La scelta - Blog di Flavio Vari

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La scelta - Blog di Flavio Vari
“La scelta”
Italo De Gustibus era il più grande produttore mondiale di caffè, primato al quale si affiancava
quello del più grande intenditore.
Quarant’anni, alto un metro e settantacinque, magro, ma con un fisico ben curato in palestra,
occhi nocciola e un mento delicato, arredato da una rada barbetta, portava una capigliatura che
ancora non si decideva a mostrare i segni del tempo, bruna e folta, pettinata “alla spettinata”, con le
mani, usando la giusta dose di gel. Indossava la sua camicia preferita, una larga mezze maniche con
più colori di quanti ne possiede l’arcobaleno, che cozzavano tra loro come in una Guerra Mondiale
di tonalità, rigorosamente fuori dai pantaloni in lino, e infradito nere di pelle.
Per la speciale occasione si era recato nel suo palazzo, un monumento di proporzioni titaniche e
dallo stile architettonico assolutamente unico, unico davvero, unico esemplare in tutto il globo: un
tronco di piramide a base quadrata come le piramidi azteche, ma dalle pareti lisce come quelle delle
piramidi egiziane; delle prime aveva anche le larghe scalinate, una per ogni faccia, che
conducevano alla sommità, ove sorgeva un piccolo castello medievale protetto da mura alte una
decina di metri. L’edificio sorgeva al centro di un vasto pianoro coperto da erbetta bassa e rada.
Dalla base delle scalinate partivano quattro strade sterrate, in direzione dei quattro punti cardinali,
tagliando in altrettante fette il pianoro e la sconfinata giungla che avvolgeva tutto.
Qual era la speciale occasione che lo aveva portato lì? La scelta semestrale dei chicchi di caffè.
L’azienda De Gustibus aveva centri di raccolta e smistamento in tutti i paesi produttori di caffè
della fascia intertropicale, che provvedevano a un’accurata selezione di ogni singola drupa
proveniente dalle sue piantagioni, nelle quali si praticava esclusivamente il “picking”: questo voleva
dunque significare che tutto il caffè De Gustibus veniva trattato col metodo “lavato”, il migliore in
fatto di qualità e garanzia di un prodotto omogeneo.
Ma la scelta del non plus ultra, il chicco da cui sarebbe nata l’opera più sublime, la partita che
avrebbe creato quella crema adatta ai palati più raffinati ed esigenti, spettava solamente a lui.
E gli piaceva farlo con solennità, nella suggestiva atmosfera del suo castello, piccolo atollo al
centro di un oceano di foglie smeralde.
Tutto era pronto.
Lui era pronto.
Seduto sul trono della Sala della Scelta, proprio come un re, parlottava allegramente con dieci
rappresentanti di altrettanti centri aziendali – da lui personalmente invitati ad assistere all’evento –
che avevano preso posto, cinque per parte, su eleganti scranni addossati alle pareti laterali, e
reggevano una penna e un blocco notes.
La sala era inondata dalla calda luce solare, che irrompeva dalle finestre monofore e dal grande
portale spalancato, ai lati del quale vi erano due araldi per lato, vestiti con abiti medievali che a lui
piaceva tanto fargli indossare per l’occasione; ciascuno di loro reggeva una tromba.
Già al mattino, la terra fu messaggera dell’arrivo imminente dell’élite delle piantagioni De
Gustibus: tremolii lontani precedevano i passi cadenzati dei reggimenti in marcia e ne
annunciavano, alzando costantemente la voce, il lento, inesorabile avvicinarsi.
Quattro eserciti, decine di migliaia di chicchi di caffè, incedevano ognuno da una direzione
diversa, calcando le strade polverose che facevano breccia nella giungla fino al castello; giunti ai
piedi della piramide, si fermarono e attesero.
Alla sommità delle scalinate comparvero gli araldi, che diedero il benvenuto con potenti squilli
di tromba.
Da ogni esercito si staccò un rappresentante: il chicco migliore, il primo della classe, il rettore
del gusto, l’eletto della propria razza.
Salirono le quattro scalinate, e gli araldi li accompagnarono fino alla Sala della Scelta.
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Italo De Gustibus aveva smesso di parlare con i dieci rappresentanti. Aspettava, con la calma
del mare che riposa, con la serenità di un cielo terso, al tempo stesso ansioso di conoscere questi
campioni, questi dei della coffea. Ogni volta, il momento dell’incontro lo riempiva di orgoglio, e lui
ne andava fiero, perché alla fine non ne usciva mai deluso, le aspettative sempre pienamente
ripagate.
Quattro nere silhouettes comparvero sull’abbacinante soglia della sala; in queste, Italo De
Gustibus riconobbe gli araldi, che precedevano gli ospiti; una volta entrati, gli araldi ripresero il
loro posto.
Dappresso entrarono altrettante silhouettes che, venendo avanti, pian piano rivelarono il loro
aspetto.
Partendo dalla sinistra di De Gustibus, i primi tre avevano la pelle bluastra, l’ultimo presentava
una colorazione giallo-verde. “Tre Arabici e un Robusto”, pensò Italo. A dir la verità non si
aspettava la presenza di un Robusto – e storse leggermente il naso, vedendolo – ma non voleva
giudicare prima di aver esaminato attentamente: lui si considerava imparziale, e non era solito fare
di tutta l’erba un fascio.
Il primo in realtà era una lei, un flat bean dalle curve sinuose. Vestiva come un’odalisca, in
abito purpureo; il ventre era nudo, e all’ombelico portava un piercing con diamante; un fine velo di
seta le offuscava i tratti del viso dal naso in giù, lasciando scoperti gli occhi, di un verde brillante;
portava monili d’oro ai polsi e alle caviglie, adorni di ciondoli raffiguranti soli e lune che
discorrevano allegramente quando lei si muoveva. Le movenze erano sensuali, e quell’avanzare
ancheggiando risvegliava ogni ardore. A ogni passo sprigionava un profumo speziato e
cioccolatoso, che ricordava il gusto del caramello e della mandorla insieme, e che spremette le
ghiandole salivari di ciascun presente: il miliardario e i dieci rappresentanti inghiottirono, quasi
all’unisono, un sorso invisibile di caffè, immaginandolo così come sarebbe potuto scaturire
dall’anima di quella dea.
Il secondo era un altro meraviglioso flat bean, alto poco più del primo, dalla corporatura
gagliarda e una pelle le cui tonalità verdi e blu si incontravano, si abbracciavano, si fondevano in un
surreale turchese. Lo sguardo era fermo, impassibile, fiero, e tali anche i suoi passi, che egli
muoveva come se stesse ancora marciando con il suo esercito. Indossava solo un perizoma di pelle
e una collana di pietre d’ambra e quarzo ametista. Sulle spalle portava uno zainetto di pelle. Il
braccio sinistro reggeva un grosso scudo a goccia, recante al centro l’emblema della sua nazione –
uno scudo svizzero troncato d’azzurro, ritroncato di bianco e d'azzurro, con due cornucopie e una
melagrana, un berretto frigio e l’istmo di Panama, il tutto sormontato da un condor e dalla scritta
libertad y orden, e ornato dalle bandiere di stato; nella mano destra una lunga lancia dalla punta in
acciaio.
Il terzo era il chicco più grosso, decisamente più grosso: superava il secondo di due crivelli, e
aveva un fisico traboccante di muscoli, un Mister Olympia dei chicchi di caffè. Mascella squadrata,
pupilla guizzante – sintomo di un carattere estremamente vivace – e un pregevole profumo che è
d’obbligo per un capo carismatico. Indossava una maglietta verde militare a mezze maniche, un
gilet da pesca, pantaloni mimetici e un paio di anfibi neri, e sulla testa un tipico cappello da
pescatore; appeso alla cinta portava un enorme machete. Un particolare rendeva questo chicco
agghiacciante: dal collo gli pendeva una collana fatta di teschi di insetti, così come tutto intorno alla
cinta.
L’ultimo chicco – quello dal colorito giallo-verde – era un po’ più mingherlino anche della
donna, a ben guardarlo, e poi non era un flat bean, in effetti, bensì un bourbon dalla forma
arrotondata e convessa. Indossava un kurta pajama bianco – l’abito lungo usato in India – finemente
ricamato con fili d’oro al bavero, tenuto stretto in vita con una cinta nera da cui pendeva una
scimitarra, mojari dorate dalla punta arricciata verso l’alto ai piedi e un safa in stoffa Lahariya
bianco e nero sulla testa. Portava dei baffetti sottili della lunghezza del labbro superiore. Nonostante
l’aspetto nobile, distinto, e il gradevole odore di legni pregiati e spezie orientali, accompagnato da
un retrogusto di cioccolato amaro, aveva negli occhi una luce strana e attenuata da un evidente
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nervosismo, dato probabilmente da una situazione di disagio. Perché? Al momento non era
comprensibile, ma egli camminava leggermente più distanziato dai tre; tendeva, inoltre, mentre si
avvicinava, a evitare lo sguardo di Italo De Gustibus.
Il miliardario batté loro le mani, nel momento in cui costoro si fermarono, a quattro metri da lui;
poi staccò il dorso dallo schienale, protentendosi leggermente verso i chicchi, e iniziò a parlare a
gran voce.
«Bravi! Belli! Superbi! Magnifici! Benvenute, mie eccelse creature. Benvenuta, divina
progenie, esseri perfetti, perfetti emissari delle vostre stirpi. Siete giunti qui – e lo sapete – giacché
siete stati scelti tra più di cento varietà di caffè che io coltivo in tutti i paesi che sorgono al di sopra
dell’Equatore, ma…solo uno di voi, uno e il suo esercito, avrà l’onore di prendere posto nella mia
riserva personale e di deliziare i palati dei più grandi intenditori di caffè della Terra, e non solo: capi
di stato, luminari della scienza, personalità del mondo dello spettacolo…
«Vostro sarà il compito di mettervi in mostra, di stupirmi, di ammaliarmi, di convincermi a
scegliervi. Per far questo, non dovrete far altro che essere voi stessi, e dare il meglio di voi stessi.»
I dieci delegati applaudirono entusiasti alle parole del capo, e a questi si unirono gli applausi dei
quattro.
Italo De Gustibus, additando il primo chicco alla sua sinistra, disse: «Comincerò proprio da te».
Le sorrise, e lei ricambiò con un inchino, facendo poi un passo avanti.
«Dunque, vediamo», si concentrò lui, chiudendo gli occhi e inspirando profondamente,
«profumo speziato e cioccolatoso, sentore di caramello e mandorla, un corpo da sogno: tu devi
essere Antigua, dalle terre del Guatemala».
«Esatto, mi señor», confermò lei, porgendogli un altro inchino e un sorriso accattivante.
«Sì, Antigua, come il mestiere che fa, il più “antiguo” del mondo», la sbeffeggiò
inaspettatamente il chicco più grosso, ridacchiando con un suono gutturale alla propria battuta.
«Ehi, tu» intervenne uno dei dieci delegati, alzandosi in piedi di scatto, «parla soltanto quand’è
il tuo turno, ed evita le offese: siamo tra persone civili».
«No, no» si intromise Italo. «Lascialo esprimersi quando e come vuole. L’ho detto: naturalezza.
È essenziale per la mia scelta».
Il grosso chicco ghignò di sadica soddisfazione; guardò negli occhi Antigua, che lo squadrò a
sua volta con un misto, negli occhi, di stizza e compassione, e ricambiò l’offesa con l’offesa: «Di’
un po’, gran pezzo di borlotto, quella grossa arma ti serve per compensare qualche altra carenza?»
Il “borlotto” fu ferito sia nel suo orgoglio di chicco di caffè che nell’orgoglio di maschio, e si
fece avanti dicendo: «Adesso ti mostro che non ho carenze, putita».
Il secondo, quello armato di scudo e lancia, gli si parò davanti ammonendolo: «Attento a quello
che fai, amigo».
«Perché? È forse la tua donna? Ah, il damerino è innamorato».
«Non la conosco nemmeno, e non m’importa niente di lei. Dal mio paese provengono le donne
più belle del mondo. Il fatto è che non mi piace come tratti le donne. È meglio che tu rimanga al tuo
posto, amigo».
Si fissarono negli occhi per un interminabile istante, dopodiché il grosso chicco si ricompose,
guardando Antigua e indirizzandole dei sonori, volgari bacetti.
Italo osservò tutta la scena con voracità e cupidigia, elettrizzato dalla carica che avvertiva in
ognuno di loro; beh, forse quella del chicco più grande era un pochino esagerata, ma tutto ciò lo
eccitava, e non poté fare a meno di notare con quanta fermezza Antigua e l’altro avevano saputo
contrastare il grosso, incuranti delle sue dimensioni.
«Tu devi essere un Medellin, dalle terre della Colombia», asserì, rivolgendosi al guerriero, il
quale fece cenno di sì col capo, «e tu…tu sei troppo grosso per essere un maragogype qualunque:
devi essere un maragogype del Nicaragua».
Il guerrigliero si batté il petto con la destra e sbatté i tacchi: «Claro, hombre».
Il chicco dalle vesti indiane rise: una risatina sommessa, quasi isterica, che attirò l’attenzione di
quest’ultimo.
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«Hola, pisellino. Cos’hai da ridere?» gli domandò il maragogype, assestandogli una sonora ed
energica pacca sulla spalla che per poco non lo fece cadere bocconi.
Il piccolo, tenendo il capo chino, sibilò a denti stretti: «Non lo fare più, fratello, non gradisco
essere toccato da quelli della tua specie».
Italo avvertì il tono aspro e perentorio di quella frase. “Mmmm, ecco un chicco che non va bene
per tutte le miscele”, pensò.
Il maragogype si risentì dell’espressione indubbiamente razzista. Si protese verso di lui,
sovrastandolo; sulle tempie dell’altro cominciarono a scendere le prime gocce di sudore, ma costui
tenne ancora il capo chino. «Bene. Cosa abbiamo qui? Un pidocchio che gioca a fare il gigante?
Ma, dico: ti sei visto? Sei piccolo, patetico, rotondo, insignificante, con questo colore di pelle che
solo a guardarlo offende la vista. Non sei proprio nella posizione di poter fare il razzista, tu.
Semmai, del razzismo dovresti esserne vittima. Dovresti essere già abbastanza grato alla natura per
averti concesso un’esistenza, anche se io, al posto tuo, mi sarei già ucciso».
«Tu vaneggi», azzardò il piccolo, evitando sempre di alzare la testa. «Io vado fiero di quel che
sono».
«Fiero? E perché non alzi il capo a mostrare la tua fierezza?»
“Già, perché?”, pensò Italo.
«E poi, che cosa saresti? Sentiamo».
«Sono un Robusto».
A quelle parole, il grosso scoppiò in una fragorosa risata.
«Resisto meglio di voi Arabici alle malattie e ai parassiti», rimarcò il piccolo.
Il maragogype s’interruppe. Afferrò la collana di teschi e gliela sventolò davanti al naso,
dicendogli con vanagloria e con un tono da sbruffone: «Non mi sembra che io abbia problemi di
parassiti». L’ultima parola, quasi gliela vomitò addosso, imperlandogli il viso di gocce di saliva.
Il piccolo era paonazzo dalla rabbia; tuttavia non reagì, limitandosi ad asciugarsi il viso e a
ingoiare il rospo.
“Perché non reagisci?”, gli avrebbe voluto urlare Italo, ma non era affar suo: lui non doveva
interferire, influenzare; solo studiare. «Il tuo colore e la tua fragranza un po’ amarognola ti rendono
inconfondibile: devi essere un Kaapi Royal» disse invece, divertendosi ancora a indovinare.
«Sono ai vostri servigi» proferì il bourbon, salutandolo con il Namaste, il saluto indiano.
Italo sorrise e ricambiò rispettosamente il saluto, conscio del suo profondo significato. Un
sorriso finto, di circostanza, poiché continuava ad avvertire una sensazione strana che lo metteva in
guardia da quel chicco: il nervosismo trapelava a ogni parola, a ogni gesto, per quanto Kaapi
tentasse di nasconderlo. Nervosismo e voglia di occultarlo: due misteri che non riusciva proprio a
spiegarsi. Riflettendo poi bene, però, si accorse che l’idea di questi misteri lo incuriosiva, lo
attirava. “Misteri d’Oriente!”. Immaginava un ingrediente indefinito, indecifrabile e segreto che, in
quanto tale, invogliava la gente ad avvicinarsi, ad assaggiare, a immergersi in una sfida di palati per
capire quale fosse. Il mistero glielo fece rivalutare.
Ci furono attimi di silenzio nella sala, che Italo provvide a interrompere.
«Riprendiamo da te, Antigua. Perché porti quel vestito? Non è decisamente un tipico abito
guatemaltese».
«No, infatti» gli rispose con un tono dolce quanto il suo profumo. «Sono appassionata di culture
etniche. Quest’abito mi sembrava il più adatto per l’occasione. Amo le arti marziali, anche. Sono
un’abile combattente: la mia arma preferita è il sai», e detto questo, prese da dietro la schiena due
sai, facendoli roteare con i pollici sui palmi come se fossero pistole.
Il maragogype si lasciò andare a un’altra risata come la precedente. «Cosa ci fai con quegli
stuzzicadenti?»
Antigua impugnò i sai, bloccandoli e incrociandoli con un gesto secco e deciso, e si girò verso
di lui: «Te li potrei infilare sulle olive, tanto per cominciare».
«Perché non ci provi?» ruggì lui, proiettandosi di nuovo in avanti e staccando dalla cintola il
machete.
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I dieci delegati schizzarono in piedi, pur non osando intervenire, ma limitandosi a guardare con
aria supplichevole il loro mecenate.
Italo De Gustibus, tuttavia, non si mosse.
Chi intervenne prontamente fu di nuovo Medellin, che divaricò le gambe, portando indietro la
destra, posizionò bene lo scudo davanti a sé e protese la lancia verso la gola dell’energumeno, il
tutto con sorprendente velocità.
Antigua assunse anche lei una posizione difensiva, simile nella postura a quella del colombiano.
Il maragogype desistette ancora: era noto che i flat bean di Medellin erano tra i migliori
guerrieri dell’America centro-meridionale, e, benché di stazza maggiore, non se la sentiva di
misurarsi.
Kaapi rise di nuovo, ancor più sommessamente.
Il grosso l’udì lo stesso. Si voltò, e furibondo gli assestò un pugno in pieno viso, colpendolo di
rovescio con il dorso della mano.
L’indiano cadde disteso.
Subito un paio di delegati più vicini a lui accorsero, ma egli li fece rinunciare agitando
freneticamente la mano: «Fermi! Non mi serve aiuto. Vi prego, tornate al vostro posto».
I due fecero come lui desiderava.
Si toccò lo zigomo: una bella botta, niente sangue.
«Vediamo se ora ti è passata la voglia di ridere sotto quei baffi da frocetto», sbraitò il
maragogype, riallacciando il machete alla cintola.
Kaapi continuò a tenere lo sguardo basso e a deglutire; le sue narici si allargavano a ogni
inspirazione.
Italo aveva assistito con calma apparente a tutta la scena, facendo tesoro di ogni singolo
fotogramma. Dentro di sé era un vulcano in eruzione, però: le emozioni che gli suscitavano questi
quattro chicchi di caffè erano intense, indescrivibili; in un lampo aveva percorso un arcobaleno di
sensazioni, esplorato tutta la gamma dei sentimenti umani: amore, odio, passione, desiderio, gioia,
dispiacere, calma, rabbia, irrequietezza, estasi, frustrazione, appagamento, e ciascuno di essi si
mescolava, si fondeva in un'unica essenza vaga, indistinta, che lo travolgeva dall’interno e lo
spingeva sull’orlo del precipizio, non per gettarvelo dentro, al contrario per fargli spiccare il volo,
elevarlo al terzo cielo dantesco e fargli gridare: «Caffè ti amo! Caffè sei la mia vita! E voi quattro,
miei esseri perfetti, vi scelgo tutti!»
Resistere a quell’impulso fu la più orrenda delle torture, la peggiore di tutte le segregazioni
dell’anima. In una certa misura vi era abituato: gli capitava in ogni incontro, ma questo, di tutti, si
stava rivelando il più intenso. Continuò ad assistere con il distacco del corpo e il coinvolgimento
della mente e del cuore.
“Questo non è buono”, osservò tuttavia, dopo l’ennesima rinuncia a qualsiasi tentativo di
reazione da parte di Kaapi. “Non puoi tenerti tutto dentro: il tuo gusto s’inasprisce, l’aroma cambia,
si deteriora…e alla fine esploderai”.
Tale considerazione lo fece riflettere: “Che sia una tattica del maragogype? Se così fosse, il
bourbon c’è cascato in pieno. Attento, Kaapi”.
Poi si rivolse al nicaraguense: «Voglio farti delle domande».
Il guerrigliero non rispose, limitandosi a fissarlo negli occhi e invitandolo a proseguire con un
gesto della mano.
«Conoscevi già Kaapi? Intendo…prima di quest’incontro?»
Lui esitò un istante; l’indiano mosse leggermente la testa nella direzione opposta alla sua.
«Nossignore».
«Perché lo maltratti?»
«Perché è uno schifoso Robusto, uno dalla pelle diversa, uno sfigato, uno schizzato di caffeina».
Fece una breve pausa, durante la quale si squadrò il bourbon dall’alto in basso, poi riprese.
«Ma forse, lui in particolare, guardandolo bene, caffeina nelle vene non ne ha: forse, se lo
scortichiamo, scopriamo che non è nemmeno un chicco di caffè».
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Kaapi, che si stava premendo lo zigomo dolorante, si risentì di quest’affermazione e lo
contraddisse a denti stretti: «Io sono un chicco di caffè».
«Già, forse» incalzò subito il maragogype, ridacchiando, «ma indubbiamente meno uomo della
nostra Antigua».
Rise ancora.
Kaapi non osò spingersi oltre.
«Cosa deve avere un chicco per essere destinato a dare un grande caffè?» domandò Italo
all’Arabico nicaraguense.
«Carattere, e la giusta dose di caffeina, che è la nostra, non quella troppo alta di questi Robusti,
o come carajo si fanno chiamare, hombre».
«Voi siete d’accordo?» chiese il miliardario agli altri tre.
Antigua prese la parola per prima.
«Non del tutto, mi señor».
Guardò il maragogype con aria disgustata; le tornò un’occhiata di disprezzo.
«Non ci vuole solo carattere e caffeina. Sono diverse le qualità che devono armonizzarsi per
dare eccellenza e maestosità al caffè: la sensualità, la dolcezza, la delicatezza, la bellezza del corpo
e il giusto aroma che inebria, che strega».
Detto questo, si mosse dal suo posto e iniziò a danzare come una danzatrice del ventre davanti ai
delegati alla sua destra, che presero ad annusare e a sospirare, poi si diresse verso Italo De Gustibus.
Quando fu davanti a lui, gli accarezzò con voluttà il mento, sfiorandoglielo appena con le punte
delle dita.
Il miliardario avvampò di desidero; i battiti del suo cuore accelerarono di colpo.
Medellin ebbe un lampo di gelosia e invidia negli occhi. Serrò la mascella.
Italo se ne accorse, e gli indirizzò uno sguardo vittorioso, come per dirgli: «Vedi cosa fanno i
soldi? I soldi sono potere. E inoltre, io sono il padrone. A me si concederebbe, a te no». Ciò lo fece
riflettere: “Il maragogype dice quello che pensa senza remore, e ci ha visto quasi giusto col
colombiano: non è innamorato, ma non è immune al fascino di lei».
Antigua proseguì quella danza lasciva verso gli altri delegati, rapendo i loro sensi con la sua
ineguagliabile fragranza che la precedeva annunciandola e la seguiva osannandola; completato il
giro, tornò al suo posto accanto a Medellin, che rimase impassibile.
Il grosso, per sminuire l’esibizione di lei, sputò in terra.
Kaapi, alzando di poco la testa, inspirò profondamente e sorrise, poi parlò: «Molto saggia,
Antigua, e illuminata. Condivido appieno le sue parole», disse, concedendosi in un altro Namaste.
«Non avevo dubbi, lurida checca» lo derise di nuovo il grosso.
Kaapi ingoiò ancora l’amaro boccone, ma ogni volta era più difficile: il boccone era sempre più
asciutto e s’incollava alle pareti della gola, soffocandolo.
Italo notò tutto, e annotò nella sua mente.
«E tu, Medellin?» chiese quindi al colombiano. «Non esprimi il tuo pensiero? Sei un tipo
silenzioso, a quanto pare».
«Io non parlo molto. Sono un guerriero, non sono bravo con le parole. Le parole sono inutili
invenzioni. Io lascio che il mio spirito parli al mio posto. Chi lo sa ascoltare, lui gli parla di me; chi
parla la sua lingua, conosce il mio valore».
“E il maragogype sa parlare la sua lingua”, pensò Italo, “perché non ha mosso un dito contro di
te”. Lo ammirava.
«Mi trovo qui perché racchiudo in me tutte le migliori qualità di un caffè supremo», concluse
quindi Medellin.
«Ma fammi il piacere, hombre. Tu stai farneticando» lo contraddisse il guerrigliero in tono
derisorio. «Chiamate una barella! Portatelo via! È uscito fuori di senno!» parodiò, portandosi le
mani alla bocca. Tuttavia non usò con lui parole offensive, come al contrario amava fare con Kaapi,
e il grande mecenate si accorse anche di questo.
“La scelta è davvero ardua, stavolta”.
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Pensava che nessuno ancora meritava di essere proclamato vincitore di quella disputa, e ancor
meno nessuno di loro meritava di essere dichiarato sconfitto: Antigua con la sua sensualità,
Medellin con la sua fermezza, il maragogype con il suo carattere, Kaapi con il suo mistero.
Pensava che li avrebbe scelti tutti e quattro e ne avrebbe fatto una miscela, se non fosse che il
grosso e il bourbon non andavano proprio d’accordo. A dir la verità, sembrava fosse il grosso a non
andare d’accordo con gli altri, ma egli voleva dare ascolto al proprio istinto e ritenere, dunque, che
si comportasse così volutamente – per lo meno con i due della sua specie.
Veleggiando verso gli ignoti orizzonti dell’indecisione, non si accorse che Kaapi lo stava
chiamando.
«Mio signore.
«Mio signore».
«Ah, scusami, Kaapi, ero distratto. Parla pure».
«Mio signore, anch’io, come Antigua, se me lo permettete, vorrei omaggiarvi di un dono».
«È ben gradito», lo confortò Italo, invitandolo con le mani a proseguire.
Il maragogype rimase sorpreso e provò un senso di agitazione. Si avvicinò all’orecchio di Kaapi
e gli sussurrò: «Che cosa ti sei messo in testa? Che vuoi fare? Sta’ attento, o puoi dire addio ai tuoi
fratelli».
Italo, di quella frase, colse solamente alcune parole: «che cosa ti…sta’ attento…tuoi fratelli». In
quel momento, avrebbe dato il suo impero per conoscere la frase intera. “Il mio regno per una
frase”.
Ma una cosa era certa: non era vero che i due non si conoscevano. Quantomeno, si erano già
incontrati. “Un altro mistero”, pensò elettrizzato.
Kaapi rifletté su quelle minacce: “Siamo tutti al servizio di De Gustibus, siamo nati per
sacrificarci per lui. È questo il nostro scopo. Non posso permettere che scelga il maragogype. I miei
fratelli capiranno”.
Con un velo di tristezza sugli occhi, tirò fuori, non si sa da dove – meravigliose magie
d’Oriente! – un bansoori, il flauto di bambù indiano dall’imboccatura traversa, e cominciò a suonare
un’aria indiana. Le note presero a camminare nell’aria, come sull’erta di un’invisibile collina,
toccando il soffitto e ridiscendendo, sfiorando le pareti e tornando indietro e di nuovo incontrandosi
in mezzo alla stanza, prendendosi mano nella mano e passeggiando come innamorati fino alle
orecchie dei presenti, portando ognuna una parola di un grande messaggio, essendo, ognuna, la
parola che componeva un grande messaggio, e mano a mano che questo messaggio si completava e
si rivelava, il profumo di Kaapi si espandeva, l’amaro del cioccolato si raddolciva e l’aroma di legni
e spezie si intensificava per rendere il messaggio ancor più incisivo: «Sono io il chicco migliore,
sono io il caffè supremo».
Medellin, assorto nell’ascolto, dopo un paio di minuti si tolse lo zaino e lo aprì, estraendone un
paio di maracas con le quali iniziò a dare il tempo alla melodia; l’indiano, piacevolmente sorpreso,
gli fece un cenno di approvazione con la testa, senza smettere di suonare.
Antigua fu travolta da quella fusione di culture in cui le note indiane sembravano felicemente
sposarsi con il suono delle percussioni latine, e si lasciò trasportare esibendosi in una voluttuosa
danza del ventre.
Gli aromi, gli spiriti di Kaapi, Medellin e Antigua si mescolarono in una perfetta armonia che
inondò la stanza del sapore del trionfo, quel sapore che faceva venir voglia a Italo di gridare
“Eureka!”
Italo era estasiato, rapito, perso in una visione talmente sublime e incredibile da sembrare
onirica. Aveva dunque trovato i chicchi adatti per l’amalgama dell’anno? Forse sì, e doveva a
questo punto reinterpretare la frase proferita dall’indiano al maragogype: era evidente che non
andava d’accordo con lui soltanto.
Il suo sguardo si posò, quindi, sul maragogype, e vide che era scuro in volto, le braccia conserte
sul petto.
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Il nicaraguense non parlava più; sembrava aver intuito il pensiero del miliardario ancor prima
che quest’ultimo lo formulasse: in effetti, quel pensiero non si era ancora formato nella mente di De
Gustibus, ma lui lo sentì, lo avvertì, glielo lesse chiaramente poiché era già formato, completo.
Dove? Nel cuore. Questi sono pensieri che non partorisce la mente. La mente li accoglie, ma è nel
cuore che nascono. Lui lo aveva visto nitidamente quel pensiero, fermo lì, in attesa dell’ascensore;
quando l’ascensore sarebbe sceso, e poi risalito, per lui sarebbe giunta la disfatta. A lui e al suo
esercito, di entrare a far parte della riserva personale di De Gustibus, importava molto più che per
semplice gloria: aveva una missione da compiere, lo avevano pagato profumatamente per fare quel
che gli avevano chiesto di fare. E poi c’era la questione della razza: che si preferisse un robusto a
lui, lo mandava ancora più in bestia. Il suo odio aumentò oltre livelli accettabili.
Intanto, Kaapi e Medellin continuavano a suonare, e Antigua a danzare.
Il robusto, per omaggiare i due arabici, mutò con sapienza la melodia in quella della canzone
“Ojos Asì” di Shakira, un pezzo indubbiamente più conosciuto.
Alla fine di questa inaspettata jam session si inchinarono tutti e tre, e ricevettero applausi e
consensi da tutti, tranne che dal maragogype, la cui rabbia montava a ogni attimo: nessuno si curava
di lui, sembravano averlo dimenticato, già archiviato.
Tutti eccetto Kaapi, che quasi godé nel vederlo ammutolito, annichilito: ciò che il grosso aveva
intuito, lo aveva intuito anche lui guardando l’espressione sul volto del miliardario.
Lui, il piccolo, il bourbon, il non preferito dal magnate del caffè – tutti sanno che lui amava gli
arabici, e raramente la scelta cadeva su un robusto.
Lui, che si sentiva diverso e si vedeva brutto, con quel corpo tondeggiante; lui che proprio in
virtù del fatto che il signor De Gustibus preferiva gli arabici si era convito di essere inferiore, infine
alzò la testa.
Rinfrancato, incoraggiato dal volto estasiato di De Gustibus, Kaapi alzò la testa e sorrise.
Italo lo colse per la prima volta sotto un altro aspetto: fiero, sicuro di sé, fiducioso, rilassato,
sembrava essersi liberato da un grosso peso, essersi tolto di dosso una patina di polvere che copriva
uno smalto a dir poco brillante, che lui vedeva ora mostrare con orgoglio. La jam session gli aveva
aperto le sbarre di quella gabbia di nervosismo e Kaapi ne era volato fuori.
“Tutto qui?” si domandò, tra il deluso e lo scettico. “Era solo timore di non essere scelto? No,
non può essere. Mi rifiuto di crederlo. Il mistero si dissolve, o almeno così sembrerebbe. E invece
no, perché c’è quella frase: cosa c’entrano i suoi fratelli? E ancora: perché questo cambiamento
radicale? Crede che io lo abbia scelto e si sente vittorioso?”
Cercò la risposta dentro di sé, e non fu difficile trovarla: l’ascensore era sceso e risalito.
Sorrise. “Sì, questo robusto mi ha stupito. È diverso dagli altri che ho esaminato in passato.
Credo che meriti di essere scelto, ma la mia scelta non ricadrà soltanto su di lui. Eppure…”
Il giudizio, la scelta…v’era ancora qualcosa che lo frenava, che non gli permetteva di dire “Sì,
lo scelgo”, ma lo limitava al solo “Credo che meriti di essere scelto”. Cos’era? Non era l’aroma,
non era il colore, non mancava la classe, ancor meno l’armonia.
Kaapi rivolse il suo sguardo fiero al maragogype, rivolgendosi a lui con un tono che sapeva
appena d’amicizia, ma che in realtà assomigliava più a una leggera spennellatura data per coprire
una macchia, e infatti, sotto quella spennellatura, c’era una spessa mano d’ironia, di pungente
sarcasmo.
«Perché non ti sei unito a noi? Non sai suonare?»
“Forse qualcosa nel carattere”, pensò Italo, udendo il tono usato dall’indiano. “È passato da
un’umiliante sottomissione a una spavalderia difficile a credersi, se non fossi qui ad ascoltare con le
mie orecchie. Qui si va oltre ogni più accettabile lunaticheria”.
Il maragogype esplose. Con un urlo si scaraventò sul bourbon, colpendolo con un diretto in
pieno viso.
Il pugno fece cadere Kaapi, e il safa gli volò via dalla testa.
Il maragogype gli si gettò sopra con la furia di una tigre.
8
I suoi occhi folli si fissarono in quelli impotenti dell’indiano per un istante, e costui si sentì
spacciato: aveva visto in quegli occhi la sua fine – sua e dei suoi fratelli – e la caduta dell’impero di
De Gustibus.
Una tempesta di colpi stava per abbattersi sullo sventurato bourbon, ma Medellin, ancora una
volta, intervenne prontamente passando il manico della lancia davanti alla gola del maragogype e
tirandoselo indietro con tutte le sue forze.
Il grosso cercò di liberarsi dalla presa del colombiano, ma più si dimenava, più rimaneva
strozzato, e alla fine dovette desistere. Non appena Medellin lasciò la presa, si rialzò di scatto, ma
prima che potesse intraprendere qualsiasi azione, De Gustibus lo gelò: «Basta così, maragogype. Ti
ho lasciato esprimerti come meglio hai creduto, ma ora stai esagerando. Se userai ancora violenza
contro qualcuno, sarò costretto a scartarti ancor prima di aver scelto».
“Come se non lo avessi già fatto” avrebbe voluto rispondergli, ma non osò; si limitò a trafiggere
Medellin con lo sguardo per l’affronto subito.
Kaapi, come si sentì libero dall’aggressore si allontanò carponi, quasi strisciando sull’impiantito
di marmo, reggendosi il naso dolorante e sanguinante. Prese un fazzoletto da una tasca e cercò di
pulirsi il viso.
“Per fortuna che questa storia sta volgendo al termine. Guarda tu cosa devo sopportare. Ganesh,
donami la calma e libera il mio percorso dagli ostacoli. Sento di essere vicino al successo”.
Rialzatosi, si accorse di non avere più il copricapo.
«Dov’è il mio safa?», gridò allarmato.
«Vuoi dire questo straccio?» gli si rivolse il maragogype con quanto più disprezzo poté usare,
indicando il copricapo ai suoi piedi. «Prenditelo», gli disse, dando un calcio al safa per
avvicinarglielo.
Italo ebbe un brivido gelido che nacque improvviso alla base della nuca e gli corse giù, lungo
tutta la spina dorsale. Avrebbe voluto fermarlo, impedirgli di prendere a calci quel copricapo ed
evitare, così, di offendere Kaapi, ma non fece in tempo, non prevedendolo nemmeno, ed ebbe come
il sentore di quel che l’indiano avrebbe detto o fatto, un cattivo presagio che lo fece sudare freddo.
Kaapi, vedendo il suo safa preso a calci, perse in un lampo tutta la pazienza e la calma che
aveva dimostrato d’avere.
Fu proprio la classica goccia che fa traboccare il vaso: poteva accettare di tutto, come del resto
aveva fatto finora, ma questo no. Era un’onta che doveva essere lavata.
“Ucciderlo? No, verrei esiliato, allontanato per sempre dalle proprietà De Gustibus, anche se
sarei tentato ugualmente” pensava, immobile come una statua, con lo sguardo fisso sul nicaraguense
e il volto che si andava sempre più rannuvolando. Non sentiva più neanche il dolore del naso rotto.
Respirò profondamente con la bocca, ed infine parlò: «Arabico, tu puoi insultarmi, picchiarmi,
ma non puoi prendere a calci il mio cappello. Di tutte, questa è l’offesa più grave. Tuttavia, per
questa volta io non cercherò vendetta, ma ti avverto: d’ora in avanti tu sei il mio nemico, e qualsiasi
altra offesa mi recherai sarà punita con la morte».
Morte.
Quella parola non era mai stata pronunciata qui, e Italo e i dieci rappresentanti rabbrividirono.
Avevano assistito a molte dispute, tanti scontri verbali tra gli innumerevoli chicchi venuti qui per le
scelte passate, ma mai si era giunti a tale culmine.
Quella parola bandì la calura estiva dalla sala, e vi pose un gelo quasi invernale.
Sentenza.
Qui, le sentenze erano sempre state emesse da Italo, e da lui soltanto, quando infine sceglieva.
Per la prima volta si avvertiva l’odore di una sentenza che non sarebbe giunta da lui, e quale
sentenza!
Le fragranze dei quattro chicchi scomparvero quasi all’istante, come rapite e imprigionate da un
terribile e invisibile carceriere; il nuovo odore rovinò l’atmosfera magica che Medellin, Antigua e lo
stesso Kaapi avevano contribuito a creare.
«Guardami: tremo tutto» lo derise l’arabico. «Ma fammi il piacere, pidocchio».
9
«Maragogype, non continuare» lo rimproverò Italo, con un tono più di supplica che di monito,
disposto a tutto pur di evitare il peggio.
Il nicaraguense, miliardario di ignoranza, stoltezza e tracotanza, non comprese la pericolosità
delle minacce del bourbon né l’avvertimento del suo padrone, e proseguì con i suoi modi.
«Perché non te ne torni in India, feccia? Va’! Va’ a fotterti le tue vacche sacre!»
Il tempo, con quella frase, sembrò fermarsi, o quasi.
Italo schizzò in piedi, impiegando un secondo o due lustri, e urlò: «Basta così, maragogype!
Chiedi immediatamente scusa a Kaapi, o—», in un lasso di tempo che sarebbe potuto durare cinque
secondi o un secolo.
La frase morì lì.
La temperatura nella sala precipitò di colpo, battendo impietosamente lo scorrere del tempo,
come se il castello si fosse smaterializzato dai Tropici e riapparso subito dopo in Antartide.
In questi interminabili momenti, tutte le bocche si spalancarono, tutti gli occhi si sgranarono
guardando Kaapi che, più veloce del tempo anche lui, impugnava la scimitarra, spiccava un gran
balzo verso il nicaraguense e gli portava un tondo rovescio alla gola, staccandogli di netto la testa.
Il corpo rimase ancora in piedi per qualche altro secolo; poi, quando il tempo riprese a scorrere
alla sua normale velocità, cadde di lato, nella direzione in cui era caduta la testa, quasi volesse
andare a recuperarla.
Lo stupore lasciò spazio all’orrore.
Alcuni delegati diedero di stomaco, altri si voltarono per non guardare.
Antigua era sconvolta, e aveva gli occhi colmi di lacrime. Il maragogype la ripugnava, ma
l’efferatezza del gesto le infuse un senso di pietà. Tuttavia non provò odio per l’assassino.
Il meno scioccato era il guerriero Medellin, semplicemente rattristato per l’infelice epilogo.
Il padrone di casa era anche lui lì, impietrito, le mani unite a coppa davanti al naso e alla bocca,
gli occhi spalancati, che rimbalzava di continuo lo sguardo dal cadavere alla testa mozzata e a
Kaapi.
Quando riuscì a riaversi e a capacitarsene, abbassò lentamente le braccia lungo i fianchi, serrò le
labbra e le tenne chiuse finché non trovò le parole giuste da dire.
«Cosa hai da dire in tua discolpa, prima di essere allontanato per sempre dai miei possedimenti
e di perdere con disonore il mio marchio? Perché anche se hai salvato il tuo onore, tu, commettendo
questo delitto, hai coperto d’ignominia la mia casa. Hai lavato via la tua macchia, e ben
comprenderai che io devo lavare la mia. Comprendi?»
«Comprendo benissimo, mio signore, e non dirò niente a mia discolpa. Desidero soltanto dire
che l’ho fatto per salvare voi e i miei fratelli».
«Salvare me e i tuoi fratelli? Cosa intendi? Parla, dunque».
Kaapi prese a raccontare, con voce affranta, lo sguardo di nuovo basso – per la tristezza,
stavolta – quanto gli era accaduto prima di giungere al castello.
«Nel nostro lungo viaggio, ci siamo imbattuti in qualcosa che non avremmo mai potuto
prevedere.
«Siamo stati assaliti da due eserciti di guerriglieri maragogype, non gli stessi venuti oggi qui per
la scelta. Altri, probabilmente loro amici. Hanno falciato molti di noi, tirando con le cerbottane,
nascosti tra le fronde degli alberi. Non eravamo pronti a questo tipo di battaglia. Molti miei fratelli
sono stati catturati, e tuttora sono tenuti in ostaggio chissà dove.
«Poi, quando ci hanno circondato e ci siamo arresi gettando a terra le armi, è arrivato questo
maragogype» disse, indicando il cadavere, «accompagnato dalle sue guardie del corpo, e mi ha
detto che se volevo rivedere i miei fratelli, dovevo fare di tutto per non essere scelto.
«Ripreso il viaggio, qualche giorno dopo siamo stati raggiunti da maragogype disertori, bravi
chicchi che ci hanno aiutato. Ci hanno informato dei loschi piani dei nicaraguensi».
Fece una breve pausa, poi alzò la testa e guardò De Gustibus dritto negli occhi.
«Volevano essere scelti per avvelenare tutto il caffè nella vostra riserva, mio signore».
10
Italo ebbe un tuffo al cuore a quella rivelazione. Rimase impassibile, anche se la sua anima era
sconquassata da un violento terremoto, e sentiva pezzi di essa cadere come tegole da un tetto.
Non volle dargli la soddisfazione di credergli su due piedi. «Che prove hai per confermare
quanto dici?» domandò.
Kaapi lo fissò ancora per qualche attimo, senza rispondere: non aveva prove. “Ganesh,
illuminami”. Stava per alzare le braccia, a significare che non poteva darne, quando, voltandosi
verso il corpo inerte dell’arabico, un’idea gli balenò alla mente: frugare il cadavere.
Si chinò su di esso e prese ad aprire tutte le tasche del gilet.
In una tasca trovò una fiala con un turacciolo di sughero, contenente un liquido bluastro.
«Ecco la prova!» esultò vittorioso.
Esclamazioni di attonita quanto agghiacciata meraviglia uscirono dalla bocca dei rappresentanti.
Italo spalancò le labbra.
Il caso non era grave: era gravissimo.
Chi beve il caffè De Gustibus? Un blue mountain a Sua Maestà Imperiale Akihito! Un Estate
Kenya a Obama! Un Mandheling a Putin!
Che catastrofe sarebbe stata!
O forse no, perché sarebbe morto prima lui e il caffè avvelenato non sarebbe andato oltre.
Ma che ciò fosse accaduto, che qualcuno si fosse spinto a tanto per distruggere il suo impero,
annientare quanto di buono e magnifico era riuscito a costruire in tutti questi anni, rimaneva un fatto
di inaudita, inaccettabile gravità.
“Chi avrebbe potuto osare tanto, se non la concorrenza?” iniziò a pensare. “Oppure: sapendo
che il mio caffè è bevuto dai rappresentanti di tutte le superpotenze mondiali, è possibile che io sia
stato preso di mira, usato da cospiratori e scaraventato crudelmente nel bel mezzo di qualche intrigo
politico internazionale?”
Rabbrividì all’idea.
Non aveva risposta.
Brancolava nel buio, ma poco male: non era questo il momento per pensare a ciò. Avrebbe
denunciato il fatto alle autorità in seguito.
Nell’immediato, doveva risolvere un nuovo dilemma: “Kaapi ha ucciso, sì, ma uccidendo il
maragogype ha salvato chissà quante vite, compresa la mia. Come comportarmi, ora? Premiare un
assassino? Perdonare colui che ha infangato la mia casa? Ne sarei capace?”
Anche a questo non trovava risposta.
E più pensava, più si confondeva. Si sentiva un passerotto finito accidentalmente sulla carta
moschicida, e più si dimenava, più si imprigionava, si immobilizzava, perdendo a poco a poco le
forze nel vano tentativo di liberarsi.
I minuti passavano, in silenzio, senza che Italo fosse in grado di giungere a una soluzione.
Kaapi, vedendolo in difficoltà, lo trasse d’impaccio.
«Mio signore, non vi ho raccontato questo per essere giustificato di ciò che ho fatto. Sono un
assassino e devo pagare per questo, ma prima di qualsiasi cosa vi chiedo solo di aiutare i miei
fratelli: loro non devono pagare per le mie colpe e non devono rimanere vittime dei soprusi degli
altri. Li aiuterete?»
«Certo, Kaapi, ma…»
Non poté continuare la frase.
Sull’orrore pioveva altro orrore.
«Kaapi, nooooooo!» gridò con tutte le sue forze, ma era tardi.
Il bourbon, pago della rassicurazione, con la stessa velocità con cui aveva tagliato la testa al
maragogype stappò la fiala e ne ingoiò il contenuto tutto d’un fiato.
Nel giro di pochi secondi crollò a terra in preda a violente convulsioni, schiumando dalla bocca,
e spirò.
Antigua non resse a quest’altra violenta emozione, e svenne; Medellin accorse in suo aiuto.
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Quanto accadde da lì in avanti nei cuori dei presenti, e nelle loro menti, non è possibile
descrivere.
Non vi furono feste per la scelta.
Italo De Gustibus fece squillare le trombe a nord, a sud, a est, e a ovest, per non destare sospetti
nei nicaraguensi.
Ma una volta messi i maragogype nei sacchi, invece di mandarli alla torrefazione, li fece portare
nei frantoi per liberarsene, tutti tranne qualcuno che fu costretto a rivelare dove tenevano prigionieri
i fratelli di Kaapi.
I tre chicchi scelti – gli Antigua, i Medellin e i Kaapi Royal – furono utilizzati sia singolarmente
che in una riuscitissima, sensazionale miscela che riscosse consensi in ogni parte del mondo.
Ma l’opera somma, l’ultima, geniale e irripetibile invenzione del più grande magnate del caffè,
fu il matrimonio di Medellin e Antigua, dalla cui unione nacque un nuovo esemplare di coffea che
lui chiamò, in suo onore, “italiana”.
E mutò il nome del caffè indiano, che non si chiamò più Kaapi Royal: da quel giorno, tutti lo
avrebbero ricordato come “Il Generoso”.
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