L`età leggendaria della monarchia

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L`età leggendaria della monarchia
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U NITÀ QUINTA L’ETÀ LEGGENDARIA DELLA MONARCHIA
Unità quinta
L’età leggendaria della monarchia
Testi a confronto in riferimento a p. 228
Una storia «leggendaria»: il ratto delle Sabine
La storiografia antica connetteva tra loro l’episodio del rapimento delle donne da parte di Romolo e la
guerra tra Romani e Sabini.
Ormai lo Stato romano era tanto potente da essere pari in guerra a qualunque dei popoli confinanti; ma, per
la mancanza di donne, la sua grandezza era destinata a durare non più di una generazione, poiché in patria
non potevano sperare di avere figli, e non avevano il diritto di contrarre matrimoni con le donne dei popoli
confinanti.
(Livio, Ab Urbe condita 1, 9)
In realtà le due leggende hanno origini diverse: nel ratto è possibile vedere riflessa la situazione di una
arcaica società tribale, in cui il matrimonio si basava sul ratto vero e proprio o su una sua simulazione.
Livio si valse della narrazione dell’antica leggenda per introdurvi le idee della sua epoca sull’istituzione
del matrimonio, inteso come connubio tra pari finalizzato alla procreazione di figli legittimi e basato sulla
comunanza dei beni.
Ma Romolo andava di persona tra loro, e affermava che […] avrebbero avuto la dignità di mogli, avrebbero detenuto in comune i beni e avrebbero goduto del diritto di cittadinanza e, privilegio del quale nessun altro è più
caro agli esseri umani, dei figli; dovevano solo placare lo sdegno, e concedere anche il cuore a coloro a cui la sorte
aveva dato i corpi.
(Livio, Ab Urbe condita ibidem)
Quanto alla leggenda sulla guerra tra Romani e Sabini, occorre riportare l’indagine sul terreno più propriamente storico. La notizia della originaria fusione di due popoli nella Roma arcaica trova infatti riscontro in dati archeologici e linguistici: da essi risulta che contribuirono alla fondazione e allo sviluppo di un
centro abitato sui sette colli attorno al Palatino non solo i Latini, ma anche un’altra popolazione italica,
diversa dai Latini per lingua e usanze, e sicuramente identificabile coi Sabini. Numerosi indizi portano
inoltre a raffrontare il racconto della guerra tra Romani e Sabini con un mito ricorrente presso gli altri
popoli indoeuropei, e che si esprime nel modo più evidente nell’Edda, antico poema scandinavo: essa
narra il lungo conflitto tra i bellicosi dei della guerra, gli Asi, e gli dei della prosperità e della fecondità, i
Vani.
E nel testo di Livio è possibile riconoscere nei bellicosi Romani di Romolo gli Asi e nei Sabini di Tito Tazio
i Vani, prima opposti da un conflitto insanabile e poi riappacificati dall’intento di creare una grande e
prospera potenza.
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U NITÀ QUINTA L’ETÀ LEGGENDARIA DELLA MONARCHIA
Rifacendosi al racconto liviano, infatti, i popoli oltraggiati dai Romani mossero guerra loro per vendicare
l’ingiuria subita. Per primi scatenarono l’offensiva i Ceninesi, gli Antemnati e i Crustumesi, ma Romolo li
vinse uno dopo l’altro. Maggior pericolo costituì l’offensiva dei Sabini: con un numeroso esercito capeggiato dal re Tito Tazio questi riuscirono ad entrare nell’Urbe e addirittura nel Campidoglio, le cui porte furono loro aperte da Tarpea, figlia del custode della rocca. La battaglia ebbe luogo nella valle posta tra
il Palatino e il Campidoglio. I Romani erano incalzati dai Sabini, che stavano per avere la meglio grazie
alla guida di Mettio Curzio, quando Romolo offrì in voto un tempio a Giove Statore (Stator = «colui che
ferma»). Grazie all’intervento di Giove i Romani interruppero la fuga, ricompattarono le file e ripresero
a combattere.
È a questo punto che si ha il colpo di scena, molto ben descritto ancora una volta da Tito Livio.
Allora le donne sabine, per l’oltraggio inflitto alle quali era scoppiata la guerra, coi capelli sciolti e le vesti
strappate, vinta dalla sventura la timidezza femminile, osarono gettarsi tra i dardi volanti: irrompendo di fianco
divisero le schiere nemiche, placavano l’ira dei combattenti, supplicando da una parte i padri, da una parte i
mariti che non si macchiassero, suoceri e generi, di sangue empio, che non contaminassero con l’assassinio le
loro creature, gli uni i nipoti, gli altri i figli. Dicevano: «Se non vi piace la parentela che si è instaurata tra voi, se
non vi piace questo matrimonio, rivolgete la vostra ira contro di noi; siamo noi la causa della guerra, siamo noi
la causa delle ferite e delle stragi dei mariti e dei padri; sopporteremo meglio la morte piuttosto che vivere senza
gli uni o gli altri di voi, vedove o orfane».
Quel comportamento commuove sia l’esercito che i comandanti. Si fanno un silenzio ed una quiete improvvisa; i
comandanti avanzano allora per stringere il patto. E non stipulano solo la pace, ma fanno di due un solo popolo.
Associano il potere regale; trasportano tutta l’autorità a Roma.
Raddoppiata in tal modo la città, perché almeno qualcosa fosse concesso ai Sabini, si chiamarono Quiriti dal
nome di Curi.
(Livio, Ab Urbe condita 1, 13, 1-5)
Il cosiddetto Ratto delle Sabine,
capolavoro tecnico del Giambologna,
l’artista fiammingo Jean Boulogne (1583).
Firenze, Loggia della Signoria.