sommario 2/2010

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sommario 2/2010
sommario
Club Alpino Italiano
Sezione di Padova
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Cronache
Il premio Gilardoni - Della Torre a Giuliano Bressan di Leri Zilio
8 Dialoghi
Ad Arquà in compagnia del Petrarca di Gabriella Rossignoli
12 Diario Alpino
Patagonia: Torri del Paine e il trekking a W di Lucio De Franceschi
Potrei raccontare di Elena Facco
12 Gavarnie, l'emisfero di ghiaccio di Francesco Cappellari
Aconcagua 2010, ancora buca di Angelo Soravia
Marmolada Parete Nord discesa con gli sci di Federico Battaglin
43 Proposte
Gita fra amici del gemellaggio Cai Padova - Dav Friburgo
44 Itinerari Alpini
Cima d'Oltro di Nicola Bolzan
48 Personaggi
La montagna, gli amici, il canto. Prigioniero della bellezza.
Umberto Marampon l'uomo dei Tetti di Caterina Secco
58 Escursionismo
Alla scoperta dello sci di fondo: una grande avventura
Alla riscoperta della memoria di Primo Stivanello di M. Cuomo
64 In libreria
68 Canti
80 Ricordiamo
Germano Gazzetta
SEMESTRALE
SEGRETERIA REDAZIONALE c/o Sezione CAI
35121 Padova - Galleria S. Bernardino, 5/10
Tel. 049 8750842 - www.caipadova.it - [email protected]
Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DR PD
Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 401 del 5.5.06
DIRETTORE RESPONSABILE: Giovanni Piva
VICE-DIRETTORE: Lucio De Franceschi
COMITATO DI REDAZIONE: Francesco Cappellari, Leri Zilio
IMPAGINAZIONE GRAFICA e STAMPA: Officina Creativa sas - Padova
IN COPERTINA: Il Perito Moreno (foto Elena Guabello)
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cronache
cronache
IL PREMIO GILARDONI-DELLA TORRE
A GIULIANO BRESSAN
Agosto 1974. Il comasco
Pietro Gilardoni ed il milanese Guido Della Torre
vengono travolti dal crollo
di un seracco mentre percorrono la via Major sulla
parete della Brenva nel
Monte Bianco. Sono entrambi Istruttori Nazionali
ed Accademici, impegnati in primissima persona
nell’attività didattica e divulgativa delle rispettive
Sezioni.
Per ricordare il loro nome
la Commissione Nazionale
Scuole di Alpinismo, Sci
Alpinismo e Arrampicata
Libera del Club Alpino istituisce un riconoscimento triennale. Questo sarà
assegnato
ad un
alpinista o a una Scuola
di Alpinismo “che abbiano
svolto attività di assoluto
rilievo nell’insegnamento dell’alpinismo e nella
prevenzione degli incidenti
in montagna, che abbiano
introdotto innovazioni tecniche nelle metodiche di
arrampicata e nei materiali; e ancora che abbiano lasciato un segno nella cultura alpinistica con
particolare riferimento ai
problemi relativi alla pedagogia e alla didattica”.
Nel 2009 il prestigioso
riconoscimento è stato
assegnato ad un alpinista padovano, l’Istruttore
Nazionale ed Accademico
Giuliano Bressan. La cerimonia di premiazione si è
svolta a Pordenone durante il Congresso Nazionale
degli Istruttori, con un
Giuliano felice e commosso che ha ricevuto il simbolico dono
in cristallo dal
Presidente della
CNSASA Maurizio Dalla Libera.
Per Padova è un
attesissimo ritorno, perché il
premio mancava ad un esponente cittadino
da
tantissimi
anni, essendone
stati insigniti Bruno Sandi nel 1981 e
Giuseppe Grazian nel
1985.
Il riconoscimento va a
premiare un uomo tuttora
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attivissimo sia nel campo
prettamente
alpinistico,
sia in quello didattico, che
in quello tecnico-divulgativo. Giuliano, che arrampica
da più di 30 anni, ha all’attivo più di 1000 vie, con una
poliedricità notevole, che
spazia dall’ambiente dolomitico al granito del Monte
Bianco, dai percorsi innevati in alta quota alle verticali cascate di ghiaccio.
Notevole è anche l’attività
esplorativa e di ricerca, ed
emblematiche sono le numerose esperienze alpinistiche nell’Africa Sahariana, con prime ripetizioni ed
aperture di nuovi itinerari
dal Marocco alla Giordania
fino al Mali.
Significative, solo per ricordarne alcune, sono in
Marocco la via “Anna e
Fiorenza” sulla Cima Coda
dell’Avvoltoio ed in Mali sul
Kaga Pamari la via “Meridiana Tropicale”.
Giuliano ha aperto nuove
vie anche in Dolomiti, e qui
ricordaimo tra le tante la
“Via del Nostromo” in Catinaccio (dedicata a Luigi
Bettuolo) e la “Via del Ricordo” su Cima Val di Roda
nelle Pale di San Martino
(dedicata a Franco Gessi e
Toni Gianese).
Questa intensissima attività non gli ha però impedito di dedicarsi con
passione e competenza
alla vita della Scuola della
nostra Sezione, dirigendo
numerosi corsi e tenendo
le sue memorabili lezioni
sui materiali e le tecniche
di assicurazione. Campo
nel quale è un’autorità assoluta, avendovi maturato
un’esperienza di decenni
tantoché presiede dal 1999
il Centro Studi Materiali e
Tecniche.
È stato nel 1990 uno degli
ideatori, assieme a Grazian
e Zanantoni, della “Torre di
Padova”, struttura realizzata per i test sulle prove
di assicurazione.
Non si contano poi gli articoli pubblicati sulle riviste
specializzate e la partecipazione alla stesura di
manuali tecnici e ancora
l’organizzazione di alcuni
convegni nazionali ed internazionali su argomenti
di interesse per il CAI e per
l’UIAA.
È inoltre volontario della
Croce Rossa ed ha fatto
parte per molti anni del
Soccorso Alpino, incarico
dal quale ha rassegnato
le dimissioni nel dicembre
2008.
Un’overdose di impegni a
tutto campo che ci fa chiedere dove trovi il tempo
per seguire tutte queste
attività, perché sono proverbiali il suo entusiasmo
e la sua professionalità. Io
stesso ho avuto la ventura
di partecipare ad un suo
corso come allievo e devo
dire che niente è lasciato
al caso, con un giusto connubio tra attività pratica in
parete e certosina preparazione tecnica.
Una particolare attenzione
Giuliano Bressan viene premiato
dal presidente CNSASA Maurizio Dalla Libera
è inoltre riservata al risvolto umano essendo per
lui prioritario il rapporto di
amicizia con i suoi compagni di cordata.
Essendo un figlio, alpinisticamente parlando, degli anni ’70 ha iniziato ad
arrampicare con gli scarponi, per poi seguire tutto
l’evolversi dell’alpinismo.
Ha saputo così cogliere
gli aspetti rivoluzionari ed
innovativi delle nuove tecniche e dei nuovi materiali, ma con intelligenza non
comune li ha coniugati con
l’esperienza derivatagli da
un mondo alpinistico che
si affidava più all’uomo e
alla sua preparazione. Ancora oggi nei suoi corsi si
tende ad evidenziare più di
ogni altra cosa il rapporto
uomo e montagna, si insegna all’allievo a calarsi
nell’ambiente in cui opera,
inculcandogli il concetto
che l’alpinismo non è una
scala di spit da seguire a
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testa bassa, e non è neppure il grado in più o in
meno che si riesce a superare. La lezione che io
stesso ho recepito è quella
che si va in montagna per
vivere un’avventura in un
ambiente naturale, dove
esiste un certo rischio che
va calcolato ed in un certo
senso addomesticato, ma
questo solo contando sulle proprie forze, che sono
la preparazione tecnica e
fisica, la consapevolezza
dei propri limiti e la giusta
preparazione psicologica.
Leri Zilio
cronache
cronache
KAGA PAMARI
PARETE SUD
Via “Meridiana Tropicale”
(G. Bavaresco, G. Bressan,
F. Busato, S. Campillo, A.
Giambisi, L. Manzana, F.
Miori e O. Piazza, dal 24/11
al 1/12/1995); difficoltà ED
(6b, A2); dislivello 400 m.
La via sale lungo lo strapiombante pilastro sud
aggirando sulla destra
(a metà parete circa) un
settore caratterizzato da
enormi strapiombi. Le soste sono rimaste tutte attrezzate (tasselli Ø 10 mm)
come pure i tratti superati
in arrampicata artificiale;
qualche chiodo in via. Per
una ripetizione prevedere,
procedendo con tecnica di
big-wall, almeno due giornate (data l’esposizione è
necessaria molta acqua).
Itinerario: vedi schizzo
(materiale consigliato: 2
corde da 50 m, 20 rinvii,
friend misure dal n° 2 al n°
5, chiodi vari, staffe, eventuali corde statiche per
attrezzare la parte iniziale
del pilastro).
Discesa: dalla cima scendere brevemente in direzione sud ed aggirare la
cuspide finale, sul suo versante ovest, traversando
su una stretta ed espostissima cengia (attenzione!),
sino a raggiungere una
non ben evidente, stretta
spaccatura. Passare faticosamente per la breve
galleria portandosi così
sul versante est del Kaga Pamari; con
una corda doppia di 40 m si raggiunge
un’ampia cengia che si percorre verso
nord sino al suo termine. Scendere, con
una corda doppia di 40 m, obliquamente
verso destra (faccia a monte) pervenendo
ad un aereo terrazzino; calarsi, con un’altra corda doppia di 40 m, raggiungendo il
cavo d’acciaio che collega il Kaga Pamari al Kaga Tondo. Lungo il cavo, con una
espostissima “tirolina” (traversata alla
corda) di 18 m circa, si perviene così alle
rocce dello zoccolo del Kaga Tondo.
Foto di Gruppo
Kaga Pamari - parete Sud
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cronache
TAGOUJIMT N’TSOUIANT
(LA “CODA DELL’AVVOLTOIO”) 2977 m
Parete: NE
Via: “Anna e Fiorenza”
25/26 ottobre 1993
Difficoltà: TD; roccia ottima sino all’anfiteatro, buona ma con vegetazione sino
alla cima
Dislivello: 600 m
Orario prima salita: ore 11; bivacco in vetta
Materiale impiegato: 13 chiodi di passaggio e 12 chiodi di sosta; nut e friend medio-larghi
Salita da: Gianni Bavaresco,
Giuliano Bressan e Almo Giambisi.
grandi cenge che ne solcano il lato destro
sono percorse dalle capre e la notte brillano dei fuochi di bivacco accessi dai pastori berberi.
Il nuovo itinerario si sviluppa a sinistra del
grande sperone centrale, sulla riga di destra, delle due ben evidenti righe biancastre che scendono dall’anfiteatro centrale
e prosegue, obliquamente a sinistra, per
una grande rampa-canale che dall’anfiteatro sale sino alla cresta sommitale.
Accesso: da Tarhia raggiungere il piccolo
passo a nord dell’Oujdad e scendere verso l’akka n’Tarhia; attraversarlo e risalire
un largo pendio, con vegetazione mediobassa, sino alla base della grande parete.
L’attacco della via è situato circa 30 m a
destra di una caratteristica grande grotta
e si raggiunge risalendo un breve zoccolo
roccioso (80 m circa di dislivello - passaggi di II). Da Tarhia: ore 1 - 1,30.
Itinerario: salire direttamente lungo la
riga biancastra su roccia liscia e compatta fino ad un terrazzino; sosta 1. 50 m, IV,
V- e IV (sosta fornita da uno spit - probabile tentativo francese).
Traversare 2 m verso destra, superare un
liscio strapiombo e salire direttamente su
belle placche sino ad un comodo terrazzo; sosta 2 (un chiodo - lasciato). 50 m, V,
V+ e IV.
Proseguire direttamente per 15 m circa e
traversare poi obliquamente verso destra
(un chiodo - lasciato); superare uno strapiombetto e nuovamente in obliquo verso
sinistra, aggirando una strapiombante
parete, raggiungere un terrazzo con albero; sosta 3. 40 m, IV e V.
Traversare 2-3 m a sinistra e salire direttamente un verticale pilastro; al suo
termine proseguire obliquamente verso
sinistra sino a raggiungere una piccola
nicchia; sosta 4. 50 m, V, V+ e IV.
Ci si trova sotto a grandi e compatte
placconate; proseguire per l’unico punto
vulnerabile offerto da un’esile fessura
che si risale per 30 m fino a raggiunge-
Il Tagoujimt con la via Anna e Fiorenza
Il Tagoujimt è l’immensa parete che chiude verso sud-ovest il circo di Tarhia ed è
anche la cima più alta di questo imponente e maestoso complesso roccioso. Le
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cronache
re una cengetta; traversare brevemente
verso sinistra ed entrare nel sovrastante
colatoio; superando uno strapiombetto,
pervenire infine alla sosta, sopra ad un
masso incastrato; sosta 5 (un chiodo - lasciato). 50 m, VI.
Proseguire lungo un corto diedro; superare sulla destra un liscio strapiombo
(un chiodo - lasciato) e obliquando leggermente verso sinistra raggiungere un
aereo ballatoio sottostante ad uno strapiombante pilastro; salirlo direttamente
(un chiodo - lasciato) fino ad una cengetta;
sosta 6 (clessidra; un cordino - lasciato).
50 m, VI, passaggi di A1.
Salire prima direttamente, poi obliquamente verso sinistra, in direzione dell’ampio anfiteatro; sosta 7. 50 m, III e II.
Superare l’anfiteatro per facili roccette,
tratti detritici e gradoni erbosi; sosta 8
(spuntone). 50 m, passaggi di II.
Salire per brevi pareti e caminetti in direzione della grande rampa-canale che solca la parte superiore della parete; sosta
9. 50 m, III e IV.
Superare, aggirandolo sulla destra, un
piccolo strapiombo ed entrare nella rampa- canale; lungo questa, superando irregolari diedrini e lisci camini, raggiungere
una piccola terrazza; sosta 10. 50 m, V,
IV+ e IV.
Dapprima per una verticale placca e successivamente per un largo camino, si
perviene ad una larga cengia; sosta 11. 50
m, IV e III.
Percorrere facilmente la cengia verso sinistra per 30 m circa raggiungendo la linea di camini e fessure su cui salgono le
ultime tre lunghezze della via “la fessura
diagonale” (B.Foucher e P. Gleizes - 12/13
ottobre 1975); salire dapprima lungo un
grande camino, poi lungo una serie di corte fessure, sino ad una cresta; per questa
facilmente, all’ampio plateau sommitale;
150 m circa, V, IV, V, IV e III.
E’ altresì possibile, percorrendo lungamente la cengia verso destra, pervenire
al canalone dove passa la via di discesa.
N.B. Nella relazione è indicato solo il materiale lasciato in parete.
Discesa: dalla sommità del vasto altopiano scendere verso ovest sino ad una ben
marcata forcella che porta sul versante
di Tarhia. Seguire una larga cengia orizzontale per un lungo tratto verso ovest
sino ad un primo canalone; non scendere
lungo questo, ma proseguire sino ad un
secondo canale. Seguirlo sulla sinistra
(idrografica) sino al suo termine. Traversare verso destra (idrografica) ed entrare in un terzo ampio canalone; scendere
lungamente, per gradoni e facili paretine,
superando due tratti verticali (possibilità
di effettuare due calate a corda doppia
di 25 m - ancoraggi naturali), sino ad un
ultimo salto. Traversando brevemente
verso sinistra (idrografica), si raggiunge
uno sperone roccioso; per facili gradoni
erbosi, si perviene infine, alla base della
parete. Ore 3 circa.
(Relazioni di Giuliano Bressan)
Giuliano Bressan
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dialoghi
dialoghi
AD ARQUÀ IN COMPAGNIA DEL PETRARCA
pire certe sfumature o per interessarsi
di qualcosa che sembrava appartenere
al passato. Avvicinandomi ad Arquà,mi
sentivo un po’ emozionata al pensiero che
molto probabilmente avremmo fatto lo
stesso sentiero che chissà quante volte
aveva fatto Francesco Petrarca e così ho
voluto fare un confronto fra noi Veterani e
lui. Mi sembrava di vederlo proprio come
si descrive nel sonetto
L’
“Solo e pensoso”
Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l’arena stampi.
(dove l’impronta dell’uomo segni il
terreno)
Altro schermo non trovo che mi scampi
(altra difesa non trovo che mi salvi dal
fatto che gli altri si accorgano della mia
passione per Laura)
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’allegrezza spenti
di fuor si legge come io dentro avvampi;
escursione nei dintorni di Arquà Petrarca ha risvegliato in me i ricordi
della mia vita da insegnante, ricordi che,
dopo essere andata in pensione tre anni
fa, avevo rimosso per dedicarmi ad interessi completamente diversi,come se cominciassi una nuova vita.
Andando in macchina verso Arquà, cercavo di farmi ritornare alla mente i versi di
qualche poesia che avevo obbligato i miei
allievi ad imparare a memoria, ma, con
grande mia costernazione, non mi veniva
in mente niente. E pensare che ogni anno
per sedici anni a ragazzi diversi l’avevo
spiegata e l’avevo richiesta ad ognuno di
loro. Poi invece indagando fra le pieghe
della mia memoria, pian pianino sono
riuscita a ricostruire due sonetti che mi
erano piaciuti tanto e che avrei volentieri comunicato ai miei compagni Veterani,
perché avessero un approccio più ricco e
più completo con la realtà del paesaggio
che avremmo visto.
sì ch’io mi credo omai che monti e piagge
(terreni)
e fiumi e selve sappian di che tempre
(genere)
sia la mia vita ch’è celata altrui.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so, ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io con lui.
Arrivata al punto di ritrovo, ho constatato che l’atmosfera brulicante ed effervescente che prevaleva, non era quella più
adatta alla poesia.
Però non voglio rinunciare a rendere partecipe del piacere che dà la poesia, chi
magari si sente più disposto alla meditazione o chi anche solo vuole rinverdire
i suoi ricordi sbiaditi di un programma
svolto malvolentieri a scuola, in un’età in
cui non c’era ancora la maturità per ca-
Vediamo dunque il Petrarca camminare
lentamente in luoghi deserti, cercando di
evitare la gente, perché questa non si accorga di quanto egli soffra per l’amore di
Laura (che non lo ricambia) e per questo
sentimento che lui considera peccaminoso,
in accordo con la mentalità del suo tempo.
Ma il poeta non riesce a trovare luoghi così
selvaggi, in cui non sia seguito sempre
dall’Amore, che però continuamente parla
con lui e con cui egli del resto ama parlare.
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Il confronto coi Veterani mi pare che evidenzi qui un netto contrasto.
Intanto questi non sono soli (in questa
escursione addirittura ci ritroviamo in un
centinaio).
Non sono neanche proprio molto assorti nei loro pensieri, o almeno così non
pare, a giudicare dall’allegro intrecciarsi
dei loro discorsi. È vero però che spesso
camminando si discute di argomenti seri,
visti naturalmente da diversi punti di vista.
Comunque fra di noi, quando si parla, in
genere non c’è voglia di drammatizzare e
si condisce il tutto con l’ironia. Del resto
noi pensionati ora forse ci sentiamo fuori
dalla mischia e ci possiamo permettere di
vedere le cose con un certo distacco.
Il Petrarca qui fa un paragone fra lui e un
vecchio pellegrino.
Come questo con grande sacrificio va a
Roma per vedere l’immagine di Cristo,
così lui va in cerca di qualche donna che
almeno assomigli un po’a Laura.
A noi però interessa il “vecchierel canuto e bianco”, perché, a parte il
termine”vecchierel” che forse a parecchi
sarà poco simpatico, anche fra i Veterani
a volte c’è qualcuno che la famiglia cerca
di trattenere a casa, perché non vada ad
affaticarsi o addirittura a farsi del male,
mentre lui, magari trascinandosi perché
ha male ad un ginocchio o ad un’anca o
ad un piede o ad una caviglia, non vuole
rinunciare, e, per quanto gli è possibile , si
aiuta con la buona volontà, pur non avendo in pieno tutte le sue forze a causa
dell’età.
Un altro sonetto che mi veniva in mente
era
“Movesi il vecchierel”
Movesi il vecchierel canuto e bianco
(pallido)
del dolce loco ov’à sua età fornita (dal
luogo a lui tanto caro dove ha passato la
sua vita ormai quasi finita)
e da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;
Il Petrarca visse ad Arquà nell’ultimo periodo della sua vita, dal 1370 al 1374, dai
66 anni ai 70, quindi anche lui, quando
percorreva questi sentieri, rientrava nella fascia d’età di noi Veterani.
Sarebbe bello incontrarlo e camminare
per un po’ al suo fianco, conversare amabilmente con lui parlando dei tempi passati e di quelli più recenti, e magari anche
di donne, come fanno a volte i Veterani…
indi traendo poi l’antiquo fianco (di lì
trascinando con fatica le sue vecchie
membra)
per l’estreme giornate di sua vita
quanto più pò col buon voler s’aita (si aiuta)
rotto dagli anni e dal cammino stanco;
Gabriella Rossignoli
e viene a Roma, seguendo ‘l desio,
(desiderio)
per mirar la sembianza di Colui
(per vedere l’immagine di Cristo impressa
nel velo della Veronica)
ch’ancor lassù nel ciel vedere spera:
così, lasso, talor vo cercand’io,
Donna, quanto è possibile in altrui
la disiata vostra forma vera.
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REDAZIONE
La Redazione informa che la stessa, per meglio rispondere alle esigenze
di una più attenta e veloce comunicazione, si è allargata ed è ora così
composta:
Giovanni Piva (direttore responsabile), Lucio De Franceschi (vice direttore),
Francesco Cappellari (redattore e responsabile sito web), Federico
Bernardin (informatico sito web), Giuliano Bressan, Daniela Grigoletto,
Luigina Sartorati, Caterina Secco, Tonino Tognon, Leri Zilio (redattori).
Chi volesse collaborare è pregato di scrivere a: [email protected]
SITO WEB
la nuova Redazione, oltre ad occuparsi del Notiziario, curerà maggiormente
il sito internet www.caipadova.it in modo da dare ai soci e non soci notizie
più tempestive sul mondo della sezione e della montagna in genere.
La Redazione crede che entrambe gli strumenti abbiano la loro funzione.
Il Notiziario continuerà a pubblicare cronache, dialoghi, esperienze
alpinistiche mentre il sito internet si occuperà di aggiornare maggiormente
i soci sulle iniziative derivanti dalle varie commissioni del CAI Padova,
oltre a news di altre realtà del mondo della montagna.
Attendiamo quindi i vostri articoli e le vostre foto entro il
20 settembre 2010 su [email protected]
CONSIGLIO DIRETTIVO 2010
PRESIDENTE RAGANA ARMANDO
VICE PRESIDENTE FERRO ODDO
SEGRETARIO SARTORATI LUIGINA
TESORIERE SORAVIA ANGELO
CONSIGLIERI
BARATELLA VALERIA, BERIOTTO RENATO, BERNARDIN FEDERICO, CAPPELLARI FRANCESCO,
DE FRANCESCHI LUCIO, EDIFIZI STEFANO, GOBBIN CRISTIANO, MAGRO PAOLO,
MARRONE MICHELE, MONTECCHIO GIANNI, TOGNON TONINO, TOSATO ANTONIO,
VENTURATO RAFFAELLO, ZECCHINI GIORGIO
REVISORI DEI CONTI
CURTARELLO AUGUSTO, LAZZARIN LUIGI, MUNARI GIANFRANCO,
DELEGATI
RAGANA ARMANDO presidente
CARRARI LUCIANO, FANTIN STEFANO, MASTELLARO ANTONIO, SARTORATI LUIGINA,
TOSATO ANTONIO, ZECCHINI GIORGIO
diario alpino
diario alpino
PATAGONIA: TORRI DEL PAINE E IL TREKKING A W
31 dicembre 2009, mezzo
panino ciascuno e qualche biscotto; niente male
come cenone di S. Silvestro al Campamento Italiano allo sbocco della
Valle dei Francès sotto i
Cuernos del Paine, curiose
e mastodontiche strutture
bicolori metà granitiche e
metà basaltiche.
Siamo al primo giorno di
quello che è uno dei trekking più celebrati nel Parco delle Torri del Paine e
della Patagonia ed è possibile definirlo ancora “discretamente selvaggio” in
quanto i punti d’appoggio
fissi tipo rifugi, sono abbastanza distanziati ed è
quindi giocoforza portarsi
tutto a spalla compresi viveri e tenda.
E una buona tenda in quanto, come tutti i libri narrano e abbiamo avuto modo
di provarlo, il vento della
Patagonia mette a dura
prova teli e paletti oltre
che visi e mani.
Perché trekking a W? Questo percorso che passa tra
una serie di laghi dai diversi colori, si incunea in due
profonde vallate, una che
porta sotto le Torri del Paine e l’altra che, lambendo i Cuernos, porta nella
zona del Cerro Catedral e
del Cerro Fortaleza. E così
il primo dell’anno eccoci
a percorrere la Valle dei
Francès fino a raggiungere, dopo una poliedrica e
ruvida camminata (bosco,
terreno erboso, morena),
un “mirador” dal quale
Il Glacier Grey
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possiamo ammirare questi
stupefacenti scudi rocciosi
che mettono bene in mostra le loro lisce e verticali
pareti, a sfidare gli eterni venti che tormentano i
pochi alberi e flagellano
spigoli e creste. Al Campamento Inglese i nostri
discorsi si concentrano sui
primi “pionieri-alpinisti”
che hanno affrontato tali
avversità e quindi facciamo
a gara nel ricordarci i vari
Guido Monzino e Armando
Aste fino ai più recenti Fabio Leoni e Mario Manica
che su queste vette hanno
scritto pagine di storia alpinistica.
E che dire del Lago Grey,
imponente e finale bacino
naturale del frastagliato ed omonimo ghiacciaio
che con i suoi crepacci “lamellari” lambisce le pareti rocciose subito sopra il
simpatico ed appartato rifugio in perfetto stile alpino.
E non poteva concludersi
in modo migliore questo
trekking a W; in una giornata insolitamente radiosa
e soleggiata giungiamo alla
base delle Torri del Paine;
osserviamo rapiti queste
monolitiche costruzioni e
il grazioso laghetto glaciale che sembra sostenere questi spavaldi pilastri
granitici solcati da vertiginosi diedri e strapiombanti
fessure.
Viene spontaneo allora tornare indietro con la mente
di qualche giorno quando,
dopo aver effettuato i classici approcci ai campi base
del Cerro Torre e Fitz Roy,
osservavamo con il naso
all’insù questi altri capolavori naturali che facendo capolino tra le nuvole
sembravano gareggiare in
slancio e arditezza con le
Torri del Paine. Difficile e
anche inutile fare dei paragoni, l’unica vincitrice qui
è solo la Patagonia questa splendida terra divisa
tra Cile e Argentina che da
sempre ha attratto coloni,
commercianti ed esploratori, alpinisti e semplici
turisti.
Questa splendida terra
che ti abbraccia con le sue
montagne e i suoi laghi,
che non sempre ti lascia
vedere ciò che vorresti,
che ti accoglie tra i suoi
boschi tra alberi piegati
dal vento e una moltitudine
Fitz Roy e Cerro Torre
Al lago del campamento Torre
di uccelli che danno vita a
questi luoghi, severi posti
ai margini del mondo.
Certo sono tramontati i
tempi in cui mosse i primi
passi da esploratore il De
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Agostini, ma anche luoghi
ormai “iperturistici” come
il Ghiacciaio Perito Moreno
o il Lago Argentino possono assumere l’aspetto di
“porta d’ingresso” di que-
diario alpino
sto mondo, un modo per
capire questo territorio
formato da ghiacciai che
muoiono dentro specchi
d’acqua per rivivere poi in
contorti iceberg vaganti
come fantasmi sulle grigie
acque dei diversi laghi.
Ultima tappa Puerto Natales, piccolo, accogliente
e ventoso (ma và!?) paese
di pescatori posto vicino al
Parco delle Torri del Paine. Un paese fatto di case
prefabbricate rivestite di
lamiera ondulata di vari
colori, stretto tra il “Seno
de Ultima Esperanza”, un
fiordo che con percorso
molto contorto lo mette
in contatto con il Pacifico,
e la leggenda del Milodòn,
un bradipo gigante preistorico i cui resti sembrano essere stati rinvenuti in
una grotta nelle vicinanze
del paese.
Qui, come in parte a El Calafate o ad El Chalten, si
respira ancora l’aria dei
primi coloni che nel tardo
‘800 cominciarono ad arrivare in Patagonia; e allora vengono in mente i vari
Bridges ed Eberhard che
iniziarono l’attività di allevamento di pecore vivendo,
lavorando e coinvolgendo i
nativi di questi luoghi. Oggi
gli Yahgan, gli Haush e gli
Ona non esistono più, di
loro rimane solo qualche
sbiadita fotografia nel grazioso museo di Puerto Natales.
Rio Gallegos: ci siamo arrivati con il bus da Punta
Arenas attraversando la
parte più piatta della Pa-
diario alpino
tagonia. Questa anonima
cittadina ci accoglie con
la sua polverosa periferia
infestata da sacchetti di
plastica trascinati via dal
vento e trattenuti dai bassi
arbusti della pampa.
Rio Gallegos perché quando ancora non esistevano
né El Calafate né tantomeno El Chalten (quest’ultimo
paese è nato praticamente
nel 1985), le prime spedizioni di Cesare Maestri,
Walter Bonatti, ecc. partivano da qui in camion per
raggiungere il Cerro Torre
e le vette della Cordigliera Patagonica. E da qui
noi partiamo per tornare a casa e finalmente, in
aereo, non sentiamo più il
vento che ininterrottamente ci ha accompagnato in
questa nostra escursione.
Lucio De Franceschi
Con l’approvazione e la
partecipazione
emotiva
di Gianni Capaldo, Elena
Guabello e la famiglia Facco Daniela, Elena, Alberto
e Francesco.
P.S.: a chi si reca in Patagonia per la prima volta,
consiglio di leggere prima
della partenza:
G. Buscaini, S. Metzeltin:
Patagonia, Terra magica
per viaggiatori e alpinisti
Corbaccio Ed.
E. Lucas Bridges: Ultimo
confine del mondo, Viaggio
nella Terra del fuoco
Einaudi Ed.
Vita dura ...!
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diario alpino
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Le Torri del Paine
diario alpino
diario alpino
POTREI RACCONTARE
Oppure delle serate passate a bere tè fuori dalla tenda (almeno quattro tè al giorno
a testa), tutti infreddoliti nelle giacche a
vento;
Oppure delle quattro case battute dal
vento di El Chalten, sperduta e deserta,
e del locale in cui si mangiava volentieri e
ancora più volentieri si beveva.
Ma non sono che istantanee, ricordi di un
momento, frammenti di un’esperienza
Volendo descrivere la Patagonia, potrei
raccontare di quando ci rifugiammo dietro un muricciolo di sassi sulla morena;
davanti a noi il lago glaciale, dietro la foresta, il vento a raffiche furibonde e noi
ad aspettare che le nuvole si diradassero,
e poi davanti ai nostri occhi, in un istante,
il Cerro Torre magnifico con le pareti vertiginose e il picco proteso nel cielo.
Oppure potrei dire di quando piantammo
le tende al Campo Italiano, sulle Torres
del Paine, e dal ghiacciaio che chiudeva la
valle franavano le seraccate con un rombo cupo, come di tuono, che rompeva il
silenzio della foresta (qui festeggiammo
il capodanno con una cena a base di panettone).
Potrei raccontare delle ore passate a
guardare dal finestrino la pampa sempre
uguale a se stessa, o potrei descrivere la
massa immensa del Perito Moreno, che
da secoli affonda nel lago Argentino, con i
suoi settanta metri d’altezza, e le sue lame
di ghiaccio azzurro.
Potrei dire di quando col sudore sulla
schiena arrivammo ai piedi delle Torres
del Paine, tre pale grandiose svettanti nel
cielo, e sedemmo tutti insieme stanchissimi e soddisfatti.
che non sanno descrivere se non con la forza evocativa di un odore, un suono, una luce.
Non avrei raccontato cos’è la Patagonia.
E allora dirò: immagina un deserto, nessun
suono all'infuori del vento sull'erba morta,
sui cespugli spinosi, in cui ogni rara strada è
un filo teso fra due luoghi umani attraverso la
desolazione.
Immagina ghiacciai che si perdono fin dove
l'occhio vede, e foreste contorte dai secoli, e
gelidi laghi e picchi inviolabili. Questa è la Patagonia; una terra di spazi immensi e silenzi
sconfinati, in cui il vento si ripete da millenni,
e lo sguardo si perde nella solitudine.
Elena Facco
I Cuernos
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diario alpino
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GAVARNIE, L’EMISFERO DI GHIACCIO
Il Cirque du Gavarnie
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diario alpino
È proprio questa la sensazione che si ha quando,
dopo 1350 km di autostrade italiane e francesi, ed
essersi introdotti nel cuore dei Pirenei alle spalle
della religiosa Lourdes, si
approda a Gavarnie, piccolo villaggio francese a
pochi passi dal confine
spagnolo.
Dietro le case si erge il famoso Cirque du Gavarnie,
un vero emisfero roccioso
che in inverno si tappezza
di ghiaccio.
Giacomo Benacchio su Ice Folle
Le cascate più alte d’Europa, recita la pubblicità turistica. Quelle che in un solo
salto (o quasi) giungono a
terra sono alte più di 500
metri. Se uniamo l’altezza
alla quota e all’esposizione troviamo la fabbrica del
ghiaccio. Colate a breve distanza, la più corta di 300
metri, una vera overdose.
L’avventura ha inizio in
sordina. Dopo una mancata vacanza in Islanda saltata per scarsità di adepti,
ci ritroviamo in otto dentro
automobili cariche di ogni
cosa, dalle piccozze, agli
sci, alle ciaspe. Perché
non si sa mai che condizioni troveremo.
E in effetti non sono delle
migliori, a parte il primo
giorno. Usciamo dal rifugio che è ancora buio. Le
cascate, ci dicono, sono dei
veri viaggi, è meglio prendersi per tempo.
Tre cordate per tre cascate diverse, a pochi metri
l’una dall’altra ma ognuna
con simili caratteristiche.
Facciamo a gara per prenderci la più bella.
Il freddo oggi è intenso e
il tempo bellissimo. Parte
Jack per un tiro che gli dà
del filo da torcere. I polpacci, atrofizzati dalle lunghe
ore passate in auto e usati
al massimo per frenare ed
accelerare, sono di punto in bianco messi sotto
pressione dalle punte dei
ramponi che entrano per
pochi millimetri. Le braccia non sono più rilassate.
Bisogna andare veloci vi22
diario alpino
sta l’altezza della parete.
In verità il Circo di Gavarnie, con la sua forma a ferro di cavallo, è alto circa
1000 metri ed è diviso in tre
grandi gradini. Quello più
basso ha qualcosa come
una ventina di cascate, la
più corta di 240 metri, la
più lunga di 550 metri. Il
secondo gradino, collegato
da un lungo pendio di neve,
ha una decina di colate di
altezza attorno ai 250 metri, mentre l’ultimo, il più
colossale, sale strapiombante e roccioso con una
sola via di uscita glaciale.
Il tutto crea una bieca e
sinistra apprensione. L’intera montagna ti avvolge
e ti circonda. Appena ti sei
alzato senti il “grande” in
tutte le direzioni e ti è necessaria la concentrazione
sulle cose che sai fare altrimenti rischi di lasciarti
travolgere dall’ambiente.
Un’altra lunghezza ci fa
avvicinare all’uscita del
primo gradino, poca cosa
in confronto al tutto, ma
abbastanza per noi poveri
italiotti venuti dall’est.
La vista di Ettore e Daniela
sulla cascata di destra e le
voci di Giovanni e Michele
su quella di sinistra ci fa
sentire meglio in questo
scivolo sempre più ripido.
Usciamo e quasi contemporaneamente ci salutiamo in cima, cioè sulla prima grande cengia.
La parte alta è ancor più
impressionante da qui.
Le distanze da lontano ci
avevano ingannati. Per ar-
rivare al secondo gradino
ci vorrebbero almeno due
ore di camminata sulla
neve profonda. Per fortuna non era nei nostri piani
questa “scammellata” così
ci appropinquiamo alle numerose corde doppie che
ci aspettano. E quando tocchiamo terra è pomeriggio
inoltrato. Giusto il tempo
di cambiarsi gli scarponi,
attaccarsi gli sci ai piedi ed
infilarsi nella traccia di andata. Arriviamo al nostro
rifugio che ormai è quasi buio. Non c’è che dire,
niente male come prima
uscita.
Confidiamo che domani il
tempo sia brutto. E così è.
Una bufera di vento e neve
ci coglie oltre il margine
superiore delle piste da sci
di Gavarnie. Il nostro intento sarebbe stato quello
di andare ad ammirare la
famosa Breche du Roland,
profonda spaccatura incisa con un colpo di spada
da Rolando per scappare
dai vicini Spagnoli che volevano catturarlo. Non ce
la fecero anche perché da
questa parte Rolando, inforcati gli sci, scese velocemente grazie alle piste
tirate a biliardo. Ci accontentiamo della Cima des
Pierres, così chiamata per
un paio di ometti di dimensioni umane nati spontaneamente proprio in vetta. Per la discesa tiriamo
fuori gli occhialini 3D che
ci fanno vedere le vere dimensioni dei pendii avvolti
nella bufera.
Ettore Bona sulla lunghezza chiave della Cascade des Banzayous
Giorno 3: piove! Va bene il
riposo ma non troppo. Ora
sta cominciando a rompere questo brutto tempo. Ci
sgranchiamo le gambe en23
trando incappucciati in una
valle selvaggia dove ci hanno detto ci sono delle cascate vicino alla stradina.
Scopriamo che è proprio
diario alpino
diario alpino
Da sin. Michele Stockner, Daniela Grigoletto, Ettore Bona, Giovanni Cesare, Stefano Ferro,
Roberta De Lorenzo, Francesco Cappellari, Giacomo Benacchio
vero, peccato che siano
alte 10 metri. E così, sotto
la pioggia (e chi sa di montagna sa che non è molto
divertente arrampicare con
la pioggia) andiamo su e giù
per allenare il fisico a future conquiste.
Peccato che l’umidità non
faccia molto bene ai cinquantenni e così già dalla
notte mi ritrovo steso e dolorante alla schiena. Se mi
giro a destra soffro, se mi
giro a sinistra peggio. Andate ragazzi, io sto qui a lavorare al computer che ne
ho di cose da fare…!
Il tempo naturalmente è
stupendo e c’è chi va a sciare sulla neve fresca caduta
ieri e chi va a scalare sul
ghiaccio. Mi alzo con difficoltà, guardo fuori dalla
finestra. L’aria corre veloce
e pulisce il cielo e sembra
spingere anche me fino
in camera, mi fa calzare i
pantaloni d’arrampicata,
un altro soffio di vento mi
fa mettere la giacca e un
altro ancora mi fa infilare
calze e scarponi. Cavolo, mi
tocca uscire anche col mal
di schiena. Un’ora e mezza per arrivare al Circo e
constatare che è pura follia
arrampicare. Tutto è impiastricciato di neve e continue
valanghe spazzano la gradinata fino a terra. I miei
amici si sono fermati all’ingresso, di fronte al Refuge
du Cirque, dove un paio di
corte cascate fanno da sentinella. Saranno anche corte ma cavolo che dure! Per
fortuna ho mal di schiena
e mi tocca arrampicare da
secondo.
Bene ragazzi, se domani è
ancora bello facciamo un
24
altro cascatone e poi la settimana si può dire bella piena, ce ne possiamo tornare
a casa in forma e realizzati.
E il tempo conferma le
previsioni: pessimo! Le alternative che ci restano
sono: torneo a carte, giochi
francesi incomprensibili,
ennesima lettura della guida “Gavarnie, cascadas de
hielo-cascades de glace”
già ormai oltre la normale
usura. Ma non era a colori
quando l’ho comprata l’altro giorno?
Votiamo e a maggioranza
assoluta, decidiamo di andare via da questo buco di
maltempo. I Pirenei, vicini
al mare e alla Spagna, vicini
a Lourdes… nulla è servito
a far venir fuori il sole.
Ce ne andiamo sulle Alpi
che lì è sempre bello!
E infatti ad Argentiere la
Bessée, dopo circa 10 ore di macchina,
piove. Ma le previsioni qui sono più ottimiste. Danno bello e il bello arriva.
Una fantastica giornata di sole ci vede con
il sacro fuoco sulle gambe e la speranza
nel cuore inoltrarci nel famoso vallone di
Fournel. Qui c’è l’imbarazzo della scelta:
più di 150 cascate di tutte le difficoltà, sia
a destra che a sinistra della valle, con un
avvicinamento non troppo lungo.
E poi ci sono già stato negli anni ’90 durante i meeting di arrampicata su ghiaccio, lo conosco bene il Fournel. Entriamo
con buon passo. Io voglio fare questa, tu
fai quella, voi andate un po’ più avanti, ok?
Ok.
Ma il Fournel non vede l’ora di cucinarci
per bene, ora capiamo perché si chiama
così. Ci illude facendoci trovare un’iniziale bella traccia che porterà dritta dritta
alla base del ghiaccio e ci fa gioire della
fantastica neve fresca caduta anche qui
nei giorni scorsi. Ma dopo due ore e mezza passate a scavare un solco sempre più
profondo e ad imprecare per gli sci e le
ciaspe lasciate a riposare in macchina, ci
arrendiamo. Di questo passo il ghiaccio lo
tocchiamo domani mattina. Per fortuna
vicino al parcheggio c’è una cascata, Hiro-
shima, una vera bomba atomica per il nostro morale che fa pace con il chimerico
ghiaccio d’oltralpe.
Francesco Cappellari
GAVARNIE ICE & SNOW TOUR 2010
Partecipanti:
Giacomo Benacchio (Padova)
Ettore Bona (Tambre BL)
Francesco Cappellari (Padova)
Giovanni Cesare (Spilimbergo)
Roberta De Lorenzo (Quarto d’Altino VE)
Stefano Ferro (Quarto d’Altino VE)
Daniela Grigoletto (Padova)
Michele Stockner (Merano)
SALITE EFFETTUATE
Cascate:
Fluide Glacial – 280 m – IV 4+
Ice Folle – 300 m – IV 4+
Cascade des Banzayous – 300 m – IV 4+
Free Standing – 50 m – II 5
Hiroshima – 150 m – II 4+
Sci alpinismo:
Pic entre les Ports 2476 m - 800 m - BS
Pic de Tracens 2551 m - 1200 m - BSA
Giacomo Benacchio raggiunge la
prima cengia del Cirque du Gavarnie
Daniela Grigoletto batte traccia nel
Vallone di Fournel
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diario alpino
diario alpino
ACONCAGUA 2010, ANCORA BUCA
La prima volta che ci provai
fu nel 2004, con Lorenzo
Marchi, Mario Santuliana,
Maurizio Manno. Negli anni
precedenti con loro avevo
salito vari seimila finendo
in bellezza in Bolivia con
la salita dell’Illimani; una
montagna di quasi 6.500
m. Era sempre andato tutto benissimo: viaggi interessanti, cime salite senza
problemi, giornate calde e
ben soleggiate ma sempre
con gran fatica.
A quel punto decidemmo
scherzosamente di non faticare più per un seimila:
avremmo tentato un settemila o ci saremmo accontentati di cime più basse
ma meno faticose.
A settembre 2003 Lorenzo mi chiamò: “ Ciao Angelo, riesci a prenderti
tre settimane tra gennaio
e febbraio?”, “per fare?”
“l’Aconcagua”.
L’Aconcagua oltre ad essere la montagna più alta
di tutto il continente americano e di tutto l’emisfero
meridionale, è la più alta
montagna e l’unico settemila della Terra al di fuori
dell’Asia. Non è proprio un
settemila, con i suoi 6962
m è un settemila mancato:
un “quasi settemila”.
Il massiccio si trova nella
Ande Argentine della provincia di Mendoza vicino
alla frontiera con il Cile,
all’interno del Parco Provinciale Aconcagua.
La vetta fu raggiunta per la
26
prima volta nel 1897 dallo
svizzero Matthias Zurbriggen, una guida alpina della
spedizione guidata da Briton Edward Fitzgerald, che
operava a Macugnaga,.
In passato alcuni padovani hanno tentato la salita,
ma soltanto Leri Zilio e Nicola Bonaiti sono riusciti
nell'impresa.
Le principali vie di salita
sono: la via del ghiacciaio
dei Polacchi, le creste sud
e sud-est con vie di notevoli difficoltà alpinistiche e
le via normali.
Le vie normali non presentano particolari difficoltà
tecniche, i rischi maggiori sono legati alla quota
ed alle brusche variazioni
meteorologiche.
Ambedue partono dalla strada
che collega Mendoza a
Santiago, pochi chilometri prima del confine Cile
– Argentina: una a Punta
de Vacas (2408 m), l’altra,
quella classica e molto più
frequentata, a Puente del
Inca (2717 m) e segue la
valle del Rio Horcones.
Nel 2004 tentammo la
salita per la via normale
classica.
Arrivati al campo Nido de
Condores (5500 m ca), per
acclimatamento salimmo
fino al Campo Berlin (5900
m ca), ma ritornati al Nido
fummo avvisati dell’arrivo
di una perturbazione che
avrebbe reso pericoloso
qualsiasi tentativo e che
sarebbe durata almeno
tre giorni. La prendemmo
con filosofia, ci infilammo
in tenda uscendo di tanto
in tanto sfruttando sprazzi di sereno, cercando di
far passare al meglio i tre
giorni.
doli tornare avvisarono il
soccorso che passò la notte a cercarli. Trovarono i
loro corpi alla mattina sotto un masso dove avevano
cercato riparo. Si erano
persi e la fatica e il freddo
La parete sud dell’Aconcagua
La sera del secondo giorno,
alcuni membri del soccorso andino vennero a chiederci se avevamo qualche
sacco a pelo in più. Quella
mattina due alpinisti tedeschi, scambiando forse
alcune ore di sereno per
il bel tempo, erano partiti
per la cima. La notte prima
una abbondante nevicata
aveva coperto tutto e resa
faticosa la progressione.
Alla sera i compagni di accampamento non veden27
della notte non li aveva risparmiati.
A questa brutta notizia si
aggiunse quella delle previsioni meteo che davano
almeno altri cinque giorni
di perturbazione, inoltre
dopo 4-5 giorni in quota
non eravamo proprio in
gran forma.
Decidemmo di scendere,
ce ne andammo in Cile a
visitare Santiago e Valparaiso.
diario alpino
diario alpino
I colori delle cime
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diario alpino
Il campo a Plaza de Mulas, sullo sfondo il rifugio
Pensavo di non ritornare
più da quella parti.
Invece in gennaio 2009 mi
telefonò Tonino Tognon
chiedendomi di ritentare
la salita. Con un gruppo di
amici l’anno prima aveva
salito l’Island Peak (6189
m) in Nepal e ora il gruppo
si sentiva pronto a provare
qualche cima più impegnativa. Conoscendo quella
cima li informai che c’era
una bella differenza: settecento metri di dislivello
in più e una organizzazione da vera spedizione, con
campi intermedi e portando su e giù il materiale a
spalla. Poi c’ero già stato,
prendere tre settimane di
ferie per tornarci non mi
andava proprio.
Mi convinse Mauro Cantarello: “In dicembre vado
in pensione, perché invece di tre settimane non ne
prendiamo sei, così dopo
l’Aconcagua andiamo a
Buenos Aires, poi a Iguazzu, poi in Patagonia, poi in
Terra del Fuoco, …” “Ok!”.
Così, dopo alcuni incontri organizzativi e un paio
di mesi di allenamento a
far salite e pestar neve, il
16 gennaio 2010 in sette
partiamo da Venezia per
raggiungere Mendoza in
Argentina.
Il gruppo è composto da:
Alberto Arzenton, Mauro
Cantarello, Augusto Curtarello, Sandro Guzzon,
Franco Longo, Tonino Tognon, e il sottoscritto.
Il viaggio è lungo, si devono
prendere tre voli: VeneziaRoma-Buenos Aires-Mendoza: trenta ore complessive delle quali sedici di
volo effettivo.
A Mendoza ci servono due
giorni per ritirare i permessi di salita, fare gli ac30
diario alpino
quisti dei generi alimentari, del gas, organizzare le
tappe di avvicinamento al
campo base e prenotare i
muli.
Di giorno si lavora, la sera
si va a ristoranti: con meno
di 10 euro, infinite bistecche e squisite grigliate con
ottimi vini di Mendoza, tra
i migliori dell’America Latina.
Finalmente il giorno 19
gennaio si parte in pullman per Penitentes (2599
m), piccolo insediamento
quattro chilometri prima
di Puente de Inca, dove ci
sono alcuni alberghetti, il
rifugio Cruz de la Cagna
(base di partenza per le
spedizioni) e il centro operativo della storica agenzia
dei Grajales che organizza
la logistica e il trasporto
con i muli per le tappe di
avvicinamento al campo
base.
Il luogo è desolato ma affascinante, colpiscono le
forme e i colori delle rocce.
Più avanti, un curioso fenomeno prodotto da acque
termali ricche di sali, ha
formato un ponte naturale
sul rio Mendoza utilizzato
dagli Inca per raggiungere Cuzco, la loro capitale.
È il Puente de Inca, luogo
dove si abbandona la strada Mendoza – Santiago per
raggiungere l’Ingresso del
Parco Regionale de Aconcagua.
All’ingresso del parco viene
effettuato il primo controllo
da parte dei guardaparco.
Controllano i permessi per
le attività previste: Trekking breve, Trekking lungo,
salita alla vetta (300 euro
a persona in dicembre e
gennaio).
Seguono le informazioni
principali: le immondizie
vanno riportate a valle, ma
si può fare un accordo con
l’agenzia che li riporta a
valle con i muli; i bisogni
vanno fatti negli appositi “bagni” allestiti nei due
campi attrezzati.
Al campo base, Plaza de
mulas, bisogna fare un
controllo medico per avere il consenso alla salita;
inoltre, verrà consegnato un apposito sacchetto
dove raccogliere i propri
bisogni durante la salita. Il sacchetto, numerato
e collegato al numero di
passaporto, dovrà essere
consegnato al rientro dai
campi alti.
Seguono altre informazioni: per la salita della cima
la percentuale di successo è del 20% distribuita in
modo molto disomogeneo.
A dicembre per esempio
su 302 permessi rilasciati
nessuno aveva raggiunto
la vetta, mentre i primi 10
giorni di gennaio, molti alpinisti ce l’avevano fatta.
Le previsioni meteo per
noi sono: buone per alcuni
giorni, poi per una settimana tempo variabile con
nuvole sulla cima e precipitazioni al pomeriggio,
quindi una settimana di bel
tempo ma con “muchissimo frio”. Il tutto da verifi-
care e controllare alla stazione internet installata al
campo base.
Una organizzazione ammirevole! In contrasto però
con quanto visto su YouTube (youtube -Aconcagua,
la spedizione italiana) in
occasione dell’incidente
accaduto agli alpinisti italiani nel 2009, e con altri
episodi accaduti a noi nei
giorni seguenti.
Passati questi primi controlli finalmente si inizia a
camminare.
Prima tappa il campo attrezzato di Confluencia
(3400 m).
Impieghiamo tre ore e
mezza a camminare passando dai prati della laguna Los Horcones, alle spianate sabbiose del campo
seguendo il Rio Horcones.
Ritroviamo i nostri borsoni con tende, materassini
e sacchi a pelo portati dai
muli. Il sole è a picco, fa
molto caldo, non c’è una
nuvola ne un arbusto dove
ripararci. Piantiamo le
tende, mangiamo in una
tenda-ristorante. Il giorno successivo lo utilizziamo per acclimatarci e ci
portiamo a 4000 m sotto
la parete sud dell’Aconcagua, quella ‘nobile’ con
imponenti ghiacciai e le vie
di salite più difficili.
Ritorniamo a Confluencia
e il giorno dopo, con una
lunga camminata di sette
ore raggiungiamo, Plaza
de Mulas (4370 m) accolti da una bufera di neve. I
muli possono arrivare fin
lì, scaricano i borsoni e ritornano a Puente de Inca.
Dal campo base in poi tutti i trasporti avvengono a
spalla. Il campo è abbastanza attrezzato, noi però
optiamo per una sistemazione in un rifugio a quaranta minuti dal campo: è
una struttura di setto/otto
anni ma già terribilmente
obsoleta. Comunque un po’
più confortevole dell’affollato campo.
Si cucina a 5500
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diario alpino
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Le cascate di Iguazzù
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diario alpino
Chi sarà il pinguino?
Il giorno successivo lo dedichiamo alle visite mediche e all’acclimatamento
muovendoci nei paraggi.
I controlli medici sono soddisfacenti perciò iniziamo
ad attrezzare i campi alti
utilizzando la prima parte della giornata perché il
pomeriggio nevica regolarmente.
Raggiungiamo prima il
campo Canada (5050 m)
dove portiamo tende, fornelli, gas, ecc ….
Il giorno successivo portiamo altro materiale al campo Alaska (5200 m) e, dopo
aver recuperato anche il
materiale lasciato al Canada, ritorniamo al rifugio
sotto una forte nevicata.
Il giorno dopo il tempo è
brutto. Ne approfittiamo
Colonia di leoni marini
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diario alpino
per riposare aspettando
le schiarite che arrivano il
giorno seguente, secondo
le previsioni.
Raccogliamo le ultime
cose e risaliamo al campo Alaska. Nel pomeriggio
raggiungiamo il Nido de
Condores (5500) e ritorniamo a dormire all’Alaska. Qualcuno comincia a
dare segni di cedimento.
Fa molto freddo e per sciogliere la neve e far bollire
l’acqua ci vuole molta pazienza.
Il giorno seguente portiamo il campo al Nido del
Condores dove ci fermiamo per permettere a tutti
di recuperare. La mattina
dopo ci saremmo dovuti
spostare al campo Berlin
(5900 m), fermarci a dormire e poi provare a salire la cima, ma qualcuno
continua ad avere problemi. Decidiamo quindi di
lasciare il campo a 5500.
Saliamo comunque al Berlin per acclimatarci, ma
torniamo a dormire al Nido
de Condores.
Arriva così il 31 gennaio,
giorno della salita finale.
Ci svegliamo alle quattro
per sciogliere neve e fare
un po’ di the; ma l’acqua
non bolle e ci dobbiamo
accontentare di liquidi tiepidi. Alle cinque partiamo,
siamo in sei, uno ha rinunciato ed è rimasto in tenda.
Ci precedono di poco un
gruppo di otto persone
(francesi con una guida)
e due ragazzi. Dopo un
po’ uno dei due ragazzi ci
aspetta per chiederci il
funzionamento delle bustine scaldamano. Glielo
spiego, ha le mani gelate ed è molto spaventato.
Chiama l’amico poi non li
abbiamo più visti, probabilmente sono scesi. In un’ora
e quaranta raggiungiamo il
campo Berlin (5900 m). Ci
fermiamo a riposare; dalle tende del campo escono altri due gruppi di due
persone e iniziano a salire.
Fa molto freddo e siamo
continuamente disturbati
da fortissime raffiche di
vento.
Due del nostro gruppo si
levano gli scarponi e cercano di scaldarsi i piedi
inutilmente, decidono di
scendere assieme a due
del gruppo dei francesi.
Proseguiamo in quattro; a
6100 m un altro dei nostri
decide di scendere assieme a tre del gruppo dei
francesi che nel frattempo abbiamo raggiunto. Ad
uno spiazzo poco prima di
un lungo traverso, campo
Independencia a 6300 m,
ci fermiamo nuovamente
dietro una parete al riparo dal vento. Due degli alpinisti che ci precedevano
sostano vicino a noi, mentre ciò che rimaneva del
gruppo di francesi inizia a
scendere.
Ci consultiamo, sono le
nove, il sole è già alto ma
la temperatura è ancora
a -25° e il vento, raffiche
continue a 45/60 Km/ora,
non accennano a diminuire. Stando alle indicazioni dateci dalle guide, da lì
Le colorate rocce andine
mancano ancora sette ore
alla cima e sei per ritornare al campo. Io sto discretamente ma non riesco a
scaldare le mani, anche gli
altri hanno qualche problema. Si potrebbe continuare ancora un po’ ma
senza pensare alla vetta.
Decidiamo di scendere, i
due seduti accanto a noi ci
seguono. Continua soltanto l’ultimo gruppo da due,
un ufficiale dell’esercito
argentino con la guida. Ci
seguiranno dopo mezz’ora.
Nemmeno per quel giorno
e per alcuni giorni successivi, nessuno raggiungerà
la cima.
Ritorniamo al campo, gli
altri sono chiusi nelle tende. Li facciamo uscire, utilizziamo l’ultimo gas per
farci una minestrina calda
e nel frattempo “leviamo
le tende”.
Dopo tre giorni siamo nuovamente a Mendoza: vino
e bistecche. Poi si parte
Foto di gruppo alla Laguna Los Horcones
35
diario alpino
• Puente del Inca, 2740 m. Si tratta di un
paese sulla strada principale, da cui ha
inizio l’ascensione vera e propria. Vi sono
diversi posti dove alloggiare, compreso
un rifugio.
• Confluencia, 3380 m.
Accampamento nel Parco, ad alcune ore
di marcia dalla partenza.
• Plaza de Mulas, 4370 m.
Campo base, con tende, docce, accesso
internet. C’è un rifugio a circa 500 m.
• Plaza Canadá, 5050 m.
Rifugio in posizione panoramica sopra
Plaza de Mulas.
• Plaza Alaska, 5200 m.
Detto cambio di pendenza, in quanto posizionato nel punto dove la pendenza della
salita cala improvvisamente. È un campo
predisposto per tende, ma non è molto
utilizzato.
• Nido de Cóndores, 5400 m.
Un vasto altipiano panoramico; normalmente, vi si trova accampato un guardiaparco.
• Berlín, 5900 m. Tipico campo d’alta
quota, ventoso ed esposto. È abbastanza
sporco, per cui molti andinisti lo evitano,
preferendo spostarsi un po’ più in alto, in
località Piedras Blancas.
Vista aerea del versante sud
per visitare Buenos Aires, vedere le cascate di Igazzu, i pinguini di Punta Tombo,
gli elefanti e i leoni marini della Penisola
di Valdes, Il canale di Beagle, le torri del
Paine, ecc.
Insomma inizia un altro viaggio.
Angelo Soravia
diario alpino
Caratteristiche
La montagna è costituita da rocce appartenenti al periodo Permo-Triassico; la sua
genesi è comunque di era terziaria ed è dovuta alla subduzione della placca di Nazca
sotto la placca sudamericana nel quadro dell’orogenesi andina.
L’origine del nome è incerta. Il Coleti riporta l’esistenza, in Cile, del popolo Aconcagua,
dal quale avrebbero preso il nome la valle da loro abitata e, di conseguenza, anche la
montagna [1]. Il popolo Aconcagua è citato anche da altri autori [2]. Secondo quanto
riportato dal Secor, il nome potrebbe derivare dal quechua Anco Cahuac, ovvero “sentinella bianca”, oppure Ackon Cahuak, ovvero “sentinella di pietra” [3][4]. Lo stesso
autore riferisce che in lingua Aymara il termine kon kawa significa “montagna innevata” [3][4], mentre nella lingua mapudungun del popolo mapuche Aconca Hue significa
“che viene dall’altra parte” [3]. Il sito Andes Argentinos riporta una probabile origine
dal quechua accon cahua, col probabile significato di “la grande rocca che guarda intorno”.
Il primo tentativo europeo di raggiungere la vetta dell’Aconcagua risale al 1883, quando una spedizione tedesca guidata dal geologo ed esploratore Paul Güssfeldt tentò di
raggiungere la vetta dallo sperone nord-ovest, arrivando ad una quota di 6500 m. La
spedizione seguì quella che oggi è la via normale.
La prima donna a raggiungerne la vetta fu la francese Adriana Bance, il 7 marzo 1940,
accompagnata da diversi membri del Club Andinista de Mendoza.
In molti atlanti figura ancora la vecchia misura dell’altitudine (6959 m s.l.m.) presa in
quel frangente. Una spedizione italiana dell’Università di Padova, nel 2002, ha rilevato
che l’esatta altitudine dell’Aconcagua è di 6.962 m s.l.m..[6].Il limite delle nevi permanenti si aggira intorno ai 5000 m.Da uno dei suoi versanti scende il fiume omonimo che
raggiunge il Pacifico dopo un corso di 200 km.
Ascensione alla vetta
L’accesso al parque provincial Aconcagua è limitato: per intraprendere l’ascensione
alla vetta, è necessario chiedere un permesso all’autorità di gestione del parco, la
Dirección de Recursos Naturales Renovables della provincia di Mendoza. Il costo del
permesso varia di anno in anno; inoltre, è legato alla stagione, essendo più alto in alta
stagione. Il periodo consigliato per intraprendere l’ascesa è l’estate (da dicembre a
marzo nell’emisfero australe).
Tracciato della via normale
36
37
diario alpino
diario alpino
MARMOLADA PARETE NORD DISCESA CON GLI SCI
PREMESSA
Le righe che seguono sono
state scritte parecchi anni
fa, più precisamente nel
2003, ma il testo è rimasto
archiviato per lungo tempo
nel mio PC. Mettendo un
po’ di ordine tra i miliardi
di bytes, è saltato fuori e
finalmente mi sono deciso
di farlo pubblicare.
Nei primi di luglio 2000,
assieme a Giovanna e
Marco, miei compagni di
cordata, dopo una certa
titubanza mi sono deciso
a tentare di percorrere
la parete nord della
Marmolada costituita da
neve, ghiaccio e da alcuni
tratti di rocce scoperte.
Nel tratto più ripido, avendo i miei compagni sotto
di me, mi potevo rendere
conto della buona pendenza della parete e mi dicevo
che “buttarsi” giù con gli
sci era proprio da pazzi.
Ma…
Ma devo fare un doveroso
salto indietro.
Il mio primo contatto con
la montagna è stato grazie allo sci, disciplina che
ho iniziato all’età di 6 anni
(1979) e praticata ininterrottamente per una decina
di anni.
Poi nel 1997 ho ripreso in
mano gli sci, quasi per necessità, in quanto, assieme all’amico Marco, avevo
intenzione di usarli negli
avvicinamenti primaverili
alle vie di arrampicata in
montagna. Così ho iniziato
la pratica dello sci-alpinismo, prima come “mezzo”,
poi come “fine”.
Per comodità di approccio
autostradale e la bellezza
dell’ambiente, spesso e
volentieri, mi sono esercitato con gli sci nella zona
delle Piccole Dolomiti. Lì,
nei ripidi e stretti canali,
38
talvolta non in condizioni
ottimali, mi sono accorto
che riuscivo a scendere
meglio e con più tranquillità sul ripido che non sul
falso piano o su pendenze
moderate! Può sembrare un controsenso, ma è
una cosa che mi è rimasta
dentro ancora adesso. E
così l’idea di affrontare il
famoso pendio della Parete Nord della Marmolada
ha cominciato a farsi concreta.
All’inizio dell’estate del
2001, durante la salita lungo una via su roccia nella
zona del passo Falzarego,
ho buttato l’occhio sulla
Nord della Marmolada,
trovandola in buone condizione. Grazie ad un amico,
sono riuscito a recuperare
il numero di telefono di Toni
Valeruz e a scambiare con
lui due parole per avere
un parere sulle condizioni
dello scivolo nevoso. E così
mi sono sentito pronto per
affrontare la discesa.
Ma restava da risolvere un
secondo problema, ovvero cercare un amico, con
sufficiente esperienza, che
mi seguisse in salita, ma
soprattutto in discesa, per
effettuare le foto.
Dopo qualche giro di telefonate, trovo Cristian disposto a seguirmi e così
in breve fissiamo il giorno:
sabato 23 giugno.
Partenza all’alba per essere molto presto al Lago
Fedaia, dove ci aspettano,
non solo la parete, ma anche un gran caldo. Esageriamo un po’ e arriviamo
ancor prima che apra la
funivia e ci incamminiamo
direttamente dal parcheggio auto, lasciandoci alle
spalle parecchie persone
in attesa dell’apertura della funivia.
Durante la salita mi rendo
conto che la neve, sebbene
duretta, è quella giusta. A
metà salita, qualche tratto ghiacciato mi avverte di
39
prestare maggior attenzione in discesa.
Il caldo ci sfianca, già un
po’ stanchi per aver dormito poco la notte precedente.
In vetta, dopo una doverosa stretta di mano, timidamente Cristian mi chiede
se potrebbe scendere, anche da solo, per la normale: lo capisco, ma in questo modo niente foto, uno
dei motivi della presenza
dell’amico.
Iniziamo a scendere, Cristian a piedi, a gambero, io
invece con gli sci.
Il pendio si fa sempre più
ripido, fino a raggiungere
i 55° di pendenza o poco
più nel tratto chiave. Sono
un po’ teso, ma noto con
piacere che tutto procede
alla perfezione: gli sci ten-
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diario alpino
diario
Proposte
alpino
GITA FRA AMICI DEL GEMELLAGGIO
CAI PADOVA - DAV FRIBURGO
gono bene e soprattutto
rispondono ai miei precisi
comandi.
A metà ci dividiamo momentaneamente, a causa
di isole di ghiaccio lungo
il percorso. Sono così costretto a scendere “a vista”, usando un termine
d’uso proprio dell’arrampicata sportiva, a sinistra
di una spalla rocciosa. Non
conosco ciò che mi aspetterà, in quanto riesco solo
a vedere lo scivolo ripido
che si restringe sempre di
più.
Scendo fino al punto più
stretto, largo un paio di
metri: il passo chiave, un
tratto ancora più ripido,
60°, mi permetterà di raggiungere pendii più tranquilli.
Decido di aspettare Cristian per l’ennesima fotografia, ma non vedendolo arrivare e sentendo
i crampi alle gambe e la
neve cedere sotto gli sci,
affronto il tratto chiave,
superandolo senza problemi.
Più sotto poi vedo il mio
compagno scendere passo
dopo passo; ci ricongiungiamo e ci scattiamo a vicenda altre foto.
La discesa procede tranquilla per me e piuttosto
monotona per Cristian
(cerco di consolarlo:“Beh,
dai, almeno ti fai le ossa!”,
ma la risposta è bella secca: “Mai più!”.
Finalmente arriviamo alla
fine della neve e ci cambiamo, sparpagliando in
giro tutto il materiale che
abbiamo: ci concediamo un
momento di riposo, stendendoci sull’erba come
lucertole.
Infine schizziamo giù alla
macchina, poi a casa.
Sinceramente mi aspettavo una discesa più impegnativa, visto la nomea
che la parete si porta dietro, ma evidentemente le
42
buoni condizioni hanno
reso la discesa, tutto sommato, anche divertente.
Per esempio ho trovato
più impegnativo, anche se
è valutato più facile, il canale che scende da passo
del Travignolo verso nord,
verso il Passo Rolle: un
centinaio di metri molto
stretto e assai ripido.
La considerazione che mi
porto dentro ancora oggi
e che vale per qualunque
discesa impegnativa è
che risulta quasi più difficile trovare le condizioni
giuste e un compagno disponibile a fare foto, che
l’impegno tecnico della
discesa stessa!
Federico Battaglin
Il DAV FRIBURGO organizza il seguente incontro:
il percorso della gita di quest’anno si snoda lungo un tratto del Sentiero Roma, nello
spettacolare ambiente delle Alpi Retiche, sotto lo sguardo vigile del Pizzo Badile.
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Periodo: dal 10 al 12 Settembre
Pernottamento: in rifugio
Dislivelli: primo giorno circa 1.000 m; secondo giorno circa 600;
terzo in discesa circa 1.400
Difficoltà: a tratti sentiero esposto, attrezzato con catene
Costi: ancora da definire la mezza pensione con i rifugisti.
Le spese di viaggio e i pranzi al sacco
Cartografia: Pizzo Badile Ed. Meridiani Montagne
Per approfondire:
http://www.diska.it/rifgianetti.asp
ttp://www.waltellina.com/escursioni/sentieroroma/giorno2b.htm
Primo giorno
10 Sett: partenza da Padova con mezzi propri per raggiungere Bagni Masino.
Verso le 14.00 incontro con gli amici del DAV e salita al rifugio Omio a 2.100 m
Secondo giorno
11 Sett: traversata per Passo del Barbacan (2.598 m)
sino al rifugio Gianetti-Piacco a 2.534 m
Terzo giorno
12 Sett: discesa a Bagni Masino per la Val Porcellizzo.
Bicchierata finale e ritorno a casa.
Per informazioni: Pino Dall'Omo - Cell. 329 2283911
43
itinerari alpini
itinerari alpini
CIMA D’OLTRO
Nello scorso numero del
Notiziario Sezionale sono
stato molto incuriosito
dall’articolo degli amici
Francesco Cappellari e
Leri Zilio, forti alpinisti Accademici del CAI, sulla loro
“avventura-disavventura”
a Cima d’Oltro. Se non ricordate quanto accaduto vi
invito caldamente a rileggere quell’articolo. Ciò che
mi spinge a scrivere questo articolo è il fatto di essere stato sulla Cima d’Oltro assieme al caro amico
Bruno seguendo un altro
itinerario, la classica via
dello spigolo NO, aperta
dalla formidabile cordata
Castiglioni-Detassis il 17
luglio del 1934. L’articolo di
Leri e Francesco non sembra invogliare molto ad
andare a ripetere la via dei
fratelli Grazian e a calcare
le crode sommitali dell’Ol-
tro, invece vi assicuro che
tale cima è una vetta che
merita veramente di essere salita e la CastiglioniDetassis è una classica da
non mancare.
La Cima d’Oltro è posta
in un sottogruppo delle
Pale di limitato interesse
alpinistico, ma paesaggisticamente suggestivo,
incontaminato e unico nel
suo genere. Questo settore riserva delle sorprese
sconosciute ai più, provate
infatti a frequentare luoghi come la Pala d’Oltro,
lungo la sua via normale,
o il settore del Caldrolon,
salendo all’omonima forcella, luogo ricco di pinnacoli e veramente affascinante. Tornando alla via
Castiglioni-Detassis, essa
è un’ascensione di media
difficoltà e veramente “alpinistica”, molto interes-
sante, complessivamente
impegnativa dal punto di
vista fisico nonché rilevante per lo sviluppo della salita e la lunghezza e
laboriosità della discesa,
che avviene in un ambiente
a dir poco “tetro ed infernale”. Quindi un’ascensione assolutamente da non
sottovalutare. Gli amanti
delle salite “d’autore”, alpinistiche e d’avventura
rimarranno
veramente
soddisfatti. L’ambiente è
estremamente solitario,
man mano che si avvicina
la Cima d’Oltro dalla Val
Canali (Nord), essa appare
come un’imponente piramide, invece è molto particolare e diversa da Sud,
con il suo caratteristico
pianoro erboso sommitale
cinto da precipizi. E’ una
cima ricca di innumerevoli
pinnacoli, torri e spaccature. L’avvicinamento non è
breve e la discesa richiede
circa una decina di corde
doppie e pertanto dimestichezza in tali manovre
per ridurre notevolmente
i tempi.
Di seguito pertanto trovate la relazione dettagliata
della via e della discesa, si
consiglia inoltre la consultazione della Guida CAI-TCI
appena pubblicata “Pale di
San Martino Est” di Lucio
De Franceschi.
Nicola Bolzan
44
Cima d’Oltro m 2397
Via Castiglioni-Detassis spigolo N-O
Ettore Castiglioni e Bruno Detassis,
17 luglio 1934
stra oltrepassando un enorme masso con
scritto “Regade” per giungere, appena
sopra il sentiero, alla base di un pilastrino (avancorpo) in prossimità dello spigolo
Nord-Ovest (tempo di avvicinamento totale, 1h 30’ - 1h 45’). L’attacco vero e proprio
si trova in cima a tale pilastrino.
Gruppo: Pale di San Martino
Dislivello: 400 m circa
Sviluppo: 500 m circa
Difficoltà: III, IV, qualche passo di V
Tempo previsto:almeno 5 ore
Roccia: sempre buona, a tratti ottima
Materiale: due mezze corde (consigliabile)
oppure corda singola da 60 m, martello e
chiodi, nut, friend, cordini per le numerose clessidre.
Punti d’appoggio: Normalmente si parte
dal parcheggio della Val Canali, volendo può essere utilizzato quale punto di
appoggio il Rifugio Treviso, CAI Treviso,
aperto dal 20/06 al 20/09, tel. 0439 62311
Cartine: Tabacco foglio 022, Pale di S.
Martino (1:25.000)
Avvicinamento:
Dal parcheggio al termine della strada
della Val Canali si prende il sentiero nr.
707 in direzione del Rifugio Treviso. Dopo
10 minuti si segue il sentiero che stacca a
destra (cartelli indicatori) in direzione di
Forcella d’Oltro e Passo Cereda, che subito attraversa il torrente tramite un ponticello. Questo sentiero prende il nome
di “Troi dei Todesc”. In alternativa, subito dopo la sbarra del parcheggio, si può
scendere a destra, attraversare il torrente Canali e seguire la forestale dall’altro
lato fino a trovare il “Troi dei Todesc” che
stacca verso destra. Imboccato il sentiero
si supera il tratto in salita nel bosco per
giungere dopo circa 45 minuti in località
Campigol de l’Oltro (m 1700), da dove si
prosegue sempre in direzione Forcella
d’Oltro/Passo Regade/Passo Cereda. Al
bivio successivo si va a destra (direzione
Passo Regade/Passo Cereda) lasciando a
sinistra il sentiero dell’Alta Via nr. 2 che
va a valicare Forcella dell’Oltro (anche
questa traccia conduce comunque a Passo Cereda). Si prosegue dunque verso de-
Salita:
Si risale il pilastrino alla sua sinistra (faccia a monte - 50 m circa, pp. II) raggiungendone la sommità (ometto) di sassi,
utilizzando quale sosta iniziale un cordino
su clessidra.
45
itinerari alpini
cata atletica (V, chiodo e clessidra), obliquando poi verso destra andando a sostare su clessidre o spuntoni alla base di
un diedro-camino grigio. 30 m, V poi III, 1
chiodo e clessidre.
(9) Si risale il diedro-camino per 8-10 m
(III), si evita il successivo diedro verticale
obliquando verso destra per 10 m e risalendo poi facilmente alla cengia superiore (ometto di sassi). Una volta in cengia si
obliqua nuovamente e facilmente verso sinistra per altri 10 m, andando a sostare su
un chiodo sotto un blocco incastrato. 30 m,
III, tiro articolato, rinviare con attenzione
allungando le protezioni nei traversi, per
limitare l’attrito delle corde.
(10) Superare agevolmente lo strapiombo
formato dal blocco incastrato (IV) e proseguire poi per la successiva parete andando a sostare su spuntone nei pressi di un
spaccature orizzontale, alla base di un camino ascendente verso destra. 40 m, IV poi
III, presenti varie possibilità di protezione
naturali.
(11) Si risale il canale di destra e la successiva parete senza particolari difficoltà (IV
poi III) fino ad arrivare in vetta al grande
pilastro staccato dalla cima principale e
separato da essa da una profonda e tetra
spaccatura. In vetta al pilastro si va tutto
a sinistra sostando preferibilmente sugli
spuntoni che offre la cresta oppure su un
chiodo con anello presente sulla parete oltre la spaccatura, a sinistra. 50 m, IV poi III,
presenti varie possibilità di protezione naturali.
(12) Se si è sostato su spuntoni ci si abbassa
a sinistra nel punto in cui la spaccatura è
più stretta e si traversa sulla parete finale
della cima in prossimità del chiodo ad anello. Da qui si risale la successiva parete che
presenta varie clessidre (IV+, IV, III) e si sosta dopo 50 m su clessidre. 50 m, IV+/IV/III,
1 chiodo e varie clessidre.
(13) Si sale senza via particolarmente obbligata, affondando un canalino e poi le rocce
di cresta finale, sostando su blocco in cima.
40 m, III/II.
1-2) Da qui si prosegue, senza via obbligata, fino a raggiungere una rampa-camino
in alto sulla destra che porta in prossimità dello spigolo sostando su un chiodo.
100-120 m circa, II/III, possibilità di procedere in conserva, altrimenti sono almeno
2 tiri di corda.
(3) Risalire il camino sovrastante obliquando poi verso destra e andando a sostare su clessidre. 40 m, III, presenti numerose clessidre.
(4) Si risale verso sinistra, senza via obbligata, sostando su spuntone (verso destra è possibile raggiungere una cengia
che può costituire un’utile via di fuga in
caso di maltempo verso forcella Gamberina). 50 m, II/III, presenti varie possibilità
di protezione naturali.
(5-6) Continuare, sempre senza via obbligata e su difficoltà limitate, fino a raggiungere una comoda cengia. Da sinistra
in cengia si presentano un evidente diedro
di 20 m formato da roccia bianca non molto buona, una fessura ascendente verso
destra con chiodo nero all’attacco ed una
seconda fessura più lunga sempre ascendente verso destra, caratterizzata da una
bella lama. Si sosta alla base di quest’ultima presso un chiodo nero ad “U”, rinforzabile con una piccola clessidra poco più
in alto o con eventuale friend piccolo (anche in questo punto, seguendo la cengia
verso destra è possibile sfruttare un’utile via di fuga in caso di maltempo verso
forcella Gamberina). 60 m, II/III, presenti
varie possibilità di protezione naturali.
(7) Si risale la fessura per 15-20 m (V/
IV+, 1 chiodo, varie possibilità di utilizzo
di friend medio-piccoli), utilizzando la
lama per qualche passaggio in “Dulfer”,
con bella arrampicata e su difficoltà continue. Si arriva ad un’altra cengia (chiodo
con anello vecchio), la si segue verso sinistra per altri 15 m fino a sostare nel diedro sotto un piccolo strapiombo, fettuccia
su masso incastrato. 35 m, V, IV+ poi II, 2
chiodi.
(8) Si supera lo strapiombo con arrampi46
itinerari alpini
Discesa
La discesa è lunga e impegnativa, ma non
propone mai problemi di orientamento.
Dalla vetta scendere verso Sud verso i caratteristici prati erbosi della cima. Prima
di arrivare ai prati, sulla sinistra, in una
nicchia sotto dei blocchi di roccia, è presente il contenitore con il libro di vetta (bagnato e marcio quindi non più utilizzabile,
ai futuri salitori si chiede di portare un
nuovo contenitore ed un nuovo libretto).
Scendere per il pendio erboso (pieno di
fioriture e stelle alpine) per una cinquantina di metri fino ad incrociare una spaccatura-trincea che scende in direzione
sud (destra, faccia a valle); seguirla ed
al suo termine scendere sul fondo della
stessa dove si troverà la prima sosta di
calata, all’inizio di un profondo canalone
che termina nei pressi di Forcella Gamberina. Da qui ci aspettano 8-10 doppie
(lunghe dai 20 ai 30 m) ben attrezzate su
clessidre e chiodi (verificare comunque lo
stato dei chiodi, dei cordini e delle fettucce). Se si dispone di 2 mezze corde alcune
doppie possono essere accoppiate (prestando molta attenzione che le corde non
si incastrino o che non smuovano sassi).
Il canalone si presenta come un ambiente
veramente tetro ed “infernale”, assoluta-
mente da evitare con pioggia e temporali;
va prestata la massima attenzione alla
caduta di sassi che andrebbero ad incanalarsi proprio dove si volgono le corde
doppie.
Al termine delle doppie si arriva nel canalone Sud di Forcella Gamberina; da qui è
sconsigliabile valicare la Forcella stessa
per scendere poi dal canalone Nord, anche se sarebbe la soluzione nettamente
più sbrigativa, sia a causa della friabilità
del canalone stesso sia perché recenti frane lo hanno reso molto pericoloso,
pieno di grandi massi instabili. Conviene
pertanto scendere per il canalone Sud
senza via obbligata per circa 150 m fino
ad incrociare il sentiero nr. 718 (Alta Via
nr. 2), prenderlo verso Nord (sinistra faccia a valle), in direzione Forcella d’Oltro;
dopo un tratto a mezza costa si risale ripidamente e faticosamente verso Forcella
d’Oltro (m 2085) e da qui si scende verso
la Val Canali in circa 1h 15’. Dalla cima al
parcheggio della Val Canali per tale discesa calcolare almeno 3h (dipende dalla
velocità di esecuzione delle manovre di
corda doppia).
47
personaggi
personaggi
LA MONTAGNA, GLI AMICI, IL CANTO,
PRIGIONIERO DELLA BELLEZZA
UMBERTO MARAMPON L'UOMO DEI TETTI
Moiazza, Croda Spizza - Via del Ricordo - 1995
Lo incontro al Ristorante
dalla Mena, in Valle Santa Felicita, in occasione
di una serata organizzata
dall’associazione di Bassano Dimensione Montagna.
Non vuole dirmi la sua
data di nascita. Dicembre
il mese e una sessantina
gli anni.
Va da sé, la gente lì lo conosce!
Non vuole perché “il compleanno è un fatto personale, non se ne parla e lo
si festeggia da soli!”. Non
insisto.
È Umberto Marampon e lo
si sa: è un personaggio! Lo
chiamano Rampegon, Ma-
rampa, o semplicemente
Berto.
Ha al proprio attivo l’apertura di una quarantina di
vie in artificiale. È l’uomo
dei tetti, l’uomo che sale
usando staffe e chiodi a
pressione.
Si schernisce, sorride ammiccando, fa un po’ il prezioso, ma poi decide che
“sì, non è male fare quattro chiacchiere con me”.
Ci siamo già incontrati
qualche anno fa sulle pareti della sua valle, la Santa
Felicita, dove ha trascorso
la bellezza di 37 anni. Tra
il mio materiale da roccia
c’è la staffa che Berto mi
regalò quel giorno: una 4
48
gradini in alluminio uniti
da un cordino blu, azzurro
e arancione.
Staffe moderne? Ma nemmeno per sogno! Berto usa
ancora il modello tradizionale: abbinate alle scarpe
da tennis Superga bianche
funzionano che è una meraviglia.
I ganci per appendersi, a
forma di grande uncino, e
i chiodi fatti a mano completano la sua personalissima attrezzatura.
E ci siamo già visti al CAI di
Padova l’anno scorso, durante una serata organizzata nell’ambito del corso
di arrampicata artificiale,
diretto da Giuliano Bres-
san. L’invitato? Era proprio
lui: un po’ imbarazzato, un
po’ sornione, allegro e sorridente, pronto a insegnare
come funziona l’artificiale
classica. E lì a spiegare,
con dovizia di particolari,
a mostrare una miriade
di foto, a indossare tutto
quello che serve per aprire
una via ... lì, in sala, all’attacco della via, appunto,
pronto a partire per chiodare un nuovo tetto.
Berto non apre vie senza
tetti, non ci pensa nemmeno, e tanto più attraente è
una linea di salita quanti
più tetti ha. Normale, no?
Al Ristorante dalla Mena,
mentre parla con me, tiene lontani gli amici, che lo
guardano con l’aria di chi
vuol dire: “ti conosciamo,
stai attento a come ti comporti!”
È tutto un programma
quest’uomo, che nell’ambiente ormai è diventato
una vera e propria istituzione. È nato a Este e la
sua famiglia è di Bassano.
È schivo, uno zingaro. Gli
piace essere così, e così
racconta sé stesso, il proprio credo, i ricordi, i compagni di cordata.
La montagna per Berto significa prima di tutto
amicizia. Con gli amici l’ha
vissuta e con gli amici ama
riviverla. Crede in Madre
Natura e a lei si rivolge con
il proprio canto.
“Non credo in nessun dio
- mi spiega - e in nessuna
religione. Fin da piccolo
canto, nel bene e nel male.
Nei momenti difficili della
mia vita, e anche in quelli di grande felicità, con il
mio canto mi rivolgo a Madre Natura, non a un Dio,
di nessun tipo, e nemmeno agli spiriti, com’è stato
detto da qualcuno, se pur
bonariamente (1).
Perché non credo? Penso di aver ereditato que-
religioni portano le guerre. Guai a quella persona
che non lascia crescere
l’altra persona. Allora non
capivo e la tempestavo di
domande. Tra le tante ricordo una risposta: Da ragazza andavo in chiesa, a
quei tempi ci obbligavano,
e mi domandavo: perché le
donne entrano da un lato e
gli uomini dall’altro? Peché i signori, i ricchi hanno
Berto mostra la sua attrezzatura al corso organizzato dal CAI Padova
sto mio modo di sentire
in gran parte da mia madre. Ho già scritto di mia
madre e di questo suo diverso modo di concepire
la religiosità. Quand’ero
ragazzo mi diceva: Figliolo, se incontri una puttana rispettala, è una donna
che soffre, ha grossi problemi. Se incroci un prete
evitalo e ricordati che le
49
i posti riservati con l’inginocchiatoio imbottito e noi
contadini, povera gente,
abbiamo l’inginocchiatoio
di legno duro? Perché solo
le ricche signore entrano
in chiesa col cappello e
noi contadine povere solo
col velo? Perché predicano
che siamo tutti uguali davanti a dio? La chiesa non
é la casa di dio? Un gior-
personaggi
no, avevo 15 anni, entrai in
chiesa col cappello. All’inizio della messa il prete mi
vede, si avvicina, prende
a due mani una sedia, la
mette tra me e lui, e mi
spinge fuori dalla chiesa.
Penso ancora oggi al perché di quella sedia, forse
nella sua mente malata il
solo sfiorarmi era peccato. Mah! Dicevano che ero
tanto bella... Non mi detti
per vinta, andai a casa di
un’amica che abitava vicino, mi feci prestare un
velo, lo misi sopra il cappello, rientrai in chiesa. Il
prete non disse nulla. Tornata a casa mio padre mi
riempì di botte (2).
Mia madre è stata una
grande donna e una grande Madre.
Vedi - precisa Berto - mi
chiedi qual'è la mia età. Si
cresce e si cambia, sempre in peggio. Si ammalano
le persone più care e noi
cambiamo. Gli appuntamenti della vita lasciano il
proprio segno e ci rendono
tristi. Ma non ci sono poi
grossi limiti di età a quello
che si vuole realizzare, se
ci si allena con passione. O
quasi!”.
Sorride, lui che nel 2007,
a 59 anni, ha salito la via
Hasse-Blandler sulle Tre
Cime di Lavaredo insieme
a Franceso Scandolin, che
tre anni fa ne aveva 57.
altre occasioni, durante le
serate trascorse a parlare
degli anni vissuti attaccato
alla roccia, tra un tetto e
l’altro.
“Ero in Valle - narra - ed
era morto da poco il caro
amico Claudio Carpella,
colpito da una pietra in
testa all’attacco della parete nord del Gran Zebrù.
Ero solo e tutto intorno a
me era bello; ero circondato dai colori del verde,
dal canto degli uccelli, dal
vento, quello che da Cima
Grappa scende e se ne va
in pianura.
personaggi
Cantavo canzoni di montagna con parole mie, inventate, parole dettate dal
vento.
Senti vento, ti voglio parlare,
voglio cantare una canzone d’amore con le parole
d’oro
e tu vento, portala sui
monti, portala nelle valli
falla sentire agli amici che
non sono più tra noi.
Arriva in Valle una ragazza
che non conosco e si ferma vicino al grande masso
che sta ai piedi del diedro
giallo. Un pensiero comu-
Berto associa la morte,
l’amicizia e il canto; mi narra un episodio ricordato in
ne quasi si materializza.
La ragazza e io pensiamo
a Claudio. Continuo a cantare, lei resta lì per un po’,
poi se ne va silenziosa.
La ritrovo alle quattro
del pomeriggio dell’estate 1990 al rifugio Treviso,
mentre sto mangiando
polenta, formaggio con le
gocce e del buon rosso.
Entra con un amico e, dopo
aver chiacchierato un po’,
mi confessa di essere lei
la ragazza che ascoltava il
mio canto.
Claudio si allenava sul
muro di casa sua e fu lui a
farle conoscere la palestra
di roccia della Valle. Dopo
la sua morte la ragazza
sentiva forte il desiderio
di ritornare in quel luogo,
ma non ci riusciva. Quando arrivava nelle vicinanze
qualcosa la bloccava e ritornavo indietro.
Al Treviso lei mi confessa
che quel giorno, mentre
io cantavo, seduto in cima
alla parete della Sette col
buco, lei sentì il mio canto,
e il mio canto la accompagnò nella Valle” (3).
Berto si commuove pensando a Claudio e alla ragazza.
I compagni di cordata per
lui sono stati e sono ancora, prima di tutto, amici. E
quando gli amici ricordano
il suo canto Berto si emoziona e gli vengono le lacrime agli occhi.
“Loro tiravano la libera
quando si decideva di aprire una nuova via - mi spie-
Uscita dal tetto di 9 m - 1994
ga – e io pensavo ai tetti. E
sono Luca Zulian, Vincenzo Muzzi, soprannominato
l’Orbo (te si orbo, te salti i
ciodi, gli dicevo sulla Castiglioni alla Torre Venezia
nel 1974), Gianmarco Rizzon, Paolino Visentin, Renato Piovesan, Mario Feltrin, Lorenzo Massarotto,
Roberto Campana, detto
Sul Campanile di Val Montanaia
50
51
il Cismonero, Domenico
Rossetto, Ivano Cadorin,
Paolo Benvenuti.
Senza questi e molti altri
compagni non avrei fatto quello che ho fatto. È
bellissimo ritrovarsi ora,
dopo 20 anni, ancora uniti
da una passione comune.
È bello ripetere le vie insieme”.
personaggi
Perché Marampon apre le
vie cercando i tetti? Perché
ama l’artificiale?
La sua storia di arrampicatore ha inizio nel 1972,
quando mette piede per la
prima volta in Valle Santa
sera si divertono insieme.
Tre o quattro giorni alla
settimana Berto si allena
in Valle.
Passa il sabato e la domenica in montagna. Dedica
un giorno al riposo e se ne
Tre Cime di Lavaredo - parete Ovest della Cima Grande
Sugli strapiombi della Via S. Pertini
Felicita. L’anno dopo frequenta il corso roccia alla
scuola di alpinismo Ettore
Castiglioni di Treviso, la
sua città preferita.
Al CAI di Treviso nascono
le prime amicizie. I ragazzi si frequentano non solo
per arrampicare, ma vanno a giocare al pallone e la
va dove non avremmo mai
pensato: a Iesolo!
Berto era allora sergente
dell’aeronautica e viveva in
aeroporto, se pur molti si
siano sempre chiesti come
facesse a sopravvivere in
un ambiente militare con
il carattere indipendente
che si ritrovava. Lui stesso
52
personaggi
ammette di essersi preso
dei bei castighi.
Passata l’estate sulla roccia, in ottobre il suo comandante decide di farlo lavorare anche di domenica.
“Dall’hangar del 2° stormo di Treviso - ricorda
Berto - vedevo nubi nere
quel giorno sulle Pale di
San Martino. Era il 9 ottobre del 1973. Sullo Spigolo
del Velo in quel momento
c’erano quattro miei cari
compagni e amici. A due
tiri dalla fine li sorprese
una bufera di neve. La temperatura scese a -15 gradi.
Morirono in tre: Paolo De
Tuoni, Roberta Dalle Feste
e Sergio Lovadina.
Io arrampicavo da solo un
anno e l’impatto fu duro.
Cominciai ad avere un
chiodo fisso. Perché si
muore così, senza una ragione apparente? Di colpo
mettiamo fine alla nostra
vita. La risposta fu: arrampicare ancora e dedicare una via alpinistica a
ciascuno degli amici morti
in parete.
Apro in solitaria, in libera,
nel settembre del 1976,
sulla Gusela di Cismon,
una via di 220 metri, di V e
VI, e la dedico a Paolo De
Tuoni.
Mi rendo conto che pianto
troppi chiodi. 4700 chiodi
sono un’esagerazione. Altri, più bravi di me, mi dico,
si muoverebbero su questa parete verticale con
più facilità, chiodando e
azzerando meno. E l’amico
Massarotto in quell’occasione battezza i miei chiodi chiodi a impression! Da
allora li abbiamo sempre
chiamati così.
Decido di aprire altre vie,
ma non più in libera. Non
voglio togliere a chi è più
bravo di me la possibilità
di seguire una linea verticale in modo pulito.
È finita la mia stagione
della libera, durata dal
1973 al 1976.
Non uso più gli scarponi,
ma le scarpe da tennis Superga.
Mi metto a scrutare le pareti alla ricerca dei tetti.
A quei tempi era quasi impensabile. I tetti si evitavano.
Sono nate così la Roberta
Dalle Feste al Covolo di
Butisone, una via di 180
metri, di V e A2, aperta nel
1978 con Paolo Visentin
e Gianmarco Rizzon, e la
Sergio Lovadina, di 200 metri, VI, A3, aperta nel 1980
con Vincenzo Muzzi, sempre al Covolo di Butisone.
Sono gli anni in cui le vie
al di là della verticale di
Cesare Maestri, Bepi de
Francesch, René Desmaison o Pierre Mazeaud,
solo per ricordare alcuni
grandi, sono entrate nella storia dell’alpinismo in
Dolomiti; in Valsugana si
cimentano nell’apertura
di vie in artificiale il bassanese Carlo Zonta, la guida
alpina Renzo Timillero, per
anni gestore del rifugio in
val Canali, Lorenzo Massarotto e Leopoldo Roman.
Tra i più giovani si distinguono Alberto Campanile, Ezio Bassetto, Manrico
Dell’Agnola, Andrea Spavento e ben presto si fa
notare un nuovo alpinista,
che prova per i tetti una
grande passione: Umberto
Marampon (4).
C’è chi sostiene che la vera
arrampicata sia la libera,
percorsa, nelle prestazioni migliori, a vista e senza
chiodi.
Oggi la fa da sovrano il
free-climbing. I climber
più forti hanno spesso vinto in libera strapiombi e
tetti prima superabili solo
con l’uso delle staffe.
Ma lo spirito dell’artificialista è diverso e assai lontano dal concetto di competizione con se stesso e con
gli altri così com’è vissuta
in media dall’arrampicatore sportivo.
A Berto e agli artificialisti
come lui piacciono i tetti.
È bello restarsene lì, appesi nel vuoto, muoversi
strisciando sotto la parete con centinaia di metri
d’aria al di sotto, precisi
nei movimenti, equilibrati nella distribuzione del
peso, attenti a non caricare i chiodi distrattamente
per non trasformare una
traversata in un pericoloso
volo. Liberi.
Il racconto di Berto continua, tra sorrisi e sguardi
malinconici. Nei suoi occhi
c’è la luce di chi ha vissuto
momenti intensi, ora dolorosi e difficili, ora pieni di
53
Lagazuoi
“Mani Pulite”
gioia e serenità, lì attaccato alla roccia, o nelle
tende, immerso nel sonno
di un bivacco, sveglio alla
luce dell’alba, seduto davanti a un bicchiere con gli
amici di una vita. La montagna ruba a Berto altri
compagni. E Berto sempre
li ricorda dedicando loro
vie in artificiale.
Gli anni passano: nuovi
successi e nuove sconfitte.
“Ci sono altre linee di salita
- mi spiega - aperte per il
solo piacere di aprirle, non
dedicate a nessuno, se non
a me stesso. Tutte le vie
mi hanno dato un’enorme
personaggi
soddisfazione. Non ricordo
la via più bella perché non
voglio offendere nessuna
via”.
Della quarantina di vie attribuitegli, Berto ne nomina velocemente alcune.
La direttissima sulla parete Sud della Torre Venezia,
nota come via della Libertà
e aperta insieme a Vincen-
lita la prima volta con Luca
Zulian nel 1983.
Due anni dopo, sempre con
Luca, percorre una via sul
piccolo Dain, superando
un tetto molto evidente a
destra della Loss, e la dedica all’alpinista trevigiano
Bepi Mazzotti.
Dello stesso anno è la via
Cismon ‘85, sulla parete
sud di Cima Campiglio nel-
1986 Berto Marampon e Lorenzo Massarotto
zo Muzzi, è un vero gioiello: supera tutti i tetti della
parete, tra i quali è famoso
quello a falce, di 5 metri.
C’è chi ancora ricorda le
grida di Berto che cantava a squarciagola, felice,
mentre la apriva nell’ormai lontano 1980.
Nomina la via Stefano
Campeol, sulla Cima di
Ball, nelle Pale di San
Martino, aperta nel 1982
con Mario Feltrin, e la via
con il tetto di 9 metri sulla
parete sud della Pala delle
Masenade, in Moiazza, sa-
le Dolomiti di Brenta: un
tetto che strapiomba per
9 metri, ben visibile dal rifugio Brentei, salito in solitaria.
“Mi vergognavo un po’ dice Berto - nell’aprire
quella via proprio lì, perché salivo in uno dei regni
della libera, e per giunta
davanti al rifugio di Bruno
Detassis”. E proprio quella
volta mi si bloccò una corda e fui costretto a passare per il rifugio. Detassis
mi prestò la corda di suo
figlio; il gesto mi sorprese.
54
personaggi
Solo più tardi scoprii che
raccontava: Non ho mai
visto scalare in quel modo;
ha chiodato, salito, sceso,
risalito quei tetti sempre
cantando, come se non
fosse faticoso.
In cuor mio ancora lo ringrazio e non mi vergogno
più” (5).
“Il primo gennaio del 1987
- racconta Berto - sto
chiodando sulla parete est
della Rupe del Castello un
tetto sporgente 8 metri e
80 centimetri. Mi sporgo e
vedo sotto di me un ragazzino. Sento un lungo sibilo
e poi un gran botto. Che
razza di figlio di... - sorride Berto - L’ho perdonato
perché a modo suo mi ha
augurato buon anno” (6).
E ancora richiama alla
mia attenzione alla rinfusa lo spigolo sud della
rocca dell’Antelao, la via
Mani Pulite nel gruppo del
Lagazuoi, la via dedicata
a Sandro Pertini, direttissima sulla Ovest della
Cima Grande di Lavaredo,
aperta insieme a Renato
Piovesan, la via dell’Ospitalità a Pedra Longa in
Sardegna del 1981, la Bepi
Gasparotto sul monte Fop
in Marmolada del 1994, la
via Sergio Lovadina sempre in Sardegna, la via del
Ricordo, che supera 11
tetti, sulla Croda Spiza in
Moiazza, la Paolo e Fausto
sulla parete di Ori, poco
a monte di Primolano in
Valsugana, dedicata ai due
ragazzi bassanesi Paolo
Dolomiti di Brenta Via Cismon ‘85
Pozzi e Fausto Marchesini,
di 19 anni, caduti mentre
scalavano la via Castiglioni
alla parete Nord del Sasso
delle Undici, nelle Prealpi Feltrine; quest’ultima,
aperta in solitaria, lo ha
visto passare il capodanno
in cengia da solo nel 1989.
E come non ricordare il
grande tetto di 49 metri del
Covolon, in val Gadena! (7)
Non è un semplice elenco
di vie questo di Berto.
Le passa in rassegna nella memoria ad una ad una,
ed è come se le avesse
salite ieri. E precisa: “Ho
aperto prima la De Tuoni,
in Cismon, poi la Lovadina,
in Sardegna, ultima la Roberta Dalle Feste, sempre
in Cismon. Mi dispiaceva che Sergio fosse lì, da
solo, lontano, in Sardegna.
E allora gli ho dedicato una
via anche qui vicino”.
Berto si fa notare per la rigorosa ricerca dei tetti anche in valle del Sarca.
“Avevo l’impressione - e lo
dice quasi come una supposizione fondata - che la
Rupe Secca mi guardasse
imbronciata, perché non
avevo ancora aperto nulla
lì. Sulla Rupe del Colodri
nel 1986 avevo già aperto
una via e l’avevo chiamata
DDT, visto che saliva parallela alla via Zanzara di
Manolo. Così nacque Cismon ‘93, e la Rupe Secca
fu contenta. E poi vennero altri itinerari in val del
Sarca” (8).
Berto non è solo passato.
55
La sua attività oggi non si
limita alla rievocazione
delle imprese di un tempo. Nel 2004 apre la via
Gigi Lunardon sulla parete Est del Pramper, l’ultima aperta in Dolomiti.
Del 2007 è la via Antonio
Silvestri, dedicata all’alpinista caduto 10 anni prima
mentre scendeva dalla via
delle Guide in Brenta.
È preparato, è forte, si
allena tutte le settimane
come quando era ragazzo.
Lo spirito non è cambiato,
anche se a suo avviso “con
gli anni si peggiora e si
perde la memoria”.
Non si considera un alpinista. Si definisce un muratore della montagna.
“Pianto chiodi e non tiro la
libera come i miei amici più
personaggi
bravi. Me ne sto lì in parete
per ore: ci vogliono fino a
35 minuti per piantare un
chiodo con il perforatore”.
Marampon lavora così.
Il tempo passa al Ristorante dalla Mena. È tardi e ci stanno aspettando
per cenare.In chiusura un
consiglio di un esperto e
simpatico alpinista. Berto
vuole lasciare un messaggio a quanti, soprattutto
giovani, arrampicano.
“Fate tutto in sicurezza!
Quando apro una via penso
che sia giusto e doveroso
creare dei percorsi sicuri.
Chi la ripete non deve farsi
male. Meglio un chiodo in
più che un chiodo in meno.
La ripercorro a distanza
di anni e la sistemo; in sostanza faccio un’opera di
manutenzione, sostituendo i chiodi rovinati e aggiungendone di nuovi.
In parete le sviste, la superficialità, le disattenzioni possono costare care.
E sono più numerose di
quanto pensiate.
Non vale la pena rischiare - avverte - per essersi
dimenticati di fare il nodo
di sicurezza quando ci si
cala”. Lui nelle discese in
doppia usa il Prusik.
“Più volte - mi spiega - il
Prusik mi ha salvato, anche se è ben vero che se
sta scritto oggi devi crepare, qualsiasi cosa tu faccia
non scappi, crepi e basta!
L’ho scampata bella il lunedì di Pasqua del 1977,
quando salivo da solo la
via Gnoato-Bertan-Zonta,
che si trova sopra Cismon,
in Valsugana, 270 metri di
V, VI e artificiale.
Una scarica di sassi improvvisa mi sfiora e mi
trancia una corda.
Con l’altra inizio le doppie
e quando arrivo alla fine
della terzultima, la corda
mi schizza via dalle mani,
esce dal moschettone e mi
trovo a testa in giù e gambe in su, e per di più con
lo zaino in spalla, appeso
al cordino Prusik; sotto di
me c’è un salto di 40 metri. Non ho fatto il nodo
alla fine della corda. Il
Prusik si blocca ad appena
8 o 9 centimetri dall’uscita
dalla corda. Sono riuscito
a tirarmi su, ed è andata
bene.
E posso ricordare gli episodi del 1994 sulla Cima
Grande di Lavaredo, o del
2000 in palestra di roccia,
o ancora dell’agosto del
2003 sulle Dolomiti Zoldane; quel giorno, sotto
lo strapiombo giallo, esce
il chiodo, volo, lo sento
fare per tre volte dinn dinn
dinn... avevo due Prusik,
non si sa mai!” (9)
personaggi
crederai, ma io l’ho saputo
solo pochi mesi fa da mia
sorella. Una mia prozia
cantava, ma nonostante gli
sforzi di mia madre, io non
capisco la musica. Canto,
e basta.”
Adora Venezia, i gondolieri
che cantano, il traghetto
che passa davanti a Torcello; di fronte alla bellezza della laguna confessa
di aver pianto. È lo stesso
pianto che sorge spontaneo davanti a due quadri
di Van Gogh al Palazzo dei
Carraresi, a Treviso.
Berto sa apprezzare ciò
che c’è di bello nella vita.
È la bellezza che fa prigioniero il suo animo.
Caterina Secco
NOTE
1. Mario Crespan, Giù le mani dal Marampa!, 2006
2. Umberto Marampon, Perché non credo in nessun dio - Frammenti per un Autoritratto, 3a parte,
pp. 2,3, 2008,
http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=60
3. Umberto Marampon, Il canto - Frammenti per un Autoritratto, 3a parte, p. 2, 2008,
http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=60
4. Leopoldo Roman, La riscoperta del grande vuoto, pp. 60-65, 1987, La Rivista del Club Alpino
Italiano, anno 108, n.1
5. Umberto Marampon, La corda bianca - Frammenti per un Autoritratto, 2a parte, pp. 1,2, 2008,
http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=59
6. Umberto Marampon, Rupe del Castello, parete est, 1986 - Frammenti per un Autoritratto,
4 a parte, p.2, 2008,
http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=59
7. Gabriele Villa, “Scusi, come gradisce il tetto?” “Esagerato, grazie”, 2002
http://acustica.ing.unife.it/staff/francesco/intraigiarun/tetto.htm;
Michele Scuccimarra, Il grande tetto del Covolon, 2002
http://acustica.ing.unife.it/staff/francesco/intraigiarun/tetto_2.htm
8. Umberto Marampon, Cima Colodri, parete est, 1986 - Frammenti per un Autoritratto,
4 a parte, p. 2, 2008,
http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=59;
Umberto Marampon, Rupe Secca, parete est - Frammenti per un Autortratto, 4 a parte, p. 2, 2008,
http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=59
9. Umberto Marampon, Storie di corde - Frammenti per un Autoritratto, 1a parte, p. 2,3, 2008,
http://www.dimensionemontagna.it/modules.php?name=News&file=print&sid=58
Umberto Marampon è un
uomo sensibile, che ama
la montagna, gli amici, il
canto.
È un uomo che sa piangere.
“Mia madre mi ha mandato a scuola di musica. Mio
zio, il fratello di mio padre, suonava il violino alla
Scala a Milano: tu non ci
56
57
escursionismo
escursionismo
ALLA SCOPERTA DELLO SCI DI FONDO:
UNA GRANDE AVVENTURA
La Sezione Cai di Padova,
ha organizzato dal 10 Gennaio al 7 Febbraio 2010 il
corso Sci di Fondo, in Valmaron di Enego in collaborazione con la locale
Scuola ed il coordinamento degli accompagnatori
del Cai Stefano Fantin e
Fabio Crivellaro.
I partecipanti al corso erano 79 di ogni età, di diversa
provenienza geografica e
preparazione atletica.
Al suono della prima sveglia, brontolando mi alzo,
tra mille pensieri, “ma chi
me lo fa fare”, “potrei stare a letto” e invece, sapere
che poi la giornata regala
sempre qualcosa di bello, sono partita, ignara di
quello che mi aspettava.
Infatti, ogni mattina me ne
capitava sempre una: rottura del pedale della bici;
un altro giorno si mette a
nevicare prendo l’ombrello e con la bici pedalo pedalo, arrivo bagnata come
un pulcino; altro giorno mi
ammalo, insomma l’inizio
è stato promettente.
1a uscita: il viaggio è stato abbastanza turbolento, il pullman su cui viaggiavano alcuni corsisti si
è impiantato nella neve.
Ahimè! E’ andata persa
l’ora di inizio del corso ma,
la giornata riprende a pieno ritmo.
Quanta pazienza i maestri
di sci hanno avuto con noi,
ma il mio orecchio attento ha colto delle semplici
frasi del mio maestro, e lì
ho capito come dovevo affrontare il corso.
La prima lezione è stata
quella di imparare a mettere gli sci, banale, no!
Secondo passo è stato
quello di imparare a stare
in piedi, di non scivolare,
banale, no!
Terzo passo, imparare a
superare la paura di cadere, lezione interessante, il
maestro continuava a ripetere: “non abbiate paura,
se avete paura non state in
piedi”. Incredibile come la
paura possa bloccare!
La scoperta interessante
è stata lo sguardo! Altra
modalità per non cadere
è quella di indirizzare lo
sguardo in avanti e, non
per terra.
In conclusione, l’ingrediente essenziale è l’uso
della testa! La parola d’ordine è la concentrazione
sui movimenti!
Insomma, più che una lezione di sci, è stata una lezione sul corpo umano.
Il mio stupore è nato proprio da qui, come sia importante avere una giusta
percezione del proprio
corpo aiuti a superare le
difficoltà, conoscerne i limite e, a fare i movimenti
giusti.
In fretta in fretta, ero riuscita a stare sugli sci, e
ad essere autonoma. Che
grande
soddisfazione!.
Ogni tanto qualche scivolone e cadute. Mi sono
divertita anche quando
cadevo, non solo perchè
mi rotolavo nella neve ma,
così potevo sperimentare
come rialzarmi, mettendo
in pratica gli insegnamen58
ti del maestro!. Ebbene,
anche le cadute avevano i
loro movimenti per alzarsi
senza fatica!
Il corso di fondo è stato una
scoperta e una conquista
per cinque domeniche, io
per prima e tutti i corsisti
eravamo animati, da una
buona dose di pazienza e
desiderio di imparare.
Ma ora, vorrei lasciare
la parola anche ad altre
voci, perché raccontare la
montagna e l’esperienza
del corso, non può essere solo mia, per questo ho
chiesto ad alcune persone
di condividere i loro pensieri. Buona lettura.
M. Cuomo
1° Intervento:
Uscire dalle nebbie e dal
grigiore cittadino, immergersi nella natura “dietro
casa”, scivolare con gli sci
nella candida neve, non
c’è bisogno di competere
con nessuno, puoi goderti
il cielo terso senza nuvole
o una graziosa nevicata,
cadi e ti rialzi, ci sono tratti
in salita, tratti in discesa,
falsipiani, tratti in mezzo
al bosco, tratti aperti e panoramici. Non c’è monotonia. Ogni metro in più che
fai è una conquista. Ora sei
in compagnia, ora sei da
solo,e il silenzio attorno a
te si fa assordante. Respiri e tiri il fiato non solo per
la fatica che c’è, e nessuno
te la toglie, ma anche dagli
assilli quotidiani della tua
vita.
2° intervento:
Ho scoperto il CAI da pochissimo tempo ma da subito è nata in me una grandissima passione per la
montagna che ha portato
a iscrivermi e a frequentare contemporaneamente il
corso di discesa e il corso
di fondo, organizzati entrambi da persone esperte
e con tanta pazienza.
L’approccio iniziale con il
corso di fondo è stato un
po negativo, causato dal
fatto che proprio il primo
giorno, per colpa di un’auto
ferma in mezzo alla strada, gli autobus si sono dovuti fermare e, proprio nel
ripartire ci sono stati problemi e notevoli ritardi a
causa del montaggio delle
catene da neve.
Il seguito è stato un crescere continuo sia dal punto di vista dell’organizzazione, sia dal punto di vista
dell’esperienza sulle piste,
che ci ha portato l’ultimo
giorno ad arrivare al rifu-
gio Marcesina per una foto
con tutti i partecipanti al
corso, gli accompagnatori
e i maestri di sci.
Felice di aver frequentato
due meravigliosi corsi e
di essere passato da “non
aver mai indossato due
oggetti tanto scivolosi”
a “fare piste blu e rosse
senza problemi (discesa)
e fare diversi chilometri e
vedere paesaggi stupendi
(fondo)”, cercherò l’anno prossimo di ripetere
entrambi i corsi sicuro di
rivivere due grandi divertimenti.
M.Geneselli
3° Intervento:
E’ già da qualche anno
che partecipo al corso di
fondo organizzato dal CAI
di Padova e nonostante io
abbia da tempo raggiunto
una tecnica discreta nello
stile skating è sempre veramente utile partecipare
59
alle lezioni dei maestri del
Centro Fondo. Riescono,
infatti, in pochi istanti ad
evidenziare e correggere
quelle imperfezioni che
altrimenti si rischia di portarsi dietro per anni. Alcuni
dettagli possono sembrare
inizialmente insignificanti
ma quando ho cominciato
a percorrere 20-30 chilometri, magari quasi tutti in
salita, mi sono reso conto
che ogni piccolo particolare contribuisce a diminuire
la fatica e ad aumentare
il divertimento! Ringrazio Stefano e Fabio per la
puntuale organizzazione e
saluto tutti i fondisti.
Valentino Turato
escursionismo
escursionismo
ALLA RISCOPERTA DELLA MEMORIA
DI PRIMO STIVANELLO
25 aprile 2010: 104 partecipanti su e giù per i Monti
della Lessinia!
Accompagnatori: Stefano
Fantin, Guido Gobbin.
Il giorno 25 Aprile 2010, la
Sezione Cai di Padova, ha
organizzato un'escursione
sui Monti della Lessinia a
cui hanno partecipato ben
104 soci/persone.
Tante persone, che la mattina alle 7:00 hanno riempito ben due pullman con
destinazione: il Parco delle Cascate Molina.
I 104, lungo il percorso formavano un serpente umano, tra i canti degli uccelli
e il rumore dell'acqua, le
voci si univano all’unisono
quasi a formare un coro a
più voci.
Lungo il percorso, abbiamo
incontrato una salamandra, facente parte della
famiglia degli anfibi, simile
ad una lucertola gigante di
colore nero con punti gialli, davvero uno spettacolo
della natura. Su e giù per i
pontili, sospesi sull'acqua,
che spettacolo le cascate,
ognuna di loro era diversa,
particolare e con una bellezza unica.
Abbiamo giocato al tiro alla
fune e per finire il percorso, un bel lancio con un'altalena posto su un altura
che permetteva di toccare
la cascata, che avventura!
Consiglio di provare almeno una volta l'ebbrezza del
lancio nel vuoto.
Tutti sorridenti e stanchi,
siamo tornati dal nostro
compagno di viaggio, il pullman, e tra affettati, dolci e
cibi succulenti, all'improvviso una voce nel mezzo
delle voci ci ricorda il motivo della giornata del 25
aprile.
Il 25 aprile non è solo il
giorno della Liberazione,
ma è un giorno speciale
per il Cai di Padova che ha
dedicato la giornata alla
memoria di un suo amico
60
e compagno d'avventure,
Primo Stivanello.
Dopo un primo momento
di silenzio, nel ritorno in
pullman, i nostri accompagnatori/istruttori ci hanno
fatto vedere un filmato
sulla persona di Primo Sti-
ste impresse e, pur non
avendolo conosciuto, mi ha
molto colpito l'entusiasmo
che investiva nelle attività e la pazienza che aveva
con i giovani che si avvicinavano per la prima volta
alla montagna.
C'è bisogno di persone che
trasmettano la passione
per la montagna. Spesso
si sente dire che la montagna è maestra di vita, ci
educa, ci fa cambiare, ci fa
capire i nostri limiti, ci fa
superare le nostre paure,
ma da soli non si potrebbe
mai scoprire un tale tesoro
se non ci fossero persone
come Primo e chi dopo di
lui continua a farci vivere
di/la montagna.
Tutti in coro ti diciamo Grazie Primo, siamo contenti
di averti conosciuto.
M. Cuomo
vanello, accompagnatore
escursionista.
Il filmato a un certo punto
diceva: “la sua umanità e
la sua voglia di vivere.....”
parole che mi sono rima61
escursionismo
escursionismo
NUOVI OSSERVATORI CRESCONO
Sabato 27 Marzo – Ore 9
e 30 – parcheggio di Valle
Santa Felicita. Si ritrovano
6 aspiranti osservatori, due
osservatori effettivi e 5 accompagnatori di escursionismo tra cui il presidente
della commissione.
Oggi ci sarà la prova per
vedere se siamo abili e
arruolabili nella commissione escursionismo come
osservatori. Ci conosciamo
quasi tutti dai corsi escursionismo degli anni scorsi.
Il più giovane ha 22 anni, il
più vecchio 36. La passione comune che ci unisce
per la montagna, la voglia
di condividere la montagna
con gli altri e un grande
entusiasmo che ci hanno
lasciato le esperienze fatte fin’ora all’interno della
sezione di Padova ci hanno
portato qui.
Oggi, vedremo se la commissione sarà altrettanto
entusiasta della nostra
auto candidatura. La prova di ammissione prevede: nodi, progressione in
ferrata, progressione in
cordata, tecnica di discesa
in corda doppi a con freno moschettone (anche a
gruppi), stesura della corda fissa, paranco semplice.
A Santa Felicita ci sono almeno altre tre sezioni del
CAI che stanno facendo
corsi di aggiornamento o
lezioni di roccia per cui le
pareti di destra e sinistra
valle sono affollate come
sempre.
Ci mettiamo quindi a far
nodi all’ombra divisi per
gruppi. Soffia un vento
freddo a ricordarci che a
Santa Felicita la primavera non ha ancora fatto
capolino. All’inizio c’è un
po’ di emozione da esame
e soprattutto nella teoria
esce qualche strafalcione. I nodi sono più facili
da fare che da spiegare.
Ma dopo i primi tentennamenti, a forza di far nodi,
ci sciogliamo e ne usciamo
vivi tutti quanti.
Dopo un’ora e mezza abbondante al freddo si prosegue con la ferrata di
Santa Felicita. Un gruppo
la fa in senso contrario
e sono quasi scesi che il
presidente organizza la simulazione di una manovra
di recupero con calata del
ferito tramite una corda.
Lorenzo, fortunatissimo,
si risparmia la discesa
degli ultimi dieci gradini strapiombanti perché
viene calato dalla ferrata.
Manovra spettacolare! Il
mio gruppo parte dopo che
i finti feriti sono stati calati
e i dieci scalini strapiombanti in salita ce li dobbiamo fare tutti. Ogni volta
che percorro la ferrata di
Santa Felicita, sempre bagnata in qualsiasi stagione, penso che se le ferrate
in montagna fossero tutte
così, mi passerebbe presto
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la voglia di andarle a fare,
ma oggi c’è l’esame e non
si discute, anche se il pensiero di “chi me l’ha fatto
fare di venire qui oggi“ mi
passa per la mente un paio
di volte. Finalmente arriviamo in fondo alla ferrata
anche noi.
È quasi mezzogiorno e si
mangia qualcosa tutti insieme. Il clima è allegro
come ad una qualsiasi gita
sezionale. Sono con i miei
amici e mi sto divertendo.
Nel pomeriggio attacchiamo la parete di sinistra:
arrampicata e doppie.
Non siamo soli. Un altro
gruppo ben nutrito di alpinisti di Castelfranco ha
infestato la parete di corde. Noi siamo in sei su un
terrazzino a circa quindici
metri di altezza per vedere
la manovra di corda doppia a gruppi con la quale
ci dovremo calare mentre
da sotto salgono gli alpinisti di Castelfranco che ci
scavalcano perché devono
continuare a salire fino alla
sosta più alto. C’è un po’ di
confusione ma Riccardo
in modo autoritario prende in mano la situazione e
riusciamo ad allestire una
sosta statica ed una doppia per gruppi calandoci
in contemporanea da due
corde. Fortissimo!
È il nostro turno di salire
nuovamente fino alla sosta
posta circa a trenta metri
per calcarci in doppia uti-
lizzando il freno moschettone (peccato per la mia
piastrina gigi nuova. Esordirà un’altra volta).
Non è ancora finita. Dobbiamo fare la prova della corda fissa, una delle
manovre più importanti
da saper fare in caso di interruzione del sentiero per
assicurare il passaggio.
Sempre divisi per gruppi.
Il mio, fortunatissimo, si
infila nel canyon e stende
la corda fissa sulla parete
di fronte alla ferrata.
Dalla gola soffia un vento
gelido. Siamo in tre e tutti
dobbiamo provare la ma-
novra da primi e da secondi
di cordata. Il processo, tra
autoassicurazione, soste,
tensione della corda, bloccaggio e recupero è abbastanza lungo. Alla fine siamo congelati e le mani non
si sentono quasi più. Sono
le cinque e mezza e abbiamo finito. A Santa Felicita
siamo rimasti solo noi. È
andato tutto bene ma, sorpresa delle sorprese, il
presidente si è arrampicato su una parete e ci esorta
a seguirlo per vedere come
si effettua il paranco semplice per recuperare un
compagno.Non abbiamo
più nemmeno la forza di
protestare e raggiungiamo
il presidente sul terrazzino
dove viene messo in pratica il paranco.
Sono quasi le sette di sera.
In cielo è comparsa la
luna. Adesso abbiamo veramente finito e possiamo
tornare a casa.
Il responso è positivo.
Siamo ammessi come
osservatori. Dovremo intraprendere un periodo
di formazione di circa un
paio d’anni per diventare
accompagnatori titolati,
un cammino tutto in salita
ma che sono sicura sarà
ricco di esperienze e di
emozioni.
Michela
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Le Dolomiti, Patrimonio Naturale dell’Umanità, hanno ricevuto il loro riconoscimento ufficiale. Le pareti color
sangue delle Dolomiti Ampezzane e i riflessi ambrati che il Civetta sprigiona al tramonto ne erano la manifesta
rivelazione. Questa dichiarazione in ogni caso ha suscitato approvazione ed entusiasmo e anche qualche celebrazione, ma se si deve fare festa mi pare che il modo migliore l’abbia individuato Emiliano Zorzi con questo
volume che completa il panorama dolomitico seguendo a quel primo del 2009.
Le Dolomiti ci appaiono in tutto il loro fulgore attraverso un itinerario che con settantaquattro ascensioni ci
fa conoscere le cime che tutti vorremmo salire. Il volume è quindi una sagra, un evento legato alla voglia di
far festa, celebrare e, se si vuole, consacrare perché la cerimonia a cui siamo chiamati è quella della scalata
che non è una fuga dalla realtà, ma la più forte e la più radicale esperienza per un recupero di questo mondo
roccioso nel suo vero significato.
Le cime scelte nei Gruppi proposti sono forse le più belle, vere immagini e simulacri, emblemi e icone indimenticabili. Si pensi alle Tre Cime di Lavaredo e questo basti, perché non può esserci presentazione e introduzione migliore alla conoscenza delle varie zone che attraverso le cime proposte, vera e propria carta d’identità
e contrassegno insuperabile. Ma da quelle vette se ne scorgeranno altre e l’autore avrà raggiunto il massimo
dei fini se lo scalatore si lascerà sedurre e saprà andare oltre, aggiungendo di per sé altre pagine al volume,
perché all’alpinismo è necessaria oltre alla difficoltà, all’esposizione anche l’essere fuori nelle wilderness, in
un ambiente selvaggio e desolato e anche il rischio. Il fascino delle montagne è dato dal fatto che sono belle,
grandi, da scoprire e un pregio di Emiliano Zorzi è proprio quello di essere propedeutico a ulteriore conoscenza ed esplorazione perché la sua opera è ricca di una fortissima carica simbolica e capace di trasmettere
entusiasmo.
Il volume non deve essere scambiato per uno dei tanti di scalate scelte che sono poco più di un diario, spesso
causale. Risponde a precisi criteri e approfondimenti con commenti e schede storiche e a un disegno ben
preciso, la dimostrazione che le Dolomiti sono un eccellente tema per un’indagine ottimistica e analitica del
nostro andare per monti. In una parola sono il tessuto della nostra passione e della nostra sete di superamento del reale e di desiderio di armonia.
Il concetto di IV grado, e cioè di scalata non di punta, è esteso anche al V e al VI grado perché è giusto tenere
conto di indubbi ed elevati progressi e di acquisiti salti di qualità. Precisa la valutazione delle difficoltà. Si può
notare con soddisfazione il superamento dei semplici schizzi. Dopo tanti volumi afasici, la parola riprende il
suo ruolo, compone il contrasto tra soggettività e oggettività. Si fa nobile strumento ed espressione di umiltà
della fatica, di coraggio ma non di imprudenza, di esaltante armonia tra natura e uomo, di possesso di un
paesaggio nitido e purissimo simbolo di uno stato d’animo solare e sereno che si fonde con l’ampio respiro
dell’infinito e con il nostro bisogno di perfezione morale.
Non si può chiedere di più.
Dante Colli (G.I.S.M.)
Presentare una guida al pubblico di appassionati di arrampicata in montagna (in contrapposizione a quello di
arrampicata sportiva), e a maggior ragione ad un pubblico di possibili appassionati futuri, è un compito difficile
che per fortuna l’autore mi ha facilitato aprendo la sua esposizione con un’esauriente serie di avvertenze su
come si deve affrontare l’alpinismo su roccia e di come si dovrebbe praticare in piena sicurezza.
Di solito ad una guida non si richiede questo: si dà per scontato che tecnica e passione siano bagaglio
consolidato del lettore (ma in tempi di bieco consumismo non si dice fruitore?) e quindi, dopo un rapido
elenco delle abbreviazioni usate e delle scale di difficoltà, si passa direttamente alle descrizioni.
In questa guida non è così e tutta la sua costruzione, oltre ai minimi particolari, lo dimostrano. C’è prima
di tutto la preoccupazione di far amare queste montagne e questi percorsi, spesso poco noti. S’interpreta
facilmente la precisione con cui gli itinerari sono descritti non tanto per una malintesa ed inutile pignoleria o
per l’ansia di non dare adito a interpretazioni sbagliate: qui la precisione è essenziale, è chiarezza di ricordo e
di suggerimento. Fa parte cioè della struttura mentale dell’autore.
In secondo luogo, le annotazioni emotive traducono le vere sensazioni che l’autore stesso ha provato ed in
definitiva l’evidente amore che nutre per queste montagne che, non dimentichiamolo, anche se meno note e
frequentate di altre, a quest’ultime non hanno proprio nulla da invidiare.
Infine si nota il bel proposito, secondo me riuscito, d’inserire questi itinerari nel flusso della grande storia
dell’alpinismo dolomitico, grazie alle annotazioni dei primi salitori o sulla prima ascensione. L’autore ha fatto
la scelta di trattare un percorso come un figlio prediletto, del quale vorrebbe tutto il bene futuro possibile.
Questa selezione “d’autore” porta con sé il pericolo, già osservato altrove e in precedenza, di pubblicizzare
oltremodo angoli dolomitici che così qualcuno teme saranno “presi d’assalto”. Ma io non sono d’accordo.
Credo che il vero pericolo per una valle ed una montagna siano lo “sviluppo” e lo sfruttamento turistico
con impianti forzati, specie in questi anni di evidente saturazione del mercato invernale, allorquando i centri
sciistici più noti di tutte le Alpi si disputano i clienti a colpi di offerte e di “qualità”.
Oppure si potrebbe obiettare ancora che le guide a selezione traghettino il pericolo più sottile e reale di creare
un campionario di moda tra gli itinerari possibili e quindi favorire la mancanza di fantasia nelle “libere” scelte
dell’arrampicatore. Questo è un vecchio problema, nato a suo tempo con la pubblicazione delle collane di
Walter Pause o delle “100 più belle” di Gaston Rébuffat. Il tempo che gli appassionati hanno a disposizione
per la loro attività preferita, l’arrampicata, è sempre limitato dal lavoro, dalla famiglia, dal brutto tempo. Non
preoccupiamoci se qualcuno cerca di abbreviare la strada facendosi consigliare. Purché i consigli, come in
questo caso, siano dati bene e con cognizione di causa, soprattutto con amore.
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Alessandro Gogna
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a cura Alfio Anziutti "Timilin"
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CIMA D'ASTA E IL TESINO
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La storia e i suoi protagonisti, i monti e le valli, i bivacchi e i rifugi, le escursioni, le arrampicate e le altre attività
esive e invernali per scoprire questo splendido territorio
" ... Un’opera che vuole ricordare i tanti appassionati che hanno amato questi luoghi, che hanno compiuto
imprese memorabili, che hanno conquistato vette inviolate e che, alcuni di loro, raggiunta la cima hanno poi
continuato a salire precedendoci verso la meta.
Un libro per ringraziare i molti volontari che si sono dedicati e si dedicano alle meritorie attività delle Associazioni legate ai valori della montagna, per raccontare un po’ della nostra storia alpinistica (che non è poca cosa
nel grande mondo dolomitico), per far conoscere e amare alle giovani generazioni le rare bellezze naturali che
possediamo e che molti ci invidiano, affinchè le frequentino, le conoscano e le proteggano. È un invito che rivolgo soprattutto alle amministrazioni comunali e alle scuole di Forni di Sotto e Forni di Sopra, quale impegno
primario verso il mondo giovanile, verso il futuro di una montagna vissuta che faccia camminare i valori delle
nostre tradizioni nel solco di un civile progresso... "
dalla presentazione di Renzo Pavoni “Biorcia”
(Presidende del CAI – Sezione di Forni di Sopra)
"Questo libro, con forte caratterizzazione didattica e divulgativa, intende stimolare il lettore ad una nuova
visione del paesaggio del Tesino, attraverso l’individuazione e la descrizione dei principali beni naturali presenti in questa area. Utilizzando, per necessità, linguaggio e documentazione scientifiche, si cercherà di far
comprendere, anche ripercorrendo le principali tappe dell’evoluzione geologica dell’area, come questi beni si
siano sviluppati e quali siano le connessioni con le attuali forme del territorio.
L’obiettivo che ci si propone è quello di fornire gli strumenti per una corretta interpretazione del paesaggio
fisico e della sua evoluzione, stimolando un pubblico anche non specialistico alla lettura dello spazio che lo
circonda e alla comprensione dei fenomeni naturali che hanno contribuito alla sua modellazione.
...
Come il lettore potrà rendersi conto, gran parte dei Geosti che verranno descritti hanno una valenza prevalentemente paesaggistica, in quanto riguardano elementi e strutture di carattere geomorfologico, la cui fruizione
è essenzialmente visiva. Si accorgerà di averle incontrate ed osservate numerose volte durante escursioni o
passeggiate e magari di esserne già stato colpito per la loro spettacolarità ed esteticità; nel contempo però
difficilmente avrà riconosciuto il loro reale valore per non essere riuscito ad osservare, distinguere e comprendere quegli elementi morfologici e geologici che sono testimoni muti dell’evoluzione e della storia del
territorio.
L’auspicio è che alla fine della lettura di questo libro, nel quale sono state inserite anche notizie di carattere
storico-culturale o comunque non strettamente legate alla geologia, il lettore percorrendo la valle del Tesino
non concentri la sua attenzione solamente sulla presenza dei verdi pascoli e delle rudi crode, ma sia in grado di
leggere e comprendere almeno parzialmente il paesaggio e di percepire anche quegli aspetti geologici, strutturali e morfologici che hanno contribuito a modellare questo magnifico ed estremamente vario territorio.
Da ultimo, infine, ci si augura che l’individuazione, la descrizione e il parziale censimento dei beni naturali
presenti in questa area possa servire, se non alla loro tutela, almeno alla loro valorizzazione.
,,, "
dall'introduzione dell'autore
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canti
Dopo qualche tempo i rivoluzionari riunirono i prigionieri comunicando loro che
potevano considerarsi liberi e che scomparissero andando nelle grandi città, perché non erano in grado di dare loro né da
mangiare né da dormire. Molti andarono
verso Mosca, naturalmente a piedi, arrangiandosi per sfamarsi e così sopravvivere.
Riportiamo ora una testimonianza del
Kaiserjager Filippo Candido Battaiola
da Malè, prigioniero dei russi nel giugno
1916. Dopo la rivoluzione russa da prigioniero lavoratore, fu trasferito in una fattoria a 300 km da Mosca. Era appassionato
di musica classica e popolare. Con amici
trentini aveva improvvisato un coretto di
canti di montagna e di brani operistici,
come “La Vergine degli Angeli" dalla forza del destino di G. Verdi.
Un giorno un Pope del villaggio, che lo aveva preso in simpatia lo invitò al funerale di
una personalità molto nota del luogo, per
onorare con un canto il defunto. Il Gattaiola si trovò in difficoltà non avendo canti
adatti per una cerimonia funebre. Nessuno dei russi capiva una parola di italiano,
perciò il “ Maestro “ si arrangiò all’italiana. La salma fu accompagnata al cimitero
al canto di “ La Violetta la va la va “, con
strepitoso successo seguito da molti ringraziamenti e abbondanti libagioni.
1914 – 1918
Testimonianze della Grande Guerra in
Trentino
Soldati in Galizia e prigionieri in Russia
Il primo agosto 1914 in tutto l’impero austro – ungarico, compreso naturalmente
il Trentino, venne dichiarata la mobilitazione generale e la chiamata della leva di
massa. I Trentini arruolati nel 1914 furono
circa 40.000 di cui 1.700 ufficiali di complemento.
Le perdite subite durante l’intero conflitto
furono calcolate in circa 8.000 caduti tra
i quali 502 ufficiali, 14.000 feriti e 12.000
prigionieri. Molti soldati Trentini, pur senza convinzione, combatterono con dignità
e meritarono anche dei riconoscimenti al
Valore militare dall’esercito austro – ungarico.
Il 7 agosto 1914 dalla stazione di Trento
avvenne la partenza del primo reggimento di soldati per la Russia. Parenti e popolazione, con gran commozione facevano
ressa sui marciapiedi. Alla partenza era
presente il Vescovo di Trento Monsignor
Celestino Endrici che benediceva il treno.
I reparti trentini furono inviati in Galizia a
nord dei Monti Carpazi, per fronteggiare
l’esercito russo. Dopo la grande offensiva russa del 29 giugno 1916, che segnò un
colpo fatale per l’esercito austro – ungarico, molti furono i prigionieri trentini e giuliani che vennero inviati in Siberia. Bisogna anche ricordare che ai primi di marzo
1917, scoppiarono in Russia i primi moti
rivoluzionari che portarono alla caduta
dello Zar Nicola II. Questi avvenimenti
furono causa di altre peripezie ai molti
prigionieri. L’esercito russo si era ribellato formando le squadre della rivoluzione
bolscevica. I prigionieri passarono giorni
terribili nel timore di essere uccisi o di
venire rinchiusi a morire di stenti in qualche campo di prigionia. Sotto i loro occhi
videro i soldati bolsevichi uccidere tutti i
proprietari terrieri di quelle fattorie dove
parecchi di loro avevano trovato lavoro.
canti
Sui Monti Scarpazi
e di pioci ancor.
Ma quando, ma quando…..
Quando fui sui monti Scarpazi
Miserere sentivo cantar.
T’ò cercato fra il vento e i crepazi
ma una croce soltanto ho trovà.
Oh mio sposo eri andato soldato
per difendere l’imperator
ma la morte quassù hai trovato
e mai più non potrai ritornar.
Siam prigionieri
siam prigionieri di guera
tuti senza ghevèra ( 1 )
nel suol siberian.
(1) Ghevèra era chiamato dai soldati trentini il fucile
austriaco, da Ghewer = fucile.
Da “Cantanaia“ a cura di L. Viazzi e A. Giovannini –
Ed. Tamari – Bologna
trascriviamo le seguenti strofe.
E grata, e grata e non si può dormir
la pelle è traforata, o che crudel destin.
Maledeta la sia questa guera
che mi ha dato sì tanto dolor,
il tuo sangue hai donato a la tera
hai distruto la tua gioventù.
Io vorei scavarmi una fossa
seperlirmi vorei da me
per poter colocar le mie ossa
solo un palmo distante da te.
Russia fatale, niente di bello tu hai,
cleba, cartoski, e ciaj e di pioci ancor. (2)
(1) Ghevera era il nome dato dai soldati trentini al
fucile austriaco, da Gewer = fucile.
(2) Cleba, cartoski e ciaj = pane, patate e te.
La popolazione trentina deve abbandonare i propri
paesi
Questo triste canto, riportato in patria da
uno dei pochi superstiti, veniva spesso
cantato in una famiglia vicina al nucleo
originario da cui nacque il coro della SAT.
Il testo è sicuramente adattato su qualche
antico frammento melodico.
Nel mese di agosto 1915 il governo austriaco emanò un decreto di ordine immediato dei paesi del Trentino “ per ragioni militari, perché troppo vicini alle linee
del fronte”.
L’annuncio fu dato nella chiesa di Vermiglio durante le funzioni pomeridiane dal
parroco Don Giovanni Pombeni (a sua
volta internato) che precisò che bisognava lasciare i paesi per essere internati in
Austria.
Lo sconforto e la disperazione furono
grandi fra tutta la popolazione. Il 23 e il
24 d’agosto avvennero le prime partenze.
Il treno dopo aver valicato il Brennero,
attraversò Salisburgo, Zell am See, Vienna, giunse al campo di internamento di
Mitterndorf il 28 di agosto. Molti internati
morirono di fame, freddo e malattie. Altre
popolazioni del Trentino furono internate
in Boemia e in Moravia, tristemente noto
fu il campo di Katzenau.
Pure in queste tristi condizioni di vita,
nacquero tra gli internati dei canti per ri-
Siam prigionieri
Siam prigionieri
siam prigionieri di guera
siam su l’ingrata tera
del suol siberian.
Ma quando, ma quando
la pace si farà ?
Ritorneremo contenti
dove la mama stà.
Chiusi in baraca
sul duro leto di legno
fuori tompesta di fredo
e noi cantiamo ancor.
Ma quando, ma quando……
Siam sui pajoni
siam sui pajoni di legno
di pulzi quasi un regno
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canti
cordare la loro terra natia. Molti bambini
impararono alcuni canti popolari in boemo come “ Koline e la mela – titolo originale- Pot dubem “, tradotti ed elaborati
da L. Pigarelli.
I profughi trentini impararono in boemo
anche “Kde domov mùj – Dov’è la patria
mia“, ora inno nazionale ceco, a quel tempo intonato alla fine della messa.
ma tra le baionette
paradi ‘n procession;
le done pianzeva
lassando la so cà
ma i ludri no i aveva
en pel de carità.
Traduzione
Evviva Tabor e la Boemia
almeno in questo paese non si bestemmia
se ci dicono neni oppure nemuzù
non ci dicono mai “ nain velser ferflut “.
De là del Brenner
(Trentinella)
De là del Brenner gh’è ‘na zitadella
che spira in quelaria che innamora
e noi che l’abbiam vista così bella
amiamo tanto quella zitadella.
Non ci hanno messo le manette
per andare alla stazione,
e tra le baionette
ci hanno costretto a camminare in fila,
le donne piangevano
lasciando la loro casa
ma quelle canaglie non avevano
un pelo di carità.
Trentinella , che vuol far
se son de qua del Brenner
no te poss basar.
De là del Brenner gh’è ‘l canon che tona
zerto sarà i Taliani che lo sona,
i lo sona cossì a poco a poco
per far nar via i Tedeschi da sto loco.
Il 4 novembre 1918, ore due di notte, le
truppe italiane entravano a Malè, mentre
iniziava la fuga disordinata dell’esercito
austro-ungarico che tentava di mettersi
in salvo attraverso il Sud Tirol.
Trentinella, che vuol far…..
A Trento le campane più non sona
i l’à levade zò i Tedeschi a far canoni
ma noi che non sem pu sì gran mincioni
o doprerem per lori quei canoni.
Bibliografia
Trentinella, che vuol far…..
A. Mantone “Quando fui sui Monti Scarpazi“- Persico Ed. – 1997
Questo canto fu composto nel campo di
Mitterndorf dai trentini internati.
“Canti della Grande Guerra“ a cura di V. Savona e
M. Straniero – vol. secondo – Ed. Garzanti 1981
L. Viazzi e A. Giovannini – “Cantanaja “ Ed. Tamari
– Bologna 1968
E viva
Tabor e la Boemia
“Canti popolari trentini“ raccolti da Silvio Pedrotti –
Arti grafiche Saturnia – Trento 1976
E viva Tabor ( 1) e la Boemia
almen qua for no i bestemia
se i ne dis negni (2) opur nemuso (3)
no i ne dis nain velser ferflut (4).
No i n’ha mes le manete
par nar a la stazion,
70
canti
Su in montagna
(armonizzazione S. Cestaro)
Addio padre e madre addio
Addio padre e madre addio
che per la guerra mi tocca di partir,
ma che fu triste il mio destino
che per l’Italia mi tocca di morir.
Lascio la moglie con due bambini,
o cara mamma pensaci tu,
quan’ sarò in mezzo a quegli assassini
mi uccideranno e non mi vedrai più.
Su in montagna nel cuor delle Alpi
vieni o nemico se hai del coraggio
che se qualcuno ti lascia il passaggio
noi altri alpini fermarti saprem.
Dove più aspra sarà la battaglia
a corpo a corpo verremo alle mani:
farem vedere che siamo italiani,
faremo onore al patrio valor!
Quando fui stato in terra austriaca
subito l’ordine a me m’arrivò;
mi dan l’asalto la baionetta in canna,
addirittura un macello diventò.
Care mamme che tanto pregate
non disperate pei vostri figlioli,
che sulle Alpi non siamo noi soli
c’è tutta Italia che a fianco ci stà.
E fui ferito, ma una palla al petto,
i miei compagni li vedo a fuggir
e io per terra rimasi costretto
mentre quel chiodo (1) lo vedo a venir.
……………….
Voialtre mamme che soffrite così tanto
per allevare la bella gioventù
nel cuor vi restano lacrime e pianto
pei vostri figli che muore laggiù-
Si riportano versioni raccolte in varie
zone del settentrione d’Italia.
Ascoltate o popolo ignorante
Ascoltate, o popolo ignorante
che della guerra notizie vi darò
se tutti quanti attenzione farete
io tutti quanti pianger vi farò.
(1) L’elmetto dei soldati tedeschi aveva un chiodo, così i nostri soldati chiamavano i tedeschi “i gà el ciodo“
Il ventinove dell’anno novello
Il primo sangue italiano fu sparso,
ma il novantotto nell’ordine sparso
diede l’assalto con gioia e valor.
O Austriaci di razza galera
O Austriaci di razza galera
immani crudeli e senza cuor
rivendicaste d’Italia il valore
e col martirio di noi prigionier.
Ci furon morti e molti feriti
dalle granate e srappel nemici
e un fuoco inferno delle mitragliatrici
e il novantotto in trincea restò.
Una palla mi ha colpito nel petto
nessun piangeva, vedendomi soffrir
e quell’ austriaco austriaco maledetto
voleva certo a farmi morir,
Ma chi piangeva per non avere colpa
e chi gridava implorando soccorso
ma le granate facevano il suo corso
e sfragellando chi tardi fuggì.
Tengo moglie con cinque bambini
ti raccomando di guardarli tu.
Quando sarò in mezzo a quei assassini
mi uccideranno e non li vedrò più.
E chi in trincea e chi dietro le rocce
riparandosi per non esser colpiti
da quei vigliacchi crudeli austriaci
che di nessuno non hanno pietà.
71
canti
storie dell’Italia settentrionale per le loro
ballate, ed è pressoché identica in tutte le
lezioni qui riportate.
Dal libro “Cantanaja“- nella Rivista – L’Alpino del 15/8/1935 – venne pubblicato un
articolo che dichiarava, che già nel 1897,
alla caserma alpina di Aosta in occasione
del 25° anniversario della fondazione del
Corpo, gli anziani del battaglione cantavano questa canzone.
Al comando dei nostri ufficiali
Al comando dei nostri ufficiali
caricheremo cartucce a mitraglia
ma se per caso il colpo si sbaglia
a baionetta l’assalto farem.
Tu nemico che sei tanto forte
fatti avanti, se hai del coraggio,
e se qualcuno ti lascia il passaggio
noialtri alpini fermarti saprem.
Fra le rocce
O care mamme che tanto tremate
non disperate pei vostri figlioli
che qui sull’Alpe non siamo noi soli
c’è tutta Italia che a fianco ci stà.
(armonizzazione F. Mingozzi)
Fra le rocce , il vento e la neve
siam costretti la notte a vegliar.
Il nemico crudele e rabbioso
lui tenta sempre il mio petto a colpir.
Genitori piangete piangete
se vostro figlio non dovesse tornar.
Vostro figlio è morto da eroe
sull’alte cime del Monte Cauriol.
E tu Austria
Su su cantiamo guerrieri alpini
che delle Alpi noi siam bersaglieri
e fra le rocce e gli aspri sentieri
mai nessun colpo fallito sarà.
Il suo sangue l’ha dato all’Italia,
il suo spirto ai fiaschi de vin.
Faremo fare un gran passaporto
o vivo o morto dovrà ritornar.
Noi siam giovani, forti e robusti
sopportiamo fatiche e sventure
cara Italia tranquilla stai pure
che gli Alpini salvarti sapran
Il testo di questa versione, sembra sia
stato scritto dai combattenti del 7° reggimento alpini.
Sul cappello portiamo il trofeo
dei Reali di Casa Savoia
noi lo portiamo con fede e con gioia
viva Vittorio il nostro sovran.
E la luna che a l’estro c’invita
E la luna che a l’estro c’invita
sarà al fianco de’ miei genitor.
Cara Italia tranquilla stai pure
sempre pronti noi siamo ai confini
ben difenderti sapranno gli Alpini
cara Italia tranquilla stai pur.
Non piangete, oh miei genitori,
se il destino lontan mi mandò.
Fra le rocce, il vento e la neve
siam costretti la notte a vegliar.
Dalla raccolta “Canti della Resistenza armata in Italia" si trascrive, l’ultima strofa,
sempre sull’aria di “Su in montagna“:
O Germania che sei la più forte
fatti avanti se ci hai del coraggio;
se la repubblica ti lascia il passaggio
noi partigiani fermarti saprem.
La linea melodica di questo canto proviene da un antico modulo usato dai canta-
Il nemico crudele e rabbioso
tenta sempre al mio petto puntar.
Penso sempre al paese natio,
ai miei fratelli, ai miei genitor.
Non piangete, oh miei genitori,
se vostro figlio non vedrete tornar.
72
canti
tenere il possesso dell’unico ponte, che
attraversava il fiume Vojussa. Il ponte di
Perati era situato sul confine greco – albanese, la Vojussa è un fiume a regime
torrentizio, che a causa delle forti pioggie
di quella stagione, con la sua impetuosa
corrente travolse spesso soldati e muli
con le salmerie.
Vostro figlio è morto da eroe
sulla cima dell’alto Cauriol.
Il suo sangue lo ha dato all’Italia,
il suo spirto volerà su nel ciel.
Il monte Cauriol (m 2494 ), sorge nella catena del Lagorai nel Trentino orientale, e
domina Predazzo in Val di Fassa. Nel luglio e agosto del 1916, fu teatro di aspri
combattimenti fra l’esercito austriaco e
gli alpini dei battaglioni Feltre e Val Brenta, che riuscirono a conquistarne la vetta.
In cinque giorni di dura lotta caddero più
di trecento alpini ed oltre mille vennero
feriti.
Sul ponte di Perati
Un coro di fantasmi
scende dai monti,
è il coro degli alpini
che sono morti.
(armonizzazione G. Malatesta)
Sul ponte di Perati
bandiera nera:
è il lutto degli alpini
che fan la guerra.
Sul ponte di Bassano
bandiera nera,
l’è el lutto degli alpini
che fan la guerra.
Sui monti della Grecia
c’è la Vojussa
col sangue degli alpini
s’è fatta rossa.
L’è el lutto degli alpini
che fan la guerra,
la meio zoventù
che va soto tera.
Alpini della Julia
In alto i cuori,
sul ponte di Perati
c’è il Tricolore.
Nell’ultimo vagone
c’è l’amor mio,
col fazzoletto in mano
mi dà l’addio,
Col fazzoletto bianco
mi salutava
e con la bocca i baci
la mi mandava.
Sulla base di questo motivo musicale,
durante la Resistenza, venne scritto nel
marzo 1944 da Nuto Revelli – ufficiale degli Alpini in Russia –, allora comandante
della Banda Italia Libera, il testo di “Pietà
l’è morta“.
Bandiera nera
Lassù sulle montagne
bandiera nera,
è morto un partigiano
nel far la guerra,
un altro italiano
va sotto terra.
……………………….
Tedeschi e fascisti
fuori d’Italia!
Gridiamo a tutta forza:
“Pietà l’è morta“.
Questo canto è stato adattato dai nostri
soldati, da antichi motivi veneti, e si diffuse molto rapidamente nel 1915-18, fra
tutte le armi dell’esercito.
Nella seconda guerra mondiale, gli alpini
della divisione Julia, duramente provata nell’offensiva contro l’esercito greco,
fra l’ottobre 1940 e l’aprile 1941; presero
parte ad accaniti combattimenti per ot73
canti
Dove sei stato mio bell’Alpino
E la Violetta la va, la va, la va.
(armonizzazione G. Malatesta)
(armonizzazione G. Malatesta)
Dove sei stato mio bell’alpino
dove sei stato mio bell’alpino
che ti ha cambià colori?
L’è stata l’aria del Trentino
l’è stata l’aria del Trentino
che mi hà cambia colori.
I tuoi colori ritorneranno,
i tuoi colori ritorneranno
questa sera a far l’amore
Questo canto è stato adattato dagli alpini
da un antica canzone popolare veneta che
trascriviamo.
Era una notte che pioveva
Strofette sfottitorie e satiriche
E la Violetta la va, la va, la va
la va sui campi e la se insognava
che l’era ‘l so’ Gigin che la rimirava.
Era una notte che pioveva
e che tirava un forte vento,
immaginatevi che grande tormento
per un alpino che sta a vegliar.
Perché tu mi rimiri Gigin d’amor,
Gigin d’amor ……
io ti rimiro perché tu sei bella,
e se tu vuoi venire con me alla guerra.
A mezzanotte arriva il cambio
accompagnato dal capoposto:
o sentinella torna al tuo posto
sotto la tenda a riposar.
E mi non voi venire
Gigin d’amor …….
Non voi venire con te alla guerra,
perché si mangia mal e si dorme per terra.
Quando fui stato sotto la tenda
sentii un rumore giù per la valle,
sentivo l’acqua giù per le spalle
sentivo i sassi a rotolar.
Sull’aria della canzoncina “Bombacè“ diffusa tra i soldati della campagna di Libia
del 1911, nella guerra 15-18, nei vari fronti, ebbero origine una serie interminabile
di stornelli con il famoso ritornello “Bim,
bum, bom al rombo del cannon“.
A farne le spese furono soprattutto i generali, primo fa tutti il general Cadorna.
Riportiamo alcune versioni (sono decine
e decine).
Si riporta una versione raccolta nel Trentino, a Chizzola frazione del comune di
Ala.
La Celestina in cameretta
O sonadori
La Celestina in cameretta
che ricama rose e fior.
Vien da basso o Celestina
ch’è rivà il tuo primo amor.
O sonatori sonè sonè
soneghe suso ‘na bela marciada
a la Violeta che la va a l’armada.
E la Violeta la va, la va….
Se l’è rivato lassè ch’el riva,
mi son pronta a far l’amor.
A far l’amore ci vuol vent’anni
e una bambina e del buon vin.
…………………..
No, no, no vegno con ti a la guera
perché se magna mal, se dorme ‘n tera.
Ma ti en tera no te dormirai:
te dormirai su ‘n leto de piuma
con quatro basalier (1) che se consuma.
O Celestina sei la mia stella,
guarda il mio cuor,
ci troverai un fiorellino per te di amore.
Te dormirai su ‘n leto de lana
con quatro basalier che te ama.
Un fiorellino fatto di sogni,
e di speranze di pace e non di dolor.
(1) bersaglieri.
Il motivo “perché si mangia male e si dorme per terra“ si ritrova all’inizio di una
canzone documentata sin dal 1582 “Il soldato va alla guerra“. Da “Il fiore della lirica veneziana – vol. IV – Lirica popolare“ a
cura di M. Dazzi.
Fatto di sogni sognati in cielo,
non di dolori tra monti e terra
per fare la brutta guerra.
Ma i tuoi dolori passeranno
a questa sera quando verrai a far l’amor.
74
canti
Il general Cadorna
ha scritto alla regina
se vuoi veder Trieste
te la mando in cartolina.
Bim,bum,bom al rombo del cannon.
Mentre dormivo sotto la tenda
sognavo d’esser con la mia bella
e invece ero di sentinella
fare la guardia allo stranier!
Allora la regina
rispose al generale
se vuol vedere Trento
si compri un cannocchiale.
……………..
Appena giunto in fondovalle
arriva l’ordine dal reggimento,
arriva l’ordine dal reggimento:
tutti in licenza dobbiamo andar.
Il general Cadorna
si mangia le bistecche
ai poveri soldati
dà le castagne secche.
…………………
Il general Cadorna
ne ha fatta una grossa
ha messo le puttane
nella Croce Rossa.
…………………
Il general Cadorna
‘l mangia, ‘l beve, ‘l dorma,
ma quando va in trincea
gli viene la diarrea.
…………………
Il caporal maggiore
che comanda là in cucina
l’hò visto ieri sera
andar dalla biondina.
………………….
Così si spiega subito,
e senza fare torto,
dov’è che van a finire
i generi di conforto.
…………………..
Appena fui giunto in licenza
credevo d’esser di sentinella
e invece ero con la mia bella
sotto le piante a fare l’amor.
Questo canto fa parte del repertorio di
molti cori alpini, tra i quali anche il nostro
coro sezionale.
Ricorda gli aspetti più dolorosi della vita
militare; i disagi, il freddo, la lontananza
dalla donna amata. Si ritrova in quasi tutto il settentrione d’Italia. Una strana versione è stata raccolta, in anni recenti, in
un cantiere edile a Roma, dove sullo stesso motivo di – era una notte – la parola
“alpino“ era sostituita da “operaio“.
75
canti
Da “Fino all’ultimo sangue. Sulle rive del
Piave alla battaglia del Solstizio con il tenente Vincenzo Acquaviva“ di S. Gambarotto e R. dal Bo – Istituto per la Storia del
Risorgimento Italiano – comitato di Treviso – I° edizione maggio 2008.
I nostri richiamati
sono andati da Cadorna
perché le loro mogli
gli fan portar le corna.
…………………….
Cadorna gli ha risposto
non fate meraviglia,
quando andrete a casa
troverete più famiglia,
……………………
A destra dell’Isonzo
ci stà una passerella.
se stanco sei di vivere
dovrai passar per quella.
……………………..
Un tempo rinforzavano
Il fante con la sgnappa,
ti mandano ora il fante
a rinforzare il Grappa.
………………………
In cima a monte Merzli
l’austriaco butta ‘o razzo.
Noi risparmiamo a’ luce
non ce ne frega o’ c…o.
Bim, bum, bom al rombo del cannon.
Spesso erano i superiori ad ordinare ai
soldati in prima linea di cantare di notte,
per coprire il rumore dei genieri zappatori che stendevano i reticolati, oppure
scavavano trincee o postazioni per mitragliatrici.
Riportiamo alcuni canti degli eserciti austro-ungarico e tedesco di quell’epoca.
Nel mese di agosto 1914, in tutto l’impero austriaco – compreso naturalmente il
Trentino, venne dichiarata la mobilitazione generale. I coscritti trentini arruolati
furono circa 40.000 e vennero mandati
sul fronte russo per il timore di diserzioni
verso l’Italia. I caduti furono 8.000, feriti
14.000, prigionieri 12.000.
Questo canto nato tra i coscritti, deriva
probabilmente da un'antica melodia ottocentesca raccolta in Val Lagarina.
“Canta che ti passa“, era una incitazione
che i soldati esclamavano per aiutarsi
l’un l’altro per vincere i momenti di paura
e di nostalgia. Hai paura? – canta che ti
passa – hai freddo, fame? – canta che ti
passa – hai rimpianto della tua casa, della tua mamma, della tua sposa? – canta
che ti passa -.
17 giugno 1918 – fronte sul Piave.
“Il sole era tramontato, le stelle si distinguevano più nette… Ed improvviso si alzò
un canto….Era di uomini che forse il giorno dopo non sarebbero più stati. Erano
in molti a cantare. Le voci si univano fra
loro… Ed al canto fu risposto col canto…
Dovunque in giro era la stessa canzone
che si alzava, la stessa canzone triste e
nostalgica …Erano voci… che invocavano
la famiglia, la casa, i parenti, gli amici…
Era scomparso il combattente e restava
l’uomo con tutti gli affetti…Ma il canto a
poco a poco diminuiva… Il canto svaniva
tenue, lentamente.
Quel porco de quel medico
Quel porco de quel medico
l’è stà la mè rovina
che sabo de matina
me toca nar soldàE la nostra sentenza
l’ei fata l’ei scrita
e la nostra sentenza
l’ei fata cossì.
E se ‘l m’à fato taublich (1)
morosa casca ‘n tera
e ciapo la ghèvera (2)
del nostro imperator.
76
canti
butali ‘ntorno al mur.
pre.
E la nostra sentenza…..
Falkenhayan e Mackensen (2) guidano i
tedeschi,
ed anche Bulgaria e Turchia ci seguono.
E ti morosa ciàvete
che mi son ciavàto
Una parte va verso il Danubio, già in questa settimana
e noi scendiamo dai nostri boschi verso
l’Italia.
tre ani de soldato
me tocherà de far.
E la nostra sentenza …..
Tutti già tendono le orecchie e ridono di
nascosto,
aspetta Romania, stà in guardia che ti farem scoppiar.
Va là va là sargente
prepara la pagnoca
che melitar me toca
pagnoca magnerò.
E la nostra sentenza …..
(1) Carlo I° d’Asburgo divenne imperatore d’Austria
e re d’Ungheria nel novembre 1916, alla morte di
Francesco Giuseppe.
(2) Eric von Falkenhayn dal 1914 fu Capo di stato
maggiore dell’esercito tedesco.
August von Mackensen comandò nel 1916 le truppe
tedesche nella grande offensiva in Galizia contro la
Russia.
(1) da tauglich: Für den Militardienst taugliche =
abile al servizio militare.
(2) da Ghèwer = fucile austriaco.
La canzone dei Kaiserjager
Hai paura?
Noi Kaiserjager cantiamo una lieta canzone
uguale per tutti, al nord ed al sud
all’est ed all’ovest, dovunque sventoli il
nostro vessillo.
Noi siamo i migliori finché esiste la fedeltà.
Quando ci vedono tutti accorrono da ogni
parte.
Sono i Kaiserjager del primo reggimento!
Sono i Kaiserjager del secondo reggimento!
……………………
Hai freddo, hai fame?
Senti la febbre per l’azione
che dovrà cominciare
e nella quale ti butterai
a capofitto senza speranza
di conservarti la vita?
Canta che ti passa
Settembre 2008
a cura di Piero Trentin
1916
E la nostra sentenza …..
L’imperatore Carlo (1) vuole di nuovo
scendere in guerra
e affida il comando ai suoi generali.
Pianzè pianzè putèle
che quatri scarti resta
ciapali per la testa
Artiglieria leggera e pesante, fanteria e
cavalleria
vanno alla dura guerra ed avanzano sem77
canti
Bibliografia
“Canti della Grande Guerra“ Voll. I° e II° a cura di V. Savona e M. Straniero.
Garzanti Ed. Milano 1981
“Su in montagna“ G. Malatesta. Ed. Zanibon Padova 1967
“Tapum – canzoni in grigioverde“ a cura di Salsa, Piccinelli, Bozzi
Ed. Piccinelli – Roma
“Cantanaja“ di L. Viazzi – A. Giovannini. Tamari Ed. Bologna 1968
“Canti popolari Vicentini“ a cura di V. Paiola e R. Leydi. Neri Pozza Ed. Vicenza 1975
“Canti popolari trentini“ raccolti da S. Pedrotti. Arti Grafiche Saturnia Trento 1976
“Sui monti Scarpazi“ 50 canti popolari. Ed. F.lli Pedrotti Trento 1973
L’Automobile s.a.
Concessionaria Fiat
Viale delle Nazioni, 10
37135 Verona
Tel. 045 9210710
Lasercar Srl
Località Villabella, 12
37047 San Bonifacio (VR)
Tel. 045 6131000
Fax 045 6131866
Discografia
Sono moltissime le incisioni di questi canti, pertanto segnaliamo quelle di questi
Cori:
Coro della Sat
Coro Ana di Milano
Coro Alpino la Grangia
Coro monte Cauriol.
Coro del CAI di Padova
per questi canti : Su in montagna – Bandiera nera – Dove sei stato mio bell,alpino –
La Violetta –Monte Cauriol.
Dischi Durium
Canti degli Alpini -ep A 3065 – 45 g.
Canti degli Alpini – II° raccolta – ep A 3280 – 45 g.
Canti della montagna – ms A 540 – 33 g.
Canti della montagna – ms A 581 – 33 g.
I Canti della Grande Guerra – ( nel cinquantenario dell’entrata in guerra dell’Italia )
serie cicala BL 7023 33 g.
Ricordi
Italia canta – Canti di montagna – CD – ICCD 5.
Giampaolo Baliello
Cell. 349 6464025
AUTOVETTURE E VEICOLI COMMERCIALI
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