Improvvisazione. Ontologia di una pratica artistica

Transcript

Improvvisazione. Ontologia di una pratica artistica
Improvvisazione. Ontologia di una pratica artistica
di ALESSANDRO BERTINETTO*
La ricerca estetologica affronta spesso sfide teoriche particolarmente
complesse, che si collocano al crocevia tra pratica artistico-musicale e
riflessione speculativa. Concetti, ad esempio, come interpretazione,
improvvisazione, esecuzione, originalità appaiono come autentici labirinti
nei quali si rischia di smarrirsi e non ritrovarsi. Alessandro Bertinetto, nel
suo recente volume Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e
dell’improvvisazione, dialogando criticamente con le teorie più in voga
nell’ambito dell’ontologia della musica, propone un percorso denso e
originale, che punta a riconfigurare l’ontologia musicale alla luce di
un’esplorazione filosofica dell’improvvisazione. Proponiamo ai nostri
lettori l’introduzione e il secondo capitolo del libro, pubblicato da Il Glifo,
ringraziando l’editore per la gentile concessione.
Introduzione
La caratteristica fondamentale
del fare musica è l’improvvisazione
Derek Bailey
L’improvvisazione è la forma più naturale e
diffusa di fare musica
Stephan Nachmanovitch
Ne Il pensiero dei suoni1 mancava, per motivi di spazio, un capitolo
dedicato specificamente all’ontologia della musica. Questo libro intende
espressamente colmare quella lacuna. Il suo taglio è però diverso. Mentre il
volume del 2012 era di carattere introduttivo, questo ha natura più
marcatamente teorica. Non si limita a presentare e discutere le diverse
posizioni filosofiche relative all’ontologia della musica, ma intende
difendere due tesi, che s’intrecciano e si accavallano anche nell’ordine dei
capitoli. Per un verso, intendo discutere il carattere specifico dell’ontologia
dell’improvvisazione musicale. Per altro verso, voglio sostenere come
proprio l’improvvisazione, che sfugge alle sistemazioni rigide del
mainstream dell’ontologia della musica, ci aiuti a riformare l’ontologia della
1
musica nel suo complesso, stabilendo il primato del performativo, del
pratico e dell’estetica sull’ontologia. L’improvvisazione – questa almeno la
mia convinzione – rende così un ottimo servizio all’ontologia della musica
come ontologia di una pratica artistica.
Si giustifica così anche l’apparente natura paradossale del titolo. Non
sarebbe fuori luogo domandarsi: come si può eseguire l’inatteso? Posso
eseguire un’istruzione che è già disponibile, non qualcosa che non solo non
c’è, ma neppure è atteso o previsto. In inglese il verbo “to perform” ha un
significato neutro e, magari con l’eccezione relativa alla riproduzione della
musica registrata, lo si può usare indifferentemente per tutte le forme del
fare musica; il che vale anche per tutte quelle pratiche artistiche, come la
danza e il teatro, che, come la musica, sono appunto intese come ‘arti
performative’. Invece, il verbo italiano “eseguire”, ma anche il verbo
“interpretare” (che meglio rende la dimensione creativa dell’attività di uno o
più musicisti che suonano un’opera musicale), presuppongono che ci sia già
qualcosa (una composizione) appunto da eseguire o interpretare: qualcosa di
atteso, anche da parte dell’ascoltatore che conosce il programma del
concerto che si appresta ad ascoltare. Invece, nell’improvvisazione – in virtù
della coincidenza d’invenzione e performance – è proprio l’inatteso a
diventare il clou dell’esperienza estetica, sebbene pure l’affermazione che
questo inatteso sia eseguito non possa non suonare ossimorica e addirittura
paradossale. Il paradosso si dissolve non soltanto chiarendo, come farò, i
presupposti dell’improvvisazione, che – ancorché inattesa – non è ex nihilo;
ma anche e soprattutto se si sostiene, come intendo sostenere, che quanto
accade nell’improvvisazione è il paradigma di ciò che avviene sempre
nell’esperienza musicale, la quale è appunto l’esperienza di una pratica
performativa. La musica non è reale come opera (attesa); la musica reale è
sempre quella (per principio inattesa) della performance. Anche
l’esecuzione o l’interpretazione di un’opera musicale sono di per sé
costitutivamente inattese e inattesa è sempre la realtà concreta dell’opera,
che
vive
soltanto
nella
performance.
2
La
logica
del
rapporto
opera/performance così come del rapporto tra le varie opere e tra le diverse
performance dev’essere quindi intesa nei termini dell’articolazione
(tras)formativa dell’improvvisazione, in cui ciò che accade ora è inaudito,
(tras)forma il senso del passato e il suo senso sarà a sua volta (tras)formato
da ciò che accadrà dopo. Insomma, quanto accade nel microcosmo di una
specifica situazione improvvisativa è il paradigma concettuale per
comprendere quanto accade nel macrocosmo dell’ontologia musicale nel
suo complesso, laddove questo comporta il primato delle pratiche, della
performance e dell’estetica sull’ontologia in tema di filosofia della musica.
Almeno, questa è la tesi che cercherò di articolare nel corso del libro.
Tuttavia, per non illudere il lettore, è bene mettere le mani avanti.
Sebbene argomenti che guardando all’improvvisazione possiamo capire il
primato dell’estetica sull’ontologia in tema di filosofia dell’arte, questo
volume non spinge molto a fondo l’esame filosofico dell’estetica
dell’improvvisazione (su cui mi sono comunque già soffermato in altri
lavori, qui ogni tanto richiamati). Infatti, al tema specifico dell’estetica
dell’improvvisazione (nel contesto generale dell’arte e non soltanto in
quello specificamente musicale) dedicherò presto un saggio, già in
preparazione, rivolto in particolare a smontare il trito luogo comune della
natura imperfetta di questa pratica e ad argomentarne invece il carattere
paradigmatico per la creatività artistica.
Il presente volume ha la seguente articolazione. Nel capitolo 1 presento e
discuto, mostrandone i problemi, i modelli più diffusi di ontologia della
musica in ambito analitico, quelli basati sull’ideale della fedeltà all’opera
(Werktreue). Nel capitolo 2 esamino le specifiche qualità ontologiche
dell’improvvisazione musicale, discutendone i principali tipi (nonintenzionale, reattiva, consapevole), i peculiari aspetti teorici e i rapporti con
la composizione e l’interpretazione, soffermandomi estesamente anche sulle
questioni dell’intenzionalità e dell’espressività. Nel capitolo 3, senza entrare
nei dettagli dei diversi generi di improvvisazione nelle varie pratiche
musicali, mostro che l’improvvisazione di per sé sfugge a quelle costruzioni
3
ontologiche che riducono la musica nei termini di oggetti (concreti e
soprattutto astratti) ripetibili. Sostengo che queste ontologie fedeli
all’ideologia della fedeltà all’opera (e in particolare la corrente oggi più in
voga: l’ontologia type/token) non sono in grado di afferrare in modo
convincente le proprietà ontologiche dell’improvvisazione per riuscire a
rendere conto del suo peculiare carattere estetico. Anzi, queste ontologie
rendono
assai
ardua
sia
la
comprensione
del
carattere
estetico
dell’improvvisazione, sia quella del significato che l’improvvisazione può
avere per la musica nel suo complesso. Il capitolo 4 prosegue questa
discussione mediante il confronto tra improvvisazione e registrazione, che
propone alcuni interessanti problemi estetici e filosofici. Nel capitolo 5
difendo la tesi che focalizzare l’attenzione sull’improvvisazione, invece che
anzitutto sulle opere musicali, è un modo per riconfigurare il discorso
dell’ontologia musicale, rendendolo coerente con le pratiche artistiche ed
estetiche. L’ontologia della musica costruita a partire dall’improvvisazione
mette in luce l’aspetto finzionale/costruttivo del concetto di opera, il
carattere energetico della musica come attività che si svolge qui e ora e
quindi il primato della performance, della prassi e della loro dimensione
estetica. Ciò emerge con particolare vigore, tra l’altro, con la pratica
jazzistica della contraffattura. L’indagine sulla contraffattura che svolgo nel
cap. 6 mostra, infatti, sia la povertà di quelle ontologie della musica che non
riescono a rendersi conto dei propri presupposti ingiustificati sia, ancora una
volta, l’interesse che l’improvvisazione può rivestire per un’indagine
ontologica della musica esteticamente (ed ermeneuticamente) consapevole.
Concludo l’argomentazione generale nel capitolo 7, che è dedicato alla
comprensione della normatività, della temporalità e della interattività
dell’improvvisazione. Anche grazie alla ripresa di alcuni concetti
dell’ermeneutica di Gadamer, sostengo che la normatività improvvisativa è
il modello per articolare l’ontologia della musica (e dell’arte) nel suo
complesso, in modo coerente con la tesi del carattere (tras)formativo delle
opere e delle pratiche musicali. Dimostrando che la logica normativa
4
dell’improvvisazione può essere adottata per impostare l’ontologia della
musica nel senso del primato dell’estetica e della pratica artistica, chiudo
così il cerchio di tutto il discorso del libro.
Riassumendo e puntualizzando queste righe introduttive, il mio
suggerimento è di guardare alla connessione tra ontologia musicale e
improvvisazione in senso inverso rispetto alla via battuta da una parte
cospicua delle teorie oggi disponibili nell’ambito dell’ontologia musicale.
Invece di provare a incastrare l’improvvisazione musicale in rigide scatole
ontologiche precostituite (un’operazione destinata al fallimento), la strategia
che intendo seguire consiste nel riconfigurare l’ontologia musicale alla luce
di un’esplorazione filosofica dell’improvvisazione. Per evitare inutili
fraintendimenti, preciso subito che non ho affatto l’assurda pretesa di
identificare la musica con l’improvvisazione. Sosterrò piuttosto quanto
segue:
(1) l’improvvisazione in senso stretto mette in primo piano aspetti
importanti della musica – in primis il suo essere energia, attività,
performance – che l’indagine ontologica non può e non deve trascurare;
(2) una nozione estesa di improvvisazione è fondamentale per articolare
un’ontologia della musica fondata sulla prassi estetica, secondo cui l’opera
musicale è da intendersi come finzione che vela un reale processo di
(dis)continua e differenziale (tras)formazione creativa.
Capitolo 2
L’ontologia dell’improvvisazione musicale
L’obiettivo di questo capitolo è esplorare le caratteristiche dell’ontologia
dell’improvvisazione musicale, a partire dalla tesi che, a prescindere dai
diversi tipi e stili di culture così come dalle differenti pratiche e generi
musicali, l’improvvisazione è da intendersi come un processo in cui attività
creativa e attività performativa costituiscono il medesimo evento generatore.
5
1. Il concetto di improvvisazione
Il
termine
‘improvvisazione’
ha
connotazioni
semantiche
tendenzialmente negative. Che s’intenda l’azione dell’improvvisare o il suo
risultato, nel linguaggio ordinario esso spesso sottintende non soltanto
l’estemporaneità e l’imprevedibilità di modalità di agire che si scontrano
con procedure standardizzate, calcolabili, reiterabili, bensì anche la
mancanza di preparazione con cui si procede all’azione, la trascuratezza e
l’imprecisione con cui la si svolge, l’inadeguatezza degli strumenti di
fortuna adoperati per fare qualcosa in una situazione di emergenza2.
Ciononostante, nella vita quotidiana ricorriamo in continuazione
all’improvvisazione. L’esecuzione di un’azione qualsiasi, per quanto
progettata, programmata, regolata, determinata, sembra comportare un
grado, magari minimo e limitato, d’improvvisazione. Per dirla con S. Leigh
Foster3:
L’esecuzione di ogni azione, a prescindere da quanto sia predeterminata
nelle menti di chi la svolge e di chi ne è testimone, contiene un elemento
d’improvvisazione. Il momento dell’esitare meditando su come eseguire
esattamente un’azione già profondamente nota, tradisce la presenza
dell’azione improvvisata.
Un buon esempio per chiarire questa idea è offerto dal linguaggio. Le
lingue naturali funzionano in base a regole grammaticali e sintattiche, a
determinazioni semantiche, a formule pragmatiche diffuse in una comunità
linguistica, grazie a cui è possibile comunicare e (provare a) intendersi
reciprocamente. Eppure, l’uso reale del linguaggio da parte dei parlanti non
è regolato rigidamente e senza scarti da regole e automatismi. Sebbene si
parli e scriva adoperando regole, convenzioni e formule, l’uso delle
determinazioni generali del linguaggio è inventivo. Un linguaggio che
funzionasse in maniera automatica eliminerebbe la possibilità della sua
stessa realizzazione, che è costituita dall’azione reale del parlare (o dello
scrivere) da parte degli individui4. L’universale linguistico non determina
6
rigidamente la sua stessa applicazione e diventa reale unicamente nei
concreti progetti di senso degli individui interagenti. L’applicazione
individuale realizza l’universale in maniere personali, che lo stesso
universale non consente di prevedere. In tal senso, l’azione del parlare è in
qualche grado improvvisata: dipende da regole, ma è comunque libera, e
può essere inventiva e creativa nella loro applicazione (su improvvisazione
e linguaggio cfr. anche cap. 7.4).
Questo tuttavia non significa che la liberta improvvisativa che attiene allo
svolgimento di ogni azione sia sempre voluta e intenzionale: lo dimostra lo
stesso esempio delle lingue ‘naturali’, ma, come vedremo presto, anche
quello dell’interpretazione musicale. Semplicemente, essa è per lo più
inevitabile. È lo svolgimento stesso di ogni azione a comportare che
l’applicazione delle regole cui l’azione deve obbedire operi in un margine
più o meno ampio di aleatorietà, indeterminatezza e imprevedibilità. Nelle
pratiche umane l’applicazione di una regola presuppone la regola, ma non è
spiegata soltanto sulla base di tale regola. Nella vita pratica la comprensione
è l’esecuzione di una regola in un processo che è governato dalla regola
ovvero il modo in cui ci si attiene ai vincoli stabiliti da una regola non
possono essere disciplinati dalla regola: infatti, la pertinenza della norma
generale al caso singolo non può essere stabilita in via generale, ma è
inventata in ogni singola occorrenza della regola. Come ha osservato Gilbert
Ryle5, nel pensare, nel parlare, nell’agire, la regola generale è applicata
“unicamente all’attuale irripetibile situazione”. O, per dirla nei termini di
Hans-Georg Gadamer6, in senso generale nessuna regola può governare la
sua esecuzione, perché l’applicazione della regola è guidata in ogni singolo
caso da atti d’interpretazione. Se lo spazio di libertà nell’applicazione della
regola varia in grande misura nei diversi ambiti della vita umana così come
in ogni singolo caso, e talvolta è molto limitata, ogni singolo caso è nuovo e
richiede un trattamento specifico. Non sempre questa libertà è la benvenuta.
In certi casi, anzi, ci si sforza di restringerne lo spazio, allo scopo di ridurre i
margini di errore e arbitrarietà dell’azione: per esempio, allorché si tratta di
7
far funzionare un sistema meccanico in maniera automatica e senza
imprevisti, allo scopo di conseguire un’efficienza rigorosa.
In generale, si può affermare con Hannah Arendt che nulla garantisce il
successo nell’esecuzione di un’azione umana. Un’azione, peraltro, non può
essere meramente ‘eseguita’ (nel senso efficientistico della subordinazione
al funzionamento di un sistema automatico di regole di esecuzione).
Piuttosto, sembra si debba dire che l’azione comporta un margine di libertà
nell’invenzione dei modi del proprio svolgimento in una concreta
situazione. Viceversa, come elemento costitutivo dell’azione, la libertà
esiste veramente soltanto nello svolgimento dell’azione7.
Ecco allora il preannunciato esempio musicale. Le istruzioni per
l’esecuzione di un’opera musicale non possono regolare la loro propria
applicazione da parte dei musicisti: per quanto certi compositori abbiano
cercato di ridurre il più possibile la liberta interpretativa (cfr. § 9 e cap. 5.1),
chi esegue una composizione musicale ha a disposizione uno spazio per
l’interpretazione. Ciò è un esempio di come l’esecuzione di una regola
pratica comporti margini di indeterminatezza. Non è tutto però. Infatti,
l’applicazione della regola può essa stessa modificare in vari gradi e per
ragioni diverse la regola; e quando più avanti (cap. 7) mi occuperò della
questione
della
normatività
dell’improvvisazione,
argomenterò
che
l’applicazione della regola può comportare una sua trasformazione creativa.
Più precisamente sosterrò che questo è esattamente il modo, chiaramente
esemplificato dall’improvvisazione, in cui funziona la normatività del
rapporto tra un’opera e la sua esecuzione così come, più in generale, la
liberta nell’arte e nelle pratiche umane8.
Andiamo pero con ordine. L’improvvisazione non è soltanto l’inevitabile
e a volte indesiderato effetto collaterale dell’esecuzione di un’azione,
dovuto alla necessità di adattare una regola o un progetto a una situazione
specifica. Oltre a questo primo tipo di improvvisazione – inintenzionale e
inevitabile, ancorché limitabile –, è possibile individuare un altro tipo di
improvvisazione: l’improvvisazione intenzionale e deliberata. Essa può a
8
sua volta distinguersi in due sottospecie: l’improvvisazione reattiva e
l’improvvisazione elettiva.
La prima, che come si è visto è assai rilevante per l’uso ordinario del
termine, è “una improvvisazione coatta che coincide con la capacita di
rispondere allo svolgimento imprevisto degli eventi”9. In tal caso
s’improvvisa (intenzionalmente) soltanto perché si è costretti a farlo per
risolvere una qualche emergenza, un qualche imprevisto: qualora
l’imprevisto non fosse accaduto, sarebbe stato seguito il progetto
predeterminato, comunque adattato alla specificità della situazione. In un
mondo recalcitrante alla volontà umana, questa capacita di improvvisare è
fondamentale per consentire il successo dell’azione umana nonostante e
attraverso l’imprevisto10. Anche in ambito musicale si tratta di una risorsa
importante. Si pensi alla situazione discussa in un articolo di Lydia Goehr11.
Durante l’esecuzione di un brano la corda del violino si rompe; il violinista
è allora costretto a improvvisare, suonando sulle tre corde restanti, per poter
continuare la performance nel modo più efficace possibile.
La seconda forma di improvvisazione intenzionale “è una forma di
improvvisazione estetica intenzionalmente praticata”12. Si tratta di
quell’improvvisazione ‘programmatica’, fine a se stessa e di tipo estetico,
che s’incontra nella musica, oltre che in altre arti performative (teatro e
danza) e anche in alcune tradizioni letterarie (orali), così come in certe
particolari modalità di produzione figurativa13. È soprattutto su questo tipo
d’improvvisazione che mi soffermerò nel presente studio, sebbene la
comprensione della rilevanza paradigmatica dell’improvvisazione per
l’ontologia della musica come pratica performativa comporterà riferimenti
anche all’improvvisazione inintenzionale e reattiva.
2. L’improvvisazione artistica (performativa e non)
Riadattando la definizione di Luigi Pareyson secondo cui l’arte è di per
sé “un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare”14, è allora possibile
definire in generale l’improvvisazione come un “agire che mentre si svolge
9
inventa il proprio modo di procedere”15, ovvero, secondo l’elaborazione di
Edgar Landgraf16, come “un’attività imprevista, imprevedibile e non
pianificata che è inventiva, come qualsiasi ‘fare’ creativo che,
volontariamente o involontariamente, si sviluppa senza seguire un piano
predeterminato”. L’improvvisazione artistica, in particolare, è un tipo di
improvvisazione intenzionale ed elettiva: è praticata intenzionalmente per il
piacere estetico che ne deriva, nel senso che è un modo, scelto dall’artista,
di produrre arte. È insomma un processo messo intenzionalmente in moto da
uno o più artisti per generare un evento o un oggetto artistico in cui
creazione ed esecuzione non solo si verificano contemporaneamente, bensì
coincidono ontologicamente.
In misura diversa, l’improvvisazione intenzionale elettiva può essere
rilevante in diverse pratiche artistiche. Tuttavia esistono differenze
importanti tra l’improvvisazione nelle arti performative e l’improvvisazione
come metodo di produzione in arti quali la scultura, la pittura e la
fotografia17. La differenza ontologica fondamentale è questa. Nelle arti
performative – danza, musica, teatro, performance art – parliamo di
improvvisazione se processo e prodotto coincidono. Sebbene gli artisti
(come vedremo meglio nel § 6) non creino ex nihilo, e possano preparare in
anticipo elementi della performance, il processo di costruzione del prodotto
artistico davanti al pubblico è (in gran parte) il prodotto artistico fruito da
ascoltatori e spettatori. Il risultato della performance è la performance: un
prodotto effimero in un mezzo effimero. Inoltre il processo-prodotto accade
contemporaneamente alla sua percezione da parte dell’ascoltatore:
composizione ed esecuzione coincidono e si verificano mentre si svolge
anche la loro fruizione, che potenzialmente influisce sul processo di
produzione. Mentre opere durevoli (come una statua o un dipinto) possono
essere fruite in molteplici occasioni, perché continuano a esistere anche
dopo la fine del processo di produzione, ogni singola improvvisazione nelle
arti performative può quindi essere osservata e/o ascoltata soltanto una
10
volta: a meno che non venga registrata, ma allora non è più (come)
improvvisazione (cfr. cap. 4).
Certamente, nel caso di arti come la pittura o la scultura l’artista può
decidere di distruggere l’opera dopo averla finita. Ciò però non toglie che,
quando l’artista lavora con mezzi e materiali duraturi e intende attribuire al
risultato del suo lavoro la dignità di opera d’arte, egli produce un’opera
almeno potenzialmente durevole: quindi, come osserva Justin London18, non
è qui appropriato parlare di “opere durevoli in un medium effimero”. Si
tratta invece di “opere durevoli in un medium durevole”, anche se nella
fattispecie la vita dell’opera ha breve durata. Invece, nelle “opere effimere
prodotte in un medium effimero” (cioè le improvvisazioni nelle arti
performative) la coincidenza tra produzione e prodotto è ontologicamente
costitutiva: per questo si distinguono dalle “opere durevoli in un medium
effimero” (cioè, per es., le opere musicali eseguibili ripetutamente la cui
ontologia ho già discusso nel cap. 1). Tale coincidenza è essenziale
condizione di possibilità del darsi stesso del fenomeno. Inoltre, è una
coincidenza rilevante anche esteticamente. In altri termini è una risorsa
artistica: infatti, il modo in cui sono prodotti gesti, movimenti, suoni, azioni,
ecc. è qui parte costitutiva del fenomeno artistico che il pubblico percepisce
e apprezza (cfr. anche cap. 3.1).
Riassumendo, nell’improvvisazione artistica (come in qualsiasi processo
improvvisativo)
invenzione
ed
esecuzione
sono
intenzionalmente
coincidenti (almeno fino a un certo punto, come specificherò più avanti).
Nell’improvvisazione nelle arti performative, inoltre, coincidono anche
processo e prodotto, sicché il tempo della fruizione da parte del pubblico
coincide con quello dell’invenzione/esecuzione.
3. La creatività come processo
Nell’improvvisazione
nelle
arti
performative,
e
in
particolare
nell’improvvisazione musicale (NB. da ora in poi, se non diversamente
specificato, con ‘improvvisazione’ tornerò a indicare in particolare
11
l’improvvisazione musicale) conta la creatività come processo, e non
soltanto il risultato del processo19. “L’interesse” – nota Vladimir
Jankelevitch – “si sposta dall’opera finita all’operazione, dal risultato
espresso nel participio passato-passivo al processo investigativo e
all’itinerario stesso che conduce a quel risultato”20. L’esecuzione
improvvisata costituisce come tale un work in progress. La creatività è qui
performativa, e viceversa, la performance è creativa. Si tratta di un processo
che si svolge mentre viene ideato (e viceversa) e al contempo esibito
all’ascoltatore. L’attenzione estetica si rivolge non a oggetti già
precostituiti, già consistenti dal punto di vista ontologico sotto forma di
opere e composizioni, e alle loro particolari e ripetibili istanziazioni (le
diverse esecuzioni interpretative). Piuttosto si fa esperienza della
processualità (singolare, effimera e irreversibile) di un tipo di azione21 o di
serie di azioni, che accadono hic et nunc, grazie a cui l’oggetto
dell’attenzione estetica sorge, si costruisce, si svolge e svanisce (sebbene
possa essere ritenuto nella memoria e/o registrato mediante mezzi
audiovisivi: cfr. cap. 4). Insomma, nelle pratiche improvvisative l’attenzione
è diretta in maniera rilevante, spesso prevalente, verso l’attività attuale
dell’esecuzione, perché il processo è il prodotto22. Lo mostra bene il fatto
che, mentre una pausa nel processo compositivo non diviene una parte della
composizione, un’interruzione dell’improvvisazione comporta un momento
di silenzio della stessa durata dell’interruzione23.
In
proposito
è
bene
sottolineare
che
l’attività
processuale
dell’improvvisazione dev’essere rigorosamente distinta dall’attività come
proprietà, carattere o qualità estetica di un’opera già precostituita dal punto
di vista ontologico o di una delle sue parti. Allo stesso modo in cui
un’immagine dipinta può essere caratterizzata da un marcato dinamismo,
un’opera musicale composta e codificata da una notazione può possedere un
carattere attivo o drammatico, può essere movimentata, può suggerire l’idea
di un’azione o di una serie di azioni in svolgimento (si pensi allo sviluppo,
12
all’intreccio e al contrasto tematico per esempio nelle sinfonie di Beethoven,
Brahms, Čajkovskij o Šostakovič).
Tuttavia, così come una raffigurazione pittorica non è attiva in senso
proprio e attuale, perché è ormai fissata sulla tela (sebbene attivi siano i
processi di ricezione e fruizione messi in moto dall’osservatore, cioè le
modalità percettive e cognitive di apprendimento per cui si può sostenere
che l’osservatore costruisce, o contribuisce a costruire, l’immagine), così
nell’esecuzione
di
una
composizione
musicale
l’attività
musicale
effettivamente reale è la restituzione acustica (interpretativa) di istruzioni
già stabilite e codificate mediante una notazione: il grado di libertà e
inventività è limitato all’interpretazione (ma cfr. § 9); le decisioni che
l’esecutore può prendere sono ridotte al come fare per seguire istruzioni e
regole, non a che cosa fare (sebbene la distinzione tra ‘che cosa’ e ‘come’
possa non essere così netta in pratica come lo è in teoria).
Invece nella musica improvvisata l’oggetto estetico coincide in gran parte
con il processo della produzione dei suoni, con l’attività del suonare e del
cantare. Quindi, in senso proprio, il regime ontologico dell’improvvisazione
non è quello degli oggetti, bensì quello degli eventi. Essa è un’attività,
effimera, transeunte e non re-identificabile che può essere percepita
unicamente nel momento della sua creazione, cioè in fieri24. Diversamente
da quanto sostiene Philip Auslander25, dunque, l’improvvisazione non è
soltanto una caratteristica sociale della performance musicale, costruita nella
relazione tra performer e pubblico. Piuttosto, essa possiede qualità
ontologiche specifiche, che sono rilevanti per l’apprezzamento estetico e
che non sono il frutto di discutibili ipotesi metafisiche, come quelle proposte
dai modelli ontologici adottati nell’ambito dell’ideologia della Werktreue
per render conto dell’assioma della presunta ripetibilità dell’opera senza
perdita d’identità.
4. Improvvisazione e composizione
13
Nell’improvvisazione ideazione ed esecuzione coincidono. La musica
prodotta non segue unicamente le regole e le istruzioni per l’esecuzione di
un piano prestabilito: il processo di composizione coincide con il processo
di attuazione esecutiva. La produzione di suoni (e di silenzi) è
simultaneamente invenzione ed esecuzione. Inoltre, questa coincidenza tra
invenzione ed esecuzione non è casuale, bensì intenzionale. Si tratta di una
produzione intenzionale di suoni (e di silenzi) “sotto l’impulso del
momento”26.
Tuttavia il rapporto tra composizione e improvvisazione è più complesso
e interessante di quanto possa sembrare in prima battuta. Tematizzare il
rapporto tra composizione e improvvisazione servirà perciò a capire meglio
di che cosa parliamo quando parliamo di improvvisazione. Improvvisazione
e composizione possono essere messe in relazione sia in senso contrastivo
sia in senso integrativo. Si tratta di due diverse strategie per definire
l’improvvisazione: due strategie tra loro compatibili e reciprocamente
integrantesi27.
* Alessandro Bertinetto è filosofo e ricercatore di Estetica all’Università di Udine. È
membro dell’Executive Committee della European Society for Aesthetics. Si occupa tra
l’altro di: filosofia classica tedesca, estetica analitica e continentale, filosofia
dell’immagine, dell’arte, della musica e dell’improvvisazione. Tra i suoi libri: La forza
dell’immagine (Mimesis 2010) e Il pensiero dei suoni (Bruno Mondadori 2012).
1
A. Bertinetto, Il pensiero dei suoni, Milano, Bruno Mondadori 2012.
Cfr. J.E. Anderson, Constraint-Directed Improvisation for Everyday Activities,
Doctoral Thesis, University of Manitoba 1995.
3
Cit. in G. Peters, The Philosophy of Improvisation, Chicago, The University of
Chicago Press 2009, p. 115.
4
È una celebre tesi di Wittgenstein: cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953),
Torino, Einaudi 2006; cfr. anche R.K. Sawyer, Creating Conversation. Improvisation in
Everyday Discourse, Cresskill, New Jersey, Hampton Press 2003.
5
G. Ryle, Improvisation, “Mind”, New Series, 85 (1976), pp. 69-83: 77
6
Cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo (1960), Milano, Bompiani 1990, pp. 358-395.
7
H. Arendt, Che cos’è libertà, in Id., Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi 1970, pp.
157-187.
8
Cfr. anche A. Bertinetto, Performing the Unexpected. Improvisaiton and Artistic
Creativity, “Daimon” 57 (2012), pp. 61-79.
2
14
9
D. Sparti, Il potere di sorprendere. Sui presupposti dell’agire generativo nel jazz e nel
surrealismo, in G. Ferreccio - D. Racca (a cura di), L’improvvisazione in musica e
letteratura, Torino, L’Harmattan Italia 2007, pp. 77-91: 88.
10
Cfr. Ph. Alperson, On Musical Improvisation, “Journal of Aesthetics and Art
Criticism” 43 (1984), pp. 17-29: 24; S. Cavell, Music Discomposed, in Id., Must We Mean
What We Say?, New York, Charles Scribner’s Sons 1976, pp. 180-212: 198-199.
11
L. Goehr, Improvising Impromptu, Or, What to Do with a Broken String in The
Oxford Handbook of Critical Improvisation Studies, vol. 1, ed. by G.E. Lewis and B.
Piekut, Oxford, Oxford University Press (forthcoming).
12
D. Sparti, Il potere di sorprendere, p. 89.
13
Come l’action painting di Pollock: cfr. D. Racca, Jackson Pollock: una pittura che
danza, in G. Ferreccio - D. Racca (a cura di), L’improvvisazione in musica e letteratura, pp.
117-127, M. Senaldi, L’improvvisazione nell’arte contemporanea, in F. Cappa - C. Negro
(a cura di), Il senso dell’istante. Improvvisazione e formazione, Milano, Guerini 2006, pp.
105-118, F. Vercelone, Oltre la bellezza, Bologna, Il Mulino 2008, pp. 158-9.
14
L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività (1954), Milano, Bompiani 2010, p. 59;
cfr. A. Bertinetto, Improvvisazione e formatività, “Annuario filosofico” 25 (2009), pp. 145174. e A. Bertinetto, Formatività ricorsiva e costruzione della normatività
nell’improvvisazione, in A. Sbordoni (a cura di), Improvvisazione oggi, Lucca, LIM 2014,
pp. 15-28.
15
D. Sparti, Il corpo sonoro, Bologna, il Mulino 2007, p. 123.
16
L. Landgraf, Improvisation as Art, London, Continuum 2011, p. 16.
17
Cfr. A. Bertinetto, Immagine artistica e improvvisazione, “Tropos” 7/1 (2014), pp.
225-255.
18
J. London, Ephemeral Media, Ephemeral Works, and Sonny Boy Williamson’s ‘Litle
Village’, “Journal of Aesthetics and Art Criticism” 71 (2013), pp. 46-47.
19
R.K. Sawyer, Improvisation and the Creative Process: Dewey, Collingwood, and the
Aesthetics of Spontaneity, “Journal of Aesthetics and Art Criticism” 58 (2000), pp. 149161: 152.
20
V. Jankélévitch, Dell’improvvisazione (1955), Chieti, Solfanelli 2014, p. 23.
21
Ph. Alperson, On Musical Improvisation, p. 24.
22
L.B. Brown, Musical Works, Improvisation, and the Principle of Continuity, “Journal
of Aesthetics and Art Criticism” 54 (1996), pp. 353-369: 364.
23
A titolo esemplificativo si ascolti l’interruzione da parte di Thelonious Monk nella
versione di The Man I Love registrata da Miles Davis nel 1954: cfr. C. Cannone, Sur
l’ontologie de l’improvisation, in A. Arbo - M. Ruta (éd.), Ontologie Musicale.
Perspectives et débats, Paris, Hermann 2014, pp. 279-320: 283.
24
Cfr. L.B. Brown, Musical Works, Improvisation, and the Principle of Continuity, pp.
356, 360, 365.
25
Cit. in N. Cook, Beyond the Score. Music as Performance, Oxford-New York, Oxford
University Press 2013, p. 297.
26
Cfr. Ph. Alperson, On Musical Improvisation, pp. 17-29; L.B. Brown, Musical Works,
Improvisation, and the Principle of Continuity, pp. 353-369 e Id. “Feeling My Way”. Jazz
Improvisation and Its Vicissitudes - A Plea for Imperfection, “Journal of Aesthetics and Art
Criticism” 58 (2000), pp. 113-123; L.B. Brown, Phonography, Repetition and Spontaneity,
“Philosophy and Literature” 24 (2000), pp. 111-125.; R.K. Sawyer, Improvisation and the
Creative Process: Dewey, Collingwood, and the Aesthetics of Spontaneity, pp. 149-161; S.
Davies, Musical Works and Performances, Oxford, Clarendon Press 2001, pp. 11-19; M.
Santi (ed.), Improvisation. Between technique and Spontaneity, Cambridge, Cambridge
Scholar Publishing 2010.
27
Cfr. R. Kurt, Komposition und Improvisation als Grundbegriffe einer allgemeinen
Handlungstheorie, in R. Kurt - K. Näumann (Hrsg.), Menschliches Handeln als
Improvisation, Bielefeld, Transcript 2008, pp. 17-46: 22-26.
15