetti si evitavano. Sono nate così la Roberta Dalle Feste al Covolo di Butisone, una via di 180 metri, di V e A2, aperta nel 1978 con Paolo Visentin e Gianmarco Rizzon, e la Sergio Lovadina, di 200 metri, VI, A3, aperta nel 1980 con Vincenzo Muzzi, sempre al Covolo di Butisone. Sono gli anni in cui le vie al di là della verticale di Cesare Maestri, Bepi de Francesch, René Desmaison o Pierre Mazeaud, solo per ricordare alcuni grandi, sono entrate nella storia dell’alpinismo in Dolomiti; in Valsugana si cimentano nell’apertura di vie in artificiale il bassanese Carlo Zonta, la guida alpina Renzo Timillero, per anni gestore del rifugio in val Canali, Lorenzo Massarotto e Leopoldo Roman. Tra i più giovani si distinguono Alberto Campanile, Ezio Bassetto, Manrico Dell’Agnola, Andrea Spavento e ben presto si fa notare un nuovo alpinista, che prova per i tetti una grande passione: Umberto Marampon (4). C’è chi sostiene che la vera arrampicata sia la libera, percorsa, nelle prestazioni migliori, a vista e senza chiodi. Oggi la fa da sovrano il free-climbing. I climber più forti hanno spesso vinto in libera strapiombi e tetti prima superabili solo con l’uso delle staffe. Ma lo spirito dell’artificialista è diverso e assai lontano dal concetto di competizione con se stesso e con gli altri così com’è vissuta in media dall’arrampicatore sportivo. A Berto e agli artificialisti come lui piacciono i tetti. È bello restarsene lì, appesi nel vuoto, muoversi strisciando sotto la parete con centinaia di metri d’aria al di sotto, precisi nei movimenti, equilibrati nella distribuzione del peso, attenti a non caricare i chiodi distrattamente per non trasformare una traversata in un pericoloso volo. Liberi. Il racconto di Berto continua, tra sorrisi e sguardi malinconici. Nei suoi occhi c’è la luce di chi ha vissuto momenti intensi, ora dolorosi e difficili, ora pieni di 53 Lagazuoi “Mani Pulite” gioia e serenità, lì attaccato alla roccia, o nelle tende, immerso nel sonno di un bivacco, sveglio alla luce dell’alba, seduto davanti a un bicchiere con gli amici di una vita. La montagna ruba a Berto altri compagni. E Berto sempre li ricorda dedicando loro vie in artificiale. Gli anni passano: nuovi successi e nuove sconfitte. “Ci sono altre linee di salita - mi spiega - aperte per il solo piacere di aprirle, non dedicate a nessuno, se non a me stesso. Tutte le vie mi hanno dato un’enorme personaggi soddisfazione. Non ricordo la via più bella perché non voglio offendere nessuna via”. Della quarantina di vie attribuitegli, Berto ne nomina velocemente alcune. La direttissima sulla parete Sud della Torre Venezia, nota come via della Libertà e aperta insieme a Vincen- lita la prima volta con Luca Zulian nel 1983. Due anni dopo, sempre con Luca, percorre una via sul piccolo Dain, superando un tetto molto evidente a destra della Loss, e la dedica all’alpinista trevigiano Bepi Mazzotti. Dello stesso anno è la via Cismon ‘85, sulla parete sud di Cima Campiglio nel- 1986 Berto Marampon e Lorenzo Massarotto zo Muzzi, è un vero gioiello: supera tutti i tetti della parete, tra i quali è famoso quello a falce, di 5 metri. C’è chi ancora ricorda le grida di Berto che cantava a squarciagola, felice, mentre la apriva nell’ormai lontano 1980. Nomina la via Stefano Campeol, sulla Cima di Ball, nelle Pale di San Martino, aperta nel 1982 con Mario Feltrin, e la via con il tetto di 9 metri sulla parete sud della Pala delle Masenade, in Moiazza, sa- le Dolomiti di Brenta: un tetto che strapiomba per 9 metri, ben visibile dal rifugio Brentei, salito in solitaria. “Mi vergognavo un po’ dice Berto - nell’aprire quella via proprio lì, perché salivo in uno dei regni della libera, e per giunta davanti al rifugio di Bruno Detassis”. E proprio quella volta mi si bloccò una corda e fui costretto a passare per il rifugio. Detassis mi prestò la corda di suo figlio; il gesto mi sorprese. 54 personaggi Solo più tardi scoprii che raccontava: Non ho mai visto scalare in quel modo; ha chiodato, salito, sceso, risalito quei tetti sempre cantando, come se non fosse faticoso. In cuor mio ancora lo ringrazio e non mi vergogno più” (5). “Il primo gennaio del 1987 - racconta Berto - sto chiodando sulla parete est della Rupe del Castello un tetto sporgente 8 metri e 80 centimetri. Mi sporgo e vedo sotto di me un ragazzino. Sento un lungo sibilo e poi un gran botto. Che razza di figlio di... - sorride Berto - L’ho perdonato perché a modo suo mi ha augurato buon anno” (6). E ancora richiama alla mia attenzione alla rinfusa lo spigolo sud della rocca dell’Antelao, la via Mani Pulite nel gruppo del Lagazuoi, la via dedicata a Sandro Pertini, direttissima sulla Ovest della Cima Grande di Lavaredo, aperta insieme a Renato Piovesan, la via dell’Ospitalità a Pedra Longa in Sardegna del 1981, la Bepi Gasparotto sul monte Fop in Marmolada del 1994, la via Sergio Lovadina sempre in Sardegna, la via del Ricordo, che supera 11 tetti, sulla Croda Spiza in Moiazza, la Paolo e Fausto sulla parete di Ori, poco a monte di Primolano in Valsugana, dedicata ai due ragazzi bassanesi Paolo Dolomiti di Brenta Via Cismon ‘85 Pozzi e Fausto Marchesini, di 19 anni, caduti mentre scalavano la via Castiglioni alla parete Nord del Sasso delle Undici, nelle Prealpi Feltrine; quest’ultima, aperta in solitaria, lo ha visto passare il capodanno in cengia da solo nel 1989. E come non ricordare il grande tetto di 49 metri del Covolon, in val Gadena! (7) Non è un semplice elenco di vie questo di Berto. Le passa in rassegna nella memoria ad una ad una, ed è come se le avesse salite ieri. E precisa: “Ho aperto prima la De Tuoni, in Cismon, poi la Lovadina, in Sardegna, ultima la Roberta Dalle Feste, sempre in Cismon. Mi dispiaceva che Sergio fosse lì, da solo, lontano, in Sardegna. E allora gli ho dedicato una via anche qui vicino”. Berto si fa notare per la rigorosa ricerca dei tetti anche in valle del Sarca. “Avevo l’impressione - e lo dice quasi come una supposizione fondata - che la Rupe Secca mi guardasse imbronciata, perché non avevo ancora aperto nulla lì. Sulla Rupe del Colodri nel 1986 avevo già aperto una via e l’avevo chiamata DDT, visto che saliva parallela alla via Zanzara di Manolo. Così nacque Cismon ‘93, e la Rupe Secca fu contenta. E poi vennero altri itinerari in val del Sarca” (8). Berto non è solo passato. 55 La sua attività oggi non si limita alla rievocazione delle imprese di un tempo. Nel 2004 apre la via Gigi Lunardon sulla parete Est del Pramper, l’ultima aperta in Dolomiti. Del 2007 è la via Antonio Silvestri, dedicata all’alpinista caduto 10 anni prima mentre scendeva dalla via delle Guide in Brenta. È preparato, è forte, si allena tutte le settimane come quando era ragazzo. Lo spirito non è cambiato, anche se a suo avviso “con gli anni si peggiora e si perde la memoria”. Non si considera un alpinista. Si definisce un muratore della montagna. “Pianto chiodi e non tiro la libera come i miei amici più personaggi bravi. Me ne sto lì in parete per ore: ci vogliono fino a 35 minuti per piantare un chiodo con il perforatore”. Marampon lavora così. Il tempo passa al Ristorante dalla Mena. È tardi e ci stanno aspettando per cenare.In chiusura un consiglio di un esperto e simpatico alpinista. Berto vuole lasciare un messaggio a quanti, soprattutto giovani, arrampicano. “Fate tutto in sicurezza! Quando apro una via penso che sia giusto e doveroso creare dei percorsi sicuri. Chi la ripete non deve farsi male. Meglio un chiodo in più che un chiodo in meno. La ripercorro a distanza di anni e la sistemo; in sostanza faccio un’opera di manutenzione, sostituendo i chiodi rovinati e aggiungendone di nuovi. In parete le sviste, la superficialità, le disattenzioni possono costare care. E sono più numerose di quanto pensiate. Non vale la pena rischiare - avverte - per essersi dimenticati di fare il nodo di sicurezza quando ci si cala”. Lui nelle discese in doppia usa il Prusik. “Più volte - mi spiega - il Prusik mi ha salvato, anche se è ben vero che se sta scritto oggi devi crepare, qualsiasi cosa tu faccia non scappi, crepi e basta! L’ho scampata bella il lunedì di Pasqua del 1977, quando salivo da solo la via Gnoato-Bertan-Zonta, che si trova sopra Cismon, in Valsugana, 270 metri di V, VI e artificiale. Una scarica di sassi improvvisa mi sfiora e mi trancia una corda. Con l’altra inizio le doppie e quando arrivo alla fine della terzultima, la corda mi schizza via dalle mani, esce dal moschettone e mi trovo a testa in giù e gambe in su, e per di più con lo zaino in spalla, appeso al cordino Prusik; sotto di me c’è un salto di 40 metri. Non ho fatto il nodo alla fine della corda. Il Prusik si blocca ad appena 8 o 9 centimetri dall’uscita dalla corda. Sono riuscito a tirarmi su, ed è andata bene. E posso ricordare gli episodi del 1994 sulla Cima Grande di Lavaredo, o del 2000 in palestra di roccia, o ancora dell’agosto del 2003 sulle Dolomiti Zoldane; quel giorno, sotto lo strapiombo giallo, esce il chiodo, volo, lo sento fare per tre volte dinn dinn dinn... avevo due Prusik, non si sa mai!” (9) personaggi crederai, ma io l’ho saputo solo pochi mesi fa da mia sorella. Una mia prozia cantava, ma nonostante gli sforzi di mia madre, io non capisco la musica. Canto, e basta.” Adora Venezia, i gondolieri che cantano, il traghetto che passa davanti a Torcello; di fronte alla bellezza della laguna confessa di aver pianto. È lo stesso pianto che sorge spontaneo davanti a due quadri di Van Gogh al Palazzo dei Carraresi, a Treviso. Berto sa apprezzare ciò che c’è di bello nella vita. È la bellezza che fa prigioniero il suo animo. Caterina Secco NOTE 1. Mario Crespan, Giù le mani dal Marampa!, 2006 2. Umberto Marampon, Perché non credo in nessun dio - Frammenti per un Autoritratto, 3a parte, pp. 2,3, 2008, http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=60 3. Umberto Marampon, Il canto - Frammenti per un Autoritratto, 3a parte, p. 2, 2008, http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=60 4. Leopoldo Roman, La riscoperta del grande vuoto, pp. 60-65, 1987, La Rivista del Club Alpino Italiano, anno 108, n.1 5. Umberto Marampon, La corda bianca - Frammenti per un Autoritratto, 2a parte, pp. 1,2, 2008, http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=59 6. Umberto Marampon, Rupe del Castello, parete est, 1986 - Frammenti per un Autoritratto, 4 a parte, p.2, 2008, http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=59 7. Gabriele Villa, “Scusi, come gradisce il tetto?” “Esagerato, grazie”, 2002 http://acustica.ing.unife.it/staff/francesco/intraigiarun/tetto.htm; Michele Scuccimarra, Il grande tetto del Covolon, 2002 http://acustica.ing.unife.it/staff/francesco/intraigiarun/tetto_2.htm 8. Umberto Marampon, Cima Colodri, parete est, 1986 - Frammenti per un Autoritratto, 4 a parte, p. 2, 2008, http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=59; Umberto Marampon, Rupe Secca, parete est - Frammenti per un Autortratto, 4 a parte, p. 2, 2008, http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=59 9. Umberto Marampon, Storie di corde - Frammenti per un Autoritratto, 1a parte, p. 2,3, 2008, http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=58 Umberto Marampon è un uomo sensibile, che ama la montagna, gli amici, il canto. È un uomo che sa piangere. “Mia madre mi ha mandato a scuola di musica. Mio zio, il fratello di mio padre, suonava il violino alla Scala a Milano: tu non ci 56 57 escursionismo escursionismo ALLA SCOPERTA DELLO SCI DI FONDO: UNA GRANDE AVVENTURA La Sezione Cai di Padova, ha organizzato dal 10 Gennaio al 7 Febbraio 2010 il corso Sci di Fondo, in Valmaron di Enego in collaborazione con la locale Scuola ed il coordinamento degli accompagnatori del Cai Stefano Fantin e Fabio Crivellaro. I partecipanti al corso erano 79 di ogni età, di diversa provenienza geografica e preparazione atletica. Al suono della prima sveglia, brontolando mi alzo, tra mille pensieri, “ma chi me lo fa fare”, “potrei stare a letto” e invece, sapere che poi la giornata regala sempre qualcosa di bello, sono partita, ignara di quello che mi aspettava. Infatti, ogni mattina me ne capitava sempre una: rottura del pedale della bici; un altro giorno si mette a nevicare prendo l’ombrello e con la bici pedalo pedalo, arrivo bagnata come un pulcino; altro giorno mi ammalo, insomma l’inizio è stato promettente. 1a uscita: il viaggio è stato abbastanza turbolento, il pullman su cui viaggiavano alcuni corsisti si è impiantato nella neve. Ahimè! E’ andata persa l’ora di inizio del corso ma, la giornata riprende a pieno ritmo. Quanta pazienza i maestri di sci hanno avuto con noi, ma il mio orecchio attento ha colto delle semplici frasi del mio maestro, e lì ho capito come dovevo affrontare il corso. La prima lezione è stata quella di imparare a mettere gli sci, banale, no! Secondo passo è stato quello di imparare a stare in piedi, di non scivolare, banale, no! Terzo passo, imparare a superare la paura di cadere, lezione interessante, il maestro continuava a ripetere: “non abbiate paura, se avete paura non state in piedi”. Incredibile come la paura possa bloccare! La scoperta interessante è stata lo sguardo! Altra modalità per non cadere è quella di indirizzare lo sguardo in avanti e, non per terra. In conclusione, l’ingrediente essenziale è l’uso della testa! La parola d’ordine è la concentrazione sui movimenti! Insomma, più che una lezione di sci, è stata una lezione sul corpo umano. Il mio stupore è nato proprio da qui, come sia importante avere una giusta percezione del proprio corpo aiuti a superare le difficoltà, conoscerne i limite e, a fare i movimenti giusti. In fretta in fretta, ero riuscita a stare sugli sci, e ad essere autonoma. Che grande soddisfazione!. Ogni tanto qualche scivolone e cadute. Mi sono divertita anche quando cadevo, non solo perchè mi rotolavo nella neve ma, così potevo sperimentare come rialzarmi, mettendo in pratica gli insegnamen58 ti del maestro!. Ebbene, anche le cadute avevano i loro movimenti per alzarsi senza fatica! Il corso di fondo è stato una scoperta e una conquista per cinque domeniche, io per prima e tutti i corsisti eravamo animati, da una buona dose di pazienza e desiderio di imparare. Ma ora, vorrei lasciare la parola anche ad altre voci, perché raccontare la montagna e l’esperienza del corso, non può essere solo mia, per questo ho chiesto ad alcune persone di condividere i loro pensieri. Buona lettura. M. Cuomo 1° Intervento: Uscire dalle nebbie e dal grigiore cittadino, immergersi nella natura “dietro casa”, scivolare con gli sci nella candida neve, non c’è bisogno di competere con nessuno, puoi goderti il cielo terso senza nuvole o una graziosa nevicata, cadi e ti rialzi, ci sono tratti in salita, tratti in discesa, falsipiani, tratti in mezzo al bosco, tratti aperti e panoramici. Non c’è monotonia. Ogni metro in più che fai è una conquista. Ora sei in compagnia, ora sei da solo,e il silenzio attorno a te si fa assordante. Respiri e tiri il fiato non solo per la fatica che c’è, e nessuno te la toglie, ma anche dagli assilli quotidiani della tua vita. 2° intervento: Ho scoperto il CAI da pochissimo tempo ma da subito è nata in me una grandissima passione per la montagna che ha portato a iscrivermi e a frequentare contemporaneamente il corso di discesa e il corso di fondo, organizzati entrambi da persone esperte e con tanta pazienza. L’approccio iniziale con il corso di fondo è stato un po negativo, causato dal fatto che proprio il primo giorno, per colpa di un’auto ferma in mezzo alla strada, gli autobus si sono dovuti fermare e, proprio nel ripartire ci sono stati problemi e notevoli ritardi a causa del montaggio delle catene da neve. Il seguito è stato un crescere continuo sia dal punto di vista dell’organizzazione, sia dal punto di vista dell’esperienza sulle piste, che ci ha portato l’ultimo giorno ad arrivare al rifu- gio Marcesina per una foto con tutti i partecipanti al corso, gli accompagnatori e i maestri di sci. Felice di aver frequentato due meravigliosi corsi e di essere passato da “non aver mai indossato due oggetti tanto scivolosi” a “fare piste blu e rosse senza problemi (discesa) e fare diversi chilometri e vedere paesaggi stupendi (fondo)”, cercherò l’anno prossimo di ripetere entrambi i corsi sicuro di rivivere due grandi divertimenti. M.Geneselli 3° Intervento: E’ già da qualche anno che partecipo al corso di fondo organizzato dal CAI di Padova e nonostante io abbia da tempo raggiunto una tecnica discreta nello stile skating è sempre veramente utile partecipare 59 alle lezioni dei maestri del Centro Fondo. Riescono, infatti, in pochi istanti ad evidenziare e correggere quelle imperfezioni che altrimenti si rischia di portarsi dietro per anni. Alcuni dettagli possono sembrare inizialmente insignificanti ma quando ho cominciato a percorrere 20-30 chilometri, magari quasi tutti in salita, mi sono reso conto che ogni piccolo particolare contribuisce a diminuire la fatica e ad aumentare il divertimento! Ringrazio Stefano e Fabio per la puntuale organizzazione e saluto tutti i fondisti. Valentino Turato escursionismo escursionismo ALLA RISCOPERTA DELLA MEMORIA DI PRIMO STIVANELLO 25 aprile 2010: 104 partecipanti su e giù per i Monti della Lessinia! Accompagnatori: Stefano Fantin, Guido Gobbin. Il giorno 25 Aprile 2010, la Sezione Cai di Padova, ha organizzato un'escursione sui Monti della Lessinia a cui hanno partecipato ben 104 soci/persone. Tante persone, che la mattina alle 7:00 hanno riempito ben due pullman con destinazione: il Parco delle Cascate Molina. I 104, lungo il percorso formavano un serpente umano, tra i canti degli uccelli e il rumore dell'acqua, le voci si univano all’unisono quasi a formare un coro a più voci. Lungo il percorso, abbiamo incontrato una salamandra, facente parte della famiglia degli anfibi, simile ad una lucertola gigante di colore nero con punti gialli, davvero uno spettacolo della natura. Su e giù per i pontili, sospesi sull'acqua, che spettacolo le cascate, ognuna di loro era diversa, particolare e con una bellezza unica. Abbiamo giocato al tiro alla fune e per finire il percorso, un bel lancio con un'altalena posto su un altura che permetteva di toccare la cascata, che avventura! Consiglio di provare almeno una volta l'ebbrezza del lancio nel vuoto. Tutti sorridenti e stanchi, siamo tornati dal nostro compagno di viaggio, il pullman, e tra affettati, dolci e cibi succulenti, all'improvviso una voce nel mezzo delle voci ci ricorda il motivo della giornata del 25 aprile. Il 25 aprile non è solo il giorno della Liberazione, ma è un giorno speciale per il Cai di Padova che ha dedicato la giornata alla memoria di un suo amico 60 e compagno d'avventure, Primo Stivanello. Dopo un primo momento di silenzio, nel ritorno in pullman, i nostri accompagnatori/istruttori ci hanno fatto vedere un filmato sulla persona di Primo Sti- ste impresse e, pur non avendolo conosciuto, mi ha molto colpito l'entusiasmo che investiva nelle attività e la pazienza che aveva con i giovani che si avvicinavano per la prima volta alla montagna. C'è bisogno di persone che trasmettano la passione per la montagna. Spesso si sente dire che la montagna è maestra di vita, ci educa, ci fa cambiare, ci fa capire i nostri limiti, ci fa superare le nostre paure, ma da soli non si potrebbe mai scoprire un tale tesoro se non ci fossero persone come Primo e chi dopo di lui continua a farci vivere di/la montagna. Tutti in coro ti diciamo Grazie Primo, siamo contenti di averti conosciuto. M. Cuomo vanello, accompagnatore escursionista. Il filmato a un certo punto diceva: “la sua umanità e la sua voglia di vivere.....” parole che mi sono rima61 escursionismo escursionismo NUOVI OSSERVATORI CRESCONO Sabato 27 Marzo – Ore 9 e 30 – parcheggio di Valle Santa Felicita. Si ritrovano 6 aspiranti osservatori, due osservatori effettivi e 5 accompagnatori di escursionismo tra cui il presidente della commissione. Oggi ci sarà la prova per vedere se siamo abili e arruolabili nella commissione escursionismo come osservatori. Ci conosciamo quasi tutti dai corsi escursionismo degli anni scorsi. Il più giovane ha 22 anni, il più vecchio 36. La passione comune che ci unisce per la montagna, la voglia di condividere la montagna con gli altri e un grande entusiasmo che ci hanno lasciato le esperienze fatte fin’ora all’interno della sezione di Padova ci hanno portato qui. Oggi, vedremo se la commissione sarà altrettanto entusiasta della nostra auto candidatura. La prova di ammissione prevede: nodi, progressione in ferrata, progressione in cordata, tecnica di discesa in corda doppi a con freno moschettone (anche a gruppi), stesura della corda fissa, paranco semplice. A Santa Felicita ci sono almeno altre tre sezioni del CAI che stanno facendo corsi di aggiornamento o lezioni di roccia per cui le pareti di destra e sinistra valle sono affollate come sempre. Ci mettiamo quindi a far nodi all’ombra divisi per gruppi. Soffia un vento freddo a ricordarci che a Santa Felicita la primavera non ha ancora fatto capolino. All’inizio c’è un po’ di emozione da esame e soprattutto nella teoria esce qualche strafalcione. I nodi sono più facili da fare che da spiegare. Ma dopo i primi tentennamenti, a forza di far nodi, ci sciogliamo e ne usciamo vivi tutti quanti. Dopo un’ora e mezza abbondante al freddo si prosegue con la ferrata di Santa Felicita. Un gruppo la fa in senso contrario e sono quasi scesi che il presidente organizza la simulazione di una manovra di recupero con calata del ferito tramite una corda. Lorenzo, fortunatissimo, si risparmia la discesa degli ultimi dieci gradini strapiombanti perché viene calato dalla ferrata. Manovra spettacolare! Il mio gruppo parte dopo che i finti feriti sono stati calati e i dieci scalini strapiombanti in salita ce li dobbiamo fare tutti. Ogni volta che percorro la ferrata di Santa Felicita, sempre bagnata in qualsiasi stagione, penso che se le ferrate in montagna fossero tutte così, mi passerebbe presto 62 la voglia di andarle a fare, ma oggi c’è l’esame e non si discute, anche se il pensiero di “chi me l’ha fatto fare di venire qui oggi“ mi passa per la mente un paio di volte. Finalmente arriviamo in fondo alla ferrata anche noi. È quasi mezzogiorno e si mangia qualcosa tutti insieme. Il clima è allegro come ad una qualsiasi gita sezionale. Sono con i miei amici e mi sto divertendo. Nel pomeriggio attacchiamo la parete di sinistra: arrampicata e doppie. Non siamo soli. Un altro gruppo ben nutrito di alpinisti di Castelfranco ha infestato la parete di corde. Noi siamo in sei su un terrazzino a circa quindici metri di altezza per vedere la manovra di corda doppia a gruppi con la quale ci dovremo calare mentre da sotto salgono gli alpinisti di Castelfranco che ci scavalcano perché devono continuare a salire fino alla sosta più alto. C’è un po’ di confusione ma Riccardo in modo autoritario prende in mano la situazione e riusciamo ad allestire una sosta statica ed una doppia per gruppi calandoci in contemporanea da due corde. Fortissimo! È il nostro turno di salire nuovamente fino alla sosta posta circa a trenta metri per calcarci in doppia uti- lizzando il freno moschettone (peccato per la mia piastrina gigi nuova. Esordirà un’altra volta). Non è ancora finita. Dobbiamo fare la prova della corda fissa, una delle manovre più importanti da saper fare in caso di interruzione del sentiero per assicurare il passaggio. Sempre divisi per gruppi. Il mio, fortunatissimo, si infila nel canyon e stende la corda fissa sulla parete di fronte alla ferrata. Dalla gola soffia un vento gelido. Siamo in tre e tutti dobbiamo provare la ma- novra da primi e da secondi di cordata. Il processo, tra autoassicurazione, soste, tensione della corda, bloccaggio e recupero è abbastanza lungo. Alla fine siamo congelati e le mani non si sentono quasi più. Sono le cinque e mezza e abbiamo finito. A Santa Felicita siamo rimasti solo noi. È andato tutto bene ma, sorpresa delle sorprese, il presidente si è arrampicato su una parete e ci esorta a seguirlo per vedere come si effettua il paranco semplice per recuperare un compagno.Non abbiamo più nemmeno la forza di protestare e raggiungiamo il presidente sul terrazzino dove viene messo in pratica il paranco. Sono quasi le sette di sera. In cielo è comparsa la luna. Adesso abbiamo veramente finito e possiamo tornare a casa. Il responso è positivo. Siamo ammessi come osservatori. Dovremo intraprendere un periodo di formazione di circa un paio d’anni per diventare accompagnatori titolati, un cammino tutto in salita ma che sono sicura sarà ricco di esperienze e di emozioni. Michela Libreria ✓ Libri di montagna ✓ Alpinismo, natura, viaggi, narrativa ✓ Libri scolastici, cartoleria e tante novità ne con buffet azio lio h. 17 inugur Venerdì 9 lug ai soci CAI Sconti del 15% Via Fossona, 7/4 - 35050 Cervarese S. Croce loc. Fossona (PD) - Tel. 347 4906886 63 in libreria Roccia d’Autore IV GRADO IN DOLOMITI vol. 2 di Emiliano Zorzi Presentazione di Dante Colli in libreria Roccia d’Autore EMOZIONI DOLOMITICHE di Stefano Michelazzi Presentazione di Alessandro Gogna Formato: 15x21 cm - Pagine: 340 a colori 198 foto a colori, 17 schizzi 75 relazioni di vie di media difficoltà in: Civetta, Moiazza, Fanis, Tofane, Nuvolau, Averau Cinque Torri, Croda da Lago, Pomagagnon, Dolomiti Zoldane, Marmarole, Cadini di Misurina, Tre Cime di Lavaredo, Dolomiti di Sesto Formato: 15x21 cm Pagine: 208 a colori 102 foto a colori, 52 schizzi 52 relazioni di vie di media e alta difficoltà in: Gruppo di Brenta, Pale di San Martino, Catinaccio, Marmolada, Sassolungo, Sella, Odle-Puez, Dolomiti Ampezzane, Dolomiti di Sesto, Moiazza Prezzo di copertina: € 24,50 IDEA MONTAGNA EDITORIA E ALPINISMO www.ideamontagna.it - [email protected] Prezzo di copertina: € 22,00 IDEA MONTAGNA EDITORIA E ALPINISMO www.ideamontagna.it - [email protected] Le Dolomiti, Patrimonio Naturale dell’Umanità, hanno ricevuto il loro riconoscimento ufficiale. Le pareti color sangue delle Dolomiti Ampezzane e i riflessi ambrati che il Civetta sprigiona al tramonto ne erano la manifesta rivelazione. Questa dichiarazione in ogni caso ha suscitato approvazione ed entusiasmo e anche qualche celebrazione, ma se si deve fare festa mi pare che il modo migliore l’abbia individuato Emiliano Zorzi con questo volume che completa il panorama dolomitico seguendo a quel primo del 2009. Le Dolomiti ci appaiono in tutto il loro fulgore attraverso un itinerario che con settantaquattro ascensioni ci fa conoscere le cime che tutti vorremmo salire. Il volume è quindi una sagra, un evento legato alla voglia di far festa, celebrare e, se si vuole, consacrare perché la cerimonia a cui siamo chiamati è quella della scalata che non è una fuga dalla realtà, ma la più forte e la più radicale esperienza per un recupero di questo mondo roccioso nel suo vero significato. Le cime scelte nei Gruppi proposti sono forse le più belle, vere immagini e simulacri, emblemi e icone indimenticabili. Si pensi alle Tre Cime di Lavaredo e questo basti, perché non può esserci presentazione e introduzione migliore alla conoscenza delle varie zone che attraverso le cime proposte, vera e propria carta d’identità e contrassegno insuperabile. Ma da quelle vette se ne scorgeranno altre e l’autore avrà raggiunto il massimo dei fini se lo scalatore si lascerà sedurre e saprà andare oltre, aggiungendo di per sé altre pagine al volume, perché all’alpinismo è necessaria oltre alla difficoltà, all’esposizione anche l’essere fuori nelle wilderness, in un ambiente selvaggio e desolato e anche il rischio. Il fascino delle montagne è dato dal fatto che sono belle, grandi, da scoprire e un pregio di Emiliano Zorzi è proprio quello di essere propedeutico a ulteriore conoscenza ed esplorazione perché la sua opera è ricca di una fortissima carica simbolica e capace di trasmettere entusiasmo. Il volume non deve essere scambiato per uno dei tanti di scalate scelte che sono poco più di un diario, spesso causale. Risponde a precisi criteri e approfondimenti con commenti e schede storiche e a un disegno ben preciso, la dimostrazione che le Dolomiti sono un eccellente tema per un’indagine ottimistica e analitica del nostro andare per monti. In una parola sono il tessuto della nostra passione e della nostra sete di superamento del reale e di desiderio di armonia. Il concetto di IV grado, e cioè di scalata non di punta, è esteso anche al V e al VI grado perché è giusto tenere conto di indubbi ed elevati progressi e di acquisiti salti di qualità. Precisa la valutazione delle difficoltà. Si può notare con soddisfazione il superamento dei semplici schizzi. Dopo tanti volumi afasici, la parola riprende il suo ruolo, compone il contrasto tra soggettività e oggettività. Si fa nobile strumento ed espressione di umiltà della fatica, di coraggio ma non di imprudenza, di esaltante armonia tra natura e uomo, di possesso di un paesaggio nitido e purissimo simbolo di uno stato d’animo solare e sereno che si fonde con l’ampio respiro dell’infinito e con il nostro bisogno di perfezione morale. Non si può chiedere di più. Dante Colli (G.I.S.M.) Presentare una guida al pubblico di appassionati di arrampicata in montagna (in contrapposizione a quello di arrampicata sportiva), e a maggior ragione ad un pubblico di possibili appassionati futuri, è un compito difficile che per fortuna l’autore mi ha facilitato aprendo la sua esposizione con un’esauriente serie di avvertenze su come si deve affrontare l’alpinismo su roccia e di come si dovrebbe praticare in piena sicurezza. Di solito ad una guida non si richiede questo: si dà per scontato che tecnica e passione siano bagaglio consolidato del lettore (ma in tempi di bieco consumismo non si dice fruitore?) e quindi, dopo un rapido elenco delle abbreviazioni usate e delle scale di difficoltà, si passa direttamente alle descrizioni. In questa guida non è così e tutta la sua costruzione, oltre ai minimi particolari, lo dimostrano. C’è prima di tutto la preoccupazione di far amare queste montagne e questi percorsi, spesso poco noti. S’interpreta facilmente la precisione con cui gli itinerari sono descritti non tanto per una malintesa ed inutile pignoleria o per l’ansia di non dare adito a interpretazioni sbagliate: qui la precisione è essenziale, è chiarezza di ricordo e di suggerimento. Fa parte cioè della struttura mentale dell’autore. In secondo luogo, le annotazioni emotive traducono le vere sensazioni che l’autore stesso ha provato ed in definitiva l’evidente amore che nutre per queste montagne che, non dimentichiamolo, anche se meno note e frequentate di altre, a quest’ultime non hanno proprio nulla da invidiare. Infine si nota il bel proposito, secondo me riuscito, d’inserire questi itinerari nel flusso della grande storia dell’alpinismo dolomitico, grazie alle annotazioni dei primi salitori o sulla prima ascensione. L’autore ha fatto la scelta di trattare un percorso come un figlio prediletto, del quale vorrebbe tutto il bene futuro possibile. Questa selezione “d’autore” porta con sé il pericolo, già osservato altrove e in precedenza, di pubblicizzare oltremodo angoli dolomitici che così qualcuno teme saranno “presi d’assalto”. Ma io non sono d’accordo. Credo che il vero pericolo per una valle ed una montagna siano lo “sviluppo” e lo sfruttamento turistico con impianti forzati, specie in questi anni di evidente saturazione del mercato invernale, allorquando i centri sciistici più noti di tutte le Alpi si disputano i clienti a colpi di offerte e di “qualità”. Oppure si potrebbe obiettare ancora che le guide a selezione traghettino il pericolo più sottile e reale di creare un campionario di moda tra gli itinerari possibili e quindi favorire la mancanza di fantasia nelle “libere” scelte dell’arrampicatore. Questo è un vecchio problema, nato a suo tempo con la pubblicazione delle collane di Walter Pause o delle “100 più belle” di Gaston Rébuffat. Il tempo che gli appassionati hanno a disposizione per la loro attività preferita, l’arrampicata, è sempre limitato dal lavoro, dalla famiglia, dal brutto tempo. Non preoccupiamoci se qualcuno cerca di abbreviare la strada facendosi consigliare. Purché i consigli, come in questo caso, siano dati bene e con cognizione di causa, soprattutto con amore. 64 65 Alessandro Gogna in libreria in libreria DOLOMITI ORIENTALI I monti dei Forni Savorgnani a cura Alfio Anziutti "Timilin" Geositi e itinerari geoturistici tra CIMA D'ASTA E IL TESINO Sandro Silvano Collana: Itinerari alpini n° 101 Formato: 15x21, pagine 224 Foto e disegni a a colori e b/n Collana: Itinerari alpini n° 102 Formato: 15x21, pagine 208 Foto e disegni colori e b/n Prezzo di copertina: € 19,50 TAMARI MONTAGNA EDIZIONI www.tamari.it - [email protected] Prezzo di copertina: € 24,00 TAMARI MONTAGNA EDIZIONI www.tamari.it - [email protected] La storia e i suoi protagonisti, i monti e le valli, i bivacchi e i rifugi, le escursioni, le arrampicate e le altre attività esive e invernali per scoprire questo splendido territorio " ... Un’opera che vuole ricordare i tanti appassionati che hanno amato questi luoghi, che hanno compiuto imprese memorabili, che hanno conquistato vette inviolate e che, alcuni di loro, raggiunta la cima hanno poi continuato a salire precedendoci verso la meta. Un libro per ringraziare i molti volontari che si sono dedicati e si dedicano alle meritorie attività delle Associazioni legate ai valori della montagna, per raccontare un po’ della nostra storia alpinistica (che non è poca cosa nel grande mondo dolomitico), per far conoscere e amare alle giovani generazioni le rare bellezze naturali che possediamo e che molti ci invidiano, affinchè le frequentino, le conoscano e le proteggano. È un invito che rivolgo soprattutto alle amministrazioni comunali e alle scuole di Forni di Sotto e Forni di Sopra, quale impegno primario verso il mondo giovanile, verso il futuro di una montagna vissuta che faccia camminare i valori delle nostre tradizioni nel solco di un civile progresso... " dalla presentazione di Renzo Pavoni “Biorcia” (Presidende del CAI – Sezione di Forni di Sopra) "Questo libro, con forte caratterizzazione didattica e divulgativa, intende stimolare il lettore ad una nuova visione del paesaggio del Tesino, attraverso l’individuazione e la descrizione dei principali beni naturali presenti in questa area. Utilizzando, per necessità, linguaggio e documentazione scientifiche, si cercherà di far comprendere, anche ripercorrendo le principali tappe dell’evoluzione geologica dell’area, come questi beni si siano sviluppati e quali siano le connessioni con le attuali forme del territorio. L’obiettivo che ci si propone è quello di fornire gli strumenti per una corretta interpretazione del paesaggio fisico e della sua evoluzione, stimolando un pubblico anche non specialistico alla lettura dello spazio che lo circonda e alla comprensione dei fenomeni naturali che hanno contribuito alla sua modellazione. ... Come il lettore potrà rendersi conto, gran parte dei Geosti che verranno descritti hanno una valenza prevalentemente paesaggistica, in quanto riguardano elementi e strutture di carattere geomorfologico, la cui fruizione è essenzialmente visiva. Si accorgerà di averle incontrate ed osservate numerose volte durante escursioni o passeggiate e magari di esserne già stato colpito per la loro spettacolarità ed esteticità; nel contempo però difficilmente avrà riconosciuto il loro reale valore per non essere riuscito ad osservare, distinguere e comprendere quegli elementi morfologici e geologici che sono testimoni muti dell’evoluzione e della storia del territorio. L’auspicio è che alla fine della lettura di questo libro, nel quale sono state inserite anche notizie di carattere storico-culturale o comunque non strettamente legate alla geologia, il lettore percorrendo la valle del Tesino non concentri la sua attenzione solamente sulla presenza dei verdi pascoli e delle rudi crode, ma sia in grado di leggere e comprendere almeno parzialmente il paesaggio e di percepire anche quegli aspetti geologici, strutturali e morfologici che hanno contribuito a modellare questo magnifico ed estremamente vario territorio. Da ultimo, infine, ci si augura che l’individuazione, la descrizione e il parziale censimento dei beni naturali presenti in questa area possa servire, se non alla loro tutela, almeno alla loro valorizzazione. ,,, " dall'introduzione dell'autore 66 67 canti Dopo qualche tempo i rivoluzionari riunirono i prigionieri comunicando loro che potevano considerarsi liberi e che scomparissero andando nelle grandi città, perché non erano in grado di dare loro né da mangiare né da dormire. Molti andarono verso Mosca, naturalmente a piedi, arrangiandosi per sfamarsi e così sopravvivere. Riportiamo ora una testimonianza del Kaiserjager Filippo Candido Battaiola da Malè, prigioniero dei russi nel giugno 1916. Dopo la rivoluzione russa da prigioniero lavoratore, fu trasferito in una fattoria a 300 km da Mosca. Era appassionato di musica classica e popolare. Con amici trentini aveva improvvisato un coretto di canti di montagna e di brani operistici, come “La Vergine degli Angeli" dalla forza del destino di G. Verdi. Un giorno un Pope del villaggio, che lo aveva preso in simpatia lo invitò al funerale di una personalità molto nota del luogo, per onorare con un canto il defunto. Il Gattaiola si trovò in difficoltà non avendo canti adatti per una cerimonia funebre. Nessuno dei russi capiva una parola di italiano, perciò il “ Maestro “ si arrangiò all’italiana. La salma fu accompagnata al cimitero al canto di “ La Violetta la va la va “, con strepitoso successo seguito da molti ringraziamenti e abbondanti libagioni. 1914 – 1918 Testimonianze della Grande Guerra in Trentino Soldati in Galizia e prigionieri in Russia Il primo agosto 1914 in tutto l’impero austro – ungarico, compreso naturalmente il Trentino, venne dichiarata la mobilitazione generale e la chiamata della leva di massa. I Trentini arruolati nel 1914 furono circa 40.000 di cui 1.700 ufficiali di complemento. Le perdite subite durante l’intero conflitto furono calcolate in circa 8.000 caduti tra i quali 502 ufficiali, 14.000 feriti e 12.000 prigionieri. Molti soldati Trentini, pur senza convinzione, combatterono con dignità e meritarono anche dei riconoscimenti al Valore militare dall’esercito austro – ungarico. Il 7 agosto 1914 dalla stazione di Trento avvenne la partenza del primo reggimento di soldati per la Russia. Parenti e popolazione, con gran commozione facevano ressa sui marciapiedi. Alla partenza era presente il Vescovo di Trento Monsignor Celestino Endrici che benediceva il treno. I reparti trentini furono inviati in Galizia a nord dei Monti Carpazi, per fronteggiare l’esercito russo. Dopo la grande offensiva russa del 29 giugno 1916, che segnò un colpo fatale per l’esercito austro – ungarico, molti furono i prigionieri trentini e giuliani che vennero inviati in Siberia. Bisogna anche ricordare che ai primi di marzo 1917, scoppiarono in Russia i primi moti rivoluzionari che portarono alla caduta dello Zar Nicola II. Questi avvenimenti furono causa di altre peripezie ai molti prigionieri. L’esercito russo si era ribellato formando le squadre della rivoluzione bolscevica. I prigionieri passarono giorni terribili nel timore di essere uccisi o di venire rinchiusi a morire di stenti in qualche campo di prigionia. Sotto i loro occhi videro i soldati bolsevichi uccidere tutti i proprietari terrieri di quelle fattorie dove parecchi di loro avevano trovato lavoro. canti Sui Monti Scarpazi e di pioci ancor. Ma quando, ma quando….. Quando fui sui monti Scarpazi Miserere sentivo cantar. T’ò cercato fra il vento e i crepazi ma una croce soltanto ho trovà. Oh mio sposo eri andato soldato per difendere l’imperator ma la morte quassù hai trovato e mai più non potrai ritornar. Siam prigionieri siam prigionieri di guera tuti senza ghevèra ( 1 ) nel suol siberian. (1) Ghevèra era chiamato dai soldati trentini il fucile austriaco, da Ghewer = fucile. Da “Cantanaia“ a cura di L. Viazzi e A. Giovannini – Ed. Tamari – Bologna trascriviamo le seguenti strofe. E grata, e grata e non si può dormir la pelle è traforata, o che crudel destin. Maledeta la sia questa guera che mi ha dato sì tanto dolor, il tuo sangue hai donato a la tera hai distruto la tua gioventù. Io vorei scavarmi una fossa seperlirmi vorei da me per poter colocar le mie ossa solo un palmo distante da te. Russia fatale, niente di bello tu hai, cleba, cartoski, e ciaj e di pioci ancor. (2) (1) Ghevera era il nome dato dai soldati trentini al fucile austriaco, da Gewer = fucile. (2) Cleba, cartoski e ciaj = pane, patate e te. La popolazione trentina deve abbandonare i propri paesi Questo triste canto, riportato in patria da uno dei pochi superstiti, veniva spesso cantato in una famiglia vicina al nucleo originario da cui nacque il coro della SAT. Il testo è sicuramente adattato su qualche antico frammento melodico. Nel mese di agosto 1915 il governo austriaco emanò un decreto di ordine immediato dei paesi del Trentino “ per ragioni militari, perché troppo vicini alle linee del fronte”. L’annuncio fu dato nella chiesa di Vermiglio durante le funzioni pomeridiane dal parroco Don Giovanni Pombeni (a sua volta internato) che precisò che bisognava lasciare i paesi per essere internati in Austria. Lo sconforto e la disperazione furono grandi fra tutta la popolazione. Il 23 e il 24 d’agosto avvennero le prime partenze. Il treno dopo aver valicato il Brennero, attraversò Salisburgo, Zell am See, Vienna, giunse al campo di internamento di Mitterndorf il 28 di agosto. Molti internati morirono di fame, freddo e malattie. Altre popolazioni del Trentino furono internate in Boemia e in Moravia, tristemente noto fu il campo di Katzenau. Pure in queste tristi condizioni di vita, nacquero tra gli internati dei canti per ri- Siam prigionieri Siam prigionieri siam prigionieri di guera siam su l’ingrata tera del suol siberian. Ma quando, ma quando la pace si farà ? Ritorneremo contenti dove la mama stà. Chiusi in baraca sul duro leto di legno fuori tompesta di fredo e noi cantiamo ancor. Ma quando, ma quando…… Siam sui pajoni siam sui pajoni di legno di pulzi quasi un regno 68 69 canti cordare la loro terra natia. Molti bambini impararono alcuni canti popolari in boemo come “ Koline e la mela – titolo originale- Pot dubem “, tradotti ed elaborati da L. Pigarelli. I profughi trentini impararono in boemo anche “Kde domov mùj – Dov’è la patria mia“, ora inno nazionale ceco, a quel tempo intonato alla fine della messa. ma tra le baionette paradi ‘n procession; le done pianzeva lassando la so cà ma i ludri no i aveva en pel de carità. Traduzione Evviva Tabor e la Boemia almeno in questo paese non si bestemmia se ci dicono neni oppure nemuzù non ci dicono mai “ nain velser ferflut “. De là del Brenner (Trentinella) De là del Brenner gh’è ‘na zitadella che spira in quelaria che innamora e noi che l’abbiam vista così bella amiamo tanto quella zitadella. Non ci hanno messo le manette per andare alla stazione, e tra le baionette ci hanno costretto a camminare in fila, le donne piangevano lasciando la loro casa ma quelle canaglie non avevano un pelo di carità. Trentinella , che vuol far se son de qua del Brenner no te poss basar. De là del Brenner gh’è ‘l canon che tona zerto sarà i Taliani che lo sona, i lo sona cossì a poco a poco per far nar via i Tedeschi da sto loco. Il 4 novembre 1918, ore due di notte, le truppe italiane entravano a Malè, mentre iniziava la fuga disordinata dell’esercito austro-ungarico che tentava di mettersi in salvo attraverso il Sud Tirol. Trentinella, che vuol far….. A Trento le campane più non sona i l’à levade zò i Tedeschi a far canoni ma noi che non sem pu sì gran mincioni o doprerem per lori quei canoni. Bibliografia Trentinella, che vuol far….. A. Mantone “Quando fui sui Monti Scarpazi“- Persico Ed. – 1997 Questo canto fu composto nel campo di Mitterndorf dai trentini internati. “Canti della Grande Guerra“ a cura di V. Savona e M. Straniero – vol. secondo – Ed. Garzanti 1981 L. Viazzi e A. Giovannini – “Cantanaja “ Ed. Tamari – Bologna 1968 E viva Tabor e la Boemia “Canti popolari trentini“ raccolti da Silvio Pedrotti – Arti grafiche Saturnia – Trento 1976 E viva Tabor ( 1) e la Boemia almen qua for no i bestemia se i ne dis negni (2) opur nemuso (3) no i ne dis nain velser ferflut (4). No i n’ha mes le manete par nar a la stazion, 70 canti Su in montagna (armonizzazione S. Cestaro) Addio padre e madre addio Addio padre e madre addio che per la guerra mi tocca di partir, ma che fu triste il mio destino che per l’Italia mi tocca di morir. Lascio la moglie con due bambini, o cara mamma pensaci tu, quan’ sarò in mezzo a quegli assassini mi uccideranno e non mi vedrai più. Su in montagna nel cuor delle Alpi vieni o nemico se hai del coraggio che se qualcuno ti lascia il passaggio noi altri alpini fermarti saprem. Dove più aspra sarà la battaglia a corpo a corpo verremo alle mani: farem vedere che siamo italiani, faremo onore al patrio valor! Quando fui stato in terra austriaca subito l’ordine a me m’arrivò; mi dan l’asalto la baionetta in canna, addirittura un macello diventò. Care mamme che tanto pregate non disperate pei vostri figlioli, che sulle Alpi non siamo noi soli c’è tutta Italia che a fianco ci stà. E fui ferito, ma una palla al petto, i miei compagni li vedo a fuggir e io per terra rimasi costretto mentre quel chiodo (1) lo vedo a venir. ………………. Voialtre mamme che soffrite così tanto per allevare la bella gioventù nel cuor vi restano lacrime e pianto pei vostri figli che muore laggiù- Si riportano versioni raccolte in varie zone del settentrione d’Italia. Ascoltate o popolo ignorante Ascoltate, o popolo ignorante che della guerra notizie vi darò se tutti quanti attenzione farete io tutti quanti pianger vi farò. (1) L’elmetto dei soldati tedeschi aveva un chiodo, così i nostri soldati chiamavano i tedeschi “i gà el ciodo“ Il ventinove dell’anno novello Il primo sangue italiano fu sparso, ma il novantotto nell’ordine sparso diede l’assalto con gioia e valor. O Austriaci di razza galera O Austriaci di razza galera immani crudeli e senza cuor rivendicaste d’Italia il valore e col martirio di noi prigionier. Ci furon morti e molti feriti dalle granate e srappel nemici e un fuoco inferno delle mitragliatrici e il novantotto in trincea restò. Una palla mi ha colpito nel petto nessun piangeva, vedendomi soffrir e quell’ austriaco austriaco maledetto voleva certo a farmi morir, Ma chi piangeva per non avere colpa e chi gridava implorando soccorso ma le granate facevano il suo corso e sfragellando chi tardi fuggì. Tengo moglie con cinque bambini ti raccomando di guardarli tu. Quando sarò in mezzo a quei assassini mi uccideranno e non li vedrò più. E chi in trincea e chi dietro le rocce riparandosi per non esser colpiti da quei vigliacchi crudeli austriaci che di nessuno non hanno pietà. 71 canti storie dell’Italia settentrionale per le loro ballate, ed è pressoché identica in tutte le lezioni qui riportate. Dal libro “Cantanaja“- nella Rivista – L’Alpino del 15/8/1935 – venne pubblicato un articolo che dichiarava, che già nel 1897, alla caserma alpina di Aosta in occasione del 25° anniversario della fondazione del Corpo, gli anziani del battaglione cantavano questa canzone. Al comando dei nostri ufficiali Al comando dei nostri ufficiali caricheremo cartucce a mitraglia ma se per caso il colpo si sbaglia a baionetta l’assalto farem. Tu nemico che sei tanto forte fatti avanti, se hai del coraggio, e se qualcuno ti lascia il passaggio noialtri alpini fermarti saprem. Fra le rocce O care mamme che tanto tremate non disperate pei vostri figlioli che qui sull’Alpe non siamo noi soli c’è tutta Italia che a fianco ci stà. (armonizzazione F. Mingozzi) Fra le rocce , il vento e la neve siam costretti la notte a vegliar. Il nemico crudele e rabbioso lui tenta sempre il mio petto a colpir. Genitori piangete piangete se vostro figlio non dovesse tornar. Vostro figlio è morto da eroe sull’alte cime del Monte Cauriol. E tu Austria Su su cantiamo guerrieri alpini che delle Alpi noi siam bersaglieri e fra le rocce e gli aspri sentieri mai nessun colpo fallito sarà. Il suo sangue l’ha dato all’Italia, il suo spirto ai fiaschi de vin. Faremo fare un gran passaporto o vivo o morto dovrà ritornar. Noi siam giovani, forti e robusti sopportiamo fatiche e sventure cara Italia tranquilla stai pure che gli Alpini salvarti sapran Il testo di questa versione, sembra sia stato scritto dai combattenti del 7° reggimento alpini. Sul cappello portiamo il trofeo dei Reali di Casa Savoia noi lo portiamo con fede e con gioia viva Vittorio il nostro sovran. E la luna che a l’estro c’invita E la luna che a l’estro c’invita sarà al fianco de’ miei genitor. Cara Italia tranquilla stai pure sempre pronti noi siamo ai confini ben difenderti sapranno gli Alpini cara Italia tranquilla stai pur. Non piangete, oh miei genitori, se il destino lontan mi mandò. Fra le rocce, il vento e la neve siam costretti la notte a vegliar. Dalla raccolta “Canti della Resistenza armata in Italia" si trascrive, l’ultima strofa, sempre sull’aria di “Su in montagna“: O Germania che sei la più forte fatti avanti se ci hai del coraggio; se la repubblica ti lascia il passaggio noi partigiani fermarti saprem. La linea melodica di questo canto proviene da un antico modulo usato dai canta- Il nemico crudele e rabbioso tenta sempre al mio petto puntar. Penso sempre al paese natio, ai miei fratelli, ai miei genitor. Non piangete, oh miei genitori, se vostro figlio non vedrete tornar. 72 canti tenere il possesso dell’unico ponte, che attraversava il fiume Vojussa. Il ponte di Perati era situato sul confine greco – albanese, la Vojussa è un fiume a regime torrentizio, che a causa delle forti pioggie di quella stagione, con la sua impetuosa corrente travolse spesso soldati e muli con le salmerie. Vostro figlio è morto da eroe sulla cima dell’alto Cauriol. Il suo sangue lo ha dato all’Italia, il suo spirto volerà su nel ciel. Il monte Cauriol (m 2494 ), sorge nella catena del Lagorai nel Trentino orientale, e domina Predazzo in Val di Fassa. Nel luglio e agosto del 1916, fu teatro di aspri combattimenti fra l’esercito austriaco e gli alpini dei battaglioni Feltre e Val Brenta, che riuscirono a conquistarne la vetta. In cinque giorni di dura lotta caddero più di trecento alpini ed oltre mille vennero feriti. Sul ponte di Perati Un coro di fantasmi scende dai monti, è il coro degli alpini che sono morti. (armonizzazione G. Malatesta) Sul ponte di Perati bandiera nera: è il lutto degli alpini che fan la guerra. Sul ponte di Bassano bandiera nera, l’è el lutto degli alpini che fan la guerra. Sui monti della Grecia c’è la Vojussa col sangue degli alpini s’è fatta rossa. L’è el lutto degli alpini che fan la guerra, la meio zoventù che va soto tera. Alpini della Julia In alto i cuori, sul ponte di Perati c’è il Tricolore. Nell’ultimo vagone c’è l’amor mio, col fazzoletto in mano mi dà l’addio, Col fazzoletto bianco mi salutava e con la bocca i baci la mi mandava. Sulla base di questo motivo musicale, durante la Resistenza, venne scritto nel marzo 1944 da Nuto Revelli – ufficiale degli Alpini in Russia –, allora comandante della Banda Italia Libera, il testo di “Pietà l’è morta“. Bandiera nera Lassù sulle montagne bandiera nera, è morto un partigiano nel far la guerra, un altro italiano va sotto terra. ………………………. Tedeschi e fascisti fuori d’Italia! Gridiamo a tutta forza: “Pietà l’è morta“. Questo canto è stato adattato dai nostri soldati, da antichi motivi veneti, e si diffuse molto rapidamente nel 1915-18, fra tutte le armi dell’esercito. Nella seconda guerra mondiale, gli alpini della divisione Julia, duramente provata nell’offensiva contro l’esercito greco, fra l’ottobre 1940 e l’aprile 1941; presero parte ad accaniti combattimenti per ot73 canti Dove sei stato mio bell’Alpino E la Violetta la va, la va, la va. (armonizzazione G. Malatesta) (armonizzazione G. Malatesta) Dove sei stato mio bell’alpino dove sei stato mio bell’alpino che ti ha cambià colori? L’è stata l’aria del Trentino l’è stata l’aria del Trentino che mi hà cambia colori. I tuoi colori ritorneranno, i tuoi colori ritorneranno questa sera a far l’amore Questo canto è stato adattato dagli alpini da un antica canzone popolare veneta che trascriviamo. Era una notte che pioveva Strofette sfottitorie e satiriche E la Violetta la va, la va, la va la va sui campi e la se insognava che l’era ‘l so’ Gigin che la rimirava. Era una notte che pioveva e che tirava un forte vento, immaginatevi che grande tormento per un alpino che sta a vegliar. Perché tu mi rimiri Gigin d’amor, Gigin d’amor …… io ti rimiro perché tu sei bella, e se tu vuoi venire con me alla guerra. A mezzanotte arriva il cambio accompagnato dal capoposto: o sentinella torna al tuo posto sotto la tenda a riposar. E mi non voi venire Gigin d’amor ……. Non voi venire con te alla guerra, perché si mangia mal e si dorme per terra. Quando fui stato sotto la tenda sentii un rumore giù per la valle, sentivo l’acqua giù per le spalle sentivo i sassi a rotolar. Sull’aria della canzoncina “Bombacè“ diffusa tra i soldati della campagna di Libia del 1911, nella guerra 15-18, nei vari fronti, ebbero origine una serie interminabile di stornelli con il famoso ritornello “Bim, bum, bom al rombo del cannon“. A farne le spese furono soprattutto i generali, primo fa tutti il general Cadorna. Riportiamo alcune versioni (sono decine e decine). Si riporta una versione raccolta nel Trentino, a Chizzola frazione del comune di Ala. La Celestina in cameretta O sonadori La Celestina in cameretta che ricama rose e fior. Vien da basso o Celestina ch’è rivà il tuo primo amor. O sonatori sonè sonè soneghe suso ‘na bela marciada a la Violeta che la va a l’armada. E la Violeta la va, la va…. Se l’è rivato lassè ch’el riva, mi son pronta a far l’amor. A far l’amore ci vuol vent’anni e una bambina e del buon vin. ………………….. No, no, no vegno con ti a la guera perché se magna mal, se dorme ‘n tera. Ma ti en tera no te dormirai: te dormirai su ‘n leto de piuma con quatro basalier (1) che se consuma. O Celestina sei la mia stella, guarda il mio cuor, ci troverai un fiorellino per te di amore. Te dormirai su ‘n leto de lana con quatro basalier che te ama. Un fiorellino fatto di sogni, e di speranze di pace e non di dolor. (1) bersaglieri. Il motivo “perché si mangia male e si dorme per terra“ si ritrova all’inizio di una canzone documentata sin dal 1582 “Il soldato va alla guerra“. Da “Il fiore della lirica veneziana – vol. IV – Lirica popolare“ a cura di M. Dazzi. Fatto di sogni sognati in cielo, non di dolori tra monti e terra per fare la brutta guerra. Ma i tuoi dolori passeranno a questa sera quando verrai a far l’amor. 74 canti Il general Cadorna ha scritto alla regina se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina. Bim,bum,bom al rombo del cannon. Mentre dormivo sotto la tenda sognavo d’esser con la mia bella e invece ero di sentinella fare la guardia allo stranier! Allora la regina rispose al generale se vuol vedere Trento si compri un cannocchiale. …………….. Appena giunto in fondovalle arriva l’ordine dal reggimento, arriva l’ordine dal reggimento: tutti in licenza dobbiamo andar. Il general Cadorna si mangia le bistecche ai poveri soldati dà le castagne secche. ………………… Il general Cadorna ne ha fatta una grossa ha messo le puttane nella Croce Rossa. ………………… Il general Cadorna ‘l mangia, ‘l beve, ‘l dorma, ma quando va in trincea gli viene la diarrea. ………………… Il caporal maggiore che comanda là in cucina l’hò visto ieri sera andar dalla biondina. …………………. Così si spiega subito, e senza fare torto, dov’è che van a finire i generi di conforto. ………………….. Appena fui giunto in licenza credevo d’esser di sentinella e invece ero con la mia bella sotto le piante a fare l’amor. Questo canto fa parte del repertorio di molti cori alpini, tra i quali anche il nostro coro sezionale. Ricorda gli aspetti più dolorosi della vita militare; i disagi, il freddo, la lontananza dalla donna amata. Si ritrova in quasi tutto il settentrione d’Italia. Una strana versione è stata raccolta, in anni recenti, in un cantiere edile a Roma, dove sullo stesso motivo di – era una notte – la parola “alpino“ era sostituita da “operaio“. 75 canti Da “Fino all’ultimo sangue. Sulle rive del Piave alla battaglia del Solstizio con il tenente Vincenzo Acquaviva“ di S. Gambarotto e R. dal Bo – Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano – comitato di Treviso – I° edizione maggio 2008. I nostri richiamati sono andati da Cadorna perché le loro mogli gli fan portar le corna. ……………………. Cadorna gli ha risposto non fate meraviglia, quando andrete a casa troverete più famiglia, …………………… A destra dell’Isonzo ci stà una passerella. se stanco sei di vivere dovrai passar per quella. …………………….. Un tempo rinforzavano Il fante con la sgnappa, ti mandano ora il fante a rinforzare il Grappa. ……………………… In cima a monte Merzli l’austriaco butta ‘o razzo. Noi risparmiamo a’ luce non ce ne frega o’ c…o. Bim, bum, bom al rombo del cannon. Spesso erano i superiori ad ordinare ai soldati in prima linea di cantare di notte, per coprire il rumore dei genieri zappatori che stendevano i reticolati, oppure scavavano trincee o postazioni per mitragliatrici. Riportiamo alcuni canti degli eserciti austro-ungarico e tedesco di quell’epoca. Nel mese di agosto 1914, in tutto l’impero austriaco – compreso naturalmente il Trentino, venne dichiarata la mobilitazione generale. I coscritti trentini arruolati furono circa 40.000 e vennero mandati sul fronte russo per il timore di diserzioni verso l’Italia. I caduti furono 8.000, feriti 14.000, prigionieri 12.000. Questo canto nato tra i coscritti, deriva probabilmente da un'antica melodia ottocentesca raccolta in Val Lagarina. “Canta che ti passa“, era una incitazione che i soldati esclamavano per aiutarsi l’un l’altro per vincere i momenti di paura e di nostalgia. Hai paura? – canta che ti passa – hai freddo, fame? – canta che ti passa – hai rimpianto della tua casa, della tua mamma, della tua sposa? – canta che ti passa -. 17 giugno 1918 – fronte sul Piave. “Il sole era tramontato, le stelle si distinguevano più nette… Ed improvviso si alzò un canto….Era di uomini che forse il giorno dopo non sarebbero più stati. Erano in molti a cantare. Le voci si univano fra loro… Ed al canto fu risposto col canto… Dovunque in giro era la stessa canzone che si alzava, la stessa canzone triste e nostalgica …Erano voci… che invocavano la famiglia, la casa, i parenti, gli amici… Era scomparso il combattente e restava l’uomo con tutti gli affetti…Ma il canto a poco a poco diminuiva… Il canto svaniva tenue, lentamente. Quel porco de quel medico Quel porco de quel medico l’è stà la mè rovina che sabo de matina me toca nar soldàE la nostra sentenza l’ei fata l’ei scrita e la nostra sentenza l’ei fata cossì. E se ‘l m’à fato taublich (1) morosa casca ‘n tera e ciapo la ghèvera (2) del nostro imperator. 76 canti butali ‘ntorno al mur. pre. E la nostra sentenza….. Falkenhayan e Mackensen (2) guidano i tedeschi, ed anche Bulgaria e Turchia ci seguono. E ti morosa ciàvete che mi son ciavàto Una parte va verso il Danubio, già in questa settimana e noi scendiamo dai nostri boschi verso l’Italia. tre ani de soldato me tocherà de far. E la nostra sentenza ….. Tutti già tendono le orecchie e ridono di nascosto, aspetta Romania, stà in guardia che ti farem scoppiar. Va là va là sargente prepara la pagnoca che melitar me toca pagnoca magnerò. E la nostra sentenza ….. (1) Carlo I° d’Asburgo divenne imperatore d’Austria e re d’Ungheria nel novembre 1916, alla morte di Francesco Giuseppe. (2) Eric von Falkenhayn dal 1914 fu Capo di stato maggiore dell’esercito tedesco. August von Mackensen comandò nel 1916 le truppe tedesche nella grande offensiva in Galizia contro la Russia. (1) da tauglich: Für den Militardienst taugliche = abile al servizio militare. (2) da Ghèwer = fucile austriaco. La canzone dei Kaiserjager Hai paura? Noi Kaiserjager cantiamo una lieta canzone uguale per tutti, al nord ed al sud all’est ed all’ovest, dovunque sventoli il nostro vessillo. Noi siamo i migliori finché esiste la fedeltà. Quando ci vedono tutti accorrono da ogni parte. Sono i Kaiserjager del primo reggimento! Sono i Kaiserjager del secondo reggimento! …………………… Hai freddo, hai fame? Senti la febbre per l’azione che dovrà cominciare e nella quale ti butterai a capofitto senza speranza di conservarti la vita? Canta che ti passa Settembre 2008 a cura di Piero Trentin 1916 E la nostra sentenza ….. L’imperatore Carlo (1) vuole di nuovo scendere in guerra e affida il comando ai suoi generali. Pianzè pianzè putèle che quatri scarti resta ciapali per la testa Artiglieria leggera e pesante, fanteria e cavalleria vanno alla dura guerra ed avanzano sem77 canti Bibliografia “Canti della Grande Guerra“ Voll. I° e II° a cura di V. Savona e M. Straniero. Garzanti Ed. Milano 1981 “Su in montagna“ G. Malatesta. Ed. Zanibon Padova 1967 “Tapum – canzoni in grigioverde“ a cura di Salsa, Piccinelli, Bozzi Ed. Piccinelli – Roma “Cantanaja“ di L. Viazzi – A. Giovannini. Tamari Ed. Bologna 1968 “Canti popolari Vicentini“ a cura di V. Paiola e R. Leydi. Neri Pozza Ed. Vicenza 1975 “Canti popolari trentini“ raccolti da S. Pedrotti. Arti Grafiche Saturnia Trento 1976 “Sui monti Scarpazi“ 50 canti popolari. Ed. F.lli Pedrotti Trento 1973 L’Automobile s.a. Concessionaria Fiat Viale delle Nazioni, 10 37135 Verona Tel. 045 9210710 Lasercar Srl Località Villabella, 12 37047 San Bonifacio (VR) Tel. 045 6131000 Fax 045 6131866 Discografia Sono moltissime le incisioni di questi canti, pertanto segnaliamo quelle di questi Cori: Coro della Sat Coro Ana di Milano Coro Alpino la Grangia Coro monte Cauriol. Coro del CAI di Padova per questi canti : Su in montagna – Bandiera nera – Dove sei stato mio bell,alpino – La Violetta –Monte Cauriol. Dischi Durium Canti degli Alpini -ep A 3065 – 45 g. Canti degli Alpini – II° raccolta – ep A 3280 – 45 g. Canti della montagna – ms A 540 – 33 g. Canti della montagna – ms A 581 – 33 g. I Canti della Grande Guerra – ( nel cinquantenario dell’entrata in guerra dell’Italia ) serie cicala BL 7023 33 g. Ricordi Italia canta – Canti di montagna – CD – ICCD 5. Giampaolo Baliello Cell. 349 6464025 AUTOVETTURE E VEICOLI COMMERCIALI 78 79