La nuova tassazione dei redditi di impresa: verso un sistema più
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La nuova tassazione dei redditi di impresa: verso un sistema più
La nuova tassazione dei redditi di impresa: verso un sistema più efficiente e competitivo? di Silvia Giannini 1 1. Premessa1 Il d.d.l. delega in materia fiscale presentato dal governo nel dicembre 2001 contiene molte novità in materia di imposizione dei redditi di impresa. L’art. 4, che riguarda l’imposta sul reddito delle società, è il più esteso e dettagliato di tutta la delega e prefigura, sotto vari profili, una nuova “rivoluzione”, a pochi anni da quella intrapresa dal precedente governo. Vi sono tre principali aspetti della nuova riforma che, seppure collegati, è opportuno tenere distinti, in quanto rispondono a logiche e obiettivi in parte diversi: a) in primo luogo, vi è l’abolizione della Dual Income Tax (Dit) - già avviata con il disegno di legge governativo “Primi interventi per il rilancio dell’economia” dell’estate 2001 (l.383/2001) -, a cui si accompagna, in prospettiva, l’eliminazione dell’Irap; b) in secondo luogo, vi è l’introduzione di un regime diffuso e generalizzato di esenzione per i dividendi e le plusvalenze infrasocietarie, sia di origine interna sia di origine estera e la contestuale abolizione del credito di imposta e di altre norme relative alla tassazione delle plusvalenze e minusvalenze; c) infine, e in larga parte come conseguenza delle scelte di cui al punto b, è prevista l’introduzione di una tassazione (opzionale) consolidata per i gruppi di società, estesa anche alle società del gruppo operanti all’estero. A queste principali modifiche dell’ordinamento se ne affiancano molte altre, ad esempio le norme sulla thin capitalisation, che pure meriterebbero una attenta analisi. La vastità e complessità degli interventi proposti, a cui si aggiunge il fatto che una valutazione puntuale potrà essere svolta solo quando la delega avrà concluso il suo iter parlamentare e il governo avrò emanato i decreti di attuazione, rendono questo lavoro inevitabilmente preliminare e parziale. In questa sede, oltre a descrivere brevemente i principali contenuti della riforma proposta nel d.d.l. delega, si esamineranno, in particolare, il contenuto di efficienza del nuovo sistema proposto e il suo grado di “competitività” in ambito internazionale. L’obiettivo della riforma, espressamente indicato dal governo e posto a base dell’art. 4 della delega, è infatti quello di “incrementare la competitività del sistema produttivo, adottando un sistema fiscale omogeneo a quelli più efficienti in essere nei paesi membri dell’Unione europea”. Come si vedrà, il sistema proposto è sotto alcuni aspetti più simile a quelli vigenti in altri paesi della Comunità, ma non per questo è più efficiente o più favorevole di quello che intende sostituire. Non è possibile, tuttavia, fornire un giudizio univoco. Alcune innovazioni, soprattutto l’introduzione del consolidato o l’abolizione del credito di imposta ai dividendi, possono essere, sotto molti aspetti, condivisibili. Altre, invece, in particolare l’abolizione della Dit e, progressivamente, dell’Irap, suscitano maggiori perplessità. Entrambe le imposte (Dit e Irap) sono state da poco introdotte nel nostro ordinamento e ad esse erano assegnati importanti obiettivi, nella riforma varata dal precedente governo: perseguire una maggiore neutralità del fisco rispetto alle scelte finanziarie delle imprese, ridurre l’aliquota legale complessiva di imposizione sui profitti; abolire imposte e contributi ritenuti distorsivi e ormai poco giustificabili sul piano economico, come l’Ilor, l’imposta patrimoniale sulle imprese e i contributi sanitari. La loro abolizione costituisce una forte rottura con il regime introdotto dal precedente governo e tende a rendere il sistema meno efficiente e neutrale. 1 Desidero ringraziare, oltre ai partecipanti al Workshop del marzo 2002, Andrea Simoni ed Ivan Vacca, per gli utilissimi commenti a una prima versione di questo lavoro. E’ evidentemente mia la responsabilità per ogni residuo errore o imprecisione. 2 Nel complesso, le modifiche proposte comporteranno una forte redistribuzione degli oneri fiscali fra le diverse società e potranno indurre modifiche di rilievo nelle loro scelte di produzione, di investimento e finanziarie, così come nei loro assetti organizzativi. Al di là delle valutazioni di merito sulla bontà del nuovo sistema, rispetto a quello vigente, va ricordato, in via preliminare, che non si dovrebbero cambiare così di frequente e radicalmente elementi strutturali del sistema di imposizione delle società. A parte i costi di aggiustamento e di transizione che ciò comporta, vi sono i costi imposti alle imprese che hanno compiuto scelte basandosi su parametri fiscali in prospettiva non più validi. Un esempio di rilievo è la Dit, in quanto questa imposta esercita i propri effetti nel tempo, tassando al 19% i rendimenti presenti e futuri di investimenti finanziati con capitale proprio. Le imprese che avevano capitalizzato, confidando su questa regola fiscale, vengono ora penalizzate. Riforme così ampie come quelle introdotte dal governo dell’Ulivo e ora dal nuovo governo del Polo delle Libertà, dovrebbero, soprattutto se riguardano temi di interesse generale come la tassazione delle società, essere frutto di decisioni ampiamente discusse e condivise, che impediscano che elementi strutturali del sistema di tassazione siano modificati ad ogni cambio di maggioranza. Ad aggravare la situazione va poi il fatto che la riforma è ancora largamente incerta nei tempi e nelle modalità di applicazione, soprattutto per quanto riguarda l’abolizione dell’Irap. Lo stato di incertezza che si è venuto a creare non può che influire negativamente sulle decisioni di investimento di lungo periodo delle imprese, ostacolando così quella crescita economica che anche grazie alla riforma fiscale il governo vorrebbe invece raggiungere. Il lavoro è organizzato come segue. Innanzi tutto (par.2), ci si domanda se il nuovo sistema ad aliquota unica possa ritenersi più “efficiente” di quello vigente, basato sulla Dit e sull’Irap. In particolare, vengono confrontate le distorsioni che i due sistemi comportano, con riferimento ai parametri da cui dipendono le scelte finanziarie e quelle relative all’uso dei fattori produttivi: Sempre in questo paragrafo vengono esaminate alcune ripercussioni della riforma, in funzione degli assetti organizzativi delle imprese. Successivamente (par. 3), l’attenzione è rivolta agli aspetti internazionali della riforma. Più precisamente, ci si interrogherà se il nuovo sistema possa essere ritenuto “più competitivo” nel contesto di crescente integrazione fra paesi e si esamineranno i possibili effetti sulle scelte di localizzazione delle attività di impresa. Infine (par. 4), vengono effettuate alcune considerazioni sulle implicazioni della riforma per quanto concerne gli oneri complessivi sulle società di capitali e la possibile redistribuzione del prelievo all’interno del settore. In questo caso, ci si baserà principalmente sulle informazioni disponibili nella Relazione tecnica al d.d.l. delega. Il par. 5 contiene alcune considerazioni conclusive. 2. L’efficienza del sistema Nel d.d.l. delega si persegue l’obiettivo di rendere “più efficiente” il sistema di imposizione sulle società. Il metro per valutare l’efficienza del sistema non è, tuttavia, l’uso di indicatori di tipo economico, nonostante ve ne siano di ben noti e ampiamente utilizzati nella letteratura, ma la semplice considerazione che il sistema sarà più “omogeneo a quelli più efficienti in essere nei paesi membri dell’Unione Europea”. Una considerazione preliminare che merita di essere fatta, a questo proposito, riguarda la difficoltà di individuare il “sistema europeo” a cui fare riferimento; al di là di alcuni tratti comuni, non solo ai paesi UE, e riconducibili in linea generale all’obiettivo di ridurre le aliquote legali e 3 ampliare la base imponibile, permangono infatti profonde differenze fra paesi, sia nella determinazione della base imponibile, sia nel livello delle aliquote e nella struttura del prelievo2. Se per “sistema europeo” si intende semplicemente un sistema ad aliquota unica, integralmente basato sui profitti, non è detto poi che questo sistema consenta risultati più efficienti di quelli ottenibili con un sistema duale del tipo di quello applicato, ad esempio, in Italia, Austria e alcuni paesi Nordici o con sistemi che affiancano ad un’imposta sui profitti altre forme di prelievo commisurate ad un imponibile più ampio dei profitti, come la Gewerbesteuer tedesca o l’Irap italiana. E’ forse utile ricordare, in proposito, che esperienze come la Dit italiana o finlandese, capaci di riequilibrare il trattamento fiscale del capitale proprio e di debito, lungi dall’essere considerate elementi anomali e di disturbo nel panorama europeo, sono guardate con un certo interesse dalla Commissione europea, proprio perché capaci di rimuovere, o comunque attenuare in misura significativa, gli ostacoli fiscali che indeboliscono lo sviluppo del mercato del capitale di rischio nella UE e minano l’efficienza dei mercati dei capitali azionari (European Commission, 2000, p. 8). Non è detto, dunque, che conformarsi ad altri paesi europei che adottano un’aliquota unica significhi realizzare un sistema “più efficiente”. Dal punto di vista economico, per valutare l’efficienza di un sistema di imposizione delle società, è utile assumere come benchmark quello della neutralità. Sono sempre molto efficaci e attuali, a questo proposito, le parole di Cosciani, che nel suo classico Manuale di Scienza delle finanze afferma: “nella scelta dei vari tributi e della varie modalità tecniche sulle quali si possono basare, è necessario evitare quelle forme di distorsioni economiche, a meno che non rispondano ad un particolare obiettivo, che turbano l’equilibrio naturale del mercato, senza alcun motivo razionale” (1977, p. 269). Il sistema deve dunque essere, il più possibile, “neutrale”, cioè non creare distorsioni, ad esempio, fra un investimento in un’attività di impresa o in una attività finanziaria, fra un finanziamento con debito o capitale proprio, fra società che agiscono come un’unica entità o attraverso un gruppo di imprese, attraverso una persona giuridica o fisica, e così via. Ogni scostamento da questo benchmark di neutralità dovrebbe essere basato su chiari obiettivi e rispondere a motivi razionali (in genere, un fallimento del mercato, che si vuole correggere). Come è chiaro, vi sono diverse dimensioni attraverso cui questo concetto di neutralità può e deve essere valutato, e ciascuna di esse richiede una apposita analisi e adeguati strumenti. Di seguito verranno svolte alcune considerazioni in merito alla neutralità del sistema ancora vigente, introdotto con la riforma del 1997-98, e di quello previsto nella delega, con riferimento: a) alle scelte di finanziamento e di investimento delle società; b) alla scelta dell’uso dei fattori produttivi (lavoro e capitale); c) alla dimensione organizzativa. Un’altra importante dimensione, la cui analisi è rinviata al paragrafo 3, riguarda la scelta di localizzazione. 2.1 Le scelte di investimento e finanziamento Le modifiche contenute nel d.d.l. delega che sono di maggiore rilievo per l’impatto che possono avere sulle scelte di investimento e di finanziamento delle società riguardano l’abolizione della Dit e, in prospettiva, dell’Irap. In realtà, sui nuovi investimenti finanziati con capitale proprio, la Dit ha già cessato di manifestare i propri effetti dalla seconda metà del 2001, a seguito del “congelamento” della base di riferimento per il calcolo della remunerazione ordinaria agli incrementi effettuati entro il giugno 2001, previsto dalla legge 383/2001. La nuova riforma, oltre a sancire la completa abolizione della Dit, anche sugli incrementi di capitale pregressi, prevede la 2 Si veda, in proposito, il recente studio della Commissione europea (European Commission, 2001a). 4 riduzione dell’aliquota legale al 33%, di due punti percentuali inferiore a quella del 35% già fissata, a partire dal 2003, dal precedente governo (legge finanziaria per il 2001). Con riferimento alle decisioni di investimento e di finanziamento, non vi è dubbio che il nuovo sistema sia meno neutrale (e dunque meno efficiente) del precedente. Eppure, nel dibattito su questo tema vi è ancora molta confusione, dovuta probabilmente al fatto che invece di valutare le caratteristiche di neutralità del sistema introdotto con la “riforma Visco”, si è più di frequente soffermata l’attenzione sugli effetti differenziali che questa ha prodotto rispetto al regime precedente. Così, un’imposta sostanzialmente neutrale, rispetto alle scelte finanziarie e dei fattori produttivi, come l’Irap, è vista, invece, come un’imposta che penalizza il debito e il costo del lavoro e una norma di sistema come la Dit, diretta a ridurre strutturalmente le interferenze del fisco con le scelte finanziarie delle imprese, è interpretata come uno strumento “dirigistico” volto a incentivare le imprese a patrimonializzarsi. 2.1.1 Il cuneo di imposta sull’investimento Per fare nuovamente chiarezza sulla questione, è utile riproporre l’indicatore più ampiamente utilizzato in ambito economico per sintetizzare il contenuto di incentivo o disincentivo che il sistema fiscale attribuisce alle scelte finanziarie e di investimento delle imprese3. Questo indicatore, denominato “cuneo marginale” o “aliquota effettiva marginale di imposta”, misura l’incidenza fiscale sui redditi derivanti da un investimento marginale, cioè appena in grado di coprire i costi (incluso il “profitto normale” dell’imprenditore, inteso come costo-opportunità dell’investimento). La figura 1 riporta le aliquote effettive marginali di imposta dal 1996 in poi, per un investimento in beni capitali non ammortizzabili, separatamene per fonte di finanziamento e ipotizzando un costo-opportunità dell’investimento del 5% (e zero inflazione). Per i beni ammortizzabili, non riportati nella figura, le aliquote sono inferiori, e lo sono tanto più, quanto più bassa è la vita utile del bene capitale, posto che al ridursi della vita utile si osserva solitamente una maggiore discrepanza, a favore delle imprese, tra gli ammortamenti concessi a fini fiscali e quelli economici. Al di là di questi effetti “di scala”, le considerazioni qualitative che emergono osservando la figura 1 sono generalizzabili e sono dunque sufficienti, in questa sede, per sintetizzare la tendenza verso cui si muove la nuova riforma4. 3 La metodologia, originariamente proposta da King e Fullerton (1984), è stata frequentemente utilizzata anche in ambito internazionale. Cfr. OECD (1991), Baker&McKenzie (1999 e 2001), European Commission (1992 e 2001a). 4 Per un’analisi più dettagliata, che utilizza la stessa metodologia impiegata nel recente studio della Commissione Europea (European Commission, 2001a), si veda Bresciani e Giannini (2002). 5 Fig. 1 . Le aliquote marginali effettive su un investimento non ammortizzabile (tasso di interesse 5%, tasso di inflazione zero) 0,70 Capitale proprio 0,60 Debito Media 0,50 0,40 0,30 0,20 0,10 0,00 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003* La figura evidenzia, innanzitutto, il forte impatto della riforma Visco nel ridurre la forbice fra il costo fiscale di un finanziamento con debito e capitale proprio. Come è noto, ciò è dovuto sia alla introduzione, fin dal 1997, della Dit e al suo progressivo rafforzamento tramite la Super-Dit (con moltiplicatore dell’1,2 nel 2000 e dell’1,4 dal 2001), sia all’abolizione dell’Ilor e della patrimoniale e alla loro sostituzione con l’Irap, a partire dal 1998. Già a partire dall’estate 2001 gli effetti della Dit sui nuovi finanziamenti con capitale proprio vengono meno, a seguito del “congelamento” della Dit previsto dalla l.383/2001. Di questo fattore si tiene conto dal 2002. In questo anno, l’abolizione della Dit ha l’effetto di aumentare in modo significativo il costo di un finanziamento con capitale proprio, a parità di vantaggio riservato al debito. Nell’ultimo anno considerato (2003*), si ipotizza che entri in vigore la riforma prevista nel d.d.l. delega, che riduce l’aliquota legale al 33%. Il divario fra il costo fiscale delle due fonti di finanziamento un po’ si riduce, grazie alla minore aliquota legale, che attenua la tassazione dei profitti, ma rimane molto più ampio rispetto a quanto si sarebbe osservato se avesse continuato ad operare la Dit. La figura evidenzia, dunque, come la nuova riforma riapra la discriminazione tra il costo fiscale di un finanziamento con capitale proprio e di debito. La distorsione è molto inferiore a quella osservata nel 1996, grazie soprattutto alla forte riduzione della aliquota legale - in gran parte imputabile all’abolizione dell’Ilor - e alla eliminazione della patrimoniale, entrambi previsti dalla riforma Visco. Ma il sistema è indubbiamente meno neutrale. Non solo la riforma è meno “efficiente” per quanto riguarda le fonti finanziarie, ma lo è anche con riferimento alle scelte reali: posto che il costo di un finanziamento con capitale proprio aumenta e quello con debito resta pressoché inalterato5, l’aliquota media su un investimento 5 Per capire perché il costo di un finanziamento con debito resta pressoché inalterato, pur a fronte della riduzione dell’aliquota legale, dal 35% al 33%, è opportuna una breve digressione. Nel caso di investimenti in beni non ammortizzabili, e se non c’è inflazione, l’aliquota effettiva su un investimento marginale finanziato con debito è nulla, in presenza della sola imposta societaria, perché la deducibilità degli interessi passivi è tale da azzerare la base imponibile dell’imposta (il rendimento sull’investimento è quello appena in grado di coprire i costi per interessi passivi). E’ questa la situazione che si osserva, nella figura 1, nel 1996 e 1997. L’introduzione dell’Irap ha l’effetto di rendere positiva l’aliquota effettiva, e questa risulta essere superiore a quella legale dell’Irap (6,75%, invece di 4,25%), a seguito della indeducibilità dell’Irap dalla base imponibile dell’Irpeg. In presenza dell’Irap, dunque, l’aliquota marginale effettiva dipende anche dall’Irpeg. L’effetto, essendo unicamente indotto dalla indeducibilità dell’Irap, è di 6 marginale tende ad aumentare, come mostra anche il grafico, costruito ipotizzando che il finanziamento con debito sia il 35% del totale. Anche rispetto al costo medio ponderato del capitale, da cui dipendono le decisioni di investimento, il nuovo sistema si rivela pertanto più distorsivo di quello vigente. E’ evidente che il discorso sarebbe profondamente diverso se non vi fosse l’Irap. Il d.d.l. delega, tuttavia, non specifica modalità e tempi di abolizione di questa imposta, né avanza ipotesi su come potrebbero essere compensate le consistenti perdite di gettito (circa 30 miliardi di euro) dovute alla sua annunciata e progressiva abolizione. Il d.d.l. delega si limita ad indicare, in proposito, che verrà data priorità all’esclusione dalla base imponibile del costo del lavoro e di eventuali ulteriori costi (art.8, nuovo testo, approvato alla Camera). Se si dovesse procedere a questo tipo di erosione, per gradi, della base imponibile, le aliquote effettive marginali di imposta avrebbero il seguente andamento (non riportato nella figura 1): a) inizialmente, e fino a quando l’abbattimento Irap fosse limitato al costo del lavoro, le aliquote sul capitale resterebbero evidentemente immutate; b) con l’estensione dell’erosione dell’imponibile agli interessi, si assisterebbe ad un ampliamento del divario fra il costo di un finanziamento con capitale proprio e debito, a favore di quest’ultimo: l’aliquota effettiva resterebbe infatti invariata nel primo caso e tornerebbe a zero nel secondo. In media, continuando ad ipotizzare una percentuale di indebitamento del 35%, l’aliquota passerebbe dal 26,4% al 24,2%; c) solo alla fine del processo, quando anche l’Irap sugli utili fosse abolita, si ridurrebbe anche il costo del capitale proprio, ripristinando una maggiore neutralità rispetto alle scelte finanziarie, e l’aliquota marginale effettiva complessiva scenderebbe al 21,45%. Tuttavia, l’effetto positivo, di riduzione del costo del capitale, atteso dalla prospettata abolizione dell’Irap potrebbe essere non solo annullato, ma anche rovesciato se all’abolizione dell’Irap dovessero accompagnarsi un aumento dell’aliquota Irpeg, e/o una revisione della base imponibile, volta ad esempio a ridurre le deducibilità consentite a titolo di ammortamento fiscale, come lasciava intendere una prima versione della delega, o, ancora, l’introduzione di altre forme di prelievo a carico del capitale dell’impresa o dei redditi che da esso derivano. Fino a quando non saranno note le forme di copertura previste per compensare l’eliminazione dell’Irap, non sarà possibile valutare, a regime, l’onere fiscale effettivo da cui dipendono le scelte reali e finanziare delle imprese. 2.1.2 Il ruolo delle imposte personali su dividendi, interessi e plusvalenze L’inclusione, nell’analisi, delle imposte personali sui redditi generati nel settore societario (dividendi, interessi e plusvalenze) non solo non attenua le conclusioni raggiunte nel precedente paragrafo, ma tende anzi a rafforzarle. La tassazione degli interessi viene uniformata al livello più basso (12,5%). Nel caso di partecipazioni non qualificate, i dividendi perdono la possibilità di usufruire del credito di imposta, in alternativa alla tassazione definitiva con aliquota del 12,5% (senza credito). Se le partecipazioni sono qualificate, al credito ai dividendi si sostituisce la parziale inclusione nell’imponibile della nuova imposta personale (Ire), che però sarà soggetto, a regime, alle due nuove aliquote del 23% e del 33%. Non essendo definita la percentuale di inclusione dei dividendi nell’imponibile, è difficile fare confronti. Nell’ipotesi di una percentuale del 50% (come in Germania) non vi sarebbe molta differenza, rispetto al regime attuale e tenendo conto delle nuove aliquote Irpef, ma solo per soci con redditi elevati. Sarebbero, invece, penalizzati i soci con redditi più bassi e gli azionisti di società che beneficiano della Dit e ne trasmettono i vantaggi in capo all’azionista, grazie al sistema di basket introdotto con la riforma Visco. poco rilievo e ciò spiega perché la riduzione dell’aliquota legale nel 2003 abbia effetti quasi impercettibili su quella effettiva, nell’ipotesi di finanziamento con debito. 7 Solo per le plusvalenze si potrebbe avere una tassazione lievemente inferiore, con la nuova riforma. Infatti, per quelle non qualificate si manterrebbe l’aliquota del 12,5%, con tassazione al realizzo, invece che sul maturato, mentre per quelle qualificate, al posto della tassazione con aliquota del 27% vi sarebbe la parziale inclusione nell’imponibile dell’imposta personale, analogamente a quanto osservato per i dividendi. In sostanza, tende ad ampliarsi, in sede di tassazione personale, il divario fra la tassazione degli interessi e degli utili societari, in particolare i dividendi6, e ciò va nella direzione di rafforzare il vantaggio fiscale del debito. 2.1.3 Le norme contro la thin capitalisation Il d.d.l. delega prevede l’introduzione di norme generali contro la thin capitalisation. In particolare, prevede che se i finanziamenti erogati o garantiti dal socio che detiene direttamente o indirettamente una partecipazione non inferiore al 10% del capitale sociale superano, rispetto al patrimonio netto, certe soglie consentite, gli interessi corrispondenti non sono deducibili e sono trattati come utili, a meno che non confluiscano in un’imponibile Irpef o Irpeg all’interno del paese o che l’impresa sia in grado di dimostrare che i finanziamenti eccedenti il limite stabilito derivano dalla “capacità di credito proprio e non da quella del socio”. La nuova norma mira a colpire quelle forme di sottocapitalizzazione delle imprese che hanno natura elusiva, essendo attuate per il vantaggio, da parte dei soci, a sostituire direttamente o indirettamente, e a mero fine di conseguire un risparmio fiscale, capitale di debito al capitale proprio. E’ chiaro che questo vantaggio emerge in presenza di differenze nelle aliquote a cui sono tassati i dividendi e gli interessi, in capo alla società e al socio. Operazioni elusive di thin capitalisation sono particolarmente diffuse, fra società multinazionali fra loro collegate, come strumento di profit shifting fra giurisdizioni con aliquote diverse, e sono particolarmente favorite in Italia, sia per l’assenza di specifiche norme antielusive, presenti invece nella maggior parte degli altri paesi, sia per l’aliquota legale ancora relativamente più elevata, che rende conveniente concentrare la deduzione degli interessi passivi nel nostro paese, sottraendo base imponibile e gettito in favore di paesi a più bassa aliquota, dove confluiscono gli interessi. Ma come si è visto, la nuova riforma riapre più in generale la convenienza a finanziarsi con debito; fenomeni di eccessivo indebitamento, ai soli fini di conseguire un vantaggio fiscale, potrebbero tornare ad essere particolarmente convenienti anche per alcuni soci-persone fisiche residenti, soprattutto se gli interessi percepiti sono soggetti all’aliquota definitiva del 12.5%. Per giudicare gli effetti della normativa in questione occorrerà attendere i decreti legislativi a cui spetta il compito di definire sia la soglia oltre alla quale il rapporto di indebitamento darà luogo alla indeducibilità degli interessi passivi, sia le specifiche modalità di applicazione, in primo luogo se la nuova normativa sarà ugualmente estesa a tutte le imprese, indipendentemente dalla loro natura giuridica e/o dal loro fatturato7. Tuttavia, come è emerso chiaramente anche nel dibattito parlamentare, è diffuso il timore che l’introduzione di norme generali contro la thin capitalisation possa penalizzare soprattutto le PMI, strutturalmente più indebitate e risulti per esse “una misura 6 Si veda, in proposito, il contributo di Maria Cecilia Guerra (2002), in questo numero della rivista. La delega prevede, all’art. 3 sull’imposta sul reddito, che per la determinazione del reddito di impresa si applichino le norme contenute nella disciplina dell’imposta sul reddito delle società, in quanto compatibili. Potrebbe essere allora che, come accade in Germania, le società di persone siano escluse dall’applicazione delle norme contro la thin capitalisation. Tuttavia, questa soluzione introdurrebbe discriminazioni, fra imprese con forme giuridiche diverse, ampiamente discutibili sul piano dell’equità e dell’efficienza. Inoltre, potrebbe indurre comportamenti elusivi: ad esempio, in Germania, per evitare le norme sulla thin capitalisation e la ritenuta alla fonte è divenuto conveniente, per una madre straniera, strutturare un investimento all’interno del paese attraverso una partnership tedesca (Ehlermann, 2000). Meglio sarebbe, nel caso si volessero escludere le PMI, fare riferimento ai parametri di fatturato utilizzati per l’applicazione degli studi di settore. Sembra questo l’orientamento che il governo intende seguire. 7 8 disincentivante ai fini del ricorso ai capitali di prestito non compensata da altre misure dirette a favorire maggiormente il ricorso al capitale di rischio”8, che al contrario, è opportuno aggiungere, è penalizzato dall’abolizione della Dit. Non sarà facile definire una normativa semplice ed equilibrata, in grado di individuare i comportamenti elusivi. La nuova normativa, infatti, pur non penalizzando il più elevato indebitamento fisiologico delle PMI, dovrebbe consentire di limitare, anche in questo caso, l’eventuale eccesso di finanziamenti con debito effettuati al solo scopo di ridurre gli oneri di imposta complessivi pagati dai soci. 2.2 La scelta dei fattori produttivi Come si è anticipato, il d.d.l. delega si limita ad indicare che il processo di progressiva abolizione dell’Irap avverrà dando priorità alla riduzione dell’imposta sul costo del lavoro. Alcune informazioni addizionali si hanno dalla Relazione tecnica al d.d.l., da cui si apprende che le norme contenute nell’art. 4 determineranno, nel complesso, un recupero di gettito a carico delle società tale da consentire, ad invarianza di prelievo complessivo, un abbattimento dell’imponibile Irap per un ammontare pari al 20% del costo del lavoro. Solo questo abbattimento dell’Irap trova dunque copertura, stando alle stime del governo, nella legge delega, mentre non si conosce ancora come saranno coperte le ulteriori, ben più cospicue, perdite di gettito che si avranno a seguito della progressiva e completa abolizione di questa imposta. Per questi motivi è opportuno tenere distinto l’effetto di una riduzione del 20% del costo del lavoro dall’imponibile Irap, la cui attuazione è esplicitamente prevista nella Relazione tecnica e trova copertura nella delega, rispetto a quello, ancora del tutto incerto, che si avrà se e quando tutto il costo del lavoro sarà deducibile. La figura 2 riporta, a titolo illustrativo per un operaio dell’industria (con più di 50 dipendenti), le aliquote effettive sul salario, inclusive dei contributi a carico del datore di lavoro e dell’Irap, ipotizzando che le aliquote legali contributive a carico del datore di lavoro siano quelle vigenti nel 2002 (33,08%), a cui si aggiunge un onere per TFR pari al 7,63% del salario9. Fig. 2. Aliquote complessive sul salario: oneri contributivi 2002 relativi ad un operaio della grande industria e varie ipotesi di riduzione della base imponibile Irap (Valori percentuali) 8 Così si esprime il Presidente della Confapi, nell’audizione alla Commissione finanze alla Camera, nella seduta del 7 febbraio 2002. 9 I valori delle aliquote sarebbero diversi se si considerassero altri settori e figure professionali. Ai diversi oneri contributivi e al permanere di alcune differenze nelle aliquote Irap per settore, si aggiungono ora le modifiche deliberate da alcune regioni (ad esempio, Lombardia e Marche) che introducono una certa variabilità del costo del lavoro anche per regione. 9 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00 Effetti diretti LV 2002 Effetti diretti e indiretti -20% CdL - Oneri sociali - CdL La legislazione vigente nel 2002 (LV 2002) è confrontata innanzi tutto con la riduzione del 20% del costo del lavoro (-20% CdL) dalla base imponibile Irap, prevista nella Relazione tecnica al d.d.l. delega. L’effetto di questa agevolazione sarebbe quello di ridurre gli oneri complessivi sul salario di circa un punto percentuale (dal 46,7% al 45,5%) se si tiene conto solo dell’effetto “diretto” dell’Irap (primo gruppo di istogrammi) e di circa due punti e mezzo (dal 50,7% al 48,3%) se si tiene conto anche degli effetti “indiretti” dell’Irap (secondo gruppo di istogrammi). In quest’ultimo caso il costo del lavoro è più alto perché si considerano anche gli oneri, chiamati “indiretti” 10, connessi alla indeducibilità dell’Irap dall’imponibile Irpeg. Ed è proprio per questo che considerando anche gli oneri indiretti la riforma appare più efficace: alla riduzione dell’Irap si associa, infatti, la riduzione dell’aliquota Irpeg dal 36%, nel 2002, al 33%, con la nuova riforma “a regime”. Una riduzione del costo del lavoro lievemente più elevata si avrebbe se, invece di dedurre dall’imponibile una percentuale fissa del 20% del costo del lavoro, si consentisse alle imprese di dedurre dall’imponibile Irap gli oneri contributivi e il TFR (terzo istogramma)11. Questa soluzione, già da tempo e da più parti suggerita, costituirebbe una razionalizzazione dell’imponibile Irap, in quanto non è molto giustificabile, sul piano dei principi, che l’imposta si commisuri anche a questi oneri obbligatori. Sarebbe, dunque, sotto molti aspetti preferibile all’ipotesi di riduzione uniforme dell’imponibile Irap pari il 20% del costo del lavoro. Ma è evidente che considerazioni sulla 10 Per una distinzione fra effetti diretti e indiretti dell’Irap sul costo del lavoro, si veda Giannini (1999). Gli oneri contributivi e il TFR sono solitamente una percentuale del costo del lavoro superiore al 20%. Per un operaio della grande industria la percentuale si aggira attorno al 29% del costo del lavoro, ossia il 41% circa del salario. 11 10 razionalità del tributo di questo tipo sono destinate ad avere scarso rilievo se l’obiettivo finale è, come annunciato dal governo, la sua completa abolizione. Una riduzione consistente del costo del lavoro si avrebbe solo con l’integrale deduzione dall’imponibile di questo costo (ultimo istogramma). Ma poiché questa componente della base imponibile Irap è di gran lunga quella che ha il maggior peso (conta circa per il 65%-70% del totale) la corrispondente perdita di gettito sarebbe elevata (attorno ai 20 miliardi di euro). Come si è detto, né la delega, né la relazione tecnica specificano le modalità di copertura e i tempi in cui si intende raggiungere questo obiettivo. In conclusione, a fronte dell’aumento del costo del capitale, la riforma ha l’effetto di ridurre il costo del lavoro, ma l’impatto fino ad ora prevedibile è di lieve entità. L’incidenza fiscale sul costo del lavoro, inoltre, pur limitando l’attenzione ai soli oneri a carico del datore del lavoro, resta superiore a quella sul capitale12. 2.3. La dimensione organizzativa La riforma potrà avere ripercussioni di rilievo sul carico fiscale che le società si troveranno a sopportare in funzione della loro struttura e forma giuridica e delle diverse scelte organizzative effettuate. Il d.d.l. innova, infatti, profondamente, la tassazione di dividendi e plusvalenze (minusvalenze) percepiti da una società di capitali, modifica la tassazione delle plusvalenze derivanti da operazioni di ristrutturazione industriale e introduce un consolidato “fiscale” di gruppo. Cambia, inoltre, la tassazione relativa delle società di capitali, da un lato e delle società di persone e imprese individuali, dall’altro. 2.3.1 Esenzione di dividendi e plusvalenze infrasocietarie Per quanto concerne i dividendi infra-societari, viene abolito il credito di imposta, che consentiva una piena eliminazione della doppia imposizione economica sugli utili, indipendentemente dal numero di passaggi societari e dall’entità della partecipazione del socio. Al credito viene sostituito, come metodo per eliminare la doppia imposizione economica, quello dell’esclusione dalla base imponibile. Il campo di applicazione consentito dalla delega è molto ampio, posto che non sono indicati vincoli di partecipazione. L’esclusione riguarda il 95% dei dividendi, a meno che questi non derivino da società di un gruppo che opta per il consolidato, nel qual caso sono integralmente esclusi dall’imponibile. Le società che non potranno optare per il consolidato saranno pertanto lievemente penalizzate, tanto più quanto più lunga è la catena societaria, rispetto alla situazione attuale. L’abolizione del credito di imposta ai dividendi, sia per quanto concerne i dividendi percepiti da persone fisiche, sia per quanto concerne un socio – persona giuridica, è principalmente 12 Si noti che per effettuare un confronto corretto fra l’incidenza fiscale complessiva sul costo del lavoro e del capitale occorre rapportare le imposte, in entrambi i casi, ad un’imponibile che esclude o che include le imposte stesse. Le imposte societarie sono solitamente calcolate con riferimento ad una base imponibile lorda, cioè tax inclusive, mentre i contributi sono rapportati al salario, e sono dunque applicati ad un’imponibile che li esclude (tax exclusive). La relazione tra un’aliquota tax inclusive (ti) ed una tax exclusive (te) è: ti = te/(1+te). Ad esempio, le aliquote complessive del 45,5% e del 48,3% sul salario riportate nel testo, tenendo conto della riduzione dell’Irap e dell’Irpeg nel primo anno di attuazione della riforma, si riducono rispettivamente al 31,3% e al 32,6%, se calcolate in percentuale del costo del lavoro. Resta comunque vero che l’incidenza fiscale sul costo del lavoro, così calcolata per renderla comparabile con quella sul costo del capitale, resta più elevata di quest’ultima. L’incidenza fiscale complessiva sul capitale riportata nella figura 1 mostra, dopo la riforma (2003*), un dato medio pari al 26% circa, ma, come si è già ricordato nel testo, questo valore è sovrastimato, in quanto si riferisce ad un bene non ammortizzabile. Tenendo conto anche dei beni ammortizzabili, l’aliquota effettiva scende al 18% circa (Giannini, Bresciani, 2002). 11 motivata da esigenze di carattere internazionale. Il credito di imposta tende, infatti, a privilegiare i residenti rispetto ai non residenti, a cui solitamente il beneficio del credito non è esteso, e comporta dunque discriminazioni poco giustificabili in un contesto di crescente integrazione internazionale13. Inoltre, la sua presenza può indurre distorsioni nel mercato: ad esempio, come si sottolinea nella relazione al d.d.l. delega, il credito di imposta rende conveniente l’acquisizione di società di capitali residenti in Italia, da parte di non residenti, attraverso la costituzione di una società locale, semmai finanziata con debito, che possa godere del credito con rimborso; azionisti non residenti sono, inoltre, incentivati a vendere le azioni prima dello stacco del dividendo ad un’azionista residente, che semmai compensa i dividendi con interessi passivi e va a rimborso, per ricomprarle subito dopo (dividend stripping). L’esigenza di rimuovere discriminazioni e distorsioni di questo tipo è all’origine della decisione di abolire il credito di imposta ai dividendi anche in altri paesi, tra cui la Germania, con la riforma del 2000, a cui quella italiana si ispira sotto molti profili. Esclusione dall’imponibile e credito di imposta pieno sono forme alternative, ma non equivalenti, per eliminare la doppia imposizione economica, e la prima sembra avere una superiorità nell’attuale contesto di crescente integrazione internazionale, soprattutto date le difficoltà di applicare un sistema di credito esteso ai non residenti. Accanto all’esclusione dall’imponibile dei dividendi infra societari, la delega prevede l’esenzione delle plusvalenze derivanti da cessioni di partecipazioni in società con o senza personalità giuridica. Di nuovo, il campo di applicazione consentito dalla delega è molto ampio. Le uniche condizioni per usufruire dell’esenzione sono: la riconducibilità della partecipazione alla categoria delle immobilizzazioni finanziarie, l’ininterrotto possesso per un periodo non inferiore ad un anno e l’esercizio da parte della società partecipata di un'effettiva attività commerciale. Esenzione delle plusvalenze da partecipazioni ed esclusione dei dividendi sono considerati, nel disegno di riforma, strumenti simmetrici e complementari, per eliminare la doppia imposizione sui redditi infra societari, indipendentemente dalla natura di questi redditi (dividendi o plusvalenze). Tuttavia, va riconosciuto che congegnare la tassazione delle plusvalenze in modo da eliminare la doppia imposizione economica è compito più complesso rispetto al caso dei dividendi. I motivi sono fondamentalmente due: a) non sempre le plusvalenze originano da reddito assoggettato a tassazione in capo alla società partecipata; b) la tassazione avviene al momento del realizzo. Per questi motivi, l’esenzione delle plusvalenze sulle partecipazioni realizzate da una società di capitali potrebbe comportare, a volte, l’assenza o il continuo differimento, ad esempio fino alla realizzazione da parte di un socio – persona fisica, nel pagamento di qualsiasi imposta su questi redditi14. Inoltre, l’esenzione è riservata alle sole plusvalenze realizzate su partecipazioni detenute almeno un anno e iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie. Non riguarda le altre partecipazioni, né è estesa alle plusvalenze derivanti dalla cessione di beni materiali e/o di rami di azienda. Queste differenze di trattamento hanno suscitato alcune perplessità e critiche, in sede di dibattito 13 Cfr., ad esempio, Schreiber (2001), Fuest e Huber (2001), Devereux e Keen (2001). Il discorso andrebbe approfondito, tenendo conto di tutte le possibili cause che possono essere alla base della maturazione di una plusvalenza. In molti casi, vi sono buoni motivi per esentare le plusvalenze sul realizzo di partecipazioni, ad esempio quando le plusvalenze derivano da utili già tassati in capo alla società partecipata o riflettono il valore attuale scontato dei flussi di cassa netti futuri. In altri casi tuttavia, le plusvalenze potrebbero riflettere guadagni che non hanno ancora subito, né subiranno mai alcuna imposta, ad esempio perché derivano da andamenti temporanei dei mercati azionari, che non riflettono adeguatamente la redditività futura della società. Un altro esempio che induce a riflettere sull’opportunità di una completa esenzione delle plusvalenze da cessione di partecipazioni è quando la plusvalenza in capo alla partecipante deriva da un aumento nel valore delle attività patrimoniali della figlia. In questo caso, l’esenzione delle plusvalenze sulla cessione di partecipazioni consentirebbe di posporre il pagamento dell’imposta sulla plusvalenza maturata fino al realizzo delle attività patrimoniali, da parte della partecipata. 14 12 parlamentare, per il timore che da esse possano discendere comportamenti elusivi o differenze di trattamento poco giustificabili sul piano dei principi. Ad esempio, limitare l’esenzione alle plusvalenze su partecipazioni iscritte per almeno un anno nelle immobilizzazioni ha lo scopo di escludere dall’agevolazione le plusvalenze a carattere maggiormente speculativo, ma introduce al contempo un forte incentivo a spostare le partecipazioni che stanno nell’attivo circolante tra le immobilizzazioni, per fruire del trattamento fiscale agevolato. Ancora, la discriminazione fra cessioni di asset o rami di azienda, da un lato e cessioni di partecipazioni, dall’altro viene giustificata, in linea di principio, in considerazione del fatto che nel primo caso, a fronte della completa tassazione, si ha un pieno riconoscimento dei maggiori valori a fini fiscali in capo all’acquirente (a fine di una successiva cessione o del calcolo degli ammortamenti), mentre nel secondo caso, relativo alla cessione di partecipazioni esenti, i maggiori valori non sono riconosciuti a fini fiscali (Simoni, 2002). E’ stato anche chiarito, da parte del Ministro Tremonti15, che operazioni di “societarizzazione” di un ramo di azienda, al fine di realizzare la plusvalenza tramite una cessione di partecipazioni, invece che tramite cessione diretta dell’attività, non sarebbero considerate elusive, ma al contrario sarebbero viste come un modo indiretto e legittimo per recuperare piena neutralità fiscale tra le due operazioni. Nonostante questi chiarimenti, le diverse conseguenze fiscali che possono discendere da operazioni di ristrutturazione aziendale, assimilabili nei loro effetti economici, continuano a suscitare qualche perplessità16. Rispetto al regime attuale, introdotto con legge 358/97 e successive modifiche, con la nuova riforma verrebbe meno l’uniformità di trattamento fra diverse operazioni di ristrutturazione societaria, indipendentemente dal fatto che assumano la forma di cessione di partecipazioni di controllo o collegate, rami di azienda, conferimenti, fusioni. Oggi le plusvalenze derivanti da queste operazioni sono assoggettate a tassazione separata del 19%. Dopo la riforma, alcune sarebbero tassate ad aliquota piena, fatta salva la possibilità di rateizzazione in cinque esercizi, altre sarebbero completamente esenti. Queste differenze di trattamento, pur tenendo conto del riconoscimento dei maggiori valori fiscali, nel caso di tassazione della plusvalenza, potrebbero dar luogo ad oneri fiscali diversi, in valore attuale, e influenzare l’esito contrattuale tra cedente e cessionario. A fronte di questi elementi problematici della riforma, va riconosciuto che il nuovo sistema eliminerebbe una asimmetria presente nella attuale normativa, ben poco giustificabile sul piano economico, e fonte di numerosi arbitraggi e veri e propri comportamenti elusivi. Infatti, a fronte di agevolazioni per la tassazione delle plusvalenze derivanti da ristrutturazioni societarie (tassazione sostitutiva al 19%) non sono previste speculari restrizioni nella deducibilità di eventuali minusvalenze ed è possibile dedurre integralmente, sia dall’Irap, che dall’Irpeg, gli ammortamenti dei cespiti rivalutati. La delega prevede invece, coerentemente, che le partecipazioni che danno luogo a plusvalenze esenti, diano luogo al contempo a minusvalenze non deducibili. Non sono neppure deducibili i costi connessi con la cessione di tali partecipazioni ed è rivisto il pro-rata di deducibilità degli interessi passivi per tenere conto dei nuovi redditi esenti. Viene inoltre previsto il mantenimento e la razionalizzazione del principio di neutralità fiscale nelle operazioni di fusione, scissione e incorporazione. 15 Si veda Il Sole 24 Ore del 20 Marzo 2002 che riassume le risposte fornite da Tremonti ad alcuni rilievi avanzati dalle associazioni di categoria (Confindustria, Abi, Ania, Confagricoltura, Confartigianato) con una apposita lettera indirizzata al Ministro. 16 Si vedano, ad esempio, le osservazioni di Franco Gallo, nell’audizione alla Commissione Finanze della Camera, il 7.2.2002 e di Ivan Vacca (2002). Posizioni molto più critiche sono contenute in NENS (2002) e Ariemma e Menichini (2002). 13 In generale, è possibile che il nuovo regime di tassazione di dividendi e plusvalenze infra societarie sia congegnato, seppure con i problemi prima indicati, in modo da essere più neutrale e, sotto diversi aspetti, anche più razionale dell’attuale. Me le modifiche introdotte non avranno effetti di poco conto sia sui comportamenti e le strategie organizzative delle imprese, sia sulla ripartizione degli oneri fra le diverse società. Stando a quanto si conosce dalla delega, il nuovo sistema sarà, rispetto al precedente, più favorevole per le ristrutturazioni che assumono la forma di cessioni di partecipazioni e, dunque, soprattutto per le società holding. Oneri addizionali, tuttavia, deriveranno da altre misure, soprattutto dal venir meno della deducibilità delle minsuvalenze su partecipazioni e della tassazione agevolata al 19% sulle cessioni di rami di azienda. Il nuovo regime impositivo indurrà molte imprese a modificare le proprie strategie e i propri assetti organizzativi, al fine di minimizzare gli oneri fiscali. E’ possibile attendersi anche effetti di annuncio: a seguito della riforma proposta le imprese possono essere indotte ad anticipare o posticipare certe decisioni (ad esempio, la svalutazione di una partecipata, la cessione di un ramo di azienda, la distribuzione di dividendi), in funzione degli oneri fiscali relativi a queste operazioni, attesi a seguito della nuova normativa proposta nel d.d.l. delega. 2.3.2 Il consolidato fiscale L’introduzione di un “consolidato fiscale”, che consente alle società del gruppo di sommare i propri imponibili (utili e perdite), è un’altra importante novità del d.d.l. delega, da cui discenderanno ulteriori ripercussioni sui comportamenti e le strategie organizzative delle imprese, e la cui valutazione potrà compiutamente essere fatta solo quando si conosceranno i dettagli normativi dei decreti delegati. I margini lasciati dalla delega sono molto ampi: il consolidato è opzionale (per un periodo non inferiore a tre anni) e può riguardare anche solo alcune società del gruppo; la partecipazione deve essere non inferiore a quella necessaria per il controllo di diritto secondo l’art. 2359, c.1 del Codice civile (maggioranza dei voti in assembra ordinaria) e con un emendamento alla Camera si è chiarito che il consolidato riguarderà anche le partecipazioni indirette. E’ previsto un limite (da definire) per il riconoscimento a fini fiscali delle perdite realizzate prima dell’ingresso nel gruppo e una regolamentazione per quelle residue nel caso di scioglimento. L’Italia è uno dei pochissimi paesi nella UE (assieme a Belgio e Grecia) a non prevedere un sistema di compensazione fiscale, all’interno del gruppo, tra imprese in utile e in perdita. Vi erano, come è noto, altri istituti in grado di supplire, in modo particolarmente flessibile, a questa carenza, in particolare il credito di imposta ai dividendi e la possibilità di svalutare le partecipazioni a fronte di perdite in capo alla partecipata. L’abolizione di questa normativa, prevista dalla delega, ha l’effetto di fornire la spinta decisiva all’introduzione di una tassazione dei gruppi societari, eliminando quella che indubbiamente è una anomalia dell’Italia, nel contesto internazionale. Di nuovo, il sistema contenuto nel d.d.l. delega ha una sua coerenza interna e costituisce sotto molti profili una razionalizzazione della normativa esistente: con il consolidato saranno solo le società del gruppo a poter compensare utili e perdite delle partecipate e della controllante; con l’attuale normativa, invece, anche società non appartenenti a un gruppo potevano usufruire dei benefici della svalutazione delle partecipazioni e dei vantaggi del credito di imposta. Ma al contempo produrrà effetti distributivi di rilievo fra diverse tipologie di società e costi di transizione, che andrebbero attentamente valutati17. Nel complesso, tenderanno ad essere sfavorite, rispetto alla situazione attuale, le società che non avranno i requisiti per optare per il consolidato e che non potranno più beneficiare delle possibilità indirette di compensazione fornite dalla attuale 17 Un efficace e sintetico inquadramento della riforma che introduce il consolidato in Italia, e dei problemi che essa pone, è contenuto in Vacca (2002). 14 normativa18. Ciò potrà costituire una spinta alla riorganizzazione di alcuni gruppi piramidali, se essi non soddisfano i requisiti che verranno fissati per potere optare per la tassazione consolidata. 2.3.3 Le società di capitali e di persone Il d.d.l. delega, oltre a comportare trattamenti differenziati fra diverse società di capitali, a seconda di come sono organizzate e come intendono riorganizzarsi e a seconda della loro collocazione all’interno di un gruppo, comporterà modifiche di rilievo anche nel trattamento relativo di società di persone e imprese individuali, da un lato e società di capitali, dall’altro. Le principali differenze riguardano: il trattamento di dividendi e plusvalenze da partecipazioni, esenti per le società di capitali e parzialmente tassati per i soggetti Irpef, e le diverse aliquote legali. Mentre il primo aspetto, e la possibilità di optare per una tassazione di gruppo, tendono a rendere più flessibile e preferibile l’organizzazione dell’attività di impresa, soprattutto se articolata in più società, tramite la forma giuridica delle società di capitali, dal punto di vista delle aliquote, le società di persone saranno avvantaggiate dalla nuova riforma proposta. Quando entreranno in vigore le nuove aliquote dell’imposte sul reddito (Ire), l’utile delle società di persone, indipendentemente dalla sua destinazione, sarà tassato con le due aliquote del 23% (fino a 100 mila euro) e del 33% (oltre questa soglia); dunque, con un’aliquota marginale massima uguale a quella delle società di capitali. Per i soci di queste ultime, la tassazione al 33% costituisce invece la “tassazione minima” a cui si aggiungerà la parziale tassazione dei dividendi, in caso di distribuzione o delle plusvalenze, in caso di cessione del titolo. Ad esempio, nell’ipotesi di inclusione del 50% dei dividendi nella base imponibile dell’imposta personale, l’aliquota complessiva raggiungerebbe il 44% per un socio qualificato il cui reddito ricade nell’ultimo scaglione. Vi sarebbe anche una significativa differenza fra la tassazione di questo reddito di capitale e del reddito di lavoro, sicché sarebbe conveniente, per i soci di una società di capitali a ristretta base azionaria, percepire i redditi sotto forma di redditi di lavoro (ad esempio, come compenso agli amministratori), invece che tramite distribuzione di utili. Il regime ancora vigente è più neutrale. Per i soci qualificati di una società di capitali, il trattamento dei dividendi è uguale alla tassazione degli utili (distribuiti e non) dei soci di una società di persone e, prescindendo dalle implicazioni contributive, coincide anche con quello sui redditi di lavoro. Può esservi un lieve vantaggio, per le società di capitali, nel caso di utili trattenuti, se il confronto è con le aliquote marginali Irpef degli ultimi scaglioni attualmente in vigore. Proprio per eliminare questo diverso trattamento, il precedente governo aveva previsto (legge 133/99 collegata alla finanziaria 1999) che le società di persone e le imprese individuali potessero optare per lo stesso regime riservato alle società di capitali. Ma questa normativa è stata abrogata dalla legge 383/2001, prima di potere entrare in vigore. In sostanza, rispetto alla ricerca di neutralità fra diverse forme organizzative, e diverse tipologie di reddito, che caratterizzava la precedente riforma, il nuovo sistema di tassazione delle società di capitali proposto nel d.d.l. delega si mostra meno coerente e suscita qualche interrogativo. L’impianto complessivo dell’intero sistema andrebbe più attentamente valutato; soprattutto, andrebbe giustificata la razionalità di far coesistere aliquote complessive relativamente elevate sui dividendi e sulle plusvalenze con aliquote più basse sui redditi di lavoro e di talune tipologie di 18 Nel valutare le possibili ripercussioni della nuova normativa, sia sulla distribuzione del prelievo, sia sulle strategie di riorganizzazione delle società, occorre anche considerare la presenza di altre innovazioni, ad esempio quella che consente alle società di capitali i cui soci siano società di capitali residenti, con rapporti di partecipazione non inferiore al 10%, di optare per il regime di trasparenza delle società di persone, secondo cui l’utile è ripartito pro quota in capo ai soci, senza tassazione della partecipata. 15 impresa e aliquote ancora inferiori (12,5%) su altre attività finanziarie, quali gli interessi. Andrebbe anche prestata attenzione ai possibili effetti che il vantaggio relativo alla organizzazione dell’attività di impresa attraverso una società di persone, piuttosto che di capitali, potrebbe avere, soprattutto in un contesto, come quello italiano, che già vede una presenza abnorme e con pochi paragoni all’estero, per questa forma di organizzazione dell’attività di impresa19. 3. La competitività internazionale Uno degli obiettivi centrali della riforma è rendere più competitivo il sistema in ambito internazionale. Anche questo obiettivo può essere valutato con riferimento al benchmark della neutralità: a livello internazionale un sistema è neutrale se applica la stessa imposta indipendentemente dalla scelta di dove investire (all’interno o all’estero), come investire (attraverso una branch o una subsidiary), come finanziare l’investimento, dove allocare la base imponibile, e così via. Anche da questo punto di vista occorre esaminare separatamente ciascuna delle dimensioni indicate, facendo ricorso all’uso di diversi e adeguati indicatori. 3.1 La convenienza a spostare la base imponibile In presenza di un sistema di separate accounting, secondo cui i redditi generati da società che operano in più stati membri sono valutati in base alle regole contabili e fiscali del paese fonte del reddito, vi è una certa possibilità, e convenienza, a spostare i profitti, piuttosto che i fattori produttivi, da una giurisdizione con più alta aliquota ad una con aliquota inferiore. Ciò che rileva, ai fini di questa convenienza, è l’aliquota legale che non a caso si è rivelata uno degli strumenti più attivamente utilizzati dai vari paesi per competere fiscalmente e attirare base imponibile e gettito, a scapito di altri paesi20. L’esigenza di avere un‘aliquota legale in linea (o addirittura più vantaggiosa) di quella di altri paesi rende complesso il mantenimento di un sistema a doppia aliquota, come la Dit. A parità di base imponibile, infatti, un sistema di questo tipo necessita di un’aliquota sui sovraprofitti più elevata di quella che sarebbe necessaria per ottenere lo stesso gettito con un sistema ad aliquota unica. Ciò può indurre le società più mobili e profittevoli a spostare la propria base imponibile in paesi a minore tassazione legale. Ciò premesso, il progresso che la nuova riforma fa, nella direzione di ridurre l’aliquota legale è molto piccolo rispetto alla svolta del 1998. Fino a quella data l’Italia si era mossa in controtendenza rispetto agli altri paesi: come si nota dalla tabella 1, l’aliquota era molto inferiore alla media europea nel 1980, ed è aumentata progressivamente nel corso degli anni ’80 e nella prima metà degli anni ’90, proprio mentre aumentava la concorrenza internazionale e tutti gli altri paesi la riducevano. Con la riforma del 1998 torniamo abbastanza in linea con gli altri paesi; la riduzione dell’aliquota è di circa 12 punti percentuali e continua a ridursi, in base alla legislazione varata dal governo precedente, fino al 39,25% (inclusa l’Irap) nel 2003. L’aliquota resta ancora elevata rispetto alla media degli altri paesi, anche per la continua riduzione che si registra altrove. La nuova riforma, che porta l’aliquota complessiva al 37,25%, fa ben poco per migliorare la 19 Va ricordato che, proprio per ovviare alle discriminazioni, poco giustificabili, che la riforma introduce nel trattamento fiscale di società di persone e società di capitali a ristretta base azionaria, il governo sembra intenzionato ad emendare il testo della delega, in sede di discussione al Senato, consentendo a queste società di optare per il regime di trasparenza fiscale delle società di persone. 20 Devereux, Lockwood e Redoano (2002) dimostrano, per una serie di paesi OECD, che vi è stata concorrenza sulle aliquote legali e su quelle medie effettive, ma non su quelle marginali. 16 situazione. Includendo, per l’Italia, come per gli altri paesi, le eventuali imposte locali, l’Italia si colloca ancora ampiamente al di sopra della media europea. Diverso sarebbe il discorso se fosse integralmente abolita l’Irap, come è obiettivo del governo. Ma data la precedenza assegnata alla deducibilità dei costi (del lavoro e del debito) dall’imponibile Irap, questa imposta sembra destinata a gravare ancora per molto tempo sugli utili delle società. Tab. 1 Le aliquote legali (nazionali e locali) di imposizione societaria nella UE. Paesi 1980 1997 1998 Belgio 0,48 0,4017 0,4017 Danimarca 0,37 0,34 0,34 Francia 0,50 0,3667 0,3667 Germania 0,617 0,551 0,543 Irlanda 0,45 0,36 0,32 Italia (max) 0,363 0,532 0,4125 d.d.l. delega Lussemburgo 0,455 0,390 0,3745 Olanda 0,46 0,35 0,35 Portogallo 0,512 0,376 0,376 Spagna 0,33 0,35 0,35 Regno Unito 0,52 0,31 0,31 Grecia 0,40 0,40 Austria (max) 0,34 0,34 Finlandia 0,28 0,28 Svezia 0,28 0,28 Media UE (senza Italia) 0,4694 0,3711 0,3666 * Aliquote previste sulla base della legislazione vigente 1999 0,4017 0,32 0,3667 0,497 0,28 0,4125 2000 0,4017 0,32 0,3667 0,497 0,24 0,4125 0,3745 0,35 0,376 0,35 0,30 0,40 0,34 0,28 0,28 0,3583 0,3745 0,35 0,352 0,35 0,30 0,40 0,34 0,29 0,28 0,3544 2003* 0,4017 0,30 0,3333 0,384 0,125 0,3925 0,3725 0,3745 0,35 0,352 0,35 0,30 0,35 0,34 0,29 0,28 0,3236 3.2 La localizzazione degli investimenti Le decisioni di localizzazione degli investimenti sono funzione delle imposte che l’impresa si attende di pagare sia sui profitti normali, sia su quelli che eccedono questa soglia. Mentre per la decisione di “quanto” investire hanno importanza soprattutto le aliquote effettive su un investimento marginale (le aliquote marginali effettive presentate nel precedente paragrafo), per la decisione di “dove” investire rilevano maggiormente le aliquote su investimenti in grado di generare extra – profitti: le aliquote medie effettive21. Queste aliquote risentono maggiormente, e in modo crescente al crescere degli utili, dell’aliquota legale, posto che al crescere della redditività perdono di peso le deducibilità dall’imponibile (per interessi passivi e quote di ammortamento, in primo luogo). L’esigenza di avere una aliquota legale in linea (o addirittura più vantaggiosa) di quella di altri paesi e la difficoltà di mantenere un sistema tipo la Dit dipendono dunque non solo dal timore che i profitti migrino verso giurisdizioni meno tassate, ma anche dagli effetti negativi che aliquote più elevate sui sovra profitti potrebbero avere sulle decisioni di localizzazione degli investimenti. In un recente confronto internazionale, effettuato nell’ambito del già citato studio della Commissione Europea (2001a), l’Italia è il paese meno tassato se si osserva l’aliquota sull’investimento marginale, mentre si colloca in una posizione intermedia, osservando le aliquote medie effettive 21 Cfr. Devereux e Griffith, 1998, 2002. 17 nell’ipotesi di un rendimento sull’investimento del 20%22. Con la riforma, come si è visto, l’imposizione sull’investimento marginale tende ad aumentare, mentre l’aliquota legale cala; si restringe dunque la forbice tra il valore attuale dell’imposizione attesa su un investimento marginale e su investimenti infra marginali. Ma l’aumento del prelievo a livelli bassi di profittabilità è più consistente della riduzione che si osserva per livelli di profittabilità elevati. Detto altrimenti, l’aliquota marginale effettiva aumenta notevolmente mentre il beneficio in termini di aliquote medie effettive è di entità limitata, essendo dovuto solo alla riduzione di due punti dell’aliquota legale, e si osserva solo per livelli di profittabilità molto elevati23. La riforma non sembra dunque in grado di fornire uno stimolo fiscale all’investimento in Italia da parte di società estere. 3.3. Il trattamento dei redditi transfrontalieri Il campo in cui la nuova riforma introduce un vantaggio competitivo di rilievo per l’Italia non è tanto nella immediata e significativa riduzione delle aliquote legali e medie, che come abbiamo visto è ben poca cosa, quanto nell’estensione del regime di esenzione ai dividendi e alle plusvalenze derivanti da partecipazioni estere. Più che avvantaggiare in modo generalizzato il mondo delle imprese, il nuovo sistema consentirà opportunità di particolare interesse soprattutto per le società holding di partecipazioni operanti all’estero. Le modifiche rispetto al regime vigente possono essere così sintetizzate. Con riferimento ai dividendi transfrontalieri, e limitando l’attenzione al confronto con i paesi europei, che adottano in larga parte l’esenzione, il sistema previsto nella delega si attesta tra quelli più vantaggiosi in ambito UE. La maggioranza dei paesi prevede l’esenzione, sia sui dividendi interni, sia su quelli esteri, ma solitamente vengono fissate percentuali di partecipazione o altre condizioni che rendono l’esenzione meno estesa rispetto a quanto previsto nella delega. Quest’ultima non prevede, infatti, condizioni addizionali, rispetto a quelle per l’esenzione dei dividendi derivanti da partecipazioni interne, a parte quella che la società partecipata risieda in un paese diverso da quelli a regime fiscale privilegiato, in base alle norme previste per le Cfc, che contestualmente vengono estese alle società collegate. L’Italia, che era tra i paesi che adottavano la direttiva madri-figlie in modo restrittivo (il campo di applicazione era stato ampliato solo recentemente), risulterebbe, dopo la riforma, tra i paesi più favorevoli, assieme alla Germania, per la tassazione dei dividendi infrasocietari di fonte estera. La riforma ha il vantaggio di porre su un piano di parità il trattamento dei dividendi interni ed esteri e di uniformare, secondo regole che saranno più precisamente definite nei decreti legislativi, il trattamento della maggior parte dei dividendi esteri. Essa sarà certamente vantaggiosa per gli azionisti-persone giuridiche con partecipazioni estere che non rientrano fra quelle già ora esentate al 95%, e che godrebbero, dopo la riforma, di una analoga esenzione. E’ invece meno vantaggiosa, come si è già visto, nel caso di rapporti societari interni, soprattutto se basati su lunghe catene di partecipazione, e se le società coinvolte non possono optare per il consolidato Per quanto riguarda la tassazione delle plusvalenze su cessioni di partecipazioni, nei paesi europei i regimi sono molto differenziati. Austria, Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Olanda e, più recentemente Germania, Spagna e Regno Unito e Svezia e Irlanda, prevedono l’esenzione, per le partecipazioni interne ed estere, ma in genere vi sono condizioni più restrittive rispetto a quanto 22 Per un confronto fra aliquote effettive marginali e medie, nell’ambito dello studio della Commissione, si veda Giannini e Maggiulli (2001). 23 Secondo alcuni calcoli effettuati seguendo un’impostazione metodologica uguale a quella della Commissione, si ha che in media si avrebbe un vantaggio solo per livelli di redditività superiori al 45%. Cfr. Prometeia (2002), Bresciani e Giannini (2002). 18 previsto con la recente riforma tedesca e la analoga riforma Tremonti. Il regime proposto nella delega è dunque potenzialmente molto vantaggioso, per le cessioni di partecipazioni, rispetto a quello degli altri paesi europei. Le condizioni per godere dell’esenzione sono le stesse riservate alle cessioni di partecipazioni interne a cui si aggiunge solo quella che la residenza della società partecipata sia in un paese diverso da quelli a regime fiscale privilegiato (in base a quanto previsto dai decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art 127-bis, comma 4, Tuir). Il regime di esenzione delle plusvalenze da cessione di partecipazioni si sta rapidamente estendendo, in ambito comunitario e la riforma tedesca dell’estate 2000, prevedendo il sistema più favorevole in ambito UE, non può che costituire un benchmark di riferimento per gli altri paesi della Comunità. Si noti che la riforma tedesca non è stata intrapresa con il solo obiettivo di facilitare le dismissioni di partecipazioni e la ristrutturazione dell’industria finanziaria interna, anche se questa sembra essere la più favorita, ma anche per rendere competitivo a livello internazionale il paese, facilitando le ristrutturazioni dei gruppi multinazionali e rendendo più attraente la localizzazione di società, soprattutto holding, all’interno del paese. Analoghi sono gli obiettivi degli altri paesi che hanno introdotto forme di participation exemption, tra gli ultimi il Regno Unito, dove è stata recentemente varata la riforma, di cui si discuteva già da tempo, volta a esentare le plusvalenze realizzate su cessioni di partecipazioni, se la partecipazione supera una certa soglia. In questo contesto internazionale, l’Italia non solo si adegua alla tendenza in atto, ma si attesta, sempre che i decreti legislativi non pongano norme più restrittive, al regime in assoluto più ampio e favorevole, tra quelli adottati in ambito comunitario. 3.4 Il consolidato mondiale Anche con riferimento alla possibilità di opzione per il consolidamento degli imponibili, le novità contenute nella delega non si limitano ad adeguare la normativa italiana a quella europea, ma lasciano spazio all’introduzione di una normativa particolarmente flessibile e favorevole in ambito UE. Infatti, non solo la soglia di partecipazione che consente di optare per il consolidato è molto bassa, inferiore a quella prevista in tutti gli altri paesi europei, ad eccezione della Germania, ma la possibilità di consolidamento è estesa, seppure con regole distinte, alle società del gruppo non residenti. Le principali differenze fra i due tipi di consolidato sono: a) per il consolidato estero devono essere incluse tutte le controllate estere; b) il regime è sempre opzionale, ma l’opzione deve essere esercitata per un periodo di almeno 5 anni, nel caso di consolidato estero, contro i tre, per quello interno; c) i bilanci devono essere soggetti a revisione, nel caso del consolidato con controllate estere; d) il metodo di consolidamento avviene attraverso la somma dell’intero imponibile, con alcune rettifiche, nel caso di consolidato interno, mentre, correttamente, riguarda solo la quota di imponibile proporzionale alla partecipazione, nel caso di consolidato con controllate estere. In quest’ultimo caso si seguono le regole dell’art.127 bis c.8 Tuir (Cfc). La possibilità di un consolidato mondiale in capo alla società o ente controllante è un’altra importante novità della delega. In ambito UE, la possibilità di compensazione delle perdite cross border è consentita solo dalla Danimarca, ma per percentuali di partecipazione del 100%, e dalla Francia, ma con molte limitazioni. Solitamente, la possibilità di compensazioni fra utili e perdite all’interno del gruppo è riservata alle società del gruppo residenti, ma questa caratterizzazione nazionale del consolidato costituisce un problema per il buon funzionamento del mercato interno. Non a caso, le più recenti proposte di coordinamento della tassazione societaria in ambito comunitario attribuiscono un particolare rilievo all’adozione di un consolidato di gruppo per le società che operano nella UE (European Commission, 2001a, b), al fine di consentire alle società presenti in più stati membri di potere usufruire delle stesse opportunità riservate alle società che operano all’interno dei confini nazionali. 19 L’introduzione di un consolidato mondiale presenta diverse difficoltà e sono molti i “dettagli” importanti che dovranno essere affrontati in sede di stesura dei decreti legislativi: ad esempio, come verranno valutate e compensate le perdite (solo verticalmente o anche orizzontalmente?), come verrà regolato il consolidato indiretto, che tipo di correzioni verranno previste per la base imponibile definita secondo le regole del paese fonte, come verrà regolato il nuovo credito di imposta per imposte pagate all’estero, per il quale si introduce nella nostra legislazione il riporto all’indietro e un riporto in avanti, di non meno di otto esercizi. Dalle soluzioni di questi ed altri problemi dipenderà sia la semplicità della nuova normativa, sia la sua capacità di evitare doppie tassazioni, così come doppie deduzioni ed elusioni, e contenere le perdite di gettito interno per attività, in perdita, intraprese all’estero. Peraltro, come riconosce la stessa relazione al d.d.l. delega, “l’istituzione del consolidato mondiale costituisce un’opzione onerosa, tanto per la complessità del suo funzionamento, quanto per le necessarie garanzie che devono essere previste a tutela delle ragioni erariali”. Ma va sottolineato che era allo stesso tempo una scelta difficilmente eludibile, data la legislazione vigente. Quest’ultima, infatti, consente di svalutare le partecipazioni delle controllate in perdita, in sede di determinazione dell’imponibile, anche se la controllata è non residente. Il venire meno di questa possibilità avrebbe fortemente penalizzato le società con controllate estere, se non fosse stata accompagnata dalla possibilità di far ricorso ad una tassazione consolidata che includesse anche i risultati di queste società. 3.5 Chi è avvantaggiato dalla riforma? Considerata in quest’ottica internazionale, la riforma merita alcune considerazioni. Si è visto, in questo paragrafo, che i progressi che la riforma consente di fare sono molto limitati per quanto riguarda la tassazione delle società operative (la tassazione su investimenti marginali e anche infra-marginali, tende ad aumentare) e la riduzione di due punti dell’aliquota legale, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, sembra essere poco vantaggiosa anche per il capitale già investito. Si conferma, dunque, che la riforma pare avvantaggiare, in termini competitivi, non tanto l’insieme delle società, quanto le società di gruppi che operano a livello internazionale e, soprattutto, le società holding. Queste ultime, in realtà, potrebbero anche avere in prospettiva un maggiore vantaggio a localizzare le proprie società operative all’estero. Infatti, i benefici della participation exemption, accentuando il carattere di prelievo alla fonte, già in parte prevalente per quanto riguarda la tassazione delle società, rendono possibile usufruire, in una forma più ampia e più estesa di quanto oggi accada, dei vantaggi delle minori aliquote prelevate in altre giurisdizioni. Va anche sottolineato che si amplia il divario fra il trattamento delle società costituite all’estero sotto forma di sussidiarie rispetto alle branches: mentre nel primo caso la madre può godere di un diffuso regime di esenzione, ovvero di una tassazione basata sul principio di territorialità, le seconde resterebbero tassate in base alle (ancora più elevate) aliquote prelevate internamente, secondo un criterio di residenza. Questa considerazione, congiuntamente all’introduzione del consolidato interno ed internazionale, potrà indurre molte società che si sono espanse all’estero soprattutto attraverso questa forma giuridica, anche per motivi fiscali, a modificare, sempre per motivi fiscali, il proprio status. Interferenze fiscali di questo tipo, sulla forma giuridica dell’attività all’estero, sono lesive del buon funzionamento del mercato interno. L’estensione della possibilità di optare per il consolidato anche nel caso di controllate estere è un’importante innovazione, la cui introduzione è condivisibile sotto molti aspetti. Ma dal punto di vista dei meri vantaggi fiscali, va riconosciuto che il sistema vigente è più generoso, in quanto consente indirettamente di ottenere gli stessi risultati, soprattutto attraverso la svalutazione delle partecipate estere, estendendoli anche a società non integrate in un gruppo economico e consentendo, dunque, una maggiore flessibilità. 20 4. Gli effetti della riforma sul prelievo complessivo delle società e la sua distribuzione La delega non permette di valutare con sufficiente dettaglio gli effetti complessivi della riforma sul prelievo a carico delle imprese e sulla sua distribuzione. Alcune indicazioni addizionali, anche se non sempre chiare e comunque limitate al primo anno di attuazione della riforma, sono desumibili dalla Relazione tecnica al disegno di legge, a cui si farà ampio riferimento in questo paragrafo. Nell’art. 9 della delega si afferma che l’attuazione della riforma è sottoposta al vincolo della sostanziale invarianza dei saldi economici e finanziari netti dei singoli settori istituzionali. E’ anche previsto, allo stesso art. 9, che “apposita normativa transitoria escluderà inasprimenti fiscali, rispetto ai regimi garantiti dalla legislazione pregressa”. Se con ciò debba intendersi una sorta di “clausola di salvaguardia” a livello di singolo contribuente, si rischierebbe o di avere una norma complessa e poco efficace, come fu nel caso dell’Irap, o di impedire qualsiasi riforma che, come quella prevista nella delega, abbia per sua natura l’effetto di modificare, a parità di prelievo complessivo sul settore istituzionale, la posizione fiscale relativa dei singoli contribuenti. Di una eventuale clausola di salvaguardia e dei suoi possibili oneri non si fa comunque cenno, nella Relazione tecnica, per quanto riguarda le società. Con riferimento alla prevista invarianza dei saldi settoriali, nella Relazione tecnica si afferma che “le risorse che derivano in particolare dalla “normalizzazione europea” della base imponibile coprono il costo dell’aliquota europea, della progressiva riduzione dell’Irap e, per l’eventuale residuo, dell’abbattimento della tassazione, irrazionalmente sperequata, a carico del risparmio più povero (depositi bancari, depositi postali, etc.” (p.22). Il vincolo della invarianza dei saldi settoriali viene dunque inteso con riferimento al macro settore industriale e finanziario. Va detto, innanzi tutto, che la scelta indicata come possibile nella Relazione tecnica - spostare oneri dai risparmiatori alle imprese - può essere discutibile, soprattutto sul piano dell’efficienza interna ed internazionale24. Ma a prescindere da queste considerazioni, si apprende poi, dalla stessa Relazione tecnica, che non vi è alcun “residuo” per coprire la de-tassazione dei redditi delle attività finanziarie. La razionalizzazione della base imponibile e l’abolizione della Dit consentono, secondo le stime, di coprire la riduzione al 33% dell’aliquota legale e finanziano solo una piccola riduzione dell’Irap (la riduzione della base imponibile per il 20% del costo del lavoro). L’emergere dell’incertezza sui tempi e sulle modalità di eliminazione dell’Irap, associata alla certezza che nell’immediato le imprese nel complesso perderanno la Dit e altri benefici, sono alla radice delle crescenti preoccupazioni manifestate, dalle rappresentanze dei settori interessati, già dalle prime audizioni parlamentari, mano a mano che venivano delineandosi i dettagli della riforma. 4.1 Le stime della Relazione tecnica La Relazione tecnica è molto dettagliata, ma non è semplice entrare nel merito delle stime effettuate, quindi della loro attendibilità. Anche i servizi studi parlamentari hanno avanzato molti rilievi critici. La stessa Relazione peraltro avverte che “le stime sono sottoposte ad un certo grado di aleatorietà sia a causa dell’intensità dell’innovazione proposta, sia perché alcune opzioni sono lasciate volutamente “aperte” in attesa di successive ulteriori specificazioni” (p.24). A rendere difficile una ricostruzione contribuiscono però altri fattori: non sempre è chiaro come sono stati 24 Ciò è tanto più vero nella prospettiva dell’approvazione della proposta di direttiva comunitaria sugli interessi, prevista entro il 2002, in base alla quale il sistema che tenderà a prevalere per la tassazione di questi redditi sarà quello di residenza, basato sullo scambio di informazioni. Quest’ultimo è meno esposto alla concorrenza internazionale rispetto al sistema di tassazione delle società, basato principalmente, come si è visto, sul principio della fonte. In prospettiva, dunque, vi sono maggiori tensioni per una riduzione delle imposte societarie, rispetto a quelle sui redditi finanziari. 21 proiettati al 2003 i valori presi a base di riferimento, non è possibile separare chiaramente i singoli effetti delle varie novità introdotte, le stime vengono effettuate sulla base di fonti di informazione diverse e non sempre si avvalgono di un vero e proprio modello di microsimulazione capace di stimare la posizione dell’impresa individuale. Alcune volte derivano da calcoli approssimativi, difficilmente confutabili in assenza di ulteriori informazioni, o sembrano essere addirittura scorrette25. Per molte modifiche normative, data anche la loro complessità, oltre alla necessità di definire meglio i dettagli della normativa, non si procede ad alcuna stima. Non si presentano inoltre stime sui possibili effetti redistributivi della riforma. Osservando, in primo luogo, i gruppi, il pacchetto di misure che comporta l’esenzione di dividendi e plusvalenze e la simmetrica indeducibilità delle minusvalenze sembra comportare un notevole aggravio di imposta. Anche consentendo il consolidato (che viene applicato a tutte le società, secondo l’interpretazione più estesa consentita dalla delega, ossia con riferimento a controlli diretti e indiretti purché la partecipazione sia sempre almeno il 50% +1), il 28% dei gruppi continua a perdere a seguito della riforma e la perdita è notevole (1,2 miliardi di euro). Il 72% dei gruppi guadagna da questo “pacchetto” della riforma, ma nel complesso il saldo sui gruppi è negativo, per circa 830 milioni di euro, a cui contribuisce in modo non irrilevante (319 milioni di euro) l’abolizione della Dit. Per quanto concerne il consolidato estero non si fanno previsioni, ma si ritiene che la sua introduzione dovrebbe comportare un ulteriore recupero di gettito. Le previsioni per le altre società mostrano che anche in questo caso la riforma comporterà un aggravio di imposta, dovuto all’abolizione della Dit, alla indeducibilità delle minusvalenze iscritte e di quelle realizzate su partecipazioni che si qualificano per l’esenzione, alla minore deducibilità degli interessi passivi (revisione del pro rata e norme sulla thin capitalisation). Pur tenendo conto della riduzione dell’aliquota legale e di altri benefici, soprattutto l’esenzione sulle plusvalenze realizzate su partecipazioni interne e internazionali, si ha un aumento netto di prelievo, pari nel complesso a circa 1,5 miliardi di euro. L’aumento complessivo di prelievo previsto per l’insieme delle società, ammonta a circa 2,3 miliardi di euro, e consente di finanziare, nelle stime del governo, l’esclusione dalla base imponibile dell’Irap del 20% del costo del lavoro nell’ambito del settore privato (ovvero escludendo gli enti della PA). In sostanza, il maggior prelievo a carico delle imprese, e soprattutto delle società di capitali, dovuto all’aumento della base imponibile, andrà a favore di una riduzione degli oneri sul lavoro impiegato nel settore privato, incluse le società di persone, le imprese individuali e i liberi professionisti. Diversi aspetti andrebbero approfonditi, in particolare gli effetti derivanti dall’abolizione della Dit e quelli redistributivi che nel complesso avrà la riforma. Con riferimento all’abolizione della Dit e all’introduzione dell’aliquota unica del 33%, vi sono valutazioni a volte anche molto diverse, soprattutto sulla distribuzione dei vantaggi della Dit e sarebbe assolutamente necessario che le autorità competenti fornissero in proposito dati ufficiali, desumibili dalle dichiarazioni fiscali. Molte analisi sembrano, tuttavia, concordare sul fatto che il beneficio medio della Dit fosse pari, in media, nel 2001, a circa due punti di aliquota. Al 2003, se la Dit avesse potuto continuare ad esercitare appieno i propri effetti, la riduzione sarebbe stata superiore a quella consentita dalla riduzione della aliquota legale di due punti percentuali (dal 35% al 33%, come previsto dalla riforma). 25 Ad esempio, l’abolizione delle norme sulle ristrutturazioni aziendali previste dalla legge 358/97, frutterebbe, secondo le stime della relazione tecnica, un risparmio di imposta di circa 450 milioni di euro per le società di capitali e 75 per quelle di persone. Quest’ultimo guadagno, tuttavia, è fittizio, posto che è calcolato trascurando di considerare il valore attuale della tassazione delle rate ricondotte a tassazione nei quattro anni successivi al primo, dando l’illusione che la sostituita tassazione al 19% sia più penalizzante di una rateizzata in 5 anni, del 33%. 22 Un vantaggio della Dit, rispetto ad un sistema ad aliquota unica, è che aveva incorporato un meccanismo di riduzione automatico del prelievo medio sugli utili, che per le nuove società e quelle che maggiormente avevano fatto ricorso al capitale proprio poteva scendere fino al 19%. Secondo simulazioni condotte con il modello di microsimulazione sui bilanci di impresa MATÍS26, il meccanismo automatico di riduzione del prelievo avrebbe comportato in media, a regime (ossia con la Dit commisurata allo stock), un risparmio del 12% dell’Irpeg, pari a circa quattro punti di aliquota. Sempre da queste simulazioni emerge che la stragrande maggioranza di società di capitali (63% circa) avrebbe una riduzione di imposta maggiore con la Dit a regime, di quella che si avrebbe con un’aliquota unica del 33%. Tuttavia, solo a partire dai dati fiscali sarebbe possibile verificare se effettivamente i vantaggi della Dit si sono distribuiti, nel settore societario, così come le capitalizzazioni di bilancio indurrebbero a ritenere o se sono piuttosto andati, come spesso si sostiene, ad avvantaggiare solo alcune grandi società. In linea di massima, e nell’aggregato, si può dire che il recupero di prelievo derivante dalla abolizione della Dit sarà tendenzialmente compensato dalla riduzione dell’aliquota legale, mentre la riduzione dell’Irap sul costo del lavoro dovrebbe finanziarsi soprattutto attraverso l’aumento della base imponibile delle società di capitali, riconducibile in larga parte alla indeducibilità delle minusvalenze e alla limitazione nella deducibilità degli interessi passivi. Per quanto riguarda gli effetti di transizione e soprattutto la diversa ripartizione di un carico tributario nel complesso sostanzialmente invariato, non è facile fare previsioni, né sull’entità del fenomeno, né sulla sua diffusione. Alcune considerazioni svolte in precedenza forniscono qualche prima ipotesi, che andrebbe tuttavia verificata sulla base di informazioni (civilistiche e fiscali) e analisi più dettagliate di quanto non sia contenuto nella Relazione tecnica. 4.2 Le misure annunciate nel DPEF 2003-2006 Il disegno di legge delega è al momento ancora in sede di discussione parlamentare e la sua approvazione è slittata all’autunno 2002. Ormai non vi sono più i tempi tecnici per potere introdurre la riforma dal 2003. Dal DPEF 2003-2006, presentato nel luglio 2002, si apprende che nel 2003 vi sarà solo una riduzione dell’aliquota Irpeg al 34% (un punto, rispetto al già previsto 35%) e una prima riduzione dell’Irap, sempre a vantaggio del costo del lavoro, ma per soli 500 milioni di euro. Non si specifica come saranno finanziate queste perdite di gettito. In sostanza, anche dopo la presentazione del DPEF, il quadro continua a restare ampiamente incerto e non vi è evidenza del “sostanziale sgravio” promesso dal governo. Infatti: • nel 2003 la riduzione di prelievo per le società sarà molto limitata e forse destinata a scomparire, una volta che si saranno chiarite le modalità di copertura; • successivamente, stando alle stime della Relazione tecnica, dovrebbe esservi invarianza del prelievo complessivo a carico del settore; • il beneficio più atteso dalle imprese, l’abolizione dell’Irap, continua ad essere incerto nei tempi e nelle modalità di attuazione. 5. Osservazioni conclusive La vastità e la complessità della riforma della tassazione del reddito di impresa, presente nell’art. 4 del d.d.l. delega fiscale, non consentono facili sintesi e conclusioni. A fianco di alcuni aspetti ampiamente discutibili, tra cui l’incertezza del disegno finale che si intende perseguire e dei suoi tempi, ve ne sono altri indubbiamente apprezzabili. 26 Capp e Università di Bologna (cfr. Bontempi, Giannini, Guerra e Tiraferri, 2001). 23 Tra gli aspetti critici, vi è l’abolizione della Dit. Si può discutere se un sistema di Dit sia preferibile o meno ad uno ad aliquota unica. Il vantaggio del primo sistema, come si è visto, è quello di essere più neutrale con riferimento alle scelte finanziarie delle imprese, e di avere incorporato un meccanismo automatico di riduzione dell’aliquota media. Il vantaggio del secondo è di permettere un’aliquota più bassa sugli extra-profitti, consentendo per certi aspetti una maggiore competitività complessiva del sistema nel contesto di crescente integrazione internazionale. In termini generali, tuttavia, la riforma non è ancora, per il momento, in grado di consentire all’insieme delle società di ottenere un guadagno competitivo, posto che l’aliquota legale continua a rimanere di diversi punti percentuali superiore alla media europea. Se il piccolo recupero, di due punti percentuali, in termini di aliquota sia sufficiente a giustificare la penalizzazione di tutte quelle imprese che negli anni appena trascorsi avevano iniziato ad apprezzare i benefici Dit è questione che meriterebbe una attenta analisi. Così come avrebbero meritato una più attenta analisi, prima della sua abolizione, gli effetti che questa imposta ha esercitato e avrebbe potuto esercitare con riferimento all’obiettivo di rafforzare la struttura patrimoniale delle imprese e creare un clima favorevole all’investimento in capitale di rischio, consentendo così all’Italia di recuperare quella posizione di svantaggio che ancora mostra rispetto agli altri partner europei. Anche gli oneri complessivi a carico del settore produttivo non si riducono, nell’immediato e i tempi per una loro eventuale riduzione in futuro non sono noti, al momento, in quanto andranno di volta in volta definiti in funzione delle compatibilità finanziarie e dell’esigenza di rispettare i vincoli internazionali sui saldi di bilancio. Su questa incertezza pesa in particolare l’annunciata abolizione dell’Irap, che comporterebbe perdite di gettito tali da richiedere interventi correttivi su altre entrate o sulle spese troppo radicali, e pertanto ben poco realistici, almeno in tempi mediobrevi. Una novità di particolare rilievo della riforma è la possibilità di optare per un consolidato degli imponibili fiscali tra società del gruppo. Questa previsione contribuisce ad omogeneizzare la normativa italiana con quella di altri paesi. Come si è visto, infatti, nella UE solo Italia, Belgio e Grecia non consentono alcuna forma di compensazione fra utili e perdite di società del gruppo. La normativa proposta è più favorevole di quella solitamente adottata negli altri paesi, in quanto la possibilità di optare per il consolidato è estesa alle controllate estere. Tuttavia, come rilevato, la normativa esistente in Italia consente di conseguire gli stessi risultati con strumenti più flessibili e diffusi, quale in particolare la possibilità di svalutare le partecipazioni, anche su partecipate estere. Nel confronto fra la vecchia e la nuova normativa, dunque, quest’ultima, anche se preferibile sotto molti aspetti, risulta essere di fatto più restrittiva perché limitata ai gruppi. A favorire potenzialmente la localizzazione di alcune società estere in Italia, o il rientro di quelle italiane dall’estero, intervengono le norme della delega che prevedono un sistema diffuso di esenzione delle plusvalenze e dei dividendi percepiti da una società di capitali su partecipazioni interne ed estere. I vantaggi sono soprattutto per le società holding, e non a caso questa riforma era al centro delle richieste avanzate da Assoholding e dall’Associazione delle aziende familiari (Aidaf) al nuovo governo, ad un convegno svoltosi poco dopo le ultime elezioni (maggio 2001). Si è visto, peraltro, come l’abolizione del credito di imposta sui dividendi così come regimi agevolati o di vera e propria esenzione nella tassazione delle plusvalenze si stiano diffondendo nei vari paesi UE. In assenza di coordinamento in ambito europeo e dopo la riforma tedesca del luglio 2000, che ha introdotto un regime particolarmente favorevole, è prevedibile che questo processo si estenda ulteriormente e non sorprende, in questo contesto, la proposta italiana. Tuttavia, va ricordato che l’esito di processi di concorrenza fiscale di questo tipo potrebbe essere quello di una tassazione nel complesso sub-ottimale, in ambito UE, con riflessi negativi anche per la possibilità di finanziare quelle infrastrutture e quei servizi indispensabili, assieme ad una tassazione competitiva con i paesi terzi, per attrarre capitali e investimenti nel mercato unico europeo. Meglio sarebbe, 24 allora, che questo processo, così come le regole di un consolidato europeo e altri aspetti di determinazione dell’imponibile e dell’imposta, fossero coordinati in ambito comunitario, secondo le linee recentemente suggerite dalla Commissione Europea. Come si è ricordato, la Commissione è intervenuta con decisione a sottolineare i vantaggi di un consolidato a livello europeo e di una base imponibile comune. Ma, come è noto, i processi decisionali della UE in campo fiscale sono pressoché paralizzati dal persistere della regola dell’unanimità e il rischio è che, come in passato, i tentativi di coordinamento in questo settore siano destinati all’insuccesso. Vi è da auspicare, in proposito, che il ripetuto richiamo della delega alla necessità di armonizzare il nostro sistema di imposizione societaria con quelli europei, si accompagni ad un ruolo attivo del governo nel perseguire e sostenere in ambito europeo le recenti proposte e iniziative della Commissione e non si traduca, invece, in una partecipazione aggressiva alla gara competitiva per fornire regimi fiscali sempre più favorevoli in ambito UE. In conclusione, a fronte del vantaggio potenzialmente attribuito ai gruppi e alle holding, non sembra esservi un vantaggio chiaro e generalizzato per la totalità delle società e molte di queste si troveranno a pagare di più dopo la riforma, per l’abolizione della Dit, per la parziale indeducibilità degli interessi passivi, per l’indeducibilità delle minusvalenze su partecipazioni. In alcuni casi si tratterà del venir meno di alcuni meccanismi elusivi, resi possibili dall’attuale normativa, e la cui abolizione, se riuscirà nel suo intento, non può che essere vista con favore. In altri, tuttavia, ad esempio quando i maggiori oneri sono imputabili all’abolizione della Dit, gli aggravi di imposta che alcune imprese dovranno sopportare sono ben poco giustificabili. In ogni caso, la profonda diversità fra il regime vigente e quello contenuto nella delega comporterà vantaggi o costi diversi per le diverse società e cambierà in modo significativo le strategie che le imprese dovranno seguire se vogliono minimizzare i propri oneri fiscali. I costi di transizione che la nuova riforma comporterà, l’incertezza sui tempi e sul disegno definitivo del sistema, congiuntamente ad alcune intrinseche debolezze della nuova struttura impositiva contenuta nella delega, e alla enorme quantità di dettagli tecnici che dovranno attentamente e coerentemente essere definiti nei decreti delegati, non possono che alimentare alcuni dubbi sulla necessità e sull’utilità di una proposta così ampia e ambiziosa. Non sarebbe stato forse preferibile, per le imprese e per l’economia nel suo complesso, migliorare il sistema esistente - dopo attenta analisi e discussione delle norme di volta in volta proposte, per individuare le soluzioni più semplici, efficienti, e più ampiamente condivise -, piuttosto che sottoporlo ad una nuova radicale e rapida trasformazione, sotto l’urgenza dei tempi di approvazione di una legge delega? Riferimenti bibliografici Ariemma, I. e Menichini, S. (a cura di) (2002), Un anno in rosso. Perché fallisce la politica economica e sociale del governo Berlusconi, Editori Riuniti. Baker&McKenzie (1999 e 2001), Survey of the Effective Tax Burden in the European Union, Amsterdam. Bontempi, M.E., Giannini, S., Guerra, M.C. e Tiraferri, A. (2001), Incentivi agli investimenti e tassazione dei profitti: l’impatto delle recenti riforme fiscali sul cash flow delle società di capitali, in Politica Economica, anno XVII, n.3, pp- 249-283. Bresciani, V. e Giannini, S. 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Attention is focused on the efficiency and the international competitiveness of the new tax system. It is difficult to provide an unique evaluation. Some of the proposed changes, e. g. the possibility to opt for group taxation, approximate the Italian system to other EU tax regimes and under many respects may be seen as improvements of the present regime. Others, like the abolition of the tax credit on dividends and the introduction of a generous system of participation exemption, are similar to the reforms recently introduced in other countries, and may be seen as a response to the increasing international integration and tax competition. Finally, there are changes, like the abolition of the dual income tax and of the regional tax on productive activities (Irap), that completely reverse the tax reform introduced only few years ago by the previous government. These changes will make the new tax system less neutral than the present one, with respect to both investment and financing choices. Moreover, the timing of the reform is very uncertain, particularly concerning the announced abolition of Irap. Different indicators suggest that the new reform will not reduce the overall effective tax burden on companies and will not improve the general competitive position of domestic companies. 27