marchese di Massa - Signore di Busseto, nato a Luni

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marchese di Massa - Signore di Busseto, nato a Luni
ADALBERTO VI
marchese di Massa - Signore di Busseto, nato a Luni (?) nella seconda metà del sec. X; morto a
Busseto il 6 gennaio 1034.
E' concordemente ritenuto dagli storici il capostipite della famiglia Pallavicino. Ernesto Bigini, uno
studioso di Massa, ne ha posto in risalto la figura, una tra le più luminose del sec. XI, tanto più
luminosa quanto più è oscura e confusa la storia del tempo per la difficoltà che s'incontra a districare,
individuare e illustrare figure e fatti.
Appartenente alla linea obertenga di Massa, dagli storici detta degli Adalbertini, Adalberto era figlio di
Oberto e nipote dell'altro Adalberto che si ritrova a Pisa nel 975, dopo la morte di Oberto palatino, a
pretendere le terre obertenghe da quell'arcivescovo e ad insediarsi nel castello di Massa dando inizio
alla dinastia dei marchesi di Massa, che furono anche marchesi della Liguria orientale e quindi di
Genova.
A Genova gli Adalbertini avevano dei vicecomites, che nel sec. XI si staccarono dall'obbedienza ai
marchesi per seguire il vescovo attorno al quale si enucleavano le forze del Comune nascente: primo
atto del frazionamento delle grandi marche in marchesati.
Adalberto ebbe nel 1016 il comando delle flotte genovese e pisana contro i Saraceni guidati da Mug6hid,
che dalle Baleari erano balzati in Sardegna e in Corsica, giungendo persino ad espugnare Luni. A
spedizione compiuta, aggiunse al titolo di marchese di Massa e di Genova quello di Corsica e si può
dire che questo titolo, riferendosi ad una delle grandi isole del Mediterraneo ed essendo stato
acquisito con una spedizione marinara, dia la vera misura dell'autorità dei marchesi di Massa.
Anche in Corsica gli Adalbertini avevano dei vicecomites, cui accennano gli storici corsi e genovesi
trattando delle relazioni tra Corsica e Genova specie nel sec. XIV, durante il ducato a vita di Simon
Boccanegra: primeggiavano gli Avogadro, i De Mari ed altri che rappresentavano nell'isola la vecchia
nobiltà genovese.
Il comando che Adalberto ebbe nella spedizione può essere considerato l'ultimo atto della potestà
marchionale nella Marca, perchè proprio in quel tempo andavano affermandosi le istituzioni comunali
che avrebbero portato Genova a divenire libera repubblica marinara. Soltanto la personalità spiccata
di Adalberto potè mantenere intatta l'autorità marchionale, com'è dimostrato dalla circostanza che
egli, contro i Saraceni, guidò non solo le forze della sua Marca, ma anche quelle pisane con preferenza
sugli altri obertenghi, i quali, secondo il Formentini, erano ormai divisi in famiglie ben individuate,
distinte l'una dall'altra e ciascuna con una propria ben definita attività politica; attività che, negli
Adalbertini di Massa, era preminente su quella degli altri discendenti di Oberto palatino per quanto
riguarda le azioni sul mare.
Lo stesso Formentini rammenta come l'importanza marinara degli Adalbertini continuasse anche nel
sec. XII e cita un Andrea Blancho, nel 1195 Marchione Palodi, Cornice et Marce Janue, ciò che dimostra
come gli Adalbertini fossero considerati marchesi di Genova anche quando la loro potestà era venuta
meno.
Adalberto mirò in particolare al dominio della sua famiglia sul mare e si preoccupò di far valere la sua
autorità in Liguria, dove poteva far leve di armatori e marinai. La sua lungimiranza lo portò ad
espandere le sue conquiste verso il sud sino a Piombino, assicurandosi il dominio di quel vasto
specchio di mare compreso tra la costa della sua Marca e della rimanente parte della Toscana le
grandi isole della Corsica e della Sardegna. E come le consorterie della Liguria orientale rimasero a
testimoniare l'ingegno politico di Adalberto, ugualmente ne furono indice nella Toscana settentrionale i
nobili dei comuni di Pisa e di Lucca, che, nella maggioranza, seguirono costantemente la politica dei
marchesi di Massa e che a Massa, sotto Adalberto IV Rufo, giunsero persino a stabilirsi in forma
permanente.
Questa nobiltà, dalla quale Adalberto riceveva le forze per le sue imprese, traeva il proprio diritto ex
lege longhobardica, professata da Adalberto e dai suoi discendenti.
Lo Jung, nei suoi studi sulla città di Luni, afferma che l'Italia, dopo la caduta dell'impero romano, non
aveva più avuto forze sufficienti — sia di terra che di mare — per potersi reinserire nella vita politica
europea sino al tempo della spedizione di Adalberto contro i Saraceni e sottolinea che, dopo di allora,
gli sguardi della Germania conversero sull'Italia ed anzi l'eco della vittoriosa impresa non s'era ancor
spenta al tempo del Barbarossa.
E' questa la ragione, bene osserva il Bigini, per cui questo grande feudatario si stacca dal consueto
cliché, teso com'era all'avveramento di un ideale presago dell'indipendenza italiana di fronte allo
straniero, di quell'unità nazionale che la fioritura dei comuni avrebbe per secoli allontanata.
Vicende politiche legate agli avvenimenti del tempo, come è stato detto, privarono Adalberto del feudo
degli antenati, ma è notevole la circostanza elle questo grande ammiraglio continuò a mantenere i suoi
diritti su Genova, diritti che non vennero meno neppure un ventennio dopo la sua morte, nel 1052,
quando i vicecomites erano in composizione col vescovo per la riscossione delle decime, e che si
estinsero nel 1056 con la capitolazione dei marchesi, estromessi dalla civitas.
La perdita della Marca di Toscana fu in parte compensata nel 1026 dall'investitura, che Adalberto
ricevette dall'imperatore Corrado il Salico quale nipote di Lanfranco conte di Piacenza, morto senza
figli, del governo di quella città e di quella vasta accezione territoriale, posta tra Cremona, Piacenza e
Parma, detta Contado dell'Ancia. I
La chiesa abbaziale di Castione dei Marchesi
Contatto dell'Ancia, con Busseto, venne pertanto solo in quel tempo e non prima, come
pretenderebbero alcuni cronisti, in possesso del nobile casato e, ingrandito col volgere degli anni,
mutò titolo e nome assumendo quello di Marca Pallavicino.
Da allora Adalberto si stabilì a Busseto, che elevò al rango di capitale del suo nuovo marchesato,
ampliando il borgo, fortificandone le mura ed erigendovi un castello. Sposò Adelaide, figlia del conte
Bosone di Parma, con la quale concorse ad erigere a Castiglione, l'attuale Castione dei Marchesi, una
chiesa con attiguo monastero destinandola ai Benedettini e dotandola riccamente. Ed è in quella chiesa
che si ritiene egli sia sepolto come starebbe a dimostrare una lapide — la cui iscrizione rammenta le
benemerenze di questo primo signore di Busseto — ornata dello stemma Pallavicino e per tale ragione
giudicata copia d'altra preesistente.
AFFO' IRENEO (Davide)
Storico e filologo, nato a Busseto il 10 dicembre 1741; morto ivi il 14 maggio 1797.
Nato da famiglia di modeste condizioni, che gli impose a battesimo il nome di Davide, manifestò
giovinetto spiccata inclinazione alle lettere ed al disegno e sarebbe divenuto pittore se l'abate Pietro
Balestra, cui era stato presentato perchè l'iniziasse a quest'arte, non si fosse incomprensibilmente
rifiutato di accoglierlo tra i suoi allievi.
A Soragna, ospite di una zia materna, frequentò quelle scuole sino al tredicesimo anno e fu in seguito
educato a Busseto dai Gesuiti. Ma il miglior precettore l'ebbe, per sua stessa ammissione, nel
concittadino Buonafede Vitali, sotto la cui guida studiò a fondo le opere dei classici latini e italiani. che
esercitarono notevole influenza sulle sue attitudini letterarie.
Padre Ireneo Affò
Ritratto di G. Levi, conservato nel Museo Civico di Busseto
Una canzone su L'Assunta in Cielo, composta a sedici anni, gli valse l'aggregazione all'Accademia dei
Pastori Emonj con lo pseudonimo di Etuirgo Assioteo.
Diciassettenne, cantò nel poemetto La fuga dal mondo la sublimità della vocazione all'Ordine di San
Francesco, quasi a preannunciare il desiderio di ritirarsi a vita claustrale. Due anni dopo, inlatti,
prestò i sacri voti nel convento dei Minori di Busseto, assumendo il nome di Ireneo. Eletto allo stato,
intraprese a Parma gli studi teologici e filosofici, che completò a Bologna, occupando le ore libere in
ricerche storiche in archivi e biblioteche.
Tornato nel 1766 a Busseto, fu preposto all'insegnamento di filosofia ai confratelli; in pari tempo
provvide a riordinare la biblioteca del Convento, che illustrò in un opuscolo comprendente anche
l'elenco delle opere in dotazione.
1n precedenza aveva composto un poemetto giocoso dal titolo Il concorso di filosofia, che aveva
suscitato consensi per novità di immagini e per brio e scorrevolezza del verso. Appartengono a quel
periodo due altri lavori dell'Affò, rimasti, come i primi, inediti: un'Orazione accademica e L'Arca di Noè.
Nel febbraio 1768 ottenne la cattedra di filosofia nelle pubbliche scuole di Guastalla e, in seguito, quella
anche di logica e metafisica. A Guastalla si trattenne per circa due lustri ed ebbe modo di raccogliere
negli inesplorati archivi ducali preziose notizie delle quali si sarebbe servito per dar corso ad una
serie di pubblicazioni a carattere storico e biografico.
Il primo lavoro dato alle stampe fu I'Ecleticae Philosophiae selecta theoremata (1769), ma, accanto ad
esso, altri vanno segnalati sebbene inediti: Lezioni di filosofia; Tre lettere al Dottor Buonafede Vitali;
Abbozzo della storia del Convento di San Francesco in Guastalla; Zibaldone di memorie delle vite ed
opere dei poeti italiani; Risposta alla controcritica del P.N. sulla censura da lui fatta ad una disamina di
Landolfo Limbrocca sopra una canzone dell'Abate Frugoni; il culto del Mistero dell'Immacolata
Concezione di M.V.; Due capitoli festivi in lode del Mistero della Concezione di M. V.; Dissertazione
intorno al culto del Mistero dell'Immacolata Concezione di M. V.
Nel 1770 si propose di restaurare l'Accademia degli Inesperti, stendendone uno statuto, e di istituire
una Biblioteca di poeti volgari, pubblicando a questo scopo un Dizionario precettino, critico e storico
della Poesia Volgare. In pari tempo curò la stampa delle opere: Vita di Mons. Persio Caracci, Vescovo di
Larino; Della vera origine di Guastalla; Antichità e pregi della Chiesa Guastallese; Lettera a Nicola
Parquez sull'origine, vicende e successivi domini della terra di Reggiolo; Apoteosi di Iblindo, Pastore
d'Arcadia; De' cantici volgari di San Francesco d'Assisi e la Vita del Beato Giovanni da Parma.
Numerosi anche i lavori inediti composti dall'Affò durante la sua permanenza a Guastalla, tra i quali il
Parnaso Gonzaga, ovvero memorie di que' Signori; Giudizio sulla Zelinda, tragedia del Conte Canti;
Notizie intorno alla celebre Orsina Visconte Torelli, Contessa di Guastalla e di Montechiarugolo; Dicerie
di F.I.A. sopra l'eruditissimo Sig. Abate Saverio Beltinelli e suoi due discorsi accademici delle Lettere e
delle Arti mantovane; Memorie storiche di Guastalla dall'origine sua sino all'anno 1539; Vita di Ludovico
Gonzaga, Vescovo di Mantova; Memorie degli Invaghiti; Lettera d'un buon amico al Calendarista di Corte
(anonima); Lo staccio di Mastro Fabrizio Pasquirtello; Lettera al Ministro di Stato; Notizie di alcuni
Signori che ebbero nel medesimo tempo dominio di qua e di là del Po; Lode della carestia, cicalata.
Nominato nel 1778, per interessamento dell'amico abate Paciaudi, vice bibliotecario della Parmense, si
trasferì a Parma, dove continuò le ricerche che l'appassionavano e dette l'avvio agli studi storici
anche su quella città.
La sua prima opera che apparve pubblicamente a Parma fu un Saggio degli errori sparsi nella « Panna
Accademica» del Sig. Abate Paolo Luigi Gozzi. Ad essa seguirono: Vita di Baldassarre Molossi da
Casa/maggiore; Memorie della vita e delle opere del Conte Pornponio Torelli; Vita del Cavaliere
Bernardino Marliani mantovano; Vita di Luigi Gonzaga, detto Rodomonte, Vita di Vespasiano Gonzaga;
Memorie della vita di Donna Ippolita Gonzaga; Memorie della vita e degli studi del Cardinale Sforza
Pallavicino; un articolo inserito nelle Effemeridi letterarie di Roma; Lettera di Messer Ludovico Ariosto
al pubblicatone dell'opera di Carlo Innocenzo Frugoni; Memorie di Taddeo Ugoleto parmigiano; Vita di
Donna Giulia Gonzaga. Accanto a queste, le inedite: Canto pel ritorno del P. Paciaudi a Parma; Esame
delle censure di alcuni moderni alla vita e lettere dell'Angelica Paola Antonia Negri; Proemio alle
lettere arabiche originali di Muleasse, Re di Tunisi; Serie dei Vescovi di Panna.
Nel 1780 fu elevato alla dignità di definitore provinciale del suo ordine, ciò che non gli impedì di
continuare ad attendere ai suoi studi, per completare i quali, anzi, intraprese un lungo viaggio
attraverso l'Italia, che si protrasse per otto mesi e che descrisse poi in una memoria.
Della sua assenza profittarono persone malevole e invidiose per renderlo inviso al sovrano ed
estrometterlo dal posto di vice bibliotecario.
Ottenuta una pensione, trovò ospitalità nella villa della marchesa Carlotta Cristiani Lalatta, dove
riprese l'interrotta attività storico-letteraria.
Nel 1782 pubblicò l'importante opera di numismatica Delle zecche e monete di tutti i Principi di
Gonzaga e, successivamente, l'Apologia del pio esercizio detto la «Via Crucis», le vite del pittore
Francesco Mazzola, di mons. Bernardino Baldi da Urbino, primo abate di Guastalla, di Fra Elia, generale
dei Francescani, dei beati Rolando de' Medici, Giovanni da Salerno e Stefana Quinzani degli Orci Nuovi,
di Alberto ed Obizzo Sanvitale, vescovi di Parma, per quella Storia Ecclesiastica che la morte gli impedì
di ultimare; infine una Cronachetta parmigiana.
Di quel periodo sono anche le opere inedite: Chiese e Monasteri della città di Parma, Codice
diplomatico e la Vita del Cardinale Ercole Gonzaga.
Nel 1784 il sovrano, convintosi della fedeltà e lealtà del religioso, lo reintegrò nell'incarico di vice
bibliotecario.
L'attività letteraria di padre Affò nel 1785 fu circoscritta alle biografie di mons. Giangirolamo Rossi,
vescovo di Pavia, del Beato Pietro Geremia da Palermo e di padre Paciaudi, quest'ultima redatta per
onorare la memoria dell'amico, deceduto in quel periodo ed al quale era successo nell'incarico di
bibliotecario.
Dopo una visita a Guastalla in qualità di delegato dal Governo per assistere al trasporto dell'Archivio di
quella città in altra sede, nel 1786 visitò per la seconda volta Firenze, sostando a lungo in quelle
biblioteche a raccogliervi materiale documentario. Tre anni dopo dette alle stampe il primo volume
sulle Memorie degli Scrittori e Letterati Parmigiani.
In precedenza aveva pubblicato la Storia della Ciittà e Ducato di Guastalla, la Vita della Beata Orsolina
da Parma e un commento alla tragedia latina Cliristus del vescovo cosentino Martinano.
La compilazione delle biografie del Beato Martino da Parma, vescovo di Mantova, di tre celebri
principesse Gonzaga, di S. Bernardo degli Uberti, di S. Amico e del Beato Giordano da Rivalto, queste
due ultime inedite, rappresentano la produzione dell’Affò tra il 1787 ed il 1789.
Nel frattempo egli aveva curato la stampa dell'importante opera La Zecca e moneta parmigiana,
giudicata dall'Abate Marini « la più bella historia numismatica, forse, che si abbia di città particolari ».
L'ufficio di ex Definitore generale dei Frati Minori, che gli fu assegnato nel giugno 1789 con breve
pontificio, e quello, poco dopo, di Definitore generale, non gli permisero di continuare, con il consueto
ritmo, l'attività prediletta, che in cinque anni fu circoscritta ad alcune opere di scarso rilievo.
Ma dal 1795, dopo la nomina a Provinciale dell'Ordine per la provincia di Bologna, la produzione dell'Affò
si fece nuovamente intensa, nonostante gli impegni inerenti all'alta dignità cui era stato chiamato e la
visita da lui iniziata ai conventi. In quell'anno uscì dalla Stamperia Parmense il primo volume di una
documentata Storia della città di Parma. Ad essa seguirono le biografie di Basinio Basini, di Pierluigi
Farnese, primo duca di Parma, e dell'abate fidentino Benedetto Bacchini, una dissertazione Sull'età di
S. Paolo allorchè fu convertito al Cristianesimo, Memorie storiche eli Colorito, Ricerche storiche
intorno alla Chiesa, al Convento ed alla Fabbrica della SS. Annunziata di Parma, un saggio critico sulle
pitture del Correggio esistenti in una sala del monastero di San Paolo in Parma, l'almanacco Il
Parmigiano servitor di piazza (1794-96), Lettere diverse. Iscrizioni, Poesie italiane pubblicate in
raccolte o in fogli volanti.
Tra le inedite, Prone del temporale dominio e delle pienissime giurisdizioni esercitate dagli Abati
dell'Augusto Monastero Nonantolano dal tempo della sua fondazione sino all'anno 1261; Note
bibliografiche a diverse edizioni rare e a Codici manoscritti della Ducal Biblioteca eli Parma; Storia
delle sacre Immagini e ragioni di pittori nel dipingerle; Cronologia della Provincia de' Minori Osservanti
di Bologna; Aggiunta al Catalogo delle storie particolari Civili ed Ecclesiastiche delle città e de' luoghi
d'Italia, una dissertazione sulla vera origine di Guastalla, l'Egloga per la nascita del Salvatore, una
Cantata per la morte del Salvatore; Poesie liriche inedite o credute tali; Amori di Guido da .Viontalbano;
infine la favola pastorale Elpino e la farsa comica Il poeta.
AIl'Affò si debbono 111 opere, delle quali 54 date alle stampe in vita, due dopo la morte e le rimanenti
inedite.
Tra esse sono notevoli le Memorie degli Scrittori e Letterati Parmigiani, redatte per eccitamento del
Tiraboschi e continuate dal Pezzana; la Storici di Guastalla, La Zecca di Panna, l'Orfeo del Poliziano,
lodato dal Carducci e dal Del Lungo, e la Storia di Parma, rimasta interrotta al 1346 per la morte
dell'autore.
L’Ugoni giudicò I'Affò ingegno prettamente provinciale, ma ogni ritta vorrebbe avere un siffatto
ingegno a difensore e custode delle proprie tradizioni. I lavori di questo singolare studioso, costretti
dalla pinguedine a scrivere ginocchioni per la difficoltà a piegare il busto, rappresentano una miniera
di storica erudizione.
Scrupoloso nell'attenersi alle fonti originali nel trarne materia per i suoi lavori, chiaro nell'esposizione,
sebbene talvolta negligente nello stile, non poche sue opere sono tuttora ritenute fondamentali e
largamente consultate.
Innumerevole fu la schiera dei suoi estimatori. Angelo Mazza lo definì “conoscitore sensato d'ogni
bell'arte” ed il Lanzi giudicò che nessuno, prima di lui, ebbe a lasciare più precise notizie sul Correggi.
Gli dedicarono componimenti poetici Remigio Tonani, Giuseppe Pelleri, Antonio Cerati, Luigi Alberto
Giordani e Giuseppe Adorni.
Fu annoverato in numerose accademie d'Italia; alcuni artisti lo vollero ritrarre e, tra questi, il Turchi, il
cui disegno fu inciso dal Rosaspina.
Al vivace spirito univa un cuore nobile e generoso.
Modesto per natura, aveva manifestato l'intenzione di scrivere e dare un giorno alle stampe le proprie
Confessioni, o Catalogo degli errori nei quali era incorso nelle numerose sue opere.
La morte glielo impedì.
Colpito infatti da febbre petecchiale a Busseto, dove s'era recato in visita a quel convento, vi morì
all'età di 58 anni ed ebbe sepoltura nella chiesa di S. Maria degli Angeli, dove gli venne eretto un busto
mormoreo
Anche Parma l'onorò erigendogli nella chiesa dell'Annunciata un ricco monumento. Sopra di esso
spicca l'epigrafe dettata da don Angelo Mazza, commemorativa della vita e delle benemerenze
dell'insigne bussetano.
ALLEGRI FERDINANDO
Prevosto di Busseto, nato. a Vidalenzo il 22 gennaio 1846; morto a Busseto il 15 gennaio 1907.
Compì gli studi ecclesiastici nel Seminario diocesano, dov'era entrato nell'ottobre del 1856; ordinato
sacerdote dal vescovo di Parma mons. Felice Cantimorri, vacando la cattedra episcopale fidentina, fu,
poco dopo, inviato curato a Vidalenzo.
Nominato nel '73 parroco di Coduro, resse quella parrocchia per due anni, passando quindi arciprete a
Zibello ed infine, nel '98, prevosto a Busseto.
Sacerdote dinamico, molto attivo e zelante nell'esercizio del ministero pastorale, allargò via via la
cerchia della sua operosità: si dedicò, in diocesi ed altrove, alla sacra predicazione, acquistando fama
di oratore distinto; entrò a far parte di pubbliche amministrazioni, nelle quali portò il contributo della
sua esperienza e intelligenza, tenne la soprintendenza di scuole e fu instancabile nel procurare il bene,
premuroso verso quanti ricorrevano a lui per aiuto morale e materiale.
Va pure segnalato il contributo che egli portò nella fondazione di una società di mutuo soccorso fra i
sacerdoti e nel riattivare al culto il Santuario di Madonna dei Prati, organizzando al tempio della
Vergine numerosi devoti pellegrinaggi.
ANGUISSOLA GIROLAMO
Prevosto di Busseto, nato a Piacenza il 29 dicembre 1681; morto a Busseto il 29 marzo 1761.
Figlio del conte Ferrante, apparteneva ad una tra le più antiche ed illustri famiglie patrizie piacentine.
Fu prelato di dottrina e pietà.
Nel lungo periodo di ministero parrocchiale, che si protrasse del 1716 al 1761, si rese benemerito per
l'intensa opera di apostolato spiegata tra la popolazione bussetana, che lo tenne in concetto di alta
stima e venerazione.
Prelato domestico del Pontefice, morì quasi ottuagenario ed ebbe sepoltura nella collegiata di San
Bartolomeo.
BALESTRA ANGELO
Avvocato e magistrato, nato a Busseto il 1° ottobre 1800; morto a Parma il 20 aprile 1870.
Fratello di Luigi, più oltre ricordato, fu avvocato di valore e magistrato integerrimo.
Ricoprì le cariche di procuratore ducale presso i tribunali di Borgotaro e di Parma, quindi di
consigliere nel Supremo Tribunale di Revisione e, regnando a Parma Carlo III di Borbone, tenne il
mandato di direttore delle Finanze.
Insignito per le sue benemerenze dell'onorificenza di cavaliere della Corona d’Italia, al tempo in cui
morì reggeva l'Amministrazione comunale parmense come vice sindaco.
BALESTRA LUIGI
Medico e letterato, nato a Busseto ii 15 ottobre 1808; morto ivi i! 27 giugno 1863.
Fu medico distinto, appassionato cultore di belle lettere e benemerito dell'istruzione e della pubblica
amministrazione nel paese natale.
Conseguì la laurea in medicina all'Università di Parma ed esercitò la professione a Busseto, svolgendo
in pari tempo altre attività dirette al bene dei suoi concittadini.
Dotto nella letteratura italiana, tedesca ed inglese, e poeta e scrittore egli stesso, insegnò rettorica
nel Ginnasio locale ed ebbe parte notevole nell'istituzione delle pubbliche scuole femminili, che diresse
per molti anni.
Quale membro del Consiglio comunale, fu inoltre saggio amministratore della cosa pubblica.
Compose poesie, una delle quali, Seduzione, fu musicata da Verdi (Die Verfuhrungr), si dilettò di
epigrafia italiana, dettando iscrizioni per feste e cerimonie; lasciò traduzioni di versi dal tedesco e
dall'inglese; studi critici intorno alle opere di Giovanni Prati; una canzone musicata dal concittadino
Girolamo Bottarelli dal titolo I Volontari italiani, romanze, discorsi ed una bibliografia sulla grammatica
latina di Carlo Cantarelli.
Collaborò infine alla Gazzetta di Parma e ad altri giornali e riviste della provincia con articoli di vario
argomento.
BALESTRA LUCA
Medico, nato a Busseto il 16 dicembre 1788, morto ivi nel 1874.
Studiò medicina all'Università di Pisa ed esercitò la professione a Parma, dove pure insegnò in
quell'Archiginnasio.
Scrisse importanti trattati sulle fasciature chirurgiche e, in prossimità della morte, lasciò per
testamento la sua libreria, ricca di opere scientifiche, alla Civica Biblioteca di Busseto ed i suoi ferri
chirurgici a quell'Ospedale.
BALESTRA PIETRO
Pittore, nato a Busseto il 17 luglio 1758, morto ivi il 17 ottobre 1805.
Pietro Balestra
Autoritratto nel Civico Museo di Busseto
Fu allievo a Parma di Flavio Spolverini e si perfezionò a Cremona con Francesco Boccaccino, ma
soprattutto studiò a fondo l'opera del Correggio, del quale seguì la scuola.
Abbracciò la carriera ecclesiastica, ma non per questo rinunciò all'arte, cui, pur senza trascurare le
pratiche di ministero, si dedicò nella cittadina natale, dove fu destinato dopo l'ordinazione al
sacerdozio.
Le sue opere sono sparse per l'Emilia. A Busseto, specialmente, se ne possono ammirare un po'
ovunque : nella Collegiata di San Bartolomeo una Santa Margherita da Cortona e due affreschi
raffiguranti San Giacomo Minore e San Bernardo; nella chiesa dell'Annunciata La Risurrezione, le Marie
al sepolcro e Noli me langere, lavori, tutti, giovanili; al Civico Museo è conservato Un miracolo di San
Nicolò da Bari, giudicato suo migliore lavoro. Altri dipinti figurano in alcune chiese del vicariato
bussetano: a Roncole L.'mmacolata con i Santi Sebastiano, Rocca, Antonio e Margherita, un San
Michele e due mezze figure di San Luigi Gonzaga e di San Francesco di Paola; a Sant'Andrea, la pala
dell'altare maggiore raffigurante il Santo titolare; a Frescarolo una altra Santa Margherita da Cortona
ed una Madonna del Rosario con i Santi Girolamo e Rocco.
Nella Cattedrale di Fidenza appartiene al Balestra una Madonna col Bambino in sagrestia; una
Trasfigurazione è esposta nella chiesa di San Salvatore in Chiara di Fontanellato; un Sant'Ilario nella
Cattedrale di Parma.
Lasciò infine un Autoritratto (Civico Museo di Busseto) e; incompiuto, un San Niccolò da Bari, oltre a
vari abbozzi e cartoni ed un manoscritto sulle pitture e sculture esistenti a Busseto e nel suo
mandamento.
Dedicatosi all'insegnamento, ebbe tra i suoi allievi il parmigiano Massimiliano Ortalli ed i concittadini
Gaetano Bombardi e Giuseppe Cavalli.
Seguace di una scuola, anzi, di più scuole, il Balestra non ebbe il pregio di esprimere alcunchè di nuovo
nella pittura del suo tempo; avendo però amorosamente studiato le opere dei grandi maestri, seppe
ricavarne e riunirne le molteplici ispirazioni, così che, se non trovò soggetti nuovi per le sue pitture,
dipinse tele che appaiono rimarchevoli, come i suoi santi e le sue Madonne, soavi di gentilezza e
spiranti una devozione commovente.
L’immacolata
Chiesa parrocchiale di Roncole Verdi
fl suo metodo risentì del dominante manierismo e talune opere, specie giovanili, appaiono
imbarocchite da un'esasperata ricerca di movimento nel gestire dei personaggi e nella qualità stessa
delle giustapposizioni di colore, impreziosite da eleganze delicate e rare di sapore quasi lezioso; ma i
suoi quadri sono di una luminosità piena di letizia, avendo egli appreso dal Correggio il segreto di
rappresentare in pittura gli effetti di luce.
L'intonazione cromatica rivela la personalità inconfondibile dell'artista: trasparente e chiara, con
predominio di azzurro-verde.
Si volse quasi interamente ai soggetti sacri, che trattò con finezza di composizione e di linea, con
vigoria di colorito e, soprattutto, attingendo l'ispirazione religiosa alle vive sorgenti della pietà
cristiana. E quantunque il Balestra abbia solo accennato ad elevarsi alle altezze sublimi dell'arte, le sue
tele, trattate con senso religioso sincero e profondo, inducono veramente alla meditazione e alla
preghiera.
BAREZZI ANTONIO
Benefattore, nato a Busseto il 23 dicembre 1787; morto. ivi il 21 luglio 1867.
Antonio Barezzi
Ritratto del Garbazzi, conservato nel museo del Teatro Alla Scala
E' ricordato soprattutto quale mecenate del giovane Giuseppe Verdi, ma della cospicua fortuna
accumulata con il commercio dei generi coloniali si servì anche per beneficare largamente, nel paese
natale, altri giovani studiosi di condizioni economiche disagiate, inclinati all'arte musicale.
Storiografi locali informano che la casa del Barezzi era un gratuito conservatorio di musica e che egli
stesso, conoscendo tutti gli strumenti a fiato e suonando con abilità il clarinetto, il corno e l'oficleide,
fu ottimo insegnante.
Fondò a Busseto la Società dei Filarmonici, una scuola di canto ed una banda, che diresse per molti
anni, contribuendo efficacemente, con tali iniziative, a diffondere tra i suoi concittadini l'amore per la
musica.
BAREZZI STEFANO
Pittore, nato a Busseto il 16 novembre 1789; morto a Parma il 4 gennaio 1859.
Fu allievo a Busseto del concittadino Giuseppe Cavalli, quindi, a Cremona, di Giovanni Motta e del
Legnami, fintanto che, ammesso all'Accademia milanese di Brera, vi compì i corsi regolari di studio
sotto la guida del prof. Bertoli.
Nella capitale lombarda frequentò anche la scuola privata di Giuseppe Bossi, profondo conoscitore e
studioso appassionato delle opere di Leonardo da Vinci, il quale, proprio in quel periodo, era intento a
ricavare, cori lavoro paziente, copia del celebre Cenacolo. L'amicizia col Bussi ebbe notevole influenza
sulle attitudini artistiche del Barezzi, il quale si orientò decisamente verso il restauro dei dipinti dei
grandi maestri italiani.
Le pessime condizioni di conservazione del Cenacolo leonardesco suggerirono al giovane pittore
bussetano il perfezionamento della tecnica di trasposizione degli affreschi, nella quale già s'era
provato il ferrarese Francesco Contri senza tuttavia pervenire a risultati del tutto soddisfacenti.
A Stefano Barezzi va attribuito il merito di avere migliorato il metodo Contri nella sua applicazione: i
primi esperimenti, tentati nel 1819 sopra alcuni affreschi di Marco d'Oggiono esistenti nella soppressa
chiesa della Pace in Milano, ebbero esito felice; l'anno seguente egli fu incaricato di staccare due
affreschi di Aurelio Lovini nella chiesa di San Vincenzino e, nel 1821, altri di Bernardino Luini nella Villa
della Pelucca presso Monza, la cui destinazione ad uso agricolo avrebbe finito con il compromettere
irreparabilmente quelle opere d'arte, che poterono così essere trasferite nelle sale dell'ex Palazzo
Reale di Milano e che attualmente figurano per lo più in private collezioni.
Ma ambizione del Barezzi era quella di porre mano al Cenacolo di Leonardo, conservato nel refettorio
dei Domenicani presso la chiesa di S. Maria delle Grazie, rovinato in parte per l'ignoranza di quei
religiosi, che nel 1652 aprirono nella parete una porta tagliando le gambe a Cristo ed agli Apostoli; dal
Bellotti nel 1726 e dal Mazza nel 1770, la cui opera di restauro si risolse in una deturpazione dell'insigne
dipinto; infine dall'incuria nella quale fu tenuto il locale, trasformato nel periodo di dominazione
francese persino in stalla.
Nel 1821 il Barezzi ottenne dal Governo l'incarico ufficiale di procedere alla trasposizione su tavola del
celebre affresco, ma l'impresa fu impedita dalla diffusione di voci allarmistiche secondo le quali il
Cenacolo, una volta rimosso, sarebbe stato inviato a Vienna ad ornare il palazzo dei sovrani d'Austria.
L'operazione venne pertanto fatta sospendere dalle autorità con un pretesto e non potè essere
ripresa che nel febbraio 1853 dopo una serie di esperimenti eseguiti dal Barezzi alla presenza di una
speciale commissione che annoverava tra i suoi membri artisti di chiara fama, quali l'Havez, il De
Antoni, il Molteni, il Servi ed altri.
Le cautele adottate dall'Accademia di Belle Arti sono comprensibili se si considera l'importanza del
lavoro e la responsabilità che gravava sui promotori dell'iniziativa. La commissione, sulla scorta delle
prove eseguite, espresse parere favorevole ed il pittore bussetano iniziò la difficile e delicatissima
operazione, che fu ultimata nel luglio 1855.
Senza ricorrere al pennello, egli fece ricomparire le tinte e le linee originali, eliminando le alterazioni
apportate dai ridipinti e dando in tale modo il via a quel radicale restauro che soltanto un secolo dopo
sarebbe stato attuato e che avrebbe ricondotto l'affresco al suo primitivo splendore.
La cura di Stefano Barezzi fu volta particolarmente alla conservazione delle insigni opere pittoriche e
dei monumenti antichi e si deve fra l'altro al suo intervento se la grandiosa cupola di Bramante, fatta
erigere nella chiesa di S. Maria delle Grazie da Francesco e Ludovico Sforza, non fu manomessa con un
restauro che avrebbe deturpato quel leggiadro monumento.
Come pittore lasciò numerosi quadri a soggetto sacro e profano, che gli procurarono consensi di
pubblico e di critica.
BEGHINI
Famiglia notabile
di Busseto, in cima al cui albero genealogico, ricostruito da Buonafede Vitali junior, figura un patrizio
parmense, Pietro, vivente nel 1494.
Esponenti di questo casato si affermarono nella carriera ecclesiastica, forense e militare. Antonio
Maria fu giureconsulto del Collegio di Parma — come poi il figlio Michelangelo — e podestà di Trento
nel 1721; Pier Giacopo (+ 1749) cd altro Michelangelo (+ 1788) canonici della Collegiata di Busseto,
quest'ultimo anche protonotario apostolico. cappellano onorario e familiare del Duca Infante; Pier Gian
Angelo (viv. nel 1770) consigliere ci Gabinetto del duca di Parma, quindi nel Supremo Consiglio di
Piacenza.
BENSA MARIA
Dama di corte e storiografa, nata a Recco (Genova) il 14 gennaio 1842; morta a Busseto il 10 novembre
1921.
Maria Bensa
Busto nel Civico Museo di Busseto
Nata e cresciuta in una cospicua famiglia genovese, quella dei Semorile, univa alla signorilità del tratto
e alla squisita sensibilità intelligenza e cultura.
Giovanissima, andò sposa ad Enrico Bensa, fratello del senatore Paolo e segretario di re Vittorio
Emanuele II, che seguì nelle sue missioni alle corti di Napoli, del Bey dì Tunisi e dì Spagna.
L'attività diplomatica del marito e la vita stessa di corte la portarono ad interessarsi vivamente della
politica del suo tempo ed a studiare a fondo la storia per meglio comprenderla.
Alla guerra russo-giapponese, che la vide interamente votata alla causa nipponica, dedicò uno studio
particolare i cui manoscritti andarono perduti.
Fu a lungo con il consorte alla corte del re sabaudo, che, rimasta vedova, lasciò per ritirarsi a Busseto
presso la figlia Enrichetta, moglie del generale Ronchini.
In quella cittadina, divenuta sua patria, si dedicò a studi e ricerche storiche locali, pubblicando nel 1911
una documentata Storia di Busseto, edita a Parma da Egidio Ferrari.
BERGONZI CARLO
Tenore, nato a Vidalenzo il 13 luglio 1924.
Carlo Bergonzi
Figlio di agricoltori, denotò sin da ragazzo un trasporto invincibile per la musica e il canto, unito al
desiderio vivissimo di potersi un giorno dedicare all'arte.
Non aveva che quindici anni allorchè,nel '39, riuscì a farsi assumere quale comparsa in un'edizione
della Traviata rappresentata nella piazza principale di Busseto.
Chiesta durante l'intervallo un'audizione al baritono Grandini, questi, colpito dalla singolare bellezza
della sua voce, gli propose di studiare con lui a Brescia in chiave di fa, dato che Bergonzi — come
Caruso, Zenatello ed altri tenori — fu istruito e iniziò a cantare come baritono prima che si rivelasse la
vera natura del suo organo vocale.
Lo sbaglio, se tale può essere definito, non nocque tuttavia alla sua voce, impedendo anzi all'artista di
intaccare il patrimonio del registro acuto, che rimase accantonato in una preziosa riserva.
Nell'ottobre 1942 il futuro tenore entrò al Conservatorio musicale di Parma, studiandovi canto sotto la
guida di E. Campogalliani fintanto che fu chiamato alle armi. Prigioniero in Germania, cantò per i
compagni nei lager; nel '45, rientrato in patria, riprese gli studi da baritono a Milano ed esordì dopo
alcuni mesi a Varedo nel rossiniano Barbiere, scritturato da un'oscura impresa che lo vincolò con un
contratto per una lunga tournée nell'Italia meridionale.
Furono anni di sacrifici e di scarse soddisfazioni; ma a decidere del suo avvenire intervennero due fa
naturali, che egli inopinatamente steccò durante un'esecuzione nell'ottobre 1950.
Fu quella sera che Bergonzi si rese conto di cantare in una tessitura che non era la sua e ne ebbe
conferma nel corso di una serata musicale in casa di amici a Busseto, allorchè, eseguendo la romanza
Ah,, non mi ridestar! del Werther, strabiliò i presenti per quel si bemolle uscitogli dalla gola con
meravigliosa spontaneità.
Da allora riprese con tenacia lo studio da solo, aiutandosi con un vecchio pianoforte preso a noleggio.
Nel gennaio 1951 chiese un'audizione, questa volta come tenore, all'impresario Colombo, il quale lo
scritturò subito per l'Andrea Chénier, che sarebbe andata in scena il 12 dello stesso mese al Teatro
Petruzzelli di Barí.
Fu, quello, il suo vero debutto e primo successo.
Poco dopo prese parte alle rappresentazioni operistiche indette dalla Radio-Televisione Italiana per
commemorare il cinquantenario della morte di Verdi, suscitando larghi consensi nelle opere in
programma dla lui eseguite, da I due Foscari a Giovanna d'Arco, da Simon Boccanegra alla Forza del
destino. Cantò poi al Teatro Nuovo di Milano, in Spagna (San Sehastian e Barcellona), in Francia (Tolosa
e Parigi), nuovamente in Italia al Regio di Parma, al Municipale di Piacenza, al San Carlo di Napoli,
all'Opera di Roma, al Carlo Felice di Genova, al Regio di Torino, quindi a Londra, Lisbona, alla Scala di
Milano (1954) ed in altre città della Penisola, conseguendo ovunque grandi successi accanto alle più
celebrate artiste del nostro tempo: Maria Callas. Remata Tebaldì, Maria Caniglia, Magda Olivero, Gianna
Pederzini, Fedora Barbieri, Clara Petrella; rifugiandosi di volta in volta, lontano dai clamori del teatro,
nella natia Viclalenzo, dove egli ha sposato la signorina Adele Aimi, che l'ha reso padre felice di due
tigli, Maurizio e Marco.
Scritturato nel settembre 1956 al Metropolitan di New York in Aida e Trovatore, vi fu confermato per il
successivo anno, inaugurando la nuova stagione con il Trovatore e partecipando con Giulietta
Simionato a un grande concerto al Carnegie hall. Intraprese quindi con la compagnia del Metropolitan
un giro artistico nel Nord America, cantando in Andrea Chénier e Trovatore con Dorothy Kirsten.
Tornato in Italia, si produsse all'Opera di Roma in Forza del destino, Aida, Andrea Chénier, Tosca, Simon
Boccanegra, Boheme , Manon Lescaut ed all'Arena eli Verona, nel luglio 1960, in Aida e Pagliacci.
Bergonzi in Pagliacci
Chiamato allo Stadttheater (Opera di Stato) di Vienna — dove fu confermato per la stagione 1961 — vi
eseguì Aida, Pagliacci e La forza del destino prima di varcare nuovamente l'oceano perchè scritturato
a Chicago in Aida sotto la direzione di Antonio Votto ed al Mctropolitan in Aida, Manon Lescaut e L'elisir
d'amore.
Da allora egli ha continuato a presentarsi di fronte ai pubblici dei principali teatri d'Italia e dell'estero,
sempre accolto con il massimo favore.
Le sue incisioni figurano nel repertorio della Casa discografica Decca: degne di rilievo sono le
registrazioni delle opere complete Madama Butterfly e Boheme, con la Tebaldi,
Un ballo in maschera e Aida, quest'ultima premiata a Parigi nel 1959 come la migliore incisione
dell'anno.
La critica concorda nel classificare Carlo Bergonzi tra i maggiori artisti odierni del teatro d'opera.
E veramente egli, in possesso d'una voce non molto robusta, ma meravigliosa di timbro, di estensione,
di duttilità, può essere legittimamente ritenuto un sovrano della chiave di sol. Si può dire che, nella
schiera dei tenori fioriti in quest'ultimo ventennio, egli occupi un posto a sè, possedendo una
personalità distinta che non si presta a confronti.
L'accostamento a Pertile, da parte di taluni critici, appare del tutto arbitrario sia per la qualità della
voce, tanto pura e smagliante in Bergonzi, quanto sgraziata, quasi stridula nel tenore padovano, che
per la diversità del temperamento, il quale non assume mai in Bergonzi quella vis drammatica che
costituiva una particolarità unica nell'arte del geniale cantante-attore scomparso.
Ciò non autorizza a ritenere che Bergonzi, su questo piano, possa trovarsi in svantaggio rispetto a
quegli come ad altri suoi illustri colleghi: dotato anch'egli di non comuni doti sceniche ed
interpretative, sa servirsene con pari maestria nelle sue interpretazioni veramente personali,
sorrette da un gusto, da un'eleganza, da una misura, che fanno di lui un signore della scena.
A queste virtù ben s'adeguano la bella incisività del fraseggio, la facilità nei passaggi dalle note basse
alle acute, che rivelano l'ottimo metodo di canto di questo fine e sensibile artista.
Con Pertile egli non ha in comune che quelle doti che distinguono gli artisti superiori; lo studio
accurato del personaggio, la somma diligenza nell'esecuzione dello spartito musicale, l'anelito ad un
continuo perfezionamento.
E' il tenore lirico per eccellenza, ma che, per l'estensione della voce, non conosce limiti di repertorio,
potendo cantare tutti i generi, dal leggero al drammatico, dall'Elisir d'amore al Trovatore. Lo dimostra
il suo stesso eclettico repertorio, comprendente gran parte delle opere dei maggiori compositori
italiani (Verdi, Bellini, Puccini, Donizetti, Mascani, Giordano, Cilea, Ponchielli, Catalani, Boito,
Leoncavallo) e stranieri (Bizet, Gounod, Yanecek, ecc.).
I caldi successi che l'hanno accompagnato nella sua carriera di artista, e che continuano senza
interruzione, dimostrano a quale considerazione sia pervenuto Bergonzi nel mondo del teatro, degno
rappresentante di quella scuola di bel canto che ha nel nostro Paese gloriose tradizioni.
BEZZA PIETRO
Medico, nato a Busseto il 29 giugno 1905; morto a Parma il 26 giugno 1957.
Studiò medicina all'Università di Parma, divenendo allievo interno dell'istituto di fisiologia e,
successivamente, della clinica chirurgica per tre anni.
Conseguita nel 1930 la laurea e poco dopo l'abilitazione all'esercizio professionale, si trasferì a
Perugia quale assistente del prof. Pietro Verga, direttore in quella città dell'istituto di Anatomia
patologica.
Due anni dopo rientrò a Parma, chiamato a svolgere la sua attività nella clinica chirurgica del prof.
Giovanni Razzabona, che fu il suo maggiore maestro.
Abilitato nel 1935 alla libera docenza in patologia speciale chirurgica, nel '39 ottenne la cattedra di
patologia speciale chirurgica e propedeutica all'Università di Sassari.
Nominato nel '41 primario dell'ospedale di Cesena, passò l'anno seguente a Parma quale primario della
divisione chirurgica.
Nel frattempo aveva anche seguito corsi di perfezionamento in Francia, approfondendo sempre più le
già vaste sue nozioni professionali.
Autore di interventi chirurgici di grande ardimento, ha lasciato numerose pubblicazioni di carattere
medico-scienlifico che attestano il suo valore in tale campo.
Figura esemplare di cristiano, seppe luminosamente conciliare la scienza con la fede, lasciando un
retaggio inobliabile di vita e di opere ed il ricordo d'una grande dedizione alla professione e di un
cristallino senso del dovere.
BOCELLI
Famiglia notabile
di Busseto, che da Filippo Borbone, con rescritto del 4 marzo 1750, ottenne il titolo di nobiltà.
Figurante già nel sec. XVI fra le principali e illustri di Busseto, si trasferì intorno al 1600 a Polesine ed
il suo stemma è riprodotto nel pallio a mosaico della seconda cappella di destra in quella Chiesa
parrocchiale e sulla facciata verso il cortile e giardino della casa Bocelli nello stesso paese.
Alla Chiesa questa famiglia dette tre benemeriti sacerdoti: Francesco (+ 1713) e Alessandro ( + 1781),
che furono parroci di Polesine, e Giulio Cesare, parroco di Pieveottoville.
BOMBARDI GAETANO
Pittore, nato a Busseto nel 1764; morto ivi il 5 maggio 1817.
Fu allievo in Busseto di Pietro Balestra e percorse nella pittura una buona carriera.
Condusse a termine il dipinto Il miracolo di San Niccolò da Bari, lasciato incompiuto dal suo maestro,
e, nel paese natale, disegnò per la Collegiata l'immagine dell'Immacolata.
Lasciò vari ritratti, tra i quali il Seletti rimarca quello di mons. Bernardino Baldi da Urbino, primo abate
di Guastalla, inciso poi dallo Zamboni.
Fu pure letterato e, come tale, fece parte dell'Accademia bussetana Emnonia con lo pseudonimo di
Cromi Ciparisseo e della locale Accademia di Lettere Greche, alla cui fondazione aveva avuto parte nel
1796 con Pietro Vitali e con i sacerdoti Marco Pagani e Pietro Seletti.
BONVINI
Famiglia notabile
di Busseto.
Nell'albero genealogico, ricostruito da Buonafede Vitali junior, figura in cima certo Bernardo, vivente
nel 1475.
Dette particolare lustro a questo casato Guidone Bonvini, morto prima del 1567, che fu plenipotenziario
del marchese Pallavicino.
CARAFFINI
Famiglia patrizia
di Busseto,
il cui albero genealogico, ricostruito da Buonafede Vitali junior, inizia con un Lazzaro, vivente nel 1490.
Esponenti di questo casato, che nel XVI secolo si trasferì a Parma ed a Cremona, emersero nella
carriera forense, diplomatica ed ecclesiastica. Mario (1621) e Ottavio (1657) furono giureconsulti del
Collegio parmense; Cesare (1691) e Autori Francesco (1672) capitani al servizio dei duchi di Parma;
mons. Lazzaro, vescovo di Melfi ed in seguito di Como.
CARRARA LINO
Avvocato, giornalista e uomo politico, nato a Busseto il 21 febbraio 1869; morto ivi il 12 ottobre 1955.
Figlio di Angiolo, il notaio di Verdi, iniziò gli studi a Busseto e li continuò a Parma, conseguendo la
laurea in giurisprudenza.
Per alcuni anni fece pratica nello studio paterno e si dette poi alla libera attività professionale,
dedicandosi in pari tempo alla vita politica quale esponente dell'Associazione agraria.
Dal 1907 prese parte con coraggio alla lotta politico-sindacale di quell'agitato periodo ed ebbe parte
considerevole nello sciopero agrario del 1908, che paralizzò il lavoro nelle campagne del Parmense ed
ebbe notevoli ripercussioni nell'economia agricola della provincia.
Per due volte proposto alla candidatura di deputato al parlamento per il suo partito, senza però
riuscire eletto, nel 1913 assunse la carica di sindaco di Busseto contemporaneamente a quella di
direttore de Il Resto del Carlino, dopo esserne stato il consigliere delegato.
Fu tra i direttori dei più importanti giornali nazionali invitati in Germania, poco prima lo scoppio della
grande guerra 1915-18, a visitare il fronte perchè si rendessero personalmente conto della potenza
dell'apparato militare e industriale tedesco; ma per nulla impressionato dal funzionamento della
macchina bellica germanica e dal grado di preparazione raggiunto dall'esercito del Kronprinz, al suo
rientro in patria si schierò con gl'interventisti e nel 1915, dopo aver combattuto dalle colonne del
giornale che dirigeva la sua battaglia, lasciò la penna per il fucile e partì per il fronte, lui maggiore ed
il figlio Alessandro sottotenente nella stessa guerra.
Terminate le ostilità, rientrò a Busseto, estraniandosi, per la mutata situazione, dalla vita politica
locale, cui aveva dato il contributo di una solerte attività volta al bene della comunità ed al prestigio
della città, promuovendo tra l'altro le grandiose manifestazioni del centenario verdiano, illustrate dalla
partecipazione di Arturo Toscanini e di altre eminenti personalità del mondo artistico e culturale.
Soltanto molti anni dopo, nel 1948, ormai ottuagenario, si arrese alle pressioni dei suoi amici liberali e
accettò la candidatura a senatore nel Blocco nazionale, pur sapendo di andare incontro ad un'altra
sicura sconfitta.
Dedicatosi dopo la prima grande guerra quasi esclusivamente all'attività professionale — e fu
avvocato di valore — continuò tuttavia ad interessarsi vivamente delle cose bussetane, dando ad ogni
iniziativa civica il proprio contributo di opere e di consiglio.
Personalità eminente e superiore, mente aperta ai problemi del suo tempo, coraggioso nel
manifestare e nel sostenere le proprie idee, ebbe alto il sentimento dell'amor patrio e dell'onore,
plasmando a questi due capisaldi l'intera sua laboriosa esistenza di uomo e di cittadino.
CARRARA MARIO
Medico e docente, nato a Guastalla il 1" novembre 1866; morto a Torino il 10 giugno 1937.
Fratello di Enrico, studiò dapprima a Reggio Emilia, dove il padre, magistrato, s'era trasferito da
Busseto, ed in seguito a Bologna, conseguendovi la laurea in medicina e chirurgia.
Ottenuta dopo alcuni anni la libera docenza e successivamente la cattedra di medicina in quell'ateneo,
nel 1898 passò, professore di medicina legale e antropologia criminale, all'Università di Cagliari ed infine a quella di Torino, succedendo a Cesare Lombroso e svolgendo ininterrotta attività sino al 1932.
Direttore dal 1909 dell'Archivio di antropologia criminale, psichiatrica e di medicina legale, ha lasciato
alcune dotte pubblicazioni scientifiche.
CASAZZA ELVIRA
Cantante (mezzosoprano), nata a Ferrara il 15 novembre 1887; morta a Milano nel 1965.
Elvira Casazza
Studiò musica e canto con A. Borghi e debuttò a Sanremo nel 1910 quale Azucena nel Trovatore.
Dopo aver cantato nello stesso anno al Teatro La Fenice di Venezia, intraprese una tournée
nell'America del Nord e la continuò in quella del Sud per una serie di rappresentazioni al Coliseo di
Buenos Ayres.
Rientrata in Italia, si produsse nel 1913-14 al Costanzi di Roma ed al Donizetti di Bergamo; cantò poi di
nuovo a Buenos Ayres e finalmente, nel '16, alla Scala di Milano, cogliendo grandi successi, divenendo
una delle cantanti predilette da Toscanini e raggiungendo nel '21 l'apice della sua carriera artistica con
l'interpretazione del personaggio di Quickly in Falstaf f, nel quale non ebbe rivali.
Nel frattempo s'era fatta applaudire a Firenze, Barcellona, Madrid, Napoli, Pesaro e Roma, prescelta da
Zandonai e Pedrollo a prima interprete de La via della finestra (1919) e L'uomo che ride (1920). Nel '25
presentò alla Scala I cavalieri di Ekebìt di Zandonai, seguita da Il diavolo nel campanile di Lualdi.
Si produsse in seguito al Costanzi ed al Reale di Roma, al Regio di Torino, al Gaité-Lirique di Parigi, alla
Fenice di Venezia, a Ginevra, Vienna, Berlino, Londra, Buenos Ayres e di nuovo nei principali teatri
d'Italia: alla Scala, al Costanzi di Roma, al Municipale di Bologna, alla Pergola di Firenze, ancora alla
Scala, dove nel '39 colse un grande successo nella Debora e Jaele di Pizzetti, al Teatro delle Arti in
Roma, a Trieste, prima interprete nel '42 di Fior di Maria del Bianchi.
Ovunque dette prova di non comuni doti sceniche ed interpretative e della versatilità del suo
temperamento, che non conobbe limiti di repertorio: dal Trovatore all'Aida, da Suor Angelica a Fiamma,
da Hansel e Gretel ad Elettra. Al suo talento fu affidata la presentazione di opere nuovissime — tra cui,
oltre a quelle citate, Abul di A. Nepomuceno (1913) e Canossa di Malipiero (1914) — e l'esumazione eli
opere quali Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi (1929), L'italiana a Londra di
Cimarosa (id. ), Il matrimonio di Musorgskij (1941).
E' stata la cantante drammatica per eccellenza, portata a ciò dalle particolarità della voce — non
dotata di speciali attrattive quanto a purezza e pastosità di timbro, ma voluminosa e robusta — e dal
temperamento artistico, che la sospinse a prediligere personaggi dal linguaggio crudo e tagliente: la
strega in Hansel e Gretel, Urlica nel Ballo in maschera, Ortruda nel Lohengrin, Azucena nel Trovatore,
Prcziosilla nella Forza del destino, furono da lei rese sulla scena con tale vigore interpretativo ed
incisività di fraseggio da farne, oltre che un'eletta cantante, un'attrice tragica di prim'ordine.
Ma il suo talento, sorretto dalle risorse di una voce ricca di colore e calore, la rese pressochè
insostituibile anche in quelle parti che richiedevano particolare sensibilità ed espressività (Laura in
Giocondo, Carlotta nel Werther, Anneris in Aida, oppure vis comica scenica e vocale (Quickly in
Falstaff, Margherita in Hansel e Gretel), o, ancora, incisività ed efficacia nel declamato di talune opere
moderne (Debora e Jaele di Pizzetti, Fiamma di Respighi).
Nel corso delle sue peregrinazioni artistiche s'imbattè nel violinista bussetano Umberto
Casazza, che sposò e dal quale ebbe un solo figlio, Girolamo, perito in un incidente aviatorio
allorchè sosteneva l'esame per il conseguimento del brevetto di pilota.
La morte, qualche anno dopo, anche del marito, che la seguì sempre ovunque e con il quale era solita
trascorrere a Busseto i periodi di riposo, la trasse nel più profondo sconforto, illuminato soltanto dalla
luce della fede.
Ritiratasi dalle scene, si dedicò all'insegnamento dapprima al Liceo musicale Rossini di Pesaro, quindi
al Conservatorio di Santa Cecilia in Roma.
CAVALLI GIOVANNI
Musicista, nato a Busseto il 3 luglio 1802; morto ivi il 24 giugno 1857.
Fu valente suonatore di fagotto e partecipò in vari complessi orchestrali ad applaudite tournées in
Italia ed all'estero.
Reduce nella cittadina natale dopo trentadue anni di peregrinazioni artistiche, si dedicò
all'insegnamento e fu annoverato tra i soci onorari della locale Società Filarmonica fondata dal
mecenate Barezzi.
CAVALLI GIUSEPPE
Pittore e architetto, nato a Busseto il 6 aprile 1762; morto ivi il 13 maggio 1828.
Allievo nel paese natale di Pietro Balestra, fu buon pittore, decoratore, abile restauratore di quadri e
persino reputato architetto.
Condusse studi sulla chimica applicata all'arte ed espose i risultati conseguiti in pazienti ricerche in
alcuni manoscritti tra i quali il Seletti cita i seguenti: Precetti teorici e pratici per intagliare all'acqua
forte, Delle stampe sul legno e del modo di farle, Intaglio a più colori, Pittura a pastello, Segreti per
colorire legni lavorati e fare vernici.
Come pittore si orientò al paesaggio, lasciando apprezzati dipinti, ma si distinse anche come
decoratore.
Trattò soggetti sacri in affreschi sparsi per l'Emilia, soprattutto in chiese e conventi, ed è opera sua il
San Francesco che spicca sulla porta d'ingresso al convento bussetano dei frati Minori.
Fra le opere di architettura da lui progettate e dirette in Busseto rammenteremo la facciata e l'atrio
dell'ex palazzo Sivelli, la chiesa di Santa Maria e l'oratorio detto della Madonna Rossa, incorporato al
citato convento, con decorazioni in buon stile dallo stesso Cavalli modellate.
CAVITELLI GIUSTINIANO
Giureconsulto e diplomatico, nato a Cremona nella prima metà del XV secolo, morto a Belgrado nel
1485.
Esperto nelle leggi, ricoprì le cariche dapprima di dottore collegiale in Cremona e successivamente di
consigliere di Stato di Lionello marchese di Ferrara, il quale gli affidò importanti missioni diplomatiche.
Nel 1457 Io si trova podestà a Busseto e nel 1484 presidente del Senato di Unniade, re d'Ungheria.
CAVITELLI
Illustre famiglia
di Busseto
oriunda di Cremona ed annoverata tra la nobiltà di quella città.
Il ceppo bussetano ebbe origine nel XV secolo da Marc'Antonio, fratello del più oltre ricordato
Giustiniano, e si distinse per aver dato al Comune decurioni, dottori collegiali e uomini d'armi.
CIPELLI BENEDETTO
Giureconsulto, nato a Busseto sulla fine del XV secolo, morto a Ferrara nel 1562.
Studiò legge ed intraprese in seguito la carriera ecclesiastica, pervenendo alla carica di vicario
generale di mons. Nicolò Sfondrati, vescovo di Cremona. Salito questi sulla Cattedra di San Pietro con
il nome di Gregorio XIV, conferì il titolo di cavaliere al Cipelli, il quale, svestito l'abito clericale, esercitò
la professione di giureconsullo e fu pretore in Bologna e preside in quella Rota fintanto che, chiamato
nel 1559 a Ferrara da Ercole II d'Este, fu da lui annoverato tra i suoi consiglieri di giustizia.
II 22 settembre 1562 fece testamento, designando a suo crede il nipote Lampridio, figlio del fratello
Angelo, e disponendo che la sua salma fosse sepolta a Ferrara nella chiesa di San Benedetto.
Oltre al ricordato Angelo, insignito nel 1553 del titolo di conte palatino, ebbe a fratello Bartolomeo,
reputato giureconsulto anch'egli, cui la Santa Sede affidò importanti e delicate missioni e che fu
auditore e datario del cardinale Girolamo e legato in Lombardia di Papa Giulio III presso il re di Francia
Enrico.
Tra le opere di Benedetto Cipelli è ricordata un'allegazione inserita nelle Decisioni scelte dell'Alma
Rota Bolognese, pubblicata in quella città nel 1616 con i tipi degli eredi Giovanni Rossi.
CIPELLI FRANCESCO BERNARDINO (Cipellario)
Letterato, nato a Busseto nel 1481; morto a Piacenza nel 1535.
Fu letterato di chiara fama, come tale ricordato negli scritti del Campi, dell'Arisi, del Cavitelli, del
Poggiali, del Tiraboschi e dell'Alto.
Frequentò a Cremona la scuola di Niccolò Lucaro, distinguendosi fra i migliori allievi per vivacità
d'ingegno e singolare attitudine allo studio delle lettere.
Nel 1497, sedicenne appena, fu preposto dal Comune di quella città all'insegnamento di belle lettere alla
gioventù e questa attività svolse poi a Piacenza, dove già si trovava nel 1502.
Trasferitosi nel 1521 a Milano, pubblicò in quell'anno, con i tipi di Giovanni Castiglioni, il poema in tre
libri Sant'Antortino, considerato il suo principale lavoro, che incontrò molto favore, nonostante il
Poggiali Io definisca bizzarro e storicamente poco fedele.
Tra i piacentini, in particolare, l'opera suscitò tale entusiasmo che essi inviarono messi al Cipelli
perchè s'inducesse a ritornare tra loro. Aderendo all'invito, riprese a Piacenza l'insegnamento nelle
pubbliche scuole e nel 1534 dette alle stampe Istruzioni grammaticali (Ed. Sebastiano Banzoti, Venezia),
precedute da una dedica al Senato ed al popolo piacentino.
Tra i lavori inediti del Cipelli si ricordano un trattato di Geometria pratica,
Note contro il libro di Bartolo dell'isola, un Sonetto in lode di Tommaso Castellano, poeta bolognese ed
un'emendazione al testo del poema di Lucrezio De rerum natura.
CONTI EGISTO
Generale di Corpo d'Armata, nato a Ghiara di Fontanellato (Pr) il 22 febbraio 1882; morto a Busseto il 2
novembre 1956.
Egisto Conti
Appartenente a famiglia bussetana, era fratello di mons. Mario, prelato della diocesi fidentina.
Compiuti a Busseto gli studi ginnasiali, entrò giovanissimo nell'Accademia militare di Modena, dalla
quale uscì con il grado di sottotenente nell'arma di fanteria.
Combattente nella guerra oli Libia, nell'agosto 1911 fu collocato a disposizione del ministero degli Affari
Esteri e destinato al corpo di truppe coloniali dislocate nella Somalia italiana.
Promosso capitano, quindi maggiore nella prima grande guerra, meritò due medaglie d'argento al V.M.,
due croci al merito di guerra e molti encomi per la sua eroica condotta.
Quale colonnello del 225" Reggimento partecipò alla campagna d'Etiopia e poi a quella di Spagna.
Già nella riserva allo scoppio della seconda grande guerra 1940-45, venne richiamato in servizio
effettivo quando aveva raggiunto il grado di generale di divisione e destinato a Merano, donde passò a
Bolzano, a Verona ed infine in Sicilia in zona di operazioni.
Fatto prigioniero dagli anglo-americani il 22 luglio 1943 durante l'avanzata degli alleati nell'isola e
tradotto in Algeria, rientrò in patria al termine delle ostilità e fu ricollocato a riposo nella riserva.
Per l'ardimento e le alte virtù militari, venne decorato di altre cinque medaglie d'argento e nominato
grand'ufficiale della Corona d'Italia e commendatore dei Ss. Maurizio e Lazzaro.
Promosso nel 1954 generale di corpo d'armata, trascorse gli ultimi anni di vita a Busseto, dove morì
ed ebbe sepoltura.
CRISTOFORETTI PAOLO
Flautista, nato a Busseto il 2 marzo 1857; morto a Colorno (Pr) il 3 novembre 1936.
Studiò musica al Conservatorio di Parma e, conseguito a pieni voti il diploma, iniziò una brillante
carriera in qualità di primo flauto nei maggiori complessi orchestrali italiani e come direttore egli
stesso d'orchestra.
Passò, di successo in successo, attraverso i principali teatri d'Italia e dell'estero; a Milano, Bologna,
Roma, Rio de Janeiro, Buenos Avres, Londra, Parigi ed in molte altre città.
Partecipò al Cairo alla prima dell'Aida; fu con Toscanini a Bologna ed a Busseto ed al seguito di Adelina
Patti in famose tournées in Europa e nelle due Americhe.
Dal 1889, senza per questo aver rinunciato all'attività artistica, fu insegnante di flauto nel
Conservatorio musicale di Parma, dove ebbe ad allievi strumentisti che avrebbero fatto onore al loro
maestro ed al glorioso istituto.
Fu in rapporti di amicizia con i più bei nomi del mondo musicale d'allora ed in particolare con Giuseppe
Verdi, in collaborazione col quale ideò una doppia chiave del do diesis basso, comunemente poi
adottata dai costruttori di flauto.
DEL FERRO
Famiglia notabile
di Busseto, estintasi nel 1834, che annovera numerosi anziani della Comunità, da Andrea (viv. nel 1529),
figlio del capostipite del ceppo bussetano Giovanni, a Giovanni Pietro, vivente nel 1640.
Un Marziano fu giureconsulto del Collegio di l'arma e creato conte nel 1680 assieme al fratello Ferro,
giureconsulto anch'egli del Collegio parmense, poi di Piacenza ed infine consigliere di quella città.
Altro Marziano, figlio di Ferro, segui ;a carriera del padre e, dopo essere stato dottore collegiale di
Parma, fu dal duca designato a ricoprire la carica di suo residente in Milano.
DEMALDE’ GIUSEPPE
Prevosto di Busseto, nato a Busseto il 3 novembre 1781; morto ivi il 12 settembre 1856.
Compì gli studi ecclesiastici nel Seminario diocesano e fu ordinato sacerdote a Parma nel 1814 da quel
vescovo Carlo Francesco Caselli, vacando la sede episcopale di San Donnino.
Ricoperti nella diocesi fidentina incarichi di importanza e responsabilità, venne nominato il 16 marzo
1845 prevosto di Busseto quando già il vescovo mons. Giovanni Neuschel, il 28 febbraio precedente,
l'aveva associato al proprio governo come vicario generale.
A questa attività in seguito rinunciò per dedicarsi interamente alla cura della sua parrocchia, dove
morì largamente compianto lasciando alla collegiata una ricchissima continenza ricamata in oro, una
palmatoria d'argento ed una pianeta violacea di notevole pregio.
La sua salma, per volontà dell'estinto, ebbe sepoltura nell'oratorio di Sant'Anna del cimitero di
Busseto.
DOLCINO STEFANO
Letterato, nato a Compiano (Pc) nel 1462; morto a Busseto il 13 ottobre 1508.
Ebbe occasionalmente i natali in territorio piacentino e lo si deve considerare bussetano, perchè
bussetana, e di antica data, era la sua famiglia.
Siccome, poi, Busseto dipendeva a quel tempo dalla Chiesa di Cremona, si spiega come l'Arisi,
l'Argellati ed il Giulini lo dicano cremonese.
Fra le varie testimonianze, la più probativa è rappresentata da un atto rogato dal notaio Matteo Vighi,
conservato nel pubblico Archivio di Parma, nel quale è citato «Don,. Stephanus Dulcintts... dotnus de
Buxeto».
Emilio Selettí rimarca l'errore in cui cadde 1'Affò nel doppiare la stessa persona in un vecchio e in un
giovane Stefano Dolcino, richiamando, a controbattere tale opinione, una lettera chiarificatrice
indirizzata a questo scopo da Pietro Vitali al Pezzana e pubblicata nel 1816 a Parrna dal Paganino.
Come il concittadino Francesco Bernardino Cipelli, il Dolcino fu allievo a Cremona di Nicolò Lucaro e
continuò gli studi di lettere a Milano sotto la guida di Giorgio Merula.
Abbracciata la carriera ecclesiastica, fu nominato nel 1486 canonico della basilica di Santa Maria della
Scala di quella città ed in seguito economo della badia di Bernate.
Nel 1490 ottenne la cattedra di umanità all'Università di Milano.
Fu letterato di chiara fama, celebrato dal Poggiali, dall'Affò, dal Pezzana e da numerosi altri scrittori.
Tra le sue opere si ricordano Le nozze dell'Ill.mo Duca di Milano (Gian Galcazzo Sforza), che comprende
anche una genealogia dei Visconti ed un'illustrazione del Duomo della capitale lombarda;
un'Emendazione al saggio d'Astronomia di Marco Manlio; la dedica ed i sommari all'opera dell'abate
cistercense Bonifacio Simonetta
I persecutori della fede cristiana e dei romani Pontefici: Note manoscritte ai racconti di Giorgio Merula
sulle Satire di Giovenale; un Codice degli anniversari, dei pii legati e dei giorni di morte dei canonici
della Basilica della Scala; una Lettera a Giovanni Tolento; il poemetto latino Sirmione e vari epigrammi.
Trascorse gli ultimi anni di vita a Busseto. Poco prima della morte lasciò per testamento a quei padri
Francescani la sua ricca biblioteca.
DONATI GIACOMO
Educatore e benefattore, nato a San Rocco di Busseto il 19 marzo 1858; morto a Fidenza il 9 marzo
1929.
Giacomo Donati
Entrò decenne nel Seminario diocesano, dal quale passò successivamente a quello di Piacenza.
Ordinato sacerdote il 17 dicembre 1880 dal vescovo di Fidenza mons. Vincenzo Manicardi e destinato
curato a Monticelli d'Ongina, seppe talmente farsi onore nei dieci anni del suo ministero in quella
parrocchia che mons. Giovambattista Tescari, successo nel giugno 1886 a mons. Manicardi, lo nominò,
con felicissima scelta, rettore del Seminario.
Per quasi otto lustri ricoprì l'importante e delicato incarico con piena dedizione e successo,
esplicando nel frattempo la sua attività a favore anche di tante anime e di istituti religiosi che si
affidarono alla sua direzione e al suo consiglio. Fu pure vicario capitolare nel periodo che seguì la
morte di mons. Leonida Mapelli ed entrò in diverse commissioni diocesane, sicchè ebbe parte non
indifferente nel governo generale della diocesi.
Ma il suo nome è rimasto principalmente legato al Seminario, dove s'impose per dottrina e pietà,
lasciando un'impronta indelebile del suo magistero elettissimo.
Era l'uomo del sacrificio, della povertà, della carità. Proveniente da agiata famiglia, rinunciò per se alle
ricchezze avite delle quali si servì soltanto per beneficare, sottoponendo la propria persona ad un
regime di stretto rigore che in piena buona fede poteva coesistere con quella accentuatissima vita
interiore alla quale, con esemplare spirito di rinuncia, s'era interamente votato.
Allorchè mori furono asportati dal caminetto del suo studio pezzi di legna smozzicati dai tarli, perchè
egli, seppure sensibilissimo al freddo, aveva mai voluto usufruire del conforto di un po' di calore,
nemmeno negli inverni più duri.
Tanto, però, era rigoroso verso se stesso, quanto comprensivo, indulgente e generoso con gli altri. Al
mattino, quando si recava in cattedrale e da questa ne usciva per tornare in seminario, i poveri
facevano ala al suo passaggio. Nessuno rimaneva, senza l'aiuto della sua carità, che egli versava con
umiltà, quasi fosse lui a ricevere l'elemosina.
Per i seminaristi aveva sollecitudini paterne, sovvenendo anche di persona alle necessità dei più
poveri, i quali spesso alla sera trovavano sul proprio letto, come fossero piovuti dal cielo, indumenti o
libri.
Dietro la sua austera persona si celavano bontà di cuore e comprensione di intelletto. Il suo spirito se
ne serviva per vigilare il suo mondo interiore e per trattare debitamente con quello esteriore. Tutto
donava, oltre ogni speranza, evangelicamente.
Così, se a rievocare la figura di mons. Donati potrebbe tornare facile e piacevole attingere ad innumeri
episodi della sua esistenza benefica, il nostro pensiero ritroverà pur sempre l'espressione sintetica
del suo carattere e la certezza dell'immagine nell'edificante condotta di vita, che fu motivo di esempio
e sprone a virtù.
La sua esistenza ritiratissima fu interamente volta alle cure del seminario, dove con umiltà, saggezza
e fermezza, formò tre generazioni di sacerdoti. Uomo dotto, di tratto signorile e di innata cortesia, non
v'era regola di protocollo o di etichetta che lo ponesse in imbarazzo nel rendere i dovuti onori alle
personalità anche eminentissime che si avvicendarono nell'Istituto nel lungo periodo in cui egli ne
resse le sorti.
La sua oratoria, non ricercata e spoglia di infiorature e preziosismi, era incisiva e toccava il cuore,
perchè l'era in essa tutta la convinzione d'una Fede e l'ardore di una Carità. Questo dono di natura egli
serbò peraltro ai soli seminaristi nelle conferenze formative che teneva loro ogni giovedì ed in quelle
domenicali di catechesi.
In quei momenti appariva come trasfigurato dalla grazia e la sua parola penetrava nella mente e
nell'animo degli allievi, lasciandovi un'impressione profonda.
Di grande umiltà, ricusò altissime dignità e si sforzò di nascondere le subite onorificenze, le relative
insegne e persino la sua persona.
Recatosi nella fredda mattinata del 3 marzo 1929 a Rimale per prender parte ai funerali di
quell'arciprete don Emilio Dotti, volle, benchè sconsigliato, coprire l'itinerario a piedi e per di più poco
coperto. Questa trascuratezza gli fu purtroppo fatale. Una polmonite, sopravvenuta alla grave
costipazione contratta, lo trascinò in soli sei giorni alla tomba.
La sua salma, per espresso desiderio dell'estinto, fu inumata nella cappella di famiglia nel cimitero di
San Rocco.
DONATI ISAURO
Educatore, nato a S. Andrea di Busseto 1'8 maggio 1894; morto a Fidenza 1'11 settembre 1947.
Isauro Donati
Entrò undicenne nel Seminario diocesano e fu ordinato sacerdote il 30 novembre 1920.
Uomo di alta spiritualità, per la dirittura della vita, sorretta da alto spirito di sacrificio, di abnegazione
e di dedizione, fu chiamato a ricoprire importanti e delicate mansioni.
Già al tempo dell'ordinazione era stato preposto a coadiuvare in curia il cancelliere vescovile canonico
Ettore Bricchi, malfermo in salute, del quale prese il posto il 22 novembre 1922, insegnando
contemporaneamente in seminario diritto canonico.
lI 12 agosto 1924 il vescovo Giuseppe Fabbrucci lo volle nel capitolo della cattedrale quale canonico
penitenziere ed in pari tempo Io nominò direttore spirituale del seminario. Lo stesso vescovo, a
testimonianza della considerazione in cui lo teneva, gli affidò pure l'incarico di delegato vescovile per
l'Azione Cattolica ed anche in questo campo lo zelante sacerdote dette prova delle sue capacità
organizzative contribuendo allo sviluppo in diocesi della milizia della Chiesa.
Il 21 giugno 1934 Pio XI l'annoverò fra i suoi camerieri segreti e mons. Mario Vianello, a conferma della
fiducia in lui riposta dal suo predecessore, gli attribuì la presidenza nella Pontificia Opera di
Assistenza.
Accanto a questa intensa attività esteriore, va segnalata in mons. Donati una non meno intensa attività
interiore. Si alzava ogni giorno all'alba per la prima messa in cattedrale, attendendo poi per più ore al
confessionale. Fondò e diresse le congregazioni del Sacro Cuore e di San Vincenzo de' Paoli,
infondendo nell'una fiamme di vero amore per Gesù ed esplicando nell'altra un'intensa opera di carità
verso i poveri.
Confessore e direttore spirituale dei vari Ordini religiosi femminili della città, produsse il bene
elevando le anime, con la parola e con il consiglio, al sacrificio ed all'eroismo. Fu pure fondatore, nella
vicina Cabriolo, dell'orfanotrolio Regina Pacis, creando la dolcezza domestica ad una ventina di
orfanelle.
La sua figura passò presso il clero ed il popolo circonfusa da un'aureola di alta venerazione. Morì a
soli 53 anni di età e fu sepolto nella cappella dei canonici nel cimitero urbano di Fidenza.
DONATI MARIA ANNA
Benefattrice, nata a Sant'Andrea di Busseto I'11 febbraio 1847; morta a Castelvetro il 30 giugno 1935.
Sorella di mons. Giacomo, in precedenza ricordato, manifestò a sua somiglianza nobiltà di sentimenti e
generosità di cuore, sorrette da una fede vigorosa.
A Castelvetro, dove s'era trasferita dopo il suo matrimonio con un funzionario del Comune, Cesare
Duri, seppe circondarsi di stima e di affetto per rettitudine, bontà e carità.
Provvista di un patrimonio atto a garantirle l'agiatezza, era tanto rigorosa verso se stessa quanto
liberale verso gli altri.
Nel 1930, per consiglio del prevosto Alessandro Onesti, fondò in parrocchia l'Asilo infantile Maria
Immacolata, donando a questo scopo un fabbricato e disponendo, a sue spese, per la costruzione di un
altro, attiguo, porche l'istituto avesse una sede conveniente.
Larga di beneficenze verso il Seminario diocesano, poco prima della morte lasciò per testamento
all'opera delle opere le intere sue sostanze, che ne costituiscono ancor oggi il maggior cespite.
DORDONI ANTONIO
Incisore, nato a Busseto agli inizi del 1500; morto a Roma nel 1584.
Si affermò come uno tra i più abili incisori di gemme del suo tempo e come tale è ricordato da
Francesco Gori nella sua Storia della glittica, edita a Venezia nel 1767.
Morì a Roma, dove svolse la propria attività, ed ebbe sepoltura nella chiesa di S. Maria d'Aracoeli.
DORDONI
Famiglia notabile
di Busseto.
Buonafede Vitali junior ne ricostruì l'albero genealogico, che inizia con certo Maffeo, vivente nel 1465.
Esponenti di questo casato si distinsero nella vita pubblica e nella carriera ecclesiastica: tra essi,
Gaspare, giureconsulto vivente nel 1568; altro Gaspare e Girolamo, viventi entrambi nel 1684 e
canonici della Collegiata di Busseto; Ippolito, creato conte nel 1751 ; Annibale, capitano di cavalleria
(+1749) ; Giacinto, Antonio e Lazzaro, canonici lateranensi viventi nel 1760. La famiglia annovera inoltre
anziani della Comunità di Busseto: i ricordati avv. Gaspare ed Annibale, Camillo e Giuseppe, questi
ultimi creati rispettivamente nobile di Parma nel 1688 e conte nel 1751.
Da ricordare infine Ippolito, benefattore insigne, fondatore nel 1656 di un Monte di Pietà, e, per lo
stesso titolo, Giulio, che diresse il Civico Ospedale con sollecitudine e carità e che ancora si prodigò al
bene dei suoi concittadini come podestà, carica che gli era stata conferita il 30 maggio 1813.
DOTTI PIETRO
Filosofo e letterato, nato a Busseto il 12 maggio 1833; morto a Milano il 13 aprile 1911.
Denotò giovanetto inclinazione per la pittura, che studiò sotto la guida del concittadino Stefano
Barezzi. Abbracciato lo stato ecclesiastico, fu alunno del Seminario diocesano, ma, dopo un triennio,
svestì l'abito che non sentiva adatto per sè, pur nutrendo fervidissimo il sentimento religioso.
Voltosi nuovamente all'arte, frequentò a Parma quell'Accademia, approfondendo in pari tempo la
propria cultura letteraria e filosofica. Per meglio anzi attendere a quest'ultima, abbandonò in seguito
la pittura e si recò a Firenze, dove entrò in consuetudine amichevole con eminenti uomini di pensiero
tra i quali Augusto Conti, la cui opera egli prese in esame in uno studio dal titolo I criteri della filosofia,
dato alle stampe nel 1864 con i tipi Cellini.
A Genova, avendo ottenuto nel frattempo la cattedra di lettere nell'Istituto tecnico di Sampierdarena,
pubblicò l'anno successivo una lettera sulla storia della filosofia del Conti. Ad essa seguirono altre
nove lettere su l'educazione della donna e due dialoghi su l'arte e l'esistenza di Dio.
Si occupò anche di critica d'arte e letteraria, illustrando opere di artisti e di autori celebrati, in
particolare dello scultore genovese Giambattista Villa, e pagine scelte di Giovanni Dupré. Lasciò infine
incompiuta La questione sociale, importante studio sempre di attualità, nel quale, rilevando come
troppo spesso si snaturasse il concetto di libertà col commettere in suo nome ogni sorta di abusi,
richiamava ad una visione cristiana dei problemi del momento, che appunto nel cristianesimo — e non
in dottrine sovvertitrici dell'ordinamento sociale — avrebbero trovato giusta soluzione.
Nominato nel 1867 professore di filosofia nel Liceo di Udine ed in seguito direttore dell'Istituto
magistrale di quella città, passò dopo sei anni a Firenze, insegnante di storia civile in quel Magistero
superiore femminile. Trasferito a Padova in qualità di direttore della Scuola normale della città e di
professore di pedagogia e morale, passò successivamente a Camerino, Belluno, Reggio Emilia, Pisa e
Verona, ovunque apprezzatissimo.
Aveva improntato il suo sistema didattico-educativo a bontà, giustizia e severità non disgiunte da un
partecipe calore umano che gli permetteva di ravvivare le proprie lezioni con opportune digressioni
etiche e sociali, ch'egli traeva dalla storia delle sue letterature e dall'ingegno aperto ai più diversi
interessi.
Lasciando la scuola per raggiunti limiti di età, il Dotti non interruppe la sua missione di educatore.
A Milano, dove trascorse gli ultimi anni di vita, pubblicò articoli e opuscoli sull'insegnamento, animati
da inconcusso amore alla religione, alla gioventù, al popolo; ripetendo instancabilmente il suo grido di
riforma delle idee e di purificazione dei costumi, preferenza ammonitrice che, malgrado una vena di
pessimismo contenuta nel giudizio, dovuta al carattere d'ingenuità nativa dell'uomo, riveste la maestà
di un esempio che fa riverenti e pensosi.
ELETTI FRANCESCO
Letterato, nato a Busseto il 10 febbraio 1723; morto ivi il 22 giugno 1801.
Sono ignote le vicende della giovinezza e degli studi compiuti da questo insigne bussetano, prima che
egli si facesse sacerdote.
11 concittadino Pietro Vitali, nell'orazione funebre da lui tenuta, lo definisce dotto nelle lettere, nella
storia, in ogni scienza sacra e profana, distinto scrittore e poeta.
Per un anno l'Eletti insegnò latino nelle pubbliche scuole di Busseto e per otto rettorica in quelle di
Cortemaggiore.
Stabilitosi definitivamente nel paese natale, avendo ottenuto la nomina a censore nelle scuole maschili,
fondò in collaborazione con i fratelli Fabio e Buonafede Vitali l'Accademia Emonia, della quale fu
custode con il nome di Aldonio Capso.
E' autore di notevole numero di poesie.
Il Seletti elenca, fra le composizioni inedite. centotrentotto sonetti, undici cantate, due madrigali, otto
lodi, tre anacreontiche, quattro epistole, un inno in latino a Bernardino da Siena, un epigramma pure in
latino ed altri, vari per metro e per forma.
Fra quelle date alle stampe e da lui conosciute, i seguenti altri sonetti: A. S. Antonio di Padova , A Maria,
Venerdì Santo, Per la beatificazione di p. Lorenzo da Brindisi, Per la inaugurazione dell'Oratorio della
Madonna detta Rossa in Busseto, Per il quaresimale del p. Sigisntondo da Spineta, In lode del
predicatore p. Serafino da Lodi, Per i sacri voti dati dalla bussetana Marianna Carrara, In lode del
predicatore p. Angelo della Croce, In lode del p. Melchiorre Cappa, Per la Vestizione dell'abito monacale
di Marianna Tosi; infine una cantata epicedica al sepolcro eli Gesù.
FERRARI GIORGIO
Educatore e benefattore, nato a Busseto il 2 aprile 1690; morto ivi il !3 aprile 1781.
Nacque da Pompeo, ricco possidente, e da Angela Cecilia dei marchesi Manara di Parma.
Giovanetto, fu istruito nel paese fatale dai Gesuiti e, sorta in lui la vocazione al sacerdozio, entrò a
Parma nella Congregazione di San Filippo Neri.
Ricevuta la sacra ordinazione a Bologna nel 1711, per circa quattro lustri si dedicò in quella diocesi al
ministero della parola ed alla cura dei fanciulli, meritando la stima del cardinale Lambertini, il quale lo
volle fra i suoi esaminatori sinodali.
Nel 1734 si stabilì definitivamente a Busseto, dove spiegò opera intensa di apostolato e profuse il suo
patrimonio in opere di carità.
A riconoscimento delle insigni benemeenze acquisite, Filippo di Borbone, duca di Parma, gli conferì il
titolo di conte ed il successore di questi, Ferdinando, lo nominò nel 1768 preside delle pubbliche scuole
locali per gli esercizi di pietà.
Fu pure rettore della chiesa di Sant'Ignazio in Busseto ed ebbe dal Sommo Pontefice il titolo di
protonotario apostolico.
Si dilettò di poesia e fece parte dell'accademia Emonia con il nome di Abdesio Epidaneo.
Lasciò cinque Novene in preparazione a feste religiose, che furono oggetto di ristampa, sermoni sulla
Vergine Santissima, dialoghi, orazioni, oltre a svariati componimenti poetici.
FOGAROLI MARC'AURELIO
Prevosto di Busseto e storiografo, nato a Fidenza il 4 giugno 1573; morto a Busseto il 26 settembre
1637.
Apparteneva a preclara famiglia oriunda da Venezia e stabilitasi a Fidenza intorno all'anno 1340.
Vestì giovanissimo l'abito talare e fu ordinato sacerdote il 20 ottobre 1597 a Piacenza da quel vescovo
Claudio Rangoni.
Eretta Borgo San Donnino in sede episcopale, il primo vescovo, mons. Papirio Picedi, lo nominò nel
gennaio 1604 esattore delle decirne e galere ed in seguito fiscale del vescovado; il 27 aprile 1606 fu
annoverato nel capitolo della cattedrale.
Le molteplici attività non gli impedirono di continuare gli studi all'Università di Bologna e di conseguire,
il 2 settembre 1613, la laurea in ambo le leggi.
Mons. Giovanni Linati, successo a mons. Picedi nel governo della diocesi fidentina, lo volle il 14 ottobre
1608 tra i suoi esaminatori sinodali ed in tale ufficio lo confermò il 15 ottobre 1615, designandolo inoltre
a giudice delle cause delegande.
Rimasta vacante la cattedra episcopale di San Donnino per promozione di mons. Linati a quella di
Piacenza, il capitolo elesse il Fogaroli vicario capitolare ed il nuovo vescovo, mons. Alfonso Pozzi, lo
nominò suo vicario generale.
Per sei anni egli fu di questo presule fedele collaboratore, meritandone la stima per lo zelo assiduo, la
saggezza e la prudenza che poneva nell'assolvere i gravosi compiti inerenti alla carica che ricopriva; il
7 maggio 1621 il Pontefice Gregorio XIV lo elevò alla dignità di protonotario apostolico.
Alla morte di mons. Pozzi, seguita il 25 agosto 1626, rinunciò ad ogni attività di governo in seguito a
divergenze sorte con gli altri membri del capitolo e si ritirò a Busseto come semplice canonico della
collegiata di San Bartolomeo.
Sostenuto dai Pallavicino, il 13 ottobre 1631 fu destinato a reggere quella parrocchia come prevosto,
ma, ormai avanti in età, potè spiegare il proprio ministero per soli sei anni, durante i quali si dimostrò
sollecito nel procurare il bene alla popolazione bussetana.
A lui si deve, fra l'altro, l'istituzione al 25 giugno dell'annuale festa delle Ss. Reliquie, che numerose e
preziose si conservano nella chiesa di San Bartolomeo in apposita cappella.
Allorchè morì ebbe sepoltura nella collegiata ai piedi della scalinata di accesso al presbiterio, accanto
al suo predecessore mons. Carlo Fusteri.
Nell'Archivio della Cancelleria vescovile è conservata di mons. Fogaroli una curiosa cronistoria dal
titolo Memorie patrie, che inizia con l'anno 1615 e termina con il 1630 e che altri provvidero poi,
seppure saltuariamente, a continuare. Tra questi, principalmente, il nipote del prelato, Girolamo
Fogaroli, il quale pure redasse, accludendoli al volume manoscritto, cenni biografici dello zio prevosto.
Tale cronistoria riporta notizie spicciole relative alla vita fidentina di quel periodo e solo in minima
parte diocesana e generale.
FORNARI AMBROGIO
Giureconsulto, nato a Busseto nel 1602; morto a Parma nel 1679.
Conseguì a Parma la laurea in entrambe le leggi ed esercitò in quella città la professione fintanto che,
sorta in lui la vocazione al sacerdozio, intraprese la carriera ecclesiastica.
Dal 1664 al 1667 fu canonico della collegiata di Busseto, al cui altare dell'Immacolata fondò un beneficio
semplice sotto il titolo di San Gregorio vescovo, al quale assegnò una cospicua dote.
Morì a Parma, nella cui diocesi era stato incardinato, ed ebbe sepoltura nella chiesa dell'Annunziata di
quella città.
FULCINI BENEDETTO
Letterato, nato nel 1740; morto a Busseto il 21 ottobre 1811.
E' ricordato da Emilio Soletti come buon letterato e valente oratore.
Canonico della collegiata di San Bartolomeo, fu annoverato a Busseto tra i soci dell'accademia Emonia.
Con lo pseudonimo di Elimanto Doricrenio lasciò ispirati sonetti che vennero pubblicati in raccolte di
poesie.
FUSTERI CARLO
Prevosto di Busseto, nato nel 1553; morto a Busseto il 23 aprile 1628.
Si laureò a Parma nelle leggi civili e canoniche; prima di essere nominato nel 1613 prevosto di Busseto,
era stato per ventidue anni canonico di quella Collegiata.
Ebbe con mons. Giovanni Linati la nota lite descritta al paragrafo riguardante la vita di quel vescovo
fidentino e, per tale ragione, fu sospeso a divinis con editto del vicario e cancelliere vescovile affisso
in pubblico il 14 aprile 1615 e dal prevosto dichiarato nullo con altro editto da lui stesso emanato.
(La causa pendente tra lui ed il vescovo pro-tempore per una questione di diritto inerente ad una
pretesa giurisdizione della collegiata di San Bartolomeo sulle chiese dei vicariati di Busseto e
Monticelli d'Ongina, senza alcuna dipendenza dal vescovo diocesano)
Il Fogaroli lo definisce «homo gioviale, da bene e prudente assai, ma di poche lettere».
Nei tre lustri di ministero si rese benemerito per l'opera assidua da lui spiegata nell'incrementare nel
popolo, con varie iniziative, la fede e la pietà.
La sua salma riposa nella Collegiata bussetana in un sepolcro situato ai piedi della scalinata di accesso
all'altare maggiore.
GELATI GIROLAMO
Pittore ed ornatista, nato a Busseto l'11 gennaio 1797; morto Parma il 7 giugno 1862.
Studiò pittura a Parma ed insegnò poi a lungo in quell'Accademia di Belle Arti, dove ebbe fra gli altri a
discepoli il Giacopelli e il Magnani.
Fra i molti suoi lavori, degni tutti di considerazione, ricorderemo i disegni che ornano a Parma le sale
della civica Biblioteca e del Museo d'Antichità e gli ornati che si ammirano nel Teatro Regio, in alcune
sale dell'ex Palazzo Ducale e nelle chiese di Santa Maria Maddalena e della SS. Trinità.
Esegui dipinti nel Santuario di Fontanellato e lasciò pregevoli opere a Guastalla, a Pontremoli e in altre
località
Poco prima che la morte lo cogliesse a Parma, dove abitualmente risiedeva, era stato incaricato
dall'autorità comunale bussetana di allestire cartoni per gli ornati al Teatro Verdi, lavoro da lui iniziato
e che altri provvidero ad ultimare.
GHIRARDELLI DELFO' FRANCESCO
Letterato, nato a Busseto il 9 maggio 1745; morto a Brescia il 12 ottobre 1815.
Francesco Delfò Ghirardelli
Ritratto di G. Levi nel Civico Museo di Busseto
Apparteneva a famiglia non ricca, ma di illustre casato. Il padre, Marco, fu capitano comandante la
piazza di Busseto ed infine colonnello nell'esercito ducale; la madre, Marianna Anguissola, era
nobildonna piacentina.
Iniziò gli studi nel paese natale sotto la guida dei Gesuiti e intraprese poi quelli di filosofia a Brescia.
Il 6 ottobre 1763 entrò nella Compagnia di Gesù; dopo essersi trattenuto per circa un lustro a Bologna
a studiarvi fisica, nel 1768 rientrò a Busseto, completò la propria cultura teologica e nel 1770 fu
ordinato sacerdote.
Nei primi anni di ministero si dedicò alla sacra predicazione, ma le precarie condizioni di salute lo
costrinsero a rinunciare all'oratoria, per cui, stabilitosi a Busseto, alternò alle cure per
l’insegnamento quelle per le belle lettere.
Annoverato tra i soci dell'Accademia Emonia, compose poesie con lo pseudonimo di Erinnio Sotero ed
ottenne dal duca di Parma la nomina ad accademico nel Collegio ducale di Santa Caterina di quella
città, carica che gli conferiva la direzione delle accademie e delle rappresentazioni teatrali.
Questa attività sviluppò in lui l'inclinazione all'arte letteraria drammatica, nella quale si affermò con le
tragedie Focione, Corone, Socrate e Oberto (Pallavicino), rappresentate con successo a Parma,
Brescia, Venezia ed altrove.
Nel 1780 fu preposto all'insegnamento di rettorica nelle pubbliche scuole di Parma e, tre anni dopo, di
poetica in quell'Università. In seguito ottenne all'ateneo anche la cattedra di lettere, dalla quale fu
tuttavia estromesso per le censure che gli procurarono le sue convinzioni in materia, troppo legate ad
un'epoca ormai superata dall'affermazione di nuove idee.
Accettò l'incarico di precettore dei figli del conte Carlo Antonio Gambara di Brescia, che gli era stato
allievo, e Io mantenne, ricusando nel 1814 l'invito ad occupare la cattedra di lettere nella rinnovata
Università parmense.
Durante il soggiorno nella città lombarda compose poesie ispirate ed è anche autore di un poema
didascalico-narrativo dal titolo Il Giardino Picenardi, che, considerato il suo migliore lavoro, fu dato
alle stampe tre anni dopo la morte del Ghirardelli con i tipi Carmignani in Parma.
Nonostante la critica sia concorde nel definire l'abate bussetano poeta imitatore piuttosto che
originale, i versi del Ghirardelli furono lodati dal Monti, dal Pindemtonte e da altri insigni
rappresentanti del mondo letterario.
Fra la sua numerosa produzione, oltre alle opere citate, ricorderemo Odi e Anacreontiche, Poesie,
Sonetti, Epigrarnnri, Iscrizioni latine, cantici, idilli, lettere dedicatorie e prefazioni. Fra i lavori inediti,
vari componimenti poetici per le accademie del collegio di Santa Caterina e degli Ottimati
nell'Universita di Parma, odi, dissertazioni, panegirici.
Il Ghirardelli fu socio onorario di varie accademie. Morì nel palazzo del mecenate Gambara ed ebbe
sepoltura nel cimitero urbano di Brescia.
GUARESCHI GIOVANNI
Scrittore, nato a Fontanelle (Pr) il 1° maggio 1908; morto a Cervia il 22 luglio 1968.
Giovannino Guareschi
Nasce a Fontanelle di Roccabianca (PR)
Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi
figlio di Lina Maghenzani, maestra elementare del paese, e di Primo Augusto, negoziante di biciclette,
macchine da cucire e macchine agricole.
La casa natale è anche sede della «Cooperativa Socialista» che, in occasione della «Festa del Lavoro»,
ha organizzato un comizio. Le bandiere rosse delle sezioni socialiste della Bassa si ammassano sotto
le finestre di casa Guareschi.
Nel 1952 si trasferisce con la famiglia alle Roncole (PR).
L'ideatore di Peppone e Don Camillo è stato uno dei più importanti intellettuali civili italiani del
Novecento, attività che lo ha contraddistinto sia come uomo che come giornalista e scrittore.
Iniziò giovanissimo a fare il giornalista nella città emiliana, ma emigrò in altrettanta giovane età a
Milano. Povero e solo, ma dall'animo forte e difficilmente influenzabile, si mette a scrivere per la
rivista umoristica dell'epoca, il Bertoldo non curandosi affatto delle possibili reazioni del regime
fascista allora dominante in Italia (che anzi Guareschi non perde occasione di sbeffeggiare). Sono gli
anni trenta, quelli del pieno plebiscito, sul piano popolare, del regime.
Ma gli effetti di questa "militanza" indesiderata si fanno presto sentire. Scoppia la seconda guerra
mondiale, l'Italia adotta, scimmiottando la Germania nazista, una politica espansionista ma anche
razzista e sempre più intransigente nei confronti delle voci di dissenso. Lo scrittore subisce quindi una
traumatica sorte: catturato e incarcerato, nel 1943 viene deportato in Germania e poi in Polonia.
Dopo due anni di Lager torna in Italia e fonda Il Candido, un altro settimanale di satira. Malgrado la
brutta esperienza della carcerazione e del campo di concentramento, la lingua dello scrittore non si è
certo ammorbidita. Sul Candido conduce battaglie antigovernative e "antipolitiche", senza risparmiare
però neanche la fazione comunista e di sinistra.
Nel 1954 è di nuovo agli arresti, con la scusa di aver pubblicato compromettenti lettere (poi risultate
false), dell'allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Nel frattempo aveva dato vita con Mondo
Piccolo alla saga di Don Camillo e Peppone, figure contrapposte di due tipiche anime dell'Italia post
bellica. Don Camillo, infatti, rappresenta la figura dell'antifascista furbo e rispettoso dello "status
quo", mentre Peppone è un sindaco comunista ortodosso, petulante, ma sostanzialmente buono. Dai
romanzi che vedono protagonisti i due personaggi sono stati tratti in seguito anche numerosi film.
Ad ogni modo, a fronte del grande successo popolare, la critica e gli intellettuali tendono a snobbarlo,
a causa soprattutto della semplicità di linguaggio utilizzata e di una certa patina di ingenuità un po'
"naif" che pervade i suoi scritti. Ma dietro l'umorista si nascondeva un uomo che ha dovuto soffrire
disagi, umiliazioni, dolori e tradimenti (girò anche la voce, priva di fondamento, che fosse finanziato
dalla Cia). Molti tra i suoi più toccanti racconti sono in realtà trasposizioni di fatti reali che hanno
inciso la sua anima fin nel profondo.
Successivamente, per fortuna, fu ampiamente "sdoganato". La rivista "Life" riconobbe il suo
fondamentale contributo, e lo definì come "il più abile ed efficace propagandista anticomunista in
Europa", mentre Indro Montanelli ha più volte elogiato l'uomo e l'amico, fino ad affermare: "C'è un
Guareschi politico cui si deve la salvezza dell'Italia. Se avessero vinto gli altri non so dove saremmo
andati a finire, anzi lo so benissimo".
Muore a Cervia il 22 luglio 1968 dopo aver passato gli ultimi anni di attività dietro le quinte e po'
dimenticato da lettori e critica. Silente in un mondo in cui si riconosceva sempre meno.
LEVI ALESSANDRO
Medico e letterato, nato a Busseto il 17 giugno 1813; morto a Parma il 27 ottobre 1859.
Fu medico distinto e buon letterato e come tale giudicato da Emilio Seletti meritevole di essere
annoverato nella sua opera tra gli illustri bussetani.
Scrittore dotto ed elegante, furono pochi i suoi lavori dati alle stampe; numerosi, invece, gli inediti,
andati per incuria dispersi.
LEVI ISACCO GIOACCHINO
Pittore, nato a Busseto il 2 novembre 1818; morto ivi il 28 gennaio 1908.
Gioacchino Levi
Autoritratto nel Civico Museo di Busseto.
Figlio di Angelo e di Sara Fano, apparteneva a distinta famiglia israelita bussetana, abitante in un
austero edificio tuttora esistente a metà circa della via principale della città. Una lapide, murata sulla
facciata, rammenta con brevi parole come nella casa avesse avuto i natali questo valente artista.
Gioacchino Levi denotò giovanissimo spiccata inclinazione alla pittura, che studiò a Parma in
quell'Accademia di Belle Arti, dove si fece anzi talmente onore da meritare due medaglie d'oro per due
studi sul nudo e la mezza figura e, nel 1849, il gran premio annuale per la migliore opera pittorica, che
gli consentì di recarsi a Roma a perfezionarsi.
Le sue opere, tendenti all'antica scuola italiana, rivelano una personalità spiccatissima e destano
ammirazione per vigoria di disegno, per armonia d'insieme, per colore e finitezza. Non fu, come molti
contemporanei, artista ammanierato, ma seguace del vero, studioso della natura e fedele interprete
delle sue manifestazioni.
Dipinse quadri storici e mitologici, ritratti, affreschi.
A Busseto se ne conservano numerosi, sparsi un po' ovunque: nel Monte di Pietà una tela
commernorativa della fondazione di quell'istituto ed aria preziosa collana di ritratti dei principi
Farnese e di altri sovrani che regnarono a Parma; nel Teatro Verdi i quattro affreschi illustranti la
Commedia, la Tragedia, il Melodramma ed il Dramma romantico; nel Civico Museo ritratti, studi e un
Prometeo.
Altre opere figurano, sempre a Busselo, in private collezioni: la famiglia Muggia, ad esempio, conserva
del Levi cinque ritratti di familiari del pittore, tra cui quelli del padre e della moglie, oltre a bozzetti e
ad una tela raffigurante la creazione del mondo; la famiglia Braibanti schizzi, bozzetti ed un
autoritratto a penna.
Tra le opere più significative di questo artista ricorderemo quelle a soggetto biblico Appendemmo le
nostre cetre ai salici, eseguito su commissione della Società parmense d'Incoraggiamento alle Belle
Arti, Giobbe giacente, Ofelia, Silvia ed Aminta e La lettura sacra. Tra i lavori a soggetto vario, L'esilio
dei milanesi nel 1162. Madonna Cia degli Ubaldini, Il cantastorie e la venditrice di numeri e quattro
dipinti fantastici ispirati al Levi dai versi di Sakespeare: Titania, Ariel, Oberon e Puck.
Nella pittura a Tresco lasciò opere assai lodate specie in chiese della Lombardia: a Limbrate Milanese
un'Annunciazione ed una Nascita di Gesù in quella Chiesa arcipretale; a Mondovì, in Cattedrale, le figure
di S. Bernolto, di S. Evasio e di S. Cecilia.
E' però opinione diffusa che i suoi migliori lavori si trovino in Turchia, perchè da lui eseguiti per
commissione di quel sultano.
Di carattere stravagante, fu più pittore di merito che di fortuna. Sposò la bussetana Clelia Cavitelli
Marziani, di fede cattolica, che lo lasciò vedovo con due figli, un maschio ed una femmina, e che egli
volle fosse sepolta nel locale cimitero in una sontuosa tomba sulla quale spicca un artistico busto in
bronzo della compagna della sua vita.
G. Levi, Ritratto della moglie
Busseto, Civico museo
Dal 1856 al 1859 insegnò come maestro di figura al Collegio Convitto Nazionale di Torino, dal 1860
all'Accademia Militare di Milano. Per le sue benemerenze venne anche annoverato quale socio onorario
nelle accademie di Belle Arti di Urbino e di Parma.
Fu pure piacevole scrittore. Una sua novella, Il barbiere suonatore, ebbe tale successo da
rammentare, per la felice intuizione psicologica del protagonista — una figura semplice di sognatore
della strada — opere di larga risonanza quali Il vagabondo di Jean Richepin, Il viandante di Tomaso
Monicelli e La camminante di Gustavo Luigi Ferri.
MACCOLINI EMILIO
Caduto di guerra, nato a Busseto il 29 settembre 1908; morto a Galaminò Debrì (Valle del Gabat Etiopia) il 21 gennaio 1936.
Trascorse l'adolescenza in Romagna, frequentando il liceo di Faenza. Laureatosi in chimica a Bologna,
s'impiegò farmacista nell'ospedale di Prato: era anche giornalista, corrispondente de La Nazione.
Allo scoppio della guerra italo-etiopica, vi partecipò volontario con il grado di sottotenente di
artiglieria.
Destinato alla divisione « 23 Marzo » e prescelto a prestare servizio presso il comando, chiese ed
ottenne di essere inviato in linea, prendendo parte, con la compagnia Ferruccio Ferracci, alla battaglia
impegnata nella Valle del Gabat contro ingenti e ben organizzate forze nemiche.
All'inizio del combattimento, vista la difficoltà che incontrava l'avanzata dei suoi legionari per la
molestia arrecata da gruppi di avversari appostati in posizioni mascherate fra le rocce, si offri di
comandare una pattuglia ardita e con un deciso colpo di mano, dopo aver attraversato un lungo tratto
di terreno scoperto ed intensamente battuto dal fuoco dei nemici, riuscì a snidare da una caverna forti
nuclei abissini ed a neutralizzare la loro azione di disturbo.
Mentre era intento a completare la rischiosa operazione nell'intricato sistema di caverne
intercomunicanti, udiva tra gli spari dei nemici grida di soccorso da parte di un commilitone ferito.
Raggiunto senza alcuna esitazione il legionario, veniva proditoriamente colpito a morte e spirava tra le
braccia del proprio subalterno che aveva voluto salvare a prezzo della vita; esempio sublime di sereno
coraggio e di generosa solidarietà.
Alla memoria dell'eroico ufficiale venne concessa la medaglia d'oro.
MAJAVACCA
Famiglia notabile
di Busseto, che si distinse, in particolare, nella carriera forense.
Un giudice di tutte le cause del Foro di Parma figura già ai primi decenni del 1400 nell'albero
genealogico compilato da Buonafede Vitali iunior e pubblicato da Emilio Seletti nelle sue memorie
storiche bussetane.
Un Gian Martino fu dottore del collegio parmense nel 1505 ed altri esponenti fecero parte degli anziani
del Comune di Busseto o ricopersero importanti cariche pubbliche.
Lo stesso Vitali, sulla scorta di molti documenti consultati, ritiene di poter affermare che i Majavacca
fossero nobili, osservando a questo proposito che in tali atti essi ricorrono con il titolo di dominus o eli
nragnificus, equivalenti a nobilis.
Dettero anche lustro a questa famiglia, estintasi agli inizi del XIX secolo, i sotto ricordati Giannantonio
e Gian Martino.
MAJAVACCA GIANNANTONIO
Teologo e predicatore, nato a Busseto sulla fine del XVsecolo; morto a Venezia intorno alla seconda
metà del 1500.
Entrò nei frati minori di San Francesco come il fratello Cornelio, che in quest'ordine raggiunse nel
1569 la dignità di ministro per la provincia di Bologna.
Fu teologo e predicatore di fama, oltre che buon letterato. Emilio Seletti ricorda come egli avesse
pubblicato nel 1532 un sonetto contro Lutero, che padre Giovanni da Fano volle inserire
nell'introduzione alla sua opera intesa a confutare le eresie del riformatore tedesco.
Ricopri per alcuni anni la carica di guardiano nel convento di Busseto e molto predicò quale oratore
apostolico. Fu a Roma, invitato da Papa Paolo IV, a Firenze nel 1561 ed a Pisa nel 1562, chiamatovi dalla
duchessa Eleonora di Toscana; a Parma, dove fondò la confraternita delle Cinque Piaghe di Gesù, della
quale compilò i capitoli, ed in molte altre città.
A Roma istituì l'annuale orazione delle Quarant'ore e, per la sua santità, fu dallo stesso Paolo IV eletto
reggente fra i quattro del Concilio di Trento e dal successore di quel pontefice, Paolo IV, nominato
visitatore generale dei conventi del suo ordine in Lombardia, Romagna, Marche e Venezia.
Scrive il Da Erba che padre Majavacca “fu in vita reputato santo ed in Venezia, dove morì e fu sepolto,
dal popolo e dal Serenissimo Senato reputato santissimo”.
Le sue prediche, raccolte in manoscritti, andarono disperse e di lui non rimangono che il più sopra
ricordato sonetto ed i capitoli della confraternita delle Cinque Piaghe.
MAJAVACCA GIAN MARTINO
Giureconsulto e diplomatico, nato a Busseto nella metà del XV secolo; morto a Parma intorno al 1525.
Si addottorò in entrambe le leggi a Parma ed in quella città ricoprì importanti cariche pubbliche.
Fece parte del Collegio degli avvocati; nel 151 1 fu nominato propodestà dello stesso Comune e nel 1516
inviato ambasciatore a Milano con Girolamo Borra.
Eletto nel 1519 vice-referendario, nel 1520 uditore e luogotenente del governatore di Parma ed infine
nello stesso anno anziano della comunità, si occupò anche di belle lettere ed un suo epigramma latino
può leggersi nelle Collettanee in morte di Serafino Dall'Aquila, pubblicate a Bologna nel 1504 a cura di
Caligola Bazaliero.
E' sepolto nella cattedrale di Parma in un loculo recante una breve iscrizione da lui stesso dettata.
MARRI
Famiglia notabile
di Busseto, il cui albero genealogico, ricostruito da Buonafede Vitali junior, inizia con Giovanni, medico
vivente nel 1421.
Un Antonio (+ 1451) fu canonico della cattedrale di Cremona e successivamente della collegiata del
paese natale, come il nipote Gabriele (+ 1468); Giovanni Andrea, vivente nel 1496, medico stimato;
Matteo (+ 1527) giureconsulto e capitano di giustizia; Aurelio (+ 1629), Baldassarre (riv. nel 1533) e
Paolo (riv. nel 1585) anziani della Comunità di Busseto; Bartolomeo, cittadino cremonese, podestà di
Monticelli d'Ongina nel 1535.
Da un Marmetto, vivente nel 1421, i Marri vennero anche denominati Marmetti.
MARZIANI
Famiglia notabile bussetana
oriunda di Mantova, come si rileva dall'albero genealogico ricostruito da Buonafede Vitali junior, in
cima al quale figura un Melchiorre, nobile mantovano, eletto nel 1450 podestà di Busseto.
I Figli di questi, Girolamo e Francesco, si distinsero pur'essi, il primo come giureconsulto, podestà di
Borgo San Donnino nel 1523 e auditore generale dello Stato di Busseto nel 1533, il secondo come
medico.
Da questo casato uscirono anche sacerdoti, uomini d'armi e diplomatici.
Ultimo esponente del ceppo bussetano fu Sigismondo, cavallerizzo di campo dell'infante duca di Parma,
morto nel 1784.
MINGARDI DONNINO
Musicista, nato a Bastelli di Fidenza il 26 febbraio 1812; morto a Busseto il 12 settembre 1832.
Nacque cieco e fu iniziato alla musica a Busseto, dove giovinetto s'era trasferito con la famiglia, dal
mecenate Barezzi.
Dotato di non comune sensibilità musicale e di ottima memoria, divenne valente organista.
Giovane di belle speranze, morì di tubercolosi nel fiore degli anni, lasciando come compositore marce
per banda e canti per chiesa.
MUSINI CARLO
Medico, nato a Roccabianca (Pr) nel 1812; morto a Fidenza il 15 febbraio 1899.
Carlo Musini
Disegno di Francesco Scaramazza
Frequentò le scuole elementari a Busseto, dove ebbe a compagno Giuseppe Verdi con il quale si
mantenne sempre in cordiali rapporti di amicizia.
Proseguiti gli studi a Parma, conseguita la laurea ed assunto al servizio di medico condotto nel
Comune di Borgo San Donnino, oltre al disimpegno delle mansioni professionali ricoprì cariche di
importanza e responsabilità in pubbliche amministrazioni.
Nel 1856 venne decorato di medaglia d'argento alla carità coraggiosa per la cura e l'assistenza
prestata ai colerosi durante l'epidemia del Parmense del 1855.
Collocato a riposo nel 1887 dopo 44 anni di servizio, gli venne offerta per la circostanza dalla
popolazione una medaglia d'oro.
A Borgo San Donnino, dove morì ultraottuagenario, lasciò larga eredità di affetti e di riconoscenza.
E' padre del dr. Luigi, più sotto ricordato.
MUSINI LUIGI
Medico, patriota, combattente, giornalista ed uomo politico, nato a Samboseto di Busseto il 24 febbraio
1843; morto a Parma il 20 febbraio 1903.
Luigi Musini
Fidenza - Civico Museo - Racc. Musini
E' una delle più insigni figure parmensi del Risorgimento. La sua vita, ben afferma il Molossi, fu tutta un
susseguirsi di battaglie: militari, politiche, sociali ed umanitarie.
Sin dalla giovinezza manifestò generosità di spirito, nobiltà di sentimenti e grande amore alla patria ed
alla libertà. Sedicenne appena, fuggì di casa per arruolarsi volontario nell'esercito piemontese e l'anno
seguente si offerse di far parte della spedizione dei Mille, ma ne fu esonerato per la giovane età.
Potè realizzare l'aspirazione ad indossare la camicia rossa nel 1866 e, quale garibaldino, partecipò alla
campagna contro l'Austria, culminata nella celebre battaglia di Bezzecca.
Un anno dopo, si battè, accanto ai fratelli Giovanni ed Enrico Cairoli, a Villa Glori ed ancora a Mentana.
Nel frattempo, tra una battaglia e l'altra,aveva avuto modo di frequentare all'Università di Bologna la
facoltà di medicina e di dedicarsi al giornalismo, entrando nella redazione de Il Popolo, cui
collaboravano Carducci e Saffi.
Conseguita nel 1869 la laurea, l'anno successivo, accogliendo l'appello di Garibaldi, corse in difesa
della Francia. Iscritto come medico nella Legione Tanara, venne, dopo il combattimento di Paques,
promosso capitano sul campo e poi maggiore medico in capo della III Brigata al comando di Menotti
Garibaldi.
Durante le tre gloriose giornate di Digione, nel gennaio 1871, il Musini si trovò più d'una volta in pericolo
di vita. Giuseppe Garibaldi lo definì un medico che si batte ed il Governo francese, per le benemerenze
acquisite, lo decorò a guerra finita della Legion d'Onore.
Chiusa onorevolmente la parentesi sui campi di battaglia, ritornò a Fidenza accanto al padre, stimato
medico, e, fattosi caldo agitatore del partito democratico, istituì in città la Società democratica e
fondò e diresse Il Fidentino, vivace e polemico giornale di indirizzo mazziniano.
Passò poi in America meridionale ad esercitarvi la professione medica; ritornato dopo qualche anno in
patria, accettò il posto di medico condotto a Zibello e tale attività preluse ad una trasformazione della
sua fede mazziniana.
Il contatto quotidiano con la vita miserabile di tanta povera gente lo sospinse, quasi
inconsapevolmente, verso il socialismo, nel desiderio di contribuire, con probità di intenti, alla
redenzione sociale della classe contadina ed operaia.
Della nuova dottrina si fece pioniere ed apostolo, divenendo in breve assai popolare nella zona del
basso parmense. Gli scioperi agricoli iniziati a Pieve d'Olmi nel 1881 si vollero attribuire ai discorsi da
lui tenuti ai lavoratori dei campi.
Tre anni dopo, portato candidato politico nel Collegio unico di Parma, venne eletto deputato ed entrò in
Parlamento a rappresentare con Andrea Costa il nuovo partito. Prese posto, naturalmente, all'estrema
sinistra nel gruppo dei parlamentari più avanzati d'idee, spesso richiamato all'ordine dal presidente
per la forma ed il contenuto dei suoi discorsi.
Dopo essere stato volontario della carità a Napoli e a Palermo durante le epidemie coleriche che
imperversarono nel Mezzogiorno negli anni 1884-85, riprese l'attività politica e nel maggio 1889 vinse
nel Collegio di Imola l'ex sindaco di Bologna Gaetano Tacconi, riuscendo così a sostituire alla Camera il
Mirri che aveva cessato di farne parte per promozione militare.
Ma un anno dopo, in segno di protesta per l'arresto del Costa, si dimise dall'incarico parlamentare e si
ritirò a Fidenza, dove, con la consueta energia combattiva, partecipò alla vita amministrativa locale.
Negli ultimi tempi, però, stanco e forse deluso dai nuovi orientamenti del partito nel quale aveva
militato, abbandonò completamente la vita pubblica e si ritirò definitivamente a Parma.
Cinque anni dopo la morte, Fidenza ne onorò degnamente la figura inaugurando nel Palazzo municipale
un suo busto marmoreo, recante la seguente epigrafe dettata da Agostino Berenini:
« LUIGI MUSINI - TRA LE BALZE DEL TREN'T'INO - A VILLA GLORI A MENTANA A DIGIONE - SOLDATO DELLA
PATRIA E DELLA LIBERTA' - AI. PARLAMENTO - DEPUTATO DEL POPOLO - A NAPOLI A PALERMO CONTRO IL
MORBO ORRENDO - MILITE DI CARITA' - NELLE NOSTRE CAMPAGNE DERELITTE - MEDICO DEI CORPI
REDENTORE DEI.I.F. ANIME - TUTTA I.A VITA COMBATTENTE PEI. NUOVO DIRITTO UMANO - DA QUESTO
MARMO - ARA DI GLORIA E DI SACRIFICIO TRIBUNA DI VANGELO CI-VILE - ADDITA - LA VIA DEL DOVERE XXV OTTOBRE MCMVIII ».
A Roma, nel monumento ai fratelli Cairoli sul Pincio, il nome del Musini è inciso assieme agli altri del
manipolo dei Settanta.
MUZIO EMANUELE
Musicista, nato a Zibello il 24 agosto 1821; morto a Parigi il 27 novembre 1890.
Emanuele Muzio
Ritratto di G. Boldini
Ricevette la prima istruzione a Busseto, dove la famiglia s'era trasferita nel 1826; undicenne, avendo
manifestato felice attitudine alla musica, fu ammesso alla Scuola musicale del luogo, diretta da
Ferdinando Provesi.
Le disagiate sue condizioni economiche non gli permisero tuttavia di continuare gli studi, ponendolo
nelle condizioni di apprendere un mestiere per arrotondare il magro bilancio di casa. Fece pertanto il
calzolaio, come il padre, pur continuando a dedicarsi nelle ore libere alla musica.
In seguito, per poter attendere a questa con maggior profitto e troncare un lavoro per il quale non era
portato, determinò di vestire l'abito talare, ma non aveva vocazione per il sacerdozio, sicchè nel '42,
dovendo decidere se entrare o meno in seminario, opinò per la seconda soluzione e poco dopo,
essendogli stata assicurata per quattro anni dal locale Monte di pietà una pensione, si diresse a Milano
con una lettera di raccomandazione del mecenate Antonio Barezzi per Verdi, affinchè il maestro si
prendesse cura di lui.
Verdi, infatti, nonostante si dibattesse allora in strettezze economiche per non essersi ancora posto in
luce come compositore, aiutò il suo giovane concittadino come potè, impartendogli lezioni e
presentandolo successivamente a Ricordi perchè gli elesse lavoro.
L'editore Io incaricò di ridurre per pianoforte arie in voga tolte da opere liriche e questa attività
permise al Muzio di accantonare qualche risparmio, che gli consentì di sostentarsi e di continuare gli
studi allorchè il Monte di pietà bussetano gli troncò l'erogazione della pensione.
Dopo aver preso parte attiva nel '48 alla lotta contro gli Austriaci durante le celebri Cinque Giornate di
Milano, emigrò un anno dopo in Svizzera, donde passò in Belgio.
Ormai era preparato per affrontare il pubblico e nel '51 rappresentò al Teatro Italiano di Bruxelles la
sua prima opera lirica, Giovanna la pazza, che fu applaudita, anche perchè ebbe a protagonisti la
Medori ed il Lucchesi Morelli, cantanti assai noti a quel tempo, i quali ne valorizzarono la musica
facendone risaltare ogni sfumatura.
In Italia, dove fece ritorno nel '54, debuttò come compositore al Teatro Re di Milano con Claudia, su
libretto di Giulio Carcano.
L'anno seguente, nella metropoli lombarda, andava in scena alla Canobbiana Le due regine, quindi, nel
1857, al Comunale di Bologna, La Sorrentina.
Nonostante la buona accoglienza tributata da! pubblico a queste opere, il Muzio rinunciò da allora alla
composizione e, non avendo potuto ottenere a Busseto, per l'ostruzionismo esercitato ai suoi danni da
colleghi invidiosi, il posto di maestro di musica e di organista, cui aspirava, intraprese nel '57 la
carriera di direttore d'orchestra.
In breve si affermò come uno dei più distinti maestri concertatori, passando, di successo in successo,
nei principali teatri d'Italia e dell'estero.
L'esecuzione impeccabile della Messa Solenne di Rossini a Bologna, nel 1869, lo consacrò alla celebrità,
procurandogli il posto di direttore del Teatro Italiano di Parigi, che occupò sino al '76.
In quell'anno, infatti, il fiasco della Forza del destino ebbe come conseguenza la chiusura del teatro e
da allora il Muzio si dedicò nella capitale francese all'insegnamento del canto. Dalla sua scuola
uscirono cantanti che avrebbero brillato fra gli astri più fulgidi del firmamento lirico e basterebbe
citare, tra essi, Adelina e Carlona Patti ed il tenore Durot.
Nel 1887 fu annoverato per acclamazione nella Società Internazionale di M. S. fra gli artisti.
Allorchè morì, in conseguenza di una lunga e dolorosa malattia di fegato, espresse il desiderio di
essere sepolto nella sua Busseto e legò a quel Monte di pietà un'annua rendita a favore dei giovani
poveri inclinati all'arte.
NASTRUCCI FRANCESCO
Musicista, nato a Parma il 19 gennaio 1839; morto a Busseto il 23 marzo 1910.
Studiò musica nel Conservatorio di Parma, licenziandosi maestro di violino.
Assunto nell'orchestra ducale parmense, interruppe in seguito l'attività artistica per arruolarsi
volontario nelle schiere garibaldine, prendendo parte alle più significative battaglie dell'eroe dei due
moneti.
Svestita la giubba rossa, entrò nell'orchestra regia di Parma, iniziando, come prima viola, lunghe ed
applaudite tournées nei principali teatri della Penisola.
Ottenuto nel 1874 a Busseto il posto di direttore di quella Scuola di strumenti musicali, si dedicò da
allora all'insegnamento.
NASTRUCCI GINO
Violinista, nato a Fontanellato (Pr) il 18 gennaio 1879; morto a Milano il 15 luglio 1958.
Figlio del precedente Francesco, studiò violino dapprima con il padre, entrò poi al Conservatorio
parmense di musica ed infine al Liceo musicale di Bologna, licenziandosi con il più lusinghiero degli
attestati.
Iniziò giovanissimo la carriera di strumentista, che gli procurò ambiti riconoscimenti. Per trent'anni
svolse il più importante ruolo nell'orchestra della Scala e di Toscanini come primo violinista, facendosi
apprezzare in tutto il mondo musicale per maestria e sensibilità artistica.
Fu egli stesso direttore d'orchestra, dirigendo tra i tanti concerti ed opere Aida, Madama Butterfly e
Trovatore al Teatro Verdi di Busseto.
Conclusa la carriera musicale, s'era ritirato con semplicità e modestia nella sua abitazione a Milano ed
era solito trascorrere l'estate a Busseto, circondato dall'affetto dei molti amici ed estimatori.
ONESTI LUIGI
Prevosto di Busseto, nato a Polesine il 23 marzo 1876; morto a Busseto il 26 ottobre 1941.
Apparteneva a famiglia dì sentimenti profondamente ed esemplarmente cristiani, che dette
contemporaneamente alla Chiesa fidentina tre sacerdoti. Accanto a Luigi ricorderemo infatti
Alessandro, prevosto di Castelvetro, e Virginio, arciprete di San Rocco.
Luigi, come i fratelli, fu allievo del Seminario diocesano. Ordinato sacerdote il 23 settembre 1899,
iniziò il sacro ministero a Chiusa Ferranda come curato.
Annoverato 1'8 ottobre 1904 nel capitolo della cattedrale, fu preposto in pari tempo all'insegnamento in
Seminario di fisica e matematica. Non aveva che trentatre anni allorchè mons. Leonida Mapelli, il 30
maggio 1909, lo nominò prevosto di Busseto.
Negli otto lustri di ministero in quella parrocchia si dimostrò instancabile nell'operare in ogni campo
per il bene spirituale e materiale della popolazione affidata alle sue cure, dedicando la maggiore e
miglior parte delle sue energie alla chiesa ed alle istituzioni cattoliche.
Dotato di senso realistico della vita, seppe conciliare una saggia capacità amministrativa con le
esigenze e le finalità del ministero sacerdotale, traendo da questo felice accordo numerose e proficue
realizzazioni. Preoccupato del bene della gioventù, dette vita agli oratori maschile e femminile e non
esitò a cedere i vasti locali della canonica — riducendosi a vivere in un modesto appartamento —
perché non mancassero le sale di raccolta e di ricreazione.
Queste opere furono poi da lui corredate con altre iniziative intese ad imprimere alla parrocchia il
carattere di un'entità viva e quotidianamente operante. A tale fine istituì la Casa delle suore Salesie
per l'assistenza alla gioventù femminile, chiamò a Busseto le religiose Canossiane per la cura dell'Asilo
Infantile, eresse il teatro parrocchiale Silvio Pellico, fondò il locale Circolo cattolico, che, da lui portato
ad un alto grado di efficienza, procurò una vera fioritura di vocazioni.
Il suo spirito e la sua volontà furono dominati dal desiderio di dar vita a cose durevoli e praticamente
utili ed a questa consegna volontaria attenne con scrupolosa perseveranza, tutto disponendo affinché
non andasse disperso in avvenire il frutto del suo appassionato lavoro.
Permutò numerosi campi sparsi del beneficio parrocchiale con proprietà in un sol corpo; alienò
fabbricati per acquistarne altri in migliori condizioni statiche; sensibilissimo alle sorti del suo paese e
dei suoi parrocchiani, nulla tralasciò per favorire qualunque iniziativa intesa a sviluppare localmente
nuove fonti di lavoro e dare impulso alle opere caritative.
Nella chiesa collegiata apportò abbellimenti di rilievo, pavimentando interamente in marmo il sacro
edificio. erigendovi l'altare dei caduti ed un fac-simile della grotta di Lourdes, ricollocandovi l'organo
opportunamente riattivato e facendo infine apportare al santuario restauri e decorazioni.
Schivo dalla ricerca di ogni distinzione e da ogni forma di personale esibizione, non si attribuì mai
speciali benemerenze, ma ciò non impedì che queste fossero unanimamente riconosciute.
Il Pontefice Pio XI lo annoverò infatti tra i suoi prelati domestici ed anche il vescovo Giuseppe
Fabbrucci volle dargli un segno di particolare distinzione nominandolo canonico onorario della
cattedrale.
La salma di mons. Onesti, inumata in un primo tempo a Busseto nella cappella dei parroci urbani, fu in
seguito traslata a Polesine nella tomba di famiglia.
PASINI ALBERTO
Pittore, nato a Busseto il 3 settembre 1826; morto a Cavoretto (Torino) il 15 sett. 1899.
Alberto Pasini
Studiò pittura a Parma nell'Accademia di Belle Arti. Nel 1852, dopo aver esposto con successo una
serie di trenta disegni rappresentanti castelli celebri d'Italia, si recò a Parigi per perfezionarsi alla
scuola del Ciseri e di Teodoro Rosseau. Iniziò la sua fortunata carriera come litografo e, durante la
guerra in Crimea, la conoscenza di Prospero Bourée, ministro plenipotenziario francese a Teheran, gli
offrì la possibilità di accompagnare il diplomatico in un viaggio di missione in Persia.
La visita ai suggestivi paesi del Medio Oriente esercitò un'influenza decisiva sul suo orientamento
artistico, che da allora si volse quasi esclusivamente al paesaggio asiatico ed africano.
A Teheran si trattenne per circa un anno e in quel periodo dipinse per lo Scià alcuni quadri a soggetto
locale che furono molto ammirati dal sovrano, il quale lo ricompensò largamente e lo colmò di onori.
Dalla Persia passò a Costantinopoli, dove ritornò nel '62 reduce da un viaggio attraverso l'Egitto, la
Palestina, la Siria e la Grecia.
La sua permanenza in quella città si protrasse a lungo, perchè impegnato a dipingere una serie di
quadri per il sultano Abdul Mezid, rimasto entusiasta del primo lavoro dell'artista riproducente un fatto
d'armi dell'Impero Ottomano che si era concluso con la vittoria dei turchi.
In precedenza, come pittore orientalista, aveva acquistato fama a Parigi con la tela Carovana nelle
montagne clell'estremo sud, premiata nel '59 con medaglia d'oro e acquistata dal re del Wurtemherg.
Altre medaglie d'oro ottennero nella capitale francese i quadri Il Sinai, Convoglio di prigionieri
persiani, Mandria di cavalli al pascolo e la Requisizione militare di contadini persiani, esposti negli anni
1863-64, mentre Cavalli al pascolo procurò all'autore, all'Esposizione Universale di Vienna nel '73, la
medaglia dell'arte.
Le opere del Pasini incontrarono ovunque larghi consensi di pubblico e di critica per la suggestiva
bellezza dei paesaggi, resi con piena aderenza aI vero. Scrisse il Folchetto come l'Oriente del pittore
bussetano fosse vivo anche nei minuti particolari in virtù della forza rappresentativa dell'artista, in
possesso di raro senso per l'armonia, di finezza estrema di disegno e di un modo efficacissimo e tutto
personale cui raggiungere grande effetto nei toni del colore.
Nel paesaggio orientale non ebbe rivali. ma si affermò anche in quello veneziano, che la città dei Dogi
gli ispirò durante una sua visita e che egli rese con fine senso artistico.
La vita del Pasini fu un susseguirsi di successi.
Le sue opere, vendute in ogni parte del mondo, assicurarono all'artista la celebrità e gli procurarono
varie onorificenze. A Parigi, dove aveva fissato la propria residenza, fu decorato della medaglia
d'onore per la pittura; lo Scia di Persia gli conferì il titolo di ufficiale del leone e del Sole; il Gran
Sultano di Costantinopoli quello di ufficiale dell'Ordine del Medjidée; Napoleone 111 lo decorò della Legion
d'Onore ed il Re d'Italia dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.
Fra la sua copiosa produzione, oltre alle opere citate, ricorderemo i dipinti La caccia del falco, La
carovana nel deserto (Galleria Moderna di Belle Arti in Firenze), Attacco di Drusi a un villaggio
maronita, La caccia al falcone nelle pianure d'Tsphan, Mercati di Costantinopoli (vari), La tappa della
carovana (Museo di Parma), Panorama della Sierra Nevada, Interno della Moschea dell'Alharnbra,
Porta della sala delle due sorelle ad Allutntbru Porta del vino ad Alhambra, Cavalli al pascolo in Siria,
La sentinella, Gruppo di cavalieri irregolari alla porta di una moschea, La salute, Cortile di un vecchio
joly, Le staffette, Cortile dei leoni a Granata, Porta di un bazar, Gruppo di case nel Rubatto Yesel Giani,
Porta di una moschea e palazzo de' Generaliff e, Porta di un vecchio arsenale, Il Dervis alla porta della
moschea, L'Harem della campagna, L'interno di un Harem, La scorta del Pascià, Il sobborgo di
Custantinopoli, Il cortile eli un vecchio Cono,;, Le gole del Libano, Il mandato di cattura, L'ordine di
carcerazione, Venezia dalla Giudecca, Canal Grande, Il Ponte dei Santi Apostoli, Rio San Severo, Il
traghetto del Casson, Il traghetto San Tonta, Rio Maria, Palazzo Grinnti, Rio a S. Varia Formosa, Rio San
Severo, Palazzi Rezzonico, Foscari e Bulbi; le litografie e i disegni Un corriere del deserto, L'arrivo di
due cavalieri Circassi alla porta eli un magazzino di schiave a Costantinopoli, L'abbrutito di
Costantinopoli, Ricordo delle acque dolci dell'Asia, La sera.
PASINI ETTORE
Magistrato, nato a Busseto, morto a Torino il 7 aprile 1886.
Fratello del precedente Alberto, studiò legge all'Università di Parma; conseguita la laurea, intraprese
la carriera del magistrato, pervenendo, di grado in grado, a ricoprire la carica di consigliere della
Corte di Cassazione in Torino.
Per la rettitudine e per le doti eminenti di cuore e di intelletto fu circondato di larga stima nella città
antonelliana, dove egli spiegò la sua lunga e benemerita attività di valente ed integerrimo magistrato.
I suoi meriti furono anche riconosciuti da re Vittorio Emanuele II, che con suo decreto gli conferì la
commenda della Corona d'Italia.
PELIZZONI MARIO
Pittore e scultore, nato a Torricella di Sissa (Parma) il 29 settembre 1917; morto a Busseto.
Mario Pelizzoni
Figlio di un marmista, sin da ragazzo si applicò con passione all'attività che più gli era congeniale,
disegnando e modellando statuette. Il padre lo voleva maestro e non artigiano come lui, perciò lo
affidò, a Parma, al prof. Carlo Corvi, sotto la cui esperta e valida guida egli andò affinando la naturale
sua inclinazione con un'adeguata preparazione accademica.
Ultimati gli studi, cominciò a dipingere e nel 1933 tenne a Parma la prima collettiva nel ridotto del
Teatro Regio; a quella ne seguirono altre in varie città d'Italia, contrassegnate da successo di pubblico
e di critica.
Artista versatile, non rifugge dal trattare con facilità paesaggio, animali, nature morte, ma devesi
considerarlo pittore di figura. Nella sua galleria personale di lavori a Busseto l'arte plastica e pittorica
ridonda di opere che gli hanno procurato soddisfazioni e riconoscimenti ed il cui esame, compiuto in
successione di tempo, permette di seguire l'ascesa dell'artista traverso un'esperienza maturata e un
più meditato raccoglimento.
Da Il corriere di montagna, Bimba in lettura, Fabbro in attesa del ferro rovente, tutti pregevoli lavori
giovanili, si passa ad opere vigorose quali Ritratto di violinista (1940), Donna che rammenda, Ritratto
di vecchio (1942) ed ancora Ritorno all'ovile, Gli spaccalegna, sino a pervenire a I vecchi scapoli,
notevole per l'espressività dei volti dei due vecchietti effigiati, che conversano rievocando chissà quali
ricordi di un tempo lontano: il dipinto fu anche molto ammirato tra quelli esposti al Concorso
internazionale di Orvieto.
Tra la produzione successiva meritano un cenno particolare I due viandanti (1944), Bimba in attesa
(1945), tela esposta alla Mostra internazionale di Prato nel 1946, La carità, La pescivendola (1945), Il
buon samaritano (1946), Carbonai in montagna, Caprette, Uragano (1947), 11 landò, Ballo in maschera,
che ha figurato in varie mostre internazionali, La stalla (1948), Zingari accampati (1955), I delinqueri,
Le grotte di Catullo, Bevitori, Scuola di danza, Tra i monti (1958), Messicani, Il carrettiere (1959); alcuni
quadri a soggetto militare e patriottico eseguiti negli anni 1957-'59: Pattuglia, Verso il fronte francese,
Morte d'un valoroso, Accampamento, Trasporlo d'un soldato ferito; infine, Orizzonte, La reginetta degli
zingari, Ritorno dalla caccia, Tartarughe e Fido, Il viandante, La bufera, Prova di danza, Tiratori di fune,
Sciatori.
Mario Pclizzoni: Prova di musica (scultura)
Degni di rilievo sono pure alcuni ritratti, nature morte e paesaggi ; a questo riguardo bisogna dire che
una linea fortemente incisiva e i toni cupi rendono particolarmente suggestive le visioni naturali di
Mario Pelizzoni.
Non meno vasta la produzione plastica, tra cui risalta il bozzetto del monumento per la caserma del 15
Genio di Chiavari (1940), che palesa un chiaro sentimento lirico. Di quel tempo sono anche una Testa di
frate, La fedeltà, Lotta libera, lavori tra i più riusciti per espressività e per finezza di modellato; come
rimarchevoli sono le seguenti opere successive: tra i metà busti, Ritratto di Verdi, Testa d'idiota
(1946), Il Cristo (1948) e Ritratto di Pietro (1951), su legno, esposto in quell'anno alla Quadriennale di
Roma; tra gli altorilievi, Il violinista (1944), Ritorno dalla caccia e Il pescatorello (1945).
Dal 1945 Pelizzoni è membro dell'Academia latinitati excolendae artium et Litterarum, la quale,
annoverandolo tra i suoi soci accademici, ha inteso dare un autorevole riconoscimento alla validità
artistica della sua copiosa produzione.
Pelizzoni appartiene a quella schiera di artisti che amano l'arte: si può infatti dire che egli dipinga
esclusivamente per sè, per una necessità dello spirito a fissare sulla tela immagini e impressioni della
vita che lo circonda.
Chi ama i confronti riuscirebbe forse a trovare nella sua arte riflessi dell'impressionismo, chè non
soltanto l'ambiente e i costumi, ma lo spirito stesso della composizione suggerisce i nomi di Van Gogh
e Matisse, e la floridezza del colore, unita alla qualità del soggetto, rafforza le analogie con Antonio
Mancini.
Ma quando avremo sottratto questi più o meno palesi influssi dall'arte di Pelizzoni, resta un largo
margine che appartiene interamente a lui, come pure sua è la maniera d'assimilarseli e servirsene.
Dobbiamo considerare Pelizzoni un artista in continua evoluzione: come sospinto da una febbre
interiore, il suo estro creativo sembra volgersi verso mete nuove e staccate dallo schema della
pittura moderna tradizionale, tale in quanto concepita nelle forme meno audaci.
Superate ormai questo traguardo, usci lo da un campo cui egli pure deve franchi successi, balza evidente dalle sue ultime opere come egli miri ad un ascendente artistico superiore, a concezioni di più
vasta portata intellettuale, alla ricerca, insomma, di un posto tutto suo, a parte. Il suo formalismo s'è
praticamente arrestato a I vecchi scapoli, al Ritratto di vecchio, a Sciatori, che segnano un punte
fermo nella sua carriera di artista.
Le opere successive rientrano in una nuova tecnica impressionistica, di cui Orizzonte costituisce la più
vigorosa manifestazione. Qui la disposizione dell'arte non si rivolge più all'oggetto di natura in sè e per
sè, quale immanenza obbligata e destinata, ma tende ad esprimere, con la concitata grafia e il tratto
tormentoso delle pennellate, un travaglio profondo, tutto interrogazioni, domande; e sembra un
richiamo all'inappagata sete che ci spinge verso il mistero dell'infinito. La validità risiede non soltanto
nel colore, con cui l'artista reagisce ad una descrittività troppo minuta e convenzionale, quanto
nell'abilità di ridurre tale rilievo descrittivo per avvicinarlo ad una conseguenza espressiva.
La produzione plastica ci mostra un Pelizzoni egualmente vigoroso, sebbene i gessi francesi, le teste e
i busti in legno, la cera colata rivelino, in successione di tempo, un'evoluzione un po' differente dalla
pittura.
Come scultore egli si richiama a Meditalo Rosso: ma avere un'idea propria dell'arte, seguire una
scuola piuttosto che un'altra o non seguirne affatto, poco importa. L'importante sta nel realizzare
l'idea prima cui s'informa un dato lavorii e rendere così le impressioni come si sentono e come si
ricevono.
Pelizzoni è verista, nel senso che ci presenta le cose come sono; e quantunque egli segua il modo di
modellare del Rosso, di suo, nelle sue opere, v'è la caratterizzazione del soggetto. Ed è questa
divinazione, questo sentimento profondo, misto ad una sicura conoscenza dell'individuo, che
costituisce la forza principale dell'ingegno di questo artista.
PELLACANI AGOSTINO
Caduto di guerra, nato a Busseto il 5 febbraio 1871; morto ad Adua (Etiopia) il 1 marzo 1896.
Si arruolò diciottenne nell'esercito quale allievo sergente nel 1894 pervenne al grado di sottotenente.
Avendo manifestato ai superiori la volontà di prendere parte alla guerra italo-etiopica, fu destinato a
raggiungere nel gennaio 1896 la zona di operazioni.
Sbarcato a Massaua, partecipò alle più significative battaglie in terra d'Africa e perse la vita nell'aspro
combattimento di Adua, durante il quale le nostre truppe si batterono eroicamente contro soverchianti
forze nemiche.
Alla memoria del sottotenente Pellacani venne conferita la medaglia d'argento al valore militare ed il
nome di lui è onorevolmente ricordato nella lapide dei Caduti che il Comune di Parma fece collocare
sotto l'atrio del palazzo municipale.
PETTORELLI
Famiglia notabile bussetana.
Secondo quanto asserisce Emilio Seletti sulla scorta dei documenti un tempo conservati nell'Archivio
comunale di Busseto, ebbe origine in epoca antichissima e nel XII secolo fu annoverata tra le nobili di
Parma. Da essa discesero i conti Pettorelli di Modena, di Verona e di Monticelli d'Ongina.
Esponenti di questo casato emersero in particolare nella carriera forense e lo stesso Seletti ricorda a
questo proposito come nel 1767 assommassero a ventotto i giureconsulti e dottori collegiali.
Lo storiografo aggiunge che, con le loro ricchezze, i Pettorelli contribuirono notevolmente al decoro
della loro cittadina, istituendo benefici e dotazioni, erigendovi l'imponente collegio dei Gesuiti e
restaurando la chiesa ed il monastero di Santa Chiara.
Appartennero alla famiglia anche i più sotto ricordati Andrea e Pietro.
PETTORELLI ANDREA
Prevosto di Busseto e letterato, nato a Busseto il 24 aprile 1779; morto ivi il 29 luglio 1862.
Studiò filosofia all'Università di Parma e, sorta in lui la vocazione al sacerdozio, intraprese la carriera
ecclesiastica.
Prima di essere destinato a reggere la collegiata di San Bartolomeo, fu canonico a Castell'Arquato ed
a Monticelli d'Ongina.
A Busseto insegnò anche lettere nelle pubbliche scuole e fece parte delle accademie Emonia — con lo
pseudonimo di Olmero ldnuride — e di lettere greche.
Letterato di valore, tradusse Orazio con eleganza in vari metri, compose buon numero di poesie,
scrisse una commedia, L'olmo di Colle Ombroso, e i drammi Le veglie di Assuero e Il sogno di Nabucco.
Dedicò alla duchessa Maria Luigia un componimento poetico, L'omaggio dei fiori, e si vuole che il suo
migliore lavoro sia il poema allegorico I.'accademia degli uccelli.
PETTORELLI PIETRO
Gireconsulto, nato a Busseto nel 1505; morto a Parma nel 1566.
Compì gli studi a Parma, dove consegui il 29 aprile 1527 la laurea in ambo le leggi ben presto
classificandosi tra i migliori avvocati di quel foro.
Per le doti di ingegno, di prudenza e discrezione, ottenne anche importanti cariche pubbliche. Nel 1537
fu nominato uditore generale del conte di Santa Flora; nel 1542 segretario del principe e vescovo di
Trento card. Cristoforo Madruccio, quindi, nel 1562, referendario della comunità parmense ed infine
vicario e luogotenente del podestà di Piacenza.
A lui Vespasiano Gonzaga, duca di Sabbioneta, affidò nel 1563 l'incarico di patrocinare i suoi diritti nella
causa intercorsa tra quel principe ed i cugini.
Non dimenticò il suo paese natale, del quale fu benefattore insigne. Con singolare pietà provvide fra
l'altro a ricostruire a proprie spese la chiesa delle monache di Santa Chiara, che minacciava rovina.
Lasciò Allegazioni e Annotazioni allo Statuto Pallavicino.
PIROLI GIUSEPPE
Giureconsulto e uomo politico, nato a Busseto il l0 febbraio 1815; morto a Roma il 14 novembre 1890.
Iniziò gli studi a Busseto e li continui a Parma, laureandosi in giurisprudenza.
Dedicatosi al libero esercizio della professione, non tardò ad emergere tra gli avvocati del foro
parmense, acquistando fama anche in altre città e regioni.
La sua attività si svolse principalmente a Parma, dove, oltre ad insegnare diritto penale all'Università,
ottenendo per le benemerenze acquisite la nomina a preside onorario della facoltà di giurisprudenza,
ricoprì importanti cariche pubbliche.
Fu segretario nel Governo provvisorio del 1848, membro in quello del '49 e rappresentò la città
all'assemblea che elesse Carlo Farini dittatore dell'Emilia.
Di idee liberali, fu deputato per dodici anni dal '66 al '78, del collegio di Borgo San Donnino e
vicepresidente della Camera.
Eletto senatore, ricusò il portafoglio di Grazia e Giustizia e fece parte del Consiglio di Stato dalla sua
istituzione.
PROVESI FERDINANDO
Maestro organista e compositore, nato a Parma il 16 marzo 1770; morto a Busseto il 26 luglio 1833.
Ferdinando Provesi
Ritratto nel Civico Museo di Busseto
Figlio di povera gente, usufruì da ragazzo di una sovvenzione del Governo ducale che gli consentì di
frequentare a Parma i corsi di studio alla Scuola di musica.
Licenziatosi con ottimi voti, fu nominato organista a Scandolara, donde passò a Soresina, a Cremona e
finalmente, nel 1816, a Busseto quale organista e maestro di cappella.
Si dedicò anche all'insegnamento, annoverando tra i suoi allievi Giuseppe Verdi e Margherita Barezzi,
ed alla composizione.
Per la locale Società filarmonica scrisse alcune operette, delle quali compose anche il libretto, e nella
Biblioteca del Monte di Pietà si conservano di lui le seguenti opere teatrali: Pigmalione, La clemenza di
Tito, Eurisio e Camilla, L'ebrea di Levonia e Nozze campestri.
ROSSI CARLO
Giureconsulto, nato a Busseto nel 1642: morto a Semoriva di Busseto il 17 settembre 1711.
Si laureò in ambo le leggi all'Università di Parma ed acquistò larga stima a Busseto tra i suoi
concittadini, tanto da essere ritenuto il più adatto a presentarsi al duca Francesco Farnese per
giurargli obbedienza e fedeltà a nome della comunità e del popolo.
In precedenza aveva acquistato la fiducia di Ranuzio II, che nel 1666 l'aveva nominato suo commissario
in Colorno e, nel '79, tutore del marchese Alessandro Pallavicino, del quale egli patrocinò i diritti in
complesse vertenze.
Afferma Emilio Seletti, sulla scorta principalmente dei documenti autografi di Francesco e Ranuzio
Farnese, come il Rossi godesse di tale stima presso quel duca da essere spesso da lui interpellato su
questioni attinenti il Comune di Busseto e la stessa corte.
Per tre anni, dal 1669 al 1672, ricoprì la carica di commissario ducale in Borgotaro; deputato
comunale, ottenne nel paese natale la reggenza del Monte di pietà e dell'Ospedale e fu inoltre
conservatore del monastero di Santa Chiara.
A riconoscimento delle sue benemerenze, Francesco Farnese, con diploma 18 giugno 1697, lo creò
nobile con diritto di trasmettere il titolo ai discendenti.
Lasciò due lodate opere di giurisprudenza: un Trattato sulla fusione e distinzione del diritto dei defunti
e degli eredi (Ed. Alberto Pazzoni, Parma, 16971 e un altro trattato Sul conferimento dei beni dei
Forensi posti nel territorio (Ducato) a vigore di Statuto, secondo le consuetudini generali d'Italia
(Piacenza, Tipografia Vescovile Zambelli, 16981.
SACCO TIBURZIO
Letterato, nato a Busseto nella seconda metà del XV secolo; morto dopo il 1537.
Frate di San Domenico, va annoverato tra i primi iniziatori delle sacre rappresentazioni introdotte
dalla Chiesa per porre un freno al malcostume nel quale era precipitata l'arte drammatica.
Il contributo che egli portò a quest'opera di rinnovamento fu la tragedia in volgare Susanna, della
quale si hanno due rare edizioni: la prima a cura dei fratelli Benedetto e Agostino Bindoni di Venezia
(1524), la seconda di Damiano Turlini di Brescia (1537).
SAN BARTOLOMEO
Apostolo, Nato a Cana di Galilea Patrono di Busseto, 24 agosto
San Bartolomeo
Bartolomeo era uno dei dodici apostoli, va identificato con il Natanaele di cui parla san Giovanni.
Nato a Cana di Galilea, fu condotto a Gesù dall'apostolo Filippo. Dopo l'Ascensione del Signore, è
tradizione che egli abbia predicato il Vangelo nell'India. Il "Martirologio romano" di lui scrive: "predicò
nell'India il Vangelo di Cristo; recatosi nell'Armenia maggiore, avendo convertito moltissimi alla fede, fu
dai barbari scorticato vivo, e, per ordine del re Astiàge, colla decapitazione compì il martirio." Subì il
martirio nella città di Albanopoli in Armenia. Il suo sacro corpo fu trasferito prima nell'isola di Lipari,
quindi a Benevento, e infine a Roma nell'Isola Tiberina. E' patrono dei macellai e dei conciatori.
Nel 410 le spoglie di Bartolomeo furono trasportate a Martyropolis e Maiafarqin dal vescovo Maruta.
Nel 507 vennero traslate dall’imperatore Anastasio I a Darae in Mesopotania. Nel 546 risultano a Lipari
e nel 838 a Benevento. Dal 983, portate a Roma da Ottone III, sono nell’antica vasca di porfido
dell’altare maggiore della chiesa di S. Bartolomeo Apostolo all’Isola.
Sue reliquie risultano sparse in varie chiese europee. Nel 1238 quella della calotta cranica fu portata
nella cattedrale di Francoforte sul Meno. Altre sono nella certosa di Colonia e nel monastero di Lune,
presso Luneburg. S. Edoardo donò una parte di un braccio alla cattedrale di Canteerbury. Altre ancora
risultano in Francia. In Italia la città di Pisa vantava il possesso di parte della sua pelle. La città di
Benevento, che ha sempre sostenuto di aver dato ad Ottone III un altro corpo, rivendica il possesso dei
suoi resti custoditi nella chiesa a lui dedicata.
A Roma, a causa di uno straripamento del Tevere, nel 1557 i resti furono traslati a S. Pietro in
Vaticano.
Nel 1560 Pio IV li fece riportare con una solenne processione all’Isola Tiberina. A seguito dei danni
causati alla chiesa dai francesi nel 1798 alcune sue reliquie furono portate a S. Maria in Trastevere.
In questa basilica, nella Domenica in Albis, si mostrava una sua reliquia insigne. Sempre secondo
l’Inventario (1870), nel giorno di Pasqua parte della testa era esposta a S. Prassede.
Il 1 maggio e il 24 agosto si esponeva (Diario Romano, 1926) parte di un braccio ai Ss. XII Apostoli.
SELETTI EMILIO
Storiografo, nato a Milano il 29 settembre 1830; morto ìvì il 1" aprile 1913.
Emilio Seletti
Figlio di Giuseppe e nipote del canonico Pietro, può essere considerato di Busseto, perchè la sua
famiglia apparteneva alla piccola città non solo per occasione di nascita, ma per profondo
attaccamento di cuore; e fu anch'egli, per tradizione familiare, cultore appassionato di cose
bussetane, raccogliendo i frutti di lunghe e pazienti ricerche in un'opera monumentale tuttora di larga
consultazione per la storia della cittadina.
Laureato in legge nel 1854 e quindi avvocato, si dedicò anche a studi di paleografia, iniziando la
raccolta di oggetti archeologici, di una biblioteca che arricchì di 7 mila volumi, di codici, documenti
manoscritti e lettere autografe per 2 mila esemplari ed infine di una raccolta di circa 15 mila ritratti
incisi.
Stabilitosi con la famiglia a Milano, vi dette alle stampe, nel 1883, la sua Città di Busseto, che ebbe
larga diffusione — e non soltanto nel bussetano — avendovi egli introdotto le biografie di illustri
personaggi della sua terra, tra cui, in primo piano, quella di Giuseppe Verdi, del quale godette
l'amicizia.
Nel 1885 fu nominato consigliere comunale in Milano, tenendo la carica per un quinquennio. Annoverato
tra i membri della commissione per il Museo del Risorgimento italiano, per tre lustri fu pure
segretario della Società Storica Lombarda — della quale venne poi nominato vice-presidente — e
membro della consulta del Museo archeologico.
Ricoprì anche le cariche di socio fondatore dell'Archeologica Comense, di membro corrispondente
della R. Deputazione Storica per le province di Parma e Piacenza, di socio corrispondente ed effettivo
e di segretario della Deputazione di Storia Patria in Torino, di socio effettivo della Società Numismatica
Italiana.
Per istituti storici, letterari ed artistici scrisse considerevole numero di cenni, memorie, rapporti;
contribuì efficacemente alla pubblicazione dei dodici volumi delle Iscrizioni delle chiese di Milano dal
sec. VIII e compilò un Catalogo dei marmi scritti ne! Museo archeologico di Milano.
Sua opera principale rimane La Città di Busseto,. in tre volumi, essa illustra la cittadina dalle origini
all'età contemporanea; forma materia del l'ultimo volume la trascrizione dei più itnportanti documenti
di storia locale e l'elenco della produzione letteraria ed artistica dei bussetani insigni, con appendice
degli alberi genealogici delle famiglie notabili.
Scrittore dotto e diligente, gli nacque tuttavia la posizione polemica assunta nei confronti di storiografi
borghigiani, portandolo ad affermazioni fantasiose sulle origini di Fidenza, di cui negò la fondazione
romana poi invece provata da scoperte archeologiche. Ma il difetto nell'equilibrio del giudizio non
sminuisce nell'uomo la nobiltà dell'aspirazione, espressa in un'opera che ancor oggi è per la storia di
Busseto fondamentale.
Nel corso della sua laboriosa esistenza, fece, con passione di studioso e generosità di uomo benefico,
dispendiosi e preziosi doni a diversi istituti pubblici milanesi, quali la Biblioteca di Brera, il Museo del
Risorgimento italiano e l'Archivio storico. Dispose che la sua ricca raccolta archeologica andasse ad
arricchire il patrimonio del Museo del Castello Sforzesco e destinò quella degli autografi, dei
manoscritti e dei ritratti all'Archivio storico del Comune di Milano.
Non dimenticò Busseto, la città verso la quale nutrì inalterabile affetto e devozione. Con pietoso
discernimento di carità lasciò all'Ospedale un legato di 15 mila lire ed alla civica Biblioteca donò una
parte della sua ricca raccolta di libri di ogni epoca.
Da Verdi fu invitato a far parte della Commissione di amministrazione della Casa di Riposo per
Musicisti, della quale divenne poi presidente. Dedicò all'istituto particolari cure, fondandovi il Museo
Verdiano e cooperando all'iniziativa con il dono di preziosi cimeli.
SELETTI GIUSEPPE
Storiografo e letterato, nato a Busseto il 25 agosto 1786; morto a Milano il 3 maggio 1846.
Padre di Emilio, ebbe a precettore nei primi anni di studio lo zio canonico Pietro, dimostrando sin dalla
giovinezza singolare attitudine alle belle lettere ed in ispecie alla poesia.
Compose infatti notevole numero di rime, che furono poi raccolte in un volume di 265 pagine, ma di
esse videro la stampa soltanto due sonetti dedicati all'attrice Margherita Perelli ed al concittadino
Giulio Dordoni nella circostanza dell'elezione di questi a maire di Busseto.
Fra le opere giovanili del Seletti figurano anche le commedie I letterati e Una madre delusa, il dramma
in versi Argenide e Filippo fra i pastori, le tragedie Pelopida, Polissena, Beatrice Cenci, Cosroe, re di
Persia ed Elena, gran principessa di Mosca.
Nel 1808 era stato accolto tra i soci dell'Accademia bussetana Emonia con lo pseudonimo di Darsindo
Uranèo, sotto il quale pubblicò nel 1824 una Storia di Evaristo Pancardio e di Angelica baronessa di
Vitrelto.
Dal 1816 risiedette a Milano, occupato nell'insegnamento. Fu professore di grammatica superiore e di
umanità al Collegio Burla di Rho, poi di latino nel Collegio-ginnasio milanese Calchi-Taeggi ed infine
della stessa materia al Ginnasio comunale di via Santa Marta.
Acquistò benemerenze nel campo dell'istruzione pubblica.
Largo favore di pubblico e di critica incontrarono nel 1824 la volgarizzazione della Vita di Publio
Scipione Emiliano del Sigonio ed un saggio di Lezioni greche per le classi terza e quarta di grammatica,
opere ristampate in sci edizioni
I suoi Rudimenti di geografia, pubblicati ne 1848, furono anch'essi oggetto di replicate ristampe; così
pure un'Analisi delle lezioni di greco ai uso dei Ginnasi.
Collaborò ai giornali Gazzetta di Milano e Il Giovedì con articoli letterari e lasciò, inediti Storie del
Regno d'Italia tradotte dal Sigonio, una compendiosa Storia della Russia, un'Introduzione allo studio
delle Umane Lettere, Lezioni, studi d matematica, di umane lettere, di storia antica del medio evo e
varie altre opere minori.
SELETTI PIETRO
Storiografo ed archeologo, nato a Busseto il 19 ottobre 1770; morto ivi il 6 dicembre 1853.
Ebbe a maestri in Busseto, nella giovinezza, Buonafede Vitali e Padre Ireneo Affò entrò poi nel
seminario fidentino per con piervi gli studi liceali e teologici.
Ordinato sacerdote e destinato a svolgere il sacro ministero nel paese natale, dedicò anche
all'insegnamento di grammatica nel ginnasio superiore; e con Marco Pagani, Pietro Vitali e Gaetano
Bombardi fondò nel 1796 l'accademia di Lettere Greci. per incrementare nei giovani lo studio dei,
classici.
Chiamato nell'autunno 1806 ad insegnare greco e latino nel seminario di Brescia, accettò l'incarico,
che declinò tuttavia al termine dell'anno scolastico per poter far ritorno a Busseto ad aprirvi una
scuola privata di lingue e lettere antiche.
Nel 1816 gli venne affidata la conservazione della pubblica Biblioteca e nel '20 fu nuovamente incaricato
ad occupare nel locale ginnasio la cattedra di lettere.
La sua cultura si estendeva dalle lingue tinti. che all'archeologia, alla numismatica, all'astronomia ed
alla musica. Si interessò di storia locale e dette alle stampe alcuni lavori nell'intento, afferma Emilio
Seletti, «di difendere qualche ricerca storica e il nome dei suoi maestri Vitali ed Affò, bistrattati per un
male inteso amor patrio da scrittori di Borgo San Donnino, che, invogliati di dare un'origine romana
alta loro terra, si fecero a sostenere inveterate opinioni sulla esistenza dell'antica Fidenza nel luogo
ove ora sorge la città di San Donnino». In quelle opere (Confutazione del libretto uscito dai torchi di
Giuseppe Vecchi di Borgo San Donnina nell'anno 1840 che ha per titolo Memorie storiche sulla
fondazione della città di Giulia Fidenza e Confutazione di un'opera uscita dalla tipografia di Borgo San
Dannino nell'anno 1843 intitolata Controversie archeologiche patrie lo storiografo sosteneva, sorretto
soltanto dalla forza del ragionamento, come Fidenza sorgesse nella campagna di Samboseto,
soggiungendo che Borgo non era anticamente che un cimitero romano e che assurse a notorietà dopo
la scoperta, nel VII secolo, delle ossa del martire Donnino.
Le Controversie archeologiche, lavoro cui il Seletti attese negli ultimi anni di vita, impedirono allo
studioso bussetano di redigere, come aveva in progetto, una storia del paese natale.
Emilio Seletti se ne rammarica, spiegando che, «con l'abbondante messe delle sue cognizioni storiche
e con i documenti che aveva raccolti e studiati, egli avrebbe potuto condurre l'opera a perfezione».
Rivelò non comune perizia nella decifrazione di antiche iscrizioni e nell'illustrazione di epitaffi,
pubblicando osservazioni e dissertazioni apologetico-critiche sopra epigrafi latine e greche
difficilmente interpretabili.
Lasciò 36 scritti — dei quali 28 inediti — d'argomento vario, ma in prevalenza di ricerca storica e di
archeologia.
Nel 1830 era stato annoverato fra i canonici della collegiata di Busseto e per qualche tempo diresse
l'orchestra in chiesa. Fu suonatore di viola e compose alcuni brani di musica sacra e vari concerti.
STECCONI PIETRO
Prevosto di Busseto, nato nel 1605; morto a Busseto il 16 novembre 1679.
Dapprima canonico della collegiata di Busseto, fu eletto prevosto nel 1665, lasciando in quella
parrocchia, in tre lustri di ministero, numerose testimonianze della sua munificenza.
Appartenente a cospicua famiglia, fondò nella sua chiesa i canonicati di San Pietro Ap., Sant'Antonio,
San Filippo Neri e San Girolamo, che dotò di pingue dote, ed ancora, con atto a rogito del notaio dr.
Bernardino Quaglia, istituì nel novembre 1672 due benefici semplici sotto i titoli di San Giuseppe e San
Francesco, conferendo il diritto di nomina degli investiti ai duchi Farnese e riservando alla propria
famiglia il solo giuspatronato di uno dei quattro canonicati.
Accrebbe inoltre il patrimonio immobiliare della prepositura mediante la donazione di un vasto podere
e destinò a più decorosa abitazione del parroco pro-tempore l'attuale canonica.
La sua salma riposa nella collegiata bussetana presso l'altare dedicato a Santa Maria Goretti, a quel
tempo a Sant'Antonio.
TEDALDI GIOVANNI
Benefattore, nato a Busseto il 26 febbraio 1851; morto a Fidenza il 18 aprile 1933.
Appartenente a famiglia cospicua per nobiltà e censo, iniziò gli studi nel paese natale e li continuò nel
seminario diocesano, dov'era entrato per assecondare la vocazione che da tempo s'era in lui
manifestata.
Ordinato sacerdote il 20 settembre 1873, iniziò il sacro ministero a Bargone quale curato e nella
stessa qualità passò poi a Croce Santo Spirito ed a Cabriolo.
Nominato parroco a Sant'Andrea di Busseto, si trattenne in quella parrocchia per otto anni, fintanto,
cioè, che nel dicembre 1891 il vescovo G. B. Tescari lo chiamò a far parte del capitolo della cattedrale,
di cui divenne arciprete il 28 giugno 1909.
Sacerdote di grande bontà e carità, oltre che di soda pietà, si servì del patrimonio di famiglia per
beneficare largamente ed a questo proposito vanno in particolare segnalate le munifiche sue
elargizioni alla Santa Sede a favore delle missioni.
A Fidenza, dove ricoprì con scrupolosa rettitudine vari importanti incarichi, acquistò benemerenze
soprattutto nel campo educativo della gioventù, contribuendo, fra l'altro, alla fondazione dell'attuale
Oratorio Don Bosco.
Annoverato dal pontefice Pio XI fra i suoi camerieri segreti, allorché mori lasciò dietro di sè, con
l'esempio delle sue virtù sacerdotali, una scia luminosa e largo rimpianto, dopo aver disposto per
testamento vari lasciti tra i quali la donazione della casa in cui dimorava a Fidenza alla chiesa di
Busseto.
TUZZI GIAN FRANCESCO
Astronomo, nato a Busseto nella seconda metà del XV secolo; morto ivi nel 1505.
Apparteneva alla nobile famiglia bussetana Campioni, che ebbe a capostipite certo Francesco,
deceduto prima del 1422, e che si denominò anche Tuci o Tuzzi dopo che la nobildonna Caterina Tuci,
ultima discendente del suo casato, andò sposa intorno al 1450 ad Antonio Campioni.
Gian Francesco Tuzzi era figlio di Domenico, anziano del Comune, e nipote del prevosto Niccolò.
Iniziò gli studi di medicina, che interruppe per riprenderli nel 1495 alla morte del padre e conseguì la
laurea all'Università di Bologna.
Si dedicò tuttavia propriamente all'astronomia.
Nel 1499 lesse in quella città un'orazione latina su tale materia, che fu data alle stampe il 5 giugno
dello stesso anno con i tipi di Giustiniano da Bologna, e non tardò a porsi in vista per la serietà
scrupolosa delle sue indagini scientifiche.
Giovane di belle speranze, la sua promettente attività fu interrotta dalla morte, che lo colse nel pieno
vigore degli anni a Busseto, dov'ara tornato a stabilirsi al termine degli studi universitari.
TUZZI NICCOLÒ
Prevosto di Busseto, nato nella seconda metà del sec. XIV; morto a Busseto nel 1458.
Abbracciò lo stato ecclesiastico dopo essere rimasto vedovo ed aver avuto un figlio, Domenico, dal
quale ebbe origine il ceppo bussetano di quella famiglia patrizia.
Niccolò Tuzzi si fece monaco di San Benedetto e fu poi nominato rettore della chiesa di San
Bartolomeo.
Nel 1448 passò priore di Santa Giustina in Ferrara, ma nel 1450 tornò a Busseto quale primo canonico
prevosto dell'eretta collegiata. Per le sue benemerenze fu elevato dal Pontefice Callisto II1 alla dignità
di protonotario apostolico.
VANOLI ARNALDO
Missionario scalabriniano, nato a Sant'Andrea di Busseto il 30 agosto 1881; morto a Chicago (U.S.A.) il
9 gennaio 1957.
Compì gli studi ecclesiastici nel Seminario di Fidenza e fu ordinato sacerdote il 23 settembre 1905.
Dopo aver esercitato per circa quattro anni il sacro ministero a Monticelli d'Ongina in qualità di
curato, si volse all'apostolato missionario per assecondare la sua vocazione ad aiutare gli emigrati
italiani, che, specie in quell'epoca del primo Novecento, traverso tristi peripezie, scontavano con la
sfortuna il desiderio di guadagnare un pezzo di pane fuori dalla patria nella quale la miseria si faceva
troppo sentire.
Entrato il 2 maggio 1910 nella congregazione per gli Emigrati italiani, fondata dal vescovo piacentino
mons. Scalabrini, si recò per tale missione nel Nord America.
Fu parroco a Buffalo, Fredonia, New Yorl a Boston, quindi a Chicago, sempre accanto agli emigrati
come un fedele portavoce dell patria lontana.
Ebbe la ventura di collaborare nell'apostolato con quella meravigliosa figura della santità moderna che
fu S. Francesca Cabrini, fondatrice della congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore, infaticabile
eroina tra 500 mila connazionali allora incompresi, maltrattati, privi di assistenza religiosa e civile.
A S. Francesca Cabrini, morente, padre Vanoli chiuse gli occhi nel 1917 e dieci anni dopo fu presente
all'esumazione delle venerate spoglie allorchè ebbe inizio il processo di beatificazione.
Sorretto dallo stesso entusiasmo ed ardore apostolico di un tempo, spese gli ultimi sette anni di vita
quale cappellano nel Mother Cabrini Memoria! Hospital di Chicago, una tra le più imponenti realizzazioni
della carità italiana in terra straniera, svolgendo azione zelante, diligente e comprensiva con tratto
sempre all'abile, così da accattivarsi la stima di tutti, anche dei più lontani da Dio, spesso da lui
ricondotti sulla buona strada.
Le visite di padre Vanoli in Italia e in particolare alla sua diocesi furono, nel corso di oltre nove lustri,
rare e fugaci.
Ma nel settembre 1955 egli non aveva voluto mancare di far ritorno nella sua terra a celebrarvi la
messa d'oro e la parrocchia di Sant'Andrea, ove nacque, gli tributò per la circostanza una
manifestazione di affetto e deferenza.
Allorchè morì nel suo campo di lavoro, i funerali furono una testimonianza di quanto egli tosse amato e
stimalo.
Vi parteciparono, fra gli altri, uno dei vescovi ausiliari, il provinciale dell'Ordine di San Carlo, tutti gli
studenti scalabriniani del Melrose Park e gran numero di confratelli accorsi sino da Milwaukee, da
Kansas Citi e dalla lontana Boston.
La funzione religiosa si svolse nella chiesa della Madonna di Pompei, quindi la salma di padre Vanoli fu
inumata nella tomba Scalabriniana del cimitero Queen of Hear'en cli Chicago.
VERDI GIUSEPPE
Musicista, nato a Roncole di Busseto il 10 ottobre 1813; morto a Milano il 27 gennaio 1901
.
Giuseppe Verdi
Nacque da Carlo e da Luigia Uttini, gente di umilissime condizioni.
Il padre gestiva nella piccola frazione di Roncole una osteria con negozietto annesso di generi diversi
ed il futuro maestro sarebbe stato destinato a succedergli nella modesta attività, se l'istinto di artista
predestinato non l'avesse chiamato irrevocabilmente laddove egli sentiva il presagio infallibile del suo
avvenire.
Sono note a chiunque le vicende dell'infanzia di Verdi, sebbene la leggenda si sia impadronita,
trasfigurandoli, di elementi veri della sua vita. Ma a prescindere dagli episodi fantasiosi dei villici
suonatori che l'accompagnarono a suon di musica al fonte battesimale e dei rischi mortali corsi dal
giovinetto cadendo in una gora e giungendo in ritardo ad una sacra funzione nell'oratorio di Madonna
dei Prati, dove poco prima un fulmine aveva incenerito quattro sacerdoti e due cantori, dobbiamo
considerare la realtà di una fanciullezza vissuta poveramente nel villaggio tra il lavoro spesse duro
nell'esercizio paterno e il disimpegno delle mansioni di chierichetto nella chiesa parrocchiale.
E' tuttora conservata nel museo della Scala la spinetta, donatagli dal padre, dalla quale il ragazzo, per
appagare l'innata propensione alla musica, si diletta va a trarre note con fresca ed ingenua
spontaneità.
Sembra accertato che Verdi apprese i primi elementi della teoria musicale all'età di dieci anni dal
rettore dell'oratorio — ora santuario — di Madonna dei Prati; ebbe poi a maestro Pietro Baistrocchi,
organista del villaggio di Roncole, il quale gli impartì lezioni di cembalo. Più tardi, protetto dal
mecenate Antonio Barezzi, fu ammesso a Busseto, alla scuola di grammatica del canonico Pietro
Seletti ed a quella di musica diretta da Ferdinando Provesi, maestro di cappella e organista della
collegiata di Sa Bartolomeo; fu questi che per primo intuì il genio latente dell'artista, definendo l'allievo
« quel genio che oggi sorge e che diverrà presto il più bell'ornamento di questa patria ».
La produzione giovanile di Verdi è circoscritta a lavori secondari e d'occasione arie, duetti, concerti
per pianoforte, variazioni per diversi strumenti, otto pezzi formanti I deliri di Saul e numerose
composizioni a soggetto sacro, tra cui vari Tantum ergo per tenore e baritono e tenore e basso una
Messa a quattro voci e uno Stabat Mater: musica, tutta di finissimo gusto, sostiene il Seletti, mediocre,
invece, e di scarso valore. La prima composizione che il quindicenne musicista potè far eseguire in
pubblico fu una sinfonia che venne premessa ad una rappresentazione nel teatro di Busseto del
rossiniano Barbiere di Siviglia, secondo l’uso allora corrente di inserire in opere celebri brani d’altro
autore.
La casa natale a Roncole Verdi
Nel 1832, per interessamento del Barezzi, Verdi ottenne dal locale Monte di pietà una delle pensioni
assegnate dall'istituto ai giovani poveri che denotassero attitudini artistiche. Contava allora
diciannove anni, ma gli studi compiuti nelle ore non occupate ad aiutare il padre nel buon andamento
dell'esercizio gli avevano procurato una preparazione troppo frammentaria ed insufficiente. Ed egli se
ne convinse allorchè, grazie alla pensione accordatagli dal Monte di pietà, si trasferì a Milano per iscriversi a quel Conservatorio: fu respinto per scarse attitudini musicali e non, come si vorrebbe, per l'età
non regolamentare e per scarsa agilità nel pianoforte.
Dovette ripiegare sulle lezioni del pugliese Vincenzo Lavigna, maestro concertatore alla Scala, buon
compositore e, per ammissione dello stesso suo allievo, contrappuntista fortissimo. Nel frattempo, per
completare la propria cultura musicale, s'era dato a studiare a fondo opere strumentali dei grandi
maestri, in ispecie tedeschi, ed a partecipare assiduamente ad esecuzioni musicali. Di quel tempo è
anche la composizione di due accademie private e di alcuni pezzi che non furono nemmeno
strumentati, tra i quali L'Esule e Seduzione, su versi del Solera e di Luigi Balestra, e il Notturno, sulla
celebre poesia del bassanese Jacopo Vittorelli.
Ritornato dopo quattro anni a Busseto, avrebbe aspirato ad occupare il posto di maestro di cappella e
di direttore della scuola di musica, rimasto vacante per la morte del Provesi, ma fu preferito a lui
altro maestro. Dedicò allora gran parte della sua attività nella direzione di una piccola scuola di
musica istituita dal comune e della banda musicale del luogo, dando frequenti concerti nei vicini paesi.
Il 4 marzo 1836 sposò Margherita Barezzi, figlia del suo benefattore. Il matrimonio venne celebrato
nell'oratorio della SS. Trinità e gli sposi si accasarono nel palazzo Rusca, presso l'abitazione del
Barezzi.
Per tre anni Verdi condusse vita modesta e tranquilla, occupato a lavorare alla composizione di marce
per banda, sinfonie — che poi faceva eseguire in pubblico dal complesso da lui diretto — e pezzi vari
per chiesa; musicò a tre voci i cori delle tragedie del Manzoni ed il Cinque maggio ad una sola voce;
pubblicò una raccolta di sei romanze da camera e, cosa più importante, si pose a musicare l'Oberto
conte di San Bonifacio, suo primo lavoro teatrale.
Margherita Barezzi
Ritratto di A. Mussini al Museo della Scala
Il 26 marzo del '37 nacque agli sposi una bambina, Virginia, che doveva morire poco più di un anno
dopo, cioè ad un mese di distanza dalla nascita, nel luglio del secondogenito Icilio Romano. Nel
settembre di quello stesso anno, vinto forse dalle insistenze degli amici a non sacrificare il suo
ingegno alle modeste occupazioni, si stabilì a Milano, dove prese contatto con l'ambiente teatrale e
fece subito. conoscenza con il celebre impresario Bartolomeo Merelli e con l'amica di questi
Giuseppina Strepponi, cantante allora in auge e che sarebbe divenuta sua seconda moglie.
ll debutto del giovane compositore, mercè l'appoggio del Merelli, fu onorevole L'Oberto, andato in
scena alla Scala il 1 novembre del '39, ottenne un successo che si potrebbe definire di stima. L'opera,
pur senza entusiasmare, piacque al pubblico milanese, che salutò con applausi la comparsa nell'arte di
un nuovo maestro.
Il Merelli offrì subito a Verdi di sottoscrivere un contratto per altre tre opere La prima di esse
avrebbe dovuto esser Il Proscritto, su libretto del Rossi ; ma questo libretto fu, per varie ragioni,
accantonato e sostituito con l'altro a soggetto buffo del Romani: 11 finto Stanislao, ovvero Un giorno eli
regno.
Le ragioni della caduta di quest'opera alla Scala, dove andò in scena la sera del 5 settembre 1840,
sono pressochè concordemente attribuite dai biografi del maestro allo stato di indicibile prostrazione
nel quale Verdi fu tratto dalla morte quasi contemporanea dei figli e della moglie, benchè non si
comprenda come egli avesse accettato di musicare un'opera il cui genere non si accordava alla
serietà della sua natura. Verdi stesso, rievocando a distanza di anni la sventura che l'aveva colpito e
sbagliando, come a chiunque potrebbe accadere, date riferibili alla sua stessa vita, autorizzò questa
pietosa leggenda.
In effetti, la bimba era morta nel '38 ed il figlioletto spirò nell'ottobre del successivo anno, poco meno
di un mese prima dell'andata in scena delI'Obcrto. Quella che morì mentre Verdi era intento a
musicare Il finto Stanislao fu la giovane sposa, trascinata alla tomba Il 18 giugno del '40 da un violento
attacco d'encefalite.
Giuseppina Strapponi
Ma di vero rimane questo: che egli, in due anni, vide distrutta da un crudele destino la famiglia che
s'era formato: la dolce compagna della vita ed i frutti del loro tenerissimo amore.
Verdi s'era illuso che il pubblico, al corrente di questa dolorosa concatenazione di lutti, si dimostrasse
comprensivo, risparmiandogli l'umiliazione di un fiasco; ma non fu così: i fischi a teatro non mancarono
e l'opera cadde clamorosamente. Il colpo per il maestro fu duro e contribuì certamente a rendere
l'uomo, già schivo per natura, ancor più solitario e scontroso.
A Milano, dove continuò a risiedere, si ridusse a vivere in una camera ammobiliata, in un isolamento
ch'era frutto di disperato scoramento.
L'incontro casuale nella galleria De Cristoforis, in una fredda e nebbiosa serata del gennaio del '42,
con la Strepponi ed il Merelli, il quale fece scivolare in una tasca del maestro riluttante il libretto del
Nabucco — scritto dal Solera per il Nicolai — dopo essersi inutilmente sforzato di convincerlo a
musicarlo e l'episodio dei versi suggestivi del canto Va pensiero sull'ali dorate, che avrebbero colpito
l'attenzione di Verdi allorchè egli, rientrato a casa, gettò con noncuranza sopra un mobile il libretto e
questo si aprì proprio a quella pagina, sono in gran parte da relegare anch'essi nella leggenda.
In effetti Verdi era troppo orgoglioso per non aspirare ad una rivincita. S'aggiunga a ciò l'interesse
che egli aveva sempre provato per la Bibbia e per le antiche storie e si comprenderà quanto il
soggetto dovette appassionarlo.
In poco più di due mesi l'opera era musicata e il 9 marzo del '42, protagonisti la Strepponi, il Ronconi e
il Derivis, ottenne alla Scala un successo entusiastico.
Il Nabucco non soltanto consacrò alla fama il giovane maestro, ma segnò una tappa importante per la
scena lirica italiana, che dava segni di stanchezza ed alla quale il solo Donizetti non bastava ad
infondere vita dopo il silenzio di Rossini, che si protraeva dal '29, e la morte, nel '35, di Bellini.
Con quest'opera Verdi pose arditamente la prima pietra dell'edificio melodrammatico moderno,
foggiandone la costruzione con disegno nuovo e indipendente. Sarebbe tuttavia inesatto sottovalutare
l'apporto del particolare momento politico al successo del Nabucco, nel quale l'avvicendarsi e il
confondersi della tragedia lirica con l'ambizione, la gloria e l'amor di patria, eccitarono il popolo e
servirono di pretesto alla prima dimostrazione che preluse al futuro risveglio politico. Da allora Verdi
andò assumendo quella fisionomia di maestro della rivoluzione italiana che andò prendendo sempre
più forma sino a racchiudere in sè l'anima ardente e generosa degli italiani nell'epoca eroica del
risorgimento nazionale; e fu dopo il trionfo del Ballo in maschera, nel '59, seguito dalle vittorie di
Palestra e di Magenta, che il suo nome si prestò, per combinazione, ad essere l'acrostico di un grido
che fece fremere il cuore di milioni d'italiani: Viva Verdi voleva significare Viva Vittorio Emanuele Re
D'Italia.
Dal '42, l'anno del Nabucco, al '49, l'anno della Battaglia di Legnano, con cui ebbe termine la prima
maniera del maestro, Verdi compose e mise in scena dieci opere : I Lombardi alla prima Crociata
(Milano, Scala, 11 febbraio 1843), accolta con favore nonostante le incongruenze del libretto del Solera,
privo di logica e di nesso, e della musica, mancante di condotta e di stile; Emani (Venezia, Teatro La
Fenice, 9 marzo 1844), espressione di quel romanticismo che nel nostro Paese ebbe anche carattere
altamente patriottico, sintetizzandosi nell'amor di patria e nel dispregio per la dominazione straniera; I
due Foscari (Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844) ; Giovanna d'Arco (Milano, Scala, 15 febbraio
1845); Alzira (Napoli, Teatro San Carlo, 12 agosto 1845) e Astila (Venezia, La Fenice, 17 marzo 1846),
opere che scossero vivamente il pubblico con la potenza delle melodie e con le allusioni patriottiche,
ma che segnarono un periodo di decadenza, o più benevolmente di sosta, nell'arte di Verdi, sospinto
dall'opportunismo politico — non inteso nel significato più deteriore — alla ricerca di facili successi;
Macbeth (Venezia, La Fenice, 14 marzo 1847), l'opera al maestro più cara e da lui dedicata al Barezzi, la
quale preluse all'avvio di Verdi verso il periodo più luminoso della sua arte; I Masnadieri (Londra,
Teatro della Regina, 22 luglio 1847), accolta senza entusiasmo come la successiva Il Corsaro (Trieste,
Teatro Comunale, 25 ottobre 1848) ; infine La Battaglia di Legnano (Roma, Teatro Argentina, 27 gennaio
1849), opera di scarso pregio, ma che, rappresentata dieci giorni prima della proclamazione della
Repubblica Romana, ottenne quel successo che il maestro musicandola in pochi giorni, s'era prefisso
Otto anni di attività e di successi : non deve stupire che la fama di Verdi si fosse diffusa in tutta
Europa.
Gli impresari di teatro e gli editori gl offrivano contratti sempre più vantaggiosi già per Nabucco,
mediatrice la Strepponi egli aveva ricevuto dal Merelli un compenso pari a quello preteso da Bellini per
la Norma, vale a dire ottomila lire austriache ponendo a sua disposizione alcuni tra migliori e più
famosi cantanti : Erminia Frezzolini, Achille De Bassini, Mariann< Barbieri-Nini, Gaetano Fraschini, Luigi
La blachc, Jennv Lind, Italo Gardoni, Sofia Locwe, Filippo Coletti, il Roppa, il Selva la Tadolini ed altri
ancora con i quali Verdi pur tenendone in gran pregio le virtù, ehbe a liticare ogniqualvolta si trattò di
concessioni che ripugnavano alla sua serietà d maestro ed alla sua coscienza di artista
Conobbe ed entrò in consuetudine amichevole con moltissime persone: sovrani, uomini di Stato,
esponenti dell'aristocrazia della scienza e della cultura; particolarmente care le amicizie strette a
Milano coi il Carcano, il Somma e Carlo Tenca; a Firenze con Dupré, Bartolini, Giusti e Cappelli ; a Napoli
con Torelli, Parizzi, Florimo Morelli e Delfico; affettuosissima, poi, quei la che lo legò a Clara Maffei,
l'intelligente e colta nobildonna milanese, e che si protrasse sino alla morte di lei, avvenuta ne 1886.
Amò, riamato, Giuseppina Strepponi che tanta parte aveva avuto nella sua affermazione nell'arte.
Fu per suo consiglio che egli acquisti nel '48 la villa di Sant'Agata con i circostanti poderi, che sarebbe
divenuta il sui rifugio, il suo asilo di pace, dove videro la luce le sue opere più grandi.
Il periodo 1849-1867 segnò l'epoca aurea della produzione verdiana: dalla Luisa Miller, con intermezzo
di Rigoletto, Trovatore, Traviata, al Don Carlos.
La chiesa parrocchiale di Roncole
Diciotto anni dieci opere della seconda maniera, ove si voglia escludere I'Aroldo (Rimini, Teatro
Comunale, 16 agosto 1857), che fu uno sfortunato rifacimento dell'infelice Stiffelio.
La Luisa Miller (Napoli, San Carlo, dicembre 1849) può essere considerata l'anello di congiunzione fra il
Verdi della musica concitata e spesso negletta del Nabucco e quello, votato a un ascendente artistica
superiore, del Ballo in maschera, del Don Carlos e dell'Aida. Ciò indipendentemente da talune
incongruenze, le quali, peraltro, trovano spiegazione nella mancanza — addotta anche da Verdi a sua
difesa — di poeti teatrali che sapessero saggiamente riunire l'estro lirico alla conoscenza dell'effetto
scenico.
Ci sembra tuttavia di dover rilevare come, nonostante il radicale mutamento nel trattare il linguaggio
verbale, Verdi sia, nei lavori riusciti, pari ovunque per intensità e sensibilità, sempre gagliardo al
contatto dei sentimenti umani. Si può dire che egli viva nel dominio del cuore: non v'è infatti grado del
sentimento che l'uomo che pianse ed amò per tatti non abbia fatto traboccare al momento giusto e
con il suggello della sua vigorosa personalità. Così, soprattutto, nelle opere che fecero seguito alla
Luisa Miller (fatta eccezione per Stiffelio — rappresentata al Teatro Grande di Trieste il 16 novembre
del '50 — nella quale il maestro sembrò dimenticare, tutto ad un tratto, il concetto di riforma artistica
che andava in lui maturando) : Rigoletto (Venezia, La Fenice, 11 marzo 1851), che è senza dubbio il
melodramma più ispirato di Verdi ; Il Trovatore (Roma, Apollo, 19 gennaio 1853), l'opera sua più
popolare, perchè la più tipica e personale, nonostante presenti le mende, forse accentuate, del
Rigoletto per quanto riguarda il libretto e l'argomento e non sia, nella forma, dì eguale correttezza,
proprietà ed eleganza; La Traviata (Venezia, La Fenice, 6 marzo 1853), l'opera in cui domina la
maggiore sentimentalità ed in cui l'amore sia più lungamente e commoventemente cantato; I Vespri
Siciliani (Parigi, Teatro dell'Opera, 13 giugno 1855), che rivela i germi nuovi della produzione futura,
sebbene questi siano soffocati da un'onda melodica che domina il compositore impedendo di
svilupparli com'era nell'intendimento; Simon Boccanegra (Venezia, La Fenice, 12 marzo 1857), nella
quale, per la prima volta, si scorgono caratteri veri anche nel declamato, ma che non piacque per la
musica che troppo seguiva la vicenda lugubre del libretto; Un Ballo in maschera (Roma, Apollo, 17
gennaio 1859), da ritenere, dopo la Miller, importante nell'evoluzione verdiana; importante anche
perchè il simbolismo patrio, che aveva accompagnato il maestro nel suo cammino artistico dal '42 in
poi, assumeva con quest'opera — rappresentata alla vigilia degli avvenimenti politici che segnarono il
primo grande momento della redenzione italica — la sua ultima, apoteotica espressione; La Forza del
destino (Pietroburgo, Teatro Imperiale, 10 novembre 1862), che, nonostante la scelta infelice del
libretto e la scarsa od alcuna unità organica dell'opera, ebbe ininterrotta fortuna, specie dopo le
modifiche apportate al libretto del Piave; ma vi è di notevole il grande sviluppo della parte corale e la
comicità di alcuni quadri, che di tratto in tratto rompono la fosca trama in cui la fatalità del destino è
resa con potente, travolgente drammaticità; Don Carlos (Parigi, Teatro dell'Opera, 11 marzo 1867),
opera alquanto discussa, ma che rimane una delle concezioni verdiane più nobili e generose e che si
distingue dalle altre opere per il carattere aristocratico, ossia non popolare, dello stile: musica nella
quale l'alta filosofia dell'idea estetica si unisce con grazia al romanticismo del sentimento.
Se già nel '47 Verdi era popolare a Parigi ed a Londra come in Italia, fra il '51 e il '67 la sua fama non
ebbe, si può dire, più confini. Fu un periodo di intensissima attività ed anche il più felice per la vena
creatrice del maestro, che in meno di tre anni dette al teatro Rigoletto, Trovatore e Traviata, il
cosiddetto Trittico romantico, tre capolavori, presi separatamente, che rappresentano la gloria
musicale di mezzo secolo.
Di quegli anni noteremo, con il raggiungimento di Verdi del dominio nel campo dell'arte, i sempre
maggiori proventi (che egli saggiamente amministrava), nuove amicizie, tra cui quelle, affettuosissime,
con il conte Opprandino Arrivabene, con Cesarino De Sanctis e con lo scultore Luccardi; le lotte contro
i soprusi e le angherie della censura teatrale e gli immancabili litigi con impresari (ne '59 ebbe una
grossa questione con l'impresa del San Carlo di Napoli, che per ragioni politiche pretendeva fosse
trasposta la musica del Ballo in maschera sopra altro libretto), con editori, librettisti, direttori
d'orchestra e cantanti. Di bravi cantanti ne ebbe parecchi a primi interpreti delle sue opere:
basterebbe citare Teresina Brambilla Ponchielli, Raffaele Mirate, Felice Varesi, Rosina Penco, Cristina
Nilsson, Virginia Boccabadati, Lorenzo Salvi, la Spezia, la Piccolomini, il Boucardé, Sofia Cruvelli.
Ma, ormai, non v'era cantante celebre che non cercasse nelle opere di Verdi il successo con
interpretazioni personali : i tenori Mario De Candia nel Rigoletto e nella Traviata, Boucardé ed Enrico
Tamberlik nel Trovatore, Gaetano Fraschini nella Luisa Miller, nella Forza del destino e nel Rigoletto,
Raffaele Mirate nel Rigoletto, nei Lombardi e nella Giovanna d'Arco, Carlo Negrini nella Luisa Miller,
Emilio Naudin nel Rigoletto; i soprani e mezzo-soprani e contralti Giulia Grisi e Marcellina Lotti nel
Rigoletto, Erminia Frezzolini nei Lombardi e nella Giovanna d'Arco, Teresa Brambilla Ponchielli nel
Rigoletto, nel Trovatore e nell'Ernani, Sofia Cruvelli nelI'Ernani e ne I due Foscari, Teresa Stolz nella
Giovanna d'Arco, nel Don Carlos e nella Forza del destino, Rosina Penco, Maria Spezia e la Piccolomini
nella Traviata, Romilda Pantaleoni nell'Ernani, le sorelle Barbara e Carlotta Marchisio nel Rigoletto e
nella Forza del destino, Teresa De Giuli nella Luisa Miller, nel Rigoletto e nell'Ernani, Adelina Patti nel
Rigoletto e nella Traviata, Marianna Barbieri-Mini nel Macheth, Adelaide Borghi-Mamo, Marietta Alboni e
Marietta Brambilla nel Trovatore; i baritoni ed i bassi Felice Varesi nel Rigoletto, Victor Maurel nel Don
Carlos, nel Trovatore e nell'Ernani, Francesco Pandolfini nell'Ernani, Gottardo Aldighieri nel Ballo in
smaschera, Antonio Cotogni nel Rigoletto, nell'Attila, nella Forza del destino e nel Ballo in maschera,
Luigi Lablachc ne I Masnadieri, Antonio Tamburini nella Forza del destino: ecco, in sintesi, i sovrani
della scena, gli interpreti eccezionali delle opere di Verdi che seppero suscitare, in Italia e all'estero,
indescrivibili entusiasmi.
Altri avvenimenti da ricordare in quegli anni: la morte della madre, nel giugno del '51, e quella del padre
nel gennaio del '67, sepolti entrambi nel piccolo cimitero di Vidalenzo (Verdi, da figlio amorosissimo,
aveva procurato ai genitori, già dal tempo dei primi successi, un'esistenza tranquilla ed agiata); il
matrimonio del musicista con Giuseppina Strepponi, avvenuto il 29 aprile del '59 nella chiesa cattolica
di Collangesous-Salière nella Savoia ancora italiana; la morte, nel luglio del '67, del benefattore
Barezzi, non mai dimenticato dal maestro nonostante gli screzi fra i due uomini di cui fu causa
involontaria la Strepponi, che nel cuore del musicista aveva preso il posto della prima moglie; e Verdi,
per porgergli l'estremo saluto, accorse affranto al suo capezzale da Milano dov'era in procinto di
partire per Parigi per le prove del Don Carlos.
Villa Verdi a Sant’Agata
E poi l'incontro con il Manzoni, preparato dalla contessa Maffei e avvenuto, con grande commozione del
maestro, il 3 giugno del '68; l'amicizia con la celebre cantante tedesca Maria Waldmann, poi duchessa
Massari Zavaglia di Fabriano, e con la non meno celebre collega di questa Teresa Stolz, entrambe
interpreti somme del repertorio verdiano.
Assurto ai più alti fastigi dell'arte, tutte le porte gli vennero spalancate: i circoli aristocratici ed i
salotti più inaccessibili ambivano l'onore di averlo ospite. Ma Verdi non era certo uomo che cercasse
gli onori mondani. Indifferente sin dai primi successi al soffio della vanità, non mutò in nulla la sua vita
semplice e febbrilmente operosa. Amante della solitudine e del raccoglimento, insofferente delle lodi e
proteste di ammirazione degli uomini, rifuggiva dalle convenzioni e nell'isolamento di Sant'Agata si
sottraeva alle noie della celebrità.
Ruvido e sdegnoso in gran parte lo era per natura, moltissimo lo fu per necessità, per il bisogno di
sfuggire all'assedio dell'infinita schiera dei seccatori e degli adulatori, da lui aborriti. Implacabile nel
respingere ogni contatto con questi, serbava a uno stuolo numerato e casto di eletti tutta la
squisitezza del suo affetto, le arguzie della sua conversazione e delle sue lettere.
La giusta conoscenza del suo temperamento traspare — ben osserva il Luzio — dalle lettere, che lo
presentano diverso dal concetto che molti, male interpretando la sua modestia, ombrosa e ispida, si
erano formati. Veramente, superbo Verdi non fu mai, ma nemmeno umile se non di fronte alla propria
arte ed ai grandi che l'arte prima di lui avevano amato e servito (e la sua umiltà davanti al Manzoni
basterebbe a testimoniarlo).
E' noto con quanta passione, quando gli impegni di teatro glielo consentivano, il maestro si dedicasse
nei suoi campi ai lavori agresti: egli stesso non sdegnava appellarsi contadino delle Roncole; ed è in
quella semplicità rurale che nacque la musica che fece il giro del mondo, melodiosa e trascinante, con
un'arte, immortale che parla a chiunque. Venuto dal popolo, Verdi rimase sempre nel cuore del popolo.
Agli umili si accostava con calda umanità: i legati testamentari sono una dimostrazione del suo amore
per la gente umile, della quale aveva saputo sollevare i sentimenti più nobili cantati dai poeti e da luì
realizzati nei cori di masse che condussero gli italiani a riconquistare la dignità del proprio essere.
Nella sua opera musicale è tutto un fremito di patrio amore. Sensibilissimo alle sorti del paese, egli fu
fervido assertore della causa dell'indipendenza nazionale, che servì non soltanto con la musica. E
quantunque non avesse partecipato agli avvenimenti politici, dimostrò più di una volta i suoi sentimenti
patriottici. A Parigi, dopo le cinque giornate di Milano, aderì apertamente all'indirizzo del Guerrieri
Gonzaga, ministro degli Esteri di Milano, inviato in Francia a chiedere aiuto, in nome della libertà, alla
nazione sorella. Estimatore del Mazzini — per il quale scrisse nell'ottobre del '48 l'inno Suoni la tromba
su parole di Mameli — intese tuttavia quale fosse l'opera enorme di Cavour e votò a lui una devozione
che non cessò mai.
Sdegnoso di cariche e di onori, nel '59, per nobile senso di italianità, accettò di far parte, quale
rappresentante di Busseto, dell'Assemblea delle Provincie Parmensi e fu tra i quattordici deputati che
sottoscrissero l'annessione al Piemonte e membro della deputazione recatasi espressamente a Torino
per presentare ì 426 mila sì del voto plebiscitario. Alla cacciata degli austriaci dalla Lombardia, egli,
che aveva sempre sofferto di non essersi potuto arruolare tra i combattenti per la malferma salute,
distribuì aiuti generosi ai feriti ed alle famiglie dei caduti.
Nel '61, eletto deputato da Cavour nonostante la riluttanza per tale carica, prese parte alla seduta del
27 marzo di quell'anno nel corso della quale fu proclamata Roma capitale del Regno d'Italia; ma, per gli
impegni d'arte, non potè dare considerevole contributo di attività alla vita parlamentare. Si limitò a
votare, per la fiducia che aveva nel grande statista, le leggi di Cavour; e quando questi nello stesso '61
morì, egli, che aveva sempre nutrito scarso interesse per la politica, si trovò disorientato in
parlamento e confessò candidamente di essersi astenuto da interventi per il timore di commettere
qualche sproposito.
Dal Don Carlos all'Aida intercorsero quattro anni. Con quest'opera (Cairo, Teatro khediviale, 24
dicembre 1871 ), considerata una delle più elette espressioni della sentimentalità lirica italiana
impersonata nel genio del suo autore, Verdi iniziò la sua terza maniera.
Taluni critici non accettano la suddivisione dell'opera verdiana in tre o più maniere (una quarta altri
vorrebbero intravvedere nell'Otello e nel Falstaf f ), sostenendo che l'arte del grande musicista andò
concretandosi in opere di sempre maggior valore e significato per la progressiva conquista di un
linguaggio più ricco ed esteso e di e di una maggiore comprensione di umanità.
Ma appunto per questo processo evolutivo non sarebbe possibile accostare stilisticamente 1'Otello non
diciamo al Nabucco, ma al Rigoletto, o al Trovatore o ai Vespri Siciliani. Verdi stesso aveva compreso
che l'entusiasmo patriottico, che tanto aveva giovato al successo delle prime opere, nascondeva un
grande pericolo per l'artista, turbandone lo svolgimento della personalità. Perciò vinse quell'insidia e
superò la lotta del sentimento e la conquista di uno stile che rappresenta il travaglio dei primi,
difficilissimi anni. Già la Luisa Miller segnò l'avvio del maestro verso più alte espressioni d'arte.
A ciò contribuirono certamente la sempre più diffusa conoscenza nel nostro Paese delle nuove opere
straniere, specie di Wagner e di Meverbeer, e le discussioni da esse suscitate. Nell'Aida s'intravvedono
i segni dell'altezza che il maestro avrebbe raggiunto sedici anni dopo con Otello.
Aida, come è noto, riuscì una grande solennità artistica. Dopo sole sei settimane l'opera fu
rappresentata alla Scala di Milano (8 febbraio del '72) con esito trionfale, avendo ad interpreti gli
stessi cantanti che la presentarono al Cairo: la Stolz e la Waldrnann, il tenore Fancelli, il baritono
Pandolfini ed il basso Maini : un complesso di artisti veramente superbo.
Verdi con Arrigo Boito, all’epoca di Falstaff
11 periodo dal '63 all"87 fu di raccoglimento e di meditazione. Il genio fecondissimo, che in soli tre anni
aveva dato all'arte i capolavori del trittico romantico, limitò la propria produzione al Don Carlos ed
all'Aida, alla riforma degli spartiti del :Macbeth, della Forza del destino, del Simon Boccanegra e dello
stesso Don Carlos, avendo per queste due ultime opere a collaboratore e consigliere preziosissimo,
nelle modifiche apportate al libretto, Arrigo Boito. Di più scrisse, per la morte del Manzoni, la Messa di
Requiem, nella quale incluse il Libera musicato per la Messa commemorativa che nel '68, in occasione
della morte di Rossini, avrebbe dovuto essere composta da una dozzina di musicisti, lui compreso; idea
bene accolta, ma non concretata per sopraggiunte gelosie e vanità.
Al confessore che gli chiedeva se fosse credente, Rossini, in punto di morte, rispose che,
diversamente, non avrebbe potute scrivere lo Stabat Mater. L'episodio, notissimo, può essere evocato
per un parallele con la fede di Verdi. Fu fede sempre viva quella del grande musicista? Forse no; e
diciamo forse per la difficoltà a penetrare nell'intimo di ogni persona e specie nel suo: il maestro fu
sempre ritroso ad esprimere sentimenti e pensieri. Ma la Messa di Requiem, da lui scritta per
spontaneo impulso del cuore, ed anche e soprattutto le numerose composizioni di musica per chiesa
ed i canti sacri inseriti in alcune opere sono espressione di una pietà all'origine della quale sta una
fede talvolta forse sopita, ma suscettibile di improvvisi, erompenti lampi di vita.
Ci sembra di dover rilevare che Verdi, fanciullo, ricevette una soda formazione religiosa, nè crediamo
che questa fosse stata intaccata dalle idee politiche anticlericali e dalle filosofie agnostiche, positiviste
del sec. XIX: sappiamo che tutto ciò non interessò minimamente il maestro per quel suo assenteismo
da quanto sapeva di letteratura, di filosofia e persino di semplice erudizione giornalistica. E per la
stessa ragione non si sa quale credito attribuire alle affermazioni di quanti sostengono che íl maestro,
per ragioni dì contingenza politica, nutrì scarsa simpatia per il clero a causa dell'insoluta questione
romana. Una certa prevenzione vi fu, ma essa fu conseguenza dell'amor proprio ferito per la mancata
assunzione al posto di organista e maestro di cappella a Busseto, perchè Verdi, per la natura stessa
del carattere, non era uomo che dimenticasse facilmente un affronto.
E' tuttavia nota la sua amicizia cordialissima per alcuni sacerdoti : basterebbe citare mons. Adalberto
Catena, don Alberto Costa, poi vescovo di Lecce, che per lui celebrava la messa nella cappellina della
villa di Sant'Agata, e, soprattutto, don Giovanni Avanzi, parroco di Vidalenzo, gran signore per
educazione, colto umanista, suo elemosiniere e consigliere: è tradizione che l'Avanzi avesse tradotto e
commentato per il maestro le parole della Messa di Requiem, del cui testo in prosa fu autore il
milanese don Claudio Borri.
L'Otello (Milano, Scala, 5 febbraio 1887) fu l'opera alla quale Verdi lavorò più a lungo e con maggiore
impegno, avendo a collaboratore Arrigo Boito nella stesura del libretto tratto dal dramma di
Shakespeare. La scrupolosa armonia della musica con il testo ne costituisce il pregio massimo. Con
Otello il maestro affrontò il problema del dramma lirico moderno, liberandolo dalle formule
convenzionali senza, tuttavia, uscire dalle leggi del principio melodico, del quale allargò le basi. E' certo
che egli, giunto a comporre quest'opera, si rendeva conto delle lacune che presentava il vecchio melodramma e già nel '68 ne faceva un'acuta diagnosi con il Ricordi, rilevando come nelle opere di altra
epoca mancasse, in particolare, «quel filo d'oro che lega ciascuna parte e costituisce, invece di pezzi
staccati, l'opera in musica». Si potrà discutere sul punto che Otello, anche per la ricchezza di
strumentazione, costituisca il capolavoro del maestro, ma non v'è dubbio che tale opera rappresenti la
sintesi luminosa dell'ingegno del suo autore, il quale, raggiunta la vetta della gloria, porse la visione più
alta della sua purificazione artistica insieme con l'ultima fase della sua evoluzione lirica.
Va pure considerato nell'Otello l'impegno richiesto alla voce tenorile; voce di eccezionale estensione e
robustezza, tale da rendere accessibile la parte del protagonista a pochissimi tenori. S'è scritto che
Verdi avrebbe concepito la parte del Moro di Venezia espressamente per Tamagno, che fu infatti primo
interprete dell'opera con Romilda Pantalconi e Victor Maurel; ma il particolare non è degno dì credito,
perchè esso chiamerebbe in causa la sopravvivenza stessa dell'opera.
E' noto come il prevalere della forma declamata, introdotto da Verdi nelle sue opere, spostò le voci ed
elevò le tessiture, procurando al maestro l'accusa di aver preparato il campo alla rovina di molte
ugole, sebbene altri compositori, prima dì lui, avessero dato corso a questa costumanza (basterebbe
citare Rossini con il Guglielmo Tel! e Bellini con I Puritani). Ma ciò, prima che ai maestri operisti, è
imputabile ai cantanti in generale ed ai tenori in particolare per l'abitudine inveterata a ricercare nelle
opere il pezzo dì bravura atto a porre meglio in evidenza le loro doti naturali. Rossini — e con lui
parecchi colleghi — scese a patti con i cantanti, tollerando ogni sorta di virtuosismo (ma una sera
lasciò inorridito il teatro, dove si rappresentava il Guglielmo Tell, dopo aver udito un acuto inserito a
bella posta nello spartito dal tenore Duprez per sbalordire il pubblico) ; non così Verdi, il quale
nondimeno, pur dimostrandosi irremovibile di fronte a concessioni del genere, finì con l'assecondare
questa esigenza scegliendo la via più onorevole per la dignità di un artista: quella di prevenire arbitrarie modifiche ai suoi spartiti offrendo ai cantanti, — specie ai tenori, che tra le voci rappresentano la
maggiore attrazione — parti di notevole impegno che servissero idealmente a porre in luce tutte le
dovizie dei loro organi vocali.
Il Trovatore e Aida ne offrono palese esempio. Con Otello il maestro, forse animato da un segreto
desiderio di rivincita, accentuò al massimo questo estremismo. Scelse Tamagno quale primo
interprete di Otello perchè egli era allora il maggior tenore di forza. Nessuno tra i suoi illustri colleghi,
dal De Negri al Fancelli, dal Sani all'Aramburo, dal Perotic al Mierzwiskv al Niccolini, possedeva un
organo vocale in grado di rivaleggiare con quello di lui. Ed è anche per questa ragione che la critica
teatrale del tempo — dopo il trionfo di Otello — creò il mito Otello-Tamagno a significare che ben
difficilmente il celebre tenore torinese sarebbe stato superato nell'interpretazione di quel
personaggio. L'affermazione potrà sembrare troppo esclusiva; è certo, però, che Tamagno fu artista
dotato di voce straordinaria per potenza, se non proprio per bellezza e pastosità di timbro (il critico
londinese Thomas Burke la definì spuria, artificiosa); e quantunque gli facessero difetto doti sceniche
ed interpretative (Verdi stesso, come è risaputo, dovette faticare non poco durante le prove dell'opera
perchè egli si investisse della parte) fu di Otello protagonista superbo.
Dopo di lui furono relativamente pochi i tenori che si cimentarono onorevolmente nella parte del
difficile e complesso personaggio: De Negri, Stagno, Detura, Cartica, Mariani, Mariacher, Paoli,
Zenatello, Borgatti, Martinelli, Ferrari-Fontana, Calleja, De Marchi, Lauritz-Melchior, Gabrielesco,
Zanelli, Scampini, De Muro ( Bernardo), Pertile, Lauri Volpi, Vinav. E se Tamagno non fu superato da
alcuno di questi per quanto riguarda la potenza della voce, lo fu certamente dal lato scenico (Renato
Zanelli, Giovanni Zenatello e Giovanni Martinelli ne furono grandissimi interpreti); lo sarebbe stato
senz'altro, sotto ogni aspetto, da Enrico Caruso, che quest'opera aveva studiato e che avrebbe
interpretato se la morte non avesse privato anzitempo il teatro di quell'inarrivabile artista.
Da Ocello a Falstaff f intercorsero sei anni. Ben disse il Bellaigue che queste due opere sono le più
unite e le più eguali, dove la verità non si accontenta più di gettare sprazzi di luce, di affermarsi a colpi
violenti, ma rischiara ogni cosa e dovunque risuona. Opere senza lacune, tentativi, errori; musica che
fu definita il rapporto fra il suono e l'anima, manifestato da Verdi nella sua infinita grandezza e nelle
sue infinite particolarità.
Rappresentato alla Scala il 9 febbraio del '93 diretto da E. Mascheroni e con protagonisti Victor
Maurel, Adelina Stehle ed Edoardo Garbin, il Falstaff fu accolto da tali e tanti applausi da dare
l'impressione di un esito trionfale; ma quegli applausi erano rivolti più al maestro glorioso e venerando
che all'opera, la cui bellezza musicale e perfezione tecnica pochissimi seppero comprendere.
Falstuff fu un ardito e inaspettato mi raggio d'arte, non paragonabile, per le qualità di concetto e di
forma, a qualsiasi altro lavoro dello stesso genere. Verdi presentò un nuovo schema di opera buffa
che troppo si scostava da quello convenzionale cui il pubblico era assuefatto: i più non lo compresero.
Dovettero trascorrere molti anni prima che quel mirabile interprete del genio verdiano che fu Arturo
Toscanini desse giusto risalto, nelle esecuzioni alla Scala del 1921 e del lustro successivo, alla fresca
originalità dello spartito, ingemmato di deliziosa melodia.
L'importanza di questi due avvenimenti artistici — Otello e Falstaf f — rende trascurabili tutti gli altri
avvenimenti che s produssero nella vita di Verdi dal 1871.
Le sue opere correvano per il mondo interpretate da un'eletta schiera di artisti che continuarono a
tener alta la tradizione gloriosa del teatro lirico italiano e del nostre bel canto. Sarebbe troppo lungo
fare nomi Citeremo tuttavia, tra i cantanti che maggiormente si distinsero nel repertorio verdiano,
Francesco Marconi, Luisa Tetrazzini, Gemma Bellincioni, Angelo Masini, Antonietta Fricci, Italo
Campanini, Giuseppina Pasqua, Luigia Abbadia, Enrico Barbacini, Rosina Storchio, Mattia Battistini,
Giuseppe Kaschmann, oltre a quelli in precedenza citati. E, accanto a questa nuova generazione di
artisti, altri della precedente che non avevano ancora ceduto le armi ed anzi continuavano a mietere
successi : in prima fila la Patti, Tamberlik, Cotogni, seguiti da altri illustri nomi del nostro teatro lirico
che ebbero particolare risonanza nel terzo quarto del secolo.
Al periodo movimentato che contrassegnò la direzione della Messa in Italia e all'estero ed anche la
partecipazione ad esecuzioni del Falstaff in altre città della penisola ed a Parigi, subentrarono soste
sempre più lunghe di Verdi a Sant'Agata, a Genova ed a Milano. Di onori il maestro ne aveva avuti tanti
ed altri ne ebbe: senatore del Regno dal '74, nel '93 ricusò il titolo di marchese di Busseto con una
lettera al ministro della Pubblica Istruzione Ferdinando Martini, mentre nel successivo anno aggiunse
alle altre decorazioni di cui era insignito la gran croce della Legion d'Onore, che Casimir Périer gli
appuntò sul petto a Parigi dopo il trionfo dell'Otetlo.
Estese ancor più la cerchia delle conoscenze, ma gli vennero a mancare persone amiche e care : nel
'76 il fedele suo librettista di dieci opere Francesco Maria Piave, nel '78 l'altro suo librettista
Temistocle Solera, nell"82 il Dupré ed il Carcano, nell"86 la contessa Maffei, nel '90 l'unico suo allievo
Emanuele Muzio ed ancora il Florimo e l'Arrivabene.
Nell"89 venne celebrato solennemente in tutta Italia il 50' anniversario dell'Oberto, ma è probabile che
egli avesse ricavato solo tristezza dalla grande dimostrazione, cui parteciparono il re, il governo, i
maggiori istituti di cultura e gli uomini più illustri in ogni campo dell'arte e della scienza.
La morte della moglie, il 14 marzo del '97, gettò il maestro in una solitudine inconsolabile. Con lei
scompariva la fedele e devota compagna di quasi tutta la sua vita, l'amica discreta che gli era sempre
stata vicina con la forza del suo affetto e che egli amò più di qualsiasi altra creatura al mondo.
Nell'isolamento e nell'austera tristezza degli ultimi anni ebbe tuttavia il conforto dell'amicizia di Boito e
della Stolz. In quel periodo Verdi ricorse col pensiero alla composizione di musica sacra: lo Staabat
Mater, le Laudi alla Vergine ed il Te Deum furono i suoi ultimi lavori. E provvide anche attuare forme di
beneficenza già da tempo determinate. S'è parlato molto delle ricchezze da lui accumulate, ma pochi
hanno fatto risaltare la grande carità del maetro sia in vita che nel testamento.
Le due istituzioni che più ne rivelano l'animo inclinato a beneficenza fraterna verso i sofferenti ed i
poveri sono l'Ospedale di Villanova d'Arda, inaugurato il 6 novembre dell"88, e la Casa di riposo per
musicisti, fondata a Milano in memoria della Strepponi e destinata ad accogliere tanti professionisti
ridotti in vecchiaia all'indigenza. Accanto a queste forme di beneficenza permanente vanno ricordate le
molte carità distribuite spesso segretamente dal maestro, attraverso il suo elemosiniere don Avanzi, a
concittadini bisognosi; gli aiuti da lui disposti a favore di amici e conoscenti (per esempio alla famiglia
del Piave quando questi fu colpito da paralisi); ed ancora la borsa di studio istituita nel '76 nel Comune
di Busseto a vantaggio di un giovane povero ed i lasciti a quel Monte di pietà.
Allorchè il grande maestro era agonizzante in una camera dell'albergo Milano, il suo fidato cameriere
vide biancheggiare tra le fessure del coperchio del pianoforte il lembo d'un foglietto orlato a lutto. Era
la preghiera scritta da Margherita di Savoia per il Re suo sposo nella notte che seguì il misfatto di
Monza.
Dinanzi a quella pietosa e commovente preghiera, ricorda il Monaldi, Verdi, prima del suo ultimo
deliquio, stava chiedendo forse alla sua estenuata fantasia un guizzo musicale, una di quelle melodie
palestriniane, le sole capaci, come egli diceva, di esprimere l'estasi della fede. Chissà che lo spunto
della sospirata melodia non avesse accompagnato l'anima del maestro nella sua ascesa all'infinito?!...
Morì piamente assistito da mons. Adalberlo Catena, amico del Manzoni.
In ossequio alla volontà dell'estinto, la salma venne trasportata dall'albergo al Cimitero monumentale
milanese alle sei del mattino (del 30 gennaio 1901) e in silenzio. Ma il 26 febbraio successivo, nella
circostanza della traslazione della salma dal camposanto alla Casa di riposo per musicisti, decine di
migliaia di persone, riverenti e commosse, accompagnarono il maestro alla sua definitiva dimora.
La fisionomia artistica di Verdi trova espressione nell'opera del grande maestro, la quale non può
esser, esaminata analiticamente con le fredde norme del tecnicismo musicale, ma giudicata nel suo
complesso significato e, meglio ancora, nel suo graduale e mirabile sviluppo. Se v'è uno che non visse
di riverbero, pur non inventando nulla o quasi nello schema dell'opera musicale, questi fu Verdi.
.Allorchè egli fece la sua comparsa nell'arte, dopo che il primo Ventennio del secolo aveva visto
rinnovarsi l'antico trionfo della musica italiana per opera principalmente di Rossini, Bellini e Donizetti,
il melodramma era ridotto ad un insieme incomposto e artificioso di brani staccati tra i quali si
trascinava stentatamente un'azione drammatica. Era il cliché obbligatorio delle frasi facili, dei ritmi
spontanei nel quale erano sintetizzate le forme convenzionali dell'opera musicale.
Verdi non si fece promotore di idee nuove. ma creò un tipo di opera coordinata, connessa nelle parti
strutturali e nelle forme chiuse: e intuendo l'inevitabile progresso che lo spirito di modernità avrebbe
prodotto nel gusto del pubblico, seppe concretare le nuove esigenze con la sua arte suggestiva
mirante a sempre più alti ideali. Così dalle prime opere, nelle quali tra fulgidi lampi di ispirazione
geniale prevalgono le goffaggini pletoriche delle vecchie forme e una temeraria trascuratezza dello
stile, egli, attraverso le tappe di un poderoso avanzamento, pervenne alle ultime creazioni, che
costituiscono le prove infallibili della metamorfosi che l'idea e la forma del dramma lirico avevano
subito nella mente del maestro.
Ciò comporta necessariamente, come è stato affermato, una suddivisione della produzione verdiana in
tre maniere, corrispondenti ai tre principali cicli di questa evoluzione. Verdi — e ci sembra dì dover
anteporre ciò ad ogni altra considerazione — non deviò mai dalle proprie tendenze e conservò
immutata la forte indipendenza della mente e la franchezza della propria individualità. Ciò esclude che
il maestro, nel modo di condursi nelle opere dell'ingegno, abbia seguito l'esempio di altri grandi
compositori, quantunque si debba riconoscere che egli subì influenze (Donizetti, Mcverbeer), ma quale
conseguenza, non cercata, di un ascendente artistico superiore.
Va pure di lui rilevato il temperamento schiettamente e tipicamente italiano, tale da rendere
impossibile una distinzione tra il Verdi politico, cittadino e musicista. Gia dalle primissime opere,
cedendo al nazionalismo dell'arte, che è espressione delle doti etniche del popolo che lo crea e che
all'arte stessa dona vita, egli ne era divenuto l'interprete ideale, strappando alla nostra terra i suoi più
cari segreti di canto e d'armonia e dettando un inno nel cui squillo essa doveva sorprendere le
vibrazioni della sua stessa anima.
Pertanto, nella prima maniera, Verdi impersonò nella sua musica non soltanto le aspirazioni artistiche
di un popolo, ma anche i suoi sogni di libertà, le speranze e gli eroismi, le gioie e i dolori. Il successivo
diverso modo di esprimersi del maestro fu conseguenza di un differente tessuto drammatico e
scenico, al quale egli non potè applicare l'enfasi e la magniloquenza delle opere precedenti. Posto
ormai nell'impossibilità di ispirarsi per i mutati eventi politici a quei sentimenti suscitati dalle
aspirazioni patriottiche, il maestro, presago di un nuovo avvenire, si lasciò trasportare dalla corrente
impetuosa della sua fervida immaginazione, sopraffatto dal sogno irresistibile di dar vita e forma alle
figure ed alle situazioni che l'estro gli suggeriva.
Maschera di Verdi, levata al mattino del 21 gennaio 1901
dallo scultore milanese Luigi Secchi
Busseto, Civico museo
E questo espresse con un'arte plastica ed umana che traeva dalla vita la sua ragione d'essere. Ecco,
dunque, il Verdi della seconda maniera e che tale, almeno sotto questo aspetto, può essere
considerato anche nell'Aida: il più popolare — in quanto più amato e seguito — ed anche il più grande.
La musica di Otello e di Falstaff sarà più originale e tecnicamente superiore, ma meno ispirata e
conseguentemente meno bella di quella delle opere precedenti meglio riuscite.
Verdi può ben essere considerato il primo drammaturgo d'Italia, perchè, assommando in sè i frutti
delle esperienze operistiche del primo Ottocento, realizzò pienamente il dramma musicale che Rossini,
Bellini e Donizetti avevano preannunciato. Rossini supera l'azione, nel suo significato letterario. e la
risolve in musica; Bellini la ricanta liricamente in amorosa contemplazione; Verdi la incorpora nella
musica. Egli è un lirico che non perde mai la coscienza della realtà; rifugge da quanto può essere
immateriale ed etereo, dall'oscurità del vago e dell'inesplorato: tutto deve essere vivo e presente sulla
scena, nella sua realtà affettiva. figure evidenti, sentimenti palesi, situazioni chiare. Non si preoccupa
del testo letterario che per i suoi fini musicali; ciò che gli occorre è un canovaccio di parole e di
situazioni quali convengono alla sua immaginazione teatrale; per lui la melodia nasce dalle parole, così
come l'accompagnamento musicale ha la funzione complementare di dar risalto a un momento
dell'azione, a sottolineare i sentimenti del personaggio. L'orchestrazione verdiana potrà essere — fuor
che nelle ultime tre opere — rozza ed elementare, ma non mai artificiosa e fredda. Basterebbero i
recitativi, che possono essere una sola nota o una frase melodica, sempre impeccabili e perfette, a
dimostrare il genio drammatico e istintivamente teatrale di Verdi.
Le creazioni del maestro ancor oggi più rappresentate sono Rigoletto, Traviata, Trovatore, Un Ballo in
maschera, La Forza del destino, Aida, Otello e Falstaff. L'inesorabile rigore delle leggi spirituali ha
assorbito attraverso il filtro di un'esperienza maturata le opere della prima maniera —e non
quelle
soltanto — che ben difficilmente figurano nei programmi delle stagioni liriche. Non sono, è vero,
mancati ritorni: una Verdi-Renaissance si ebbe in Italia ed anche all'estero, soprattutto in Germania, a
trent'anni di distanza dalla morte del maestro. Il repertorio verdiano venne esplorato anche nelle
opere minori e dimenticate e gli spartiti di queste rimaneggiati per renderli accettabili al pubblico
(come fecero i tedeschi Werfel e Wallerstein per il Don Carlos).
Non si può dire che l'iniziativa ebbe successo e, d'altronde, opere accolte freddamente al tempo in cui
andarono in scena non avrebbero potuto incontrare favore successivamente. Questo non significa
tuttavia che Verdi sia ormai lontano dalla coscienza artistica moderna, come sostengono taluni critici.
Il fenomeno va piuttosto inquadrato nel diminuito interesse de pubblico per l'opera musicale, così che
esso non investe la sola produzione di Verdi, ma anche quella degli altri grandi operisti dell'Ottocento e
degli stessi moderni. A ciò hanno contribuito vari fattori: innanzi tutto la mancanza di compositori che
prendessero degnamente il posto di coloro che in quest'arte li avevano preceduti, perchè la serie
gloriosa dei musicisti che all'opera musicale — quella specialmente — avevano consacrato l'ingegno si
è praticamente interrotta con la morte di Francesco Cilea; poi, in misura diversa ma sempre
notevolissima, la radio, il cinematografo e 1 televisione, che hanno talmente diffuso la conoscenza delle
opere teatrali da saturare il pubblico infine la stessa vita moderna, con il suo dinamismo — tendente a
spegnere ogni forma di sentimentalismo per l'arte — e con gli svaghi molteplici che essa è in grado di
offrire.
Il pubblico accorre ancora volentieri ad assiepare i teatri, ascolta e si diverte, ma non si lascia. più
trascinare all'entusiasmo come un tempo. L'interesse è sempre vivo per i cantanti, sola variante di
una vicenda musicata conosciuta ormai in tutti i particolari. Verdi ha avuto alleati formidabili in artisti
che per le doti preclare di voce e d'intelletto. furono interpreti ideali delle sue opere, nelle quali — con
successione ininterrotta — colsero quei successi che altri, vivente il maestro, avevano saputo
suscitare.
Questo sebbene le creazioni verdiane non formassero più parte preponderante — come una volta —
del loro repertorio, che dovette necessariamente estendersi alle opere dei maestri che vennero dopo.
Citeremo tra i soprani Amelit Galli Curci, Toti Dal Monte, Giannina Arangi Lonbardi, Nelly Melba, Claudia
Muzio, Lina Pagliugh Rosa Ponselle, Tina Poli Randacio, Rosina Storchic Elisabetta Rethberg, Florence
Austral, Maria Ga van\', Lucrezia Bori; tra i mezzosoprani e contrrll Irene Minghini Cattaneo, Luisa
Homer, Cloe Elmc Gabriella Besanzoni; tra i tenori Enrico Carusc Giovanni Martinelli, Beniamino Gigli,
Alessandr Bonci, Bernardo De Muro, Antonio Cortis, Frane, sco Merli, Miguel Fleta, Aureliano Pentile,
Giacom Lauri Volpi, tra i baritoni Titta Ruffo, Mario B: siola, Pasquale Amato, Giovanni Inghilleri, Benv.
auto Franci, Giuseppe De Luca, Apollo Granfork Carlo Galeffi; tra i bassi Ezio Pinza, Mariano SI: bile,
Tancrcdi Pasero, Salvatore Baccaloni.
Anche tra i cantanti contemporanei non mancano interpreti di valore del repertorio verdiano
Basterebbe nominare, tra i tanti, Maria Caniglia Gino Bechi, Mario del Monaco, Maria Meneghini Callas,
Tilo Gobbi, Augusto Beuf, Renata Tebald Carlo Bergonzi.
Ma, indipendentemente dall'apporto delle belle voci, v'è alla fine da considerare che le creazione
meglio riuscite del maestro non potranno diminuire nel giudizio del pubblico con il linguaggio delle
passioni e la melodia dispiegata; né potrannoperire come non sono perite e periranno, le grandi opere
dell’ingegno.
VITALI
Antica ed illustre famiglia bussetana.
Dall'albero genealogico, pubblicato da Emilio Seletti nelle sue Memorie di Busseto, si rileva che essa
ebbe a capostipite Bcrtolino, podestà di Borgo San Donnino, patrizio di Roma e di Bergamo, cittadino di
Piacenza e di Milano, morto a Busseto nel 1386.
Esponenti di questo casato ricopersero importanti cariche pubbliche ed ecclesiastiche.
Ricorderemo, tra essi, Giacopo, detto Capelleto, podestà di Busseto (I 1446); Giovanni Giacopo, podestà
di Borgo San Donnino nel 1500; Antonio, reputato giureconsulto, nobile di Cremona e podestà di
Busseto (+ 1487); altro Giovanni Giacopo, gentiluomo di camera di Galeazzo Maria Sforza, duca di
Milano (- 1531) ; Bartolomeo, valoroso uomo d'armi al servizio di Massimiliano Sforza (+ circa ne! 1531);
Niccolò, arciprete della chiesa collegiata di Cortcmaggiore (+ 1634); Cesare, fondatore del primicerato
della cattedrale di Fidenza e primo primicerio nel 1614; Arcangelo, primo primicerio anch'egli della
stessa cattedrale (+ 16791; Pietro, fondatore del monastero di Santa Chiara in Busseto (+ 1512);
Battista, condottiero e gentiluomo di camera di Lodovico XII re di Francia; Giacopo, governatore di
Pontremoli.
Numerosi Vitali sono ricordati come anziani del Comune di Busseto.
A questa famiglia appartengono inoltre i più sotto ricordati Buonafede senior e junior, mons. Fabio,
Girolamo, Giuseppe, mons. Lattanzio e Pietro.
VITALI BUONAFEDE Senior (detto l'Anonimo)
Medico, nato a Busseto il 13 luglio 1686; morto a Caldiero Bagni (Verona) il 2 ottobre 1745.
Buonafede Vitali senior, l’anonimo
Ritratto di G. Levi nel Civico Museo di Busseto
Ebbe ingegno precoce e si narra a questo proposito che, dodicenne appena, tenesse pubbliche
discussioni di filosofia all'ateneo parmense.
Trascorse una giovinezza movimentata ed avventurosa. Figlio di un militare, si arruolò volontario per
poter seguire il padre nella guerra mossa ai turchi dai veneziani, pervenendo al grado di alfiere
nell'esercito della Repubblica di San Marco.
Ripresi in seguito gli studi, si laureò a Parma in chimica e medicina, trasferendosi quindi a Milano in
qualità dì chirurgo nel reggimento Caylus Dragoni. Rimasto ferito durante la battaglia di Cassano tra
tedeschi e francesi, si recò, non appena guarito, a Roma per perfezionarsi negli studi. Da Roma passò
a Londra, dove per tre anni frequentò l'università di Cantherburv, pubblicando nel 1710 un opuscolo
medico sulle origini della peste, che a quel tempo imperversava in Inghilterra. Fu poi in Francia, Belgio,
Olanda, Germania, Danimarca, Russia, Svezia ed infine in Spagna e Portogallo.
Sbarcato a Genova nel 1714, si presentò per la prima volta in pubblico con l'appellativo di Anonimo,
offrendosi di rispondere a qualsiasi quesito scientifico. Intraprese quindi a viaggiare per l'Italia,
occupato ad esercitare la professione ed a tenere conferenze nel corso delle quali esponeva il proprio
sistema di medicina, dichiarandosi contrario ai dottrinari. Le sue conoscenze scientifiche, sfruttate sul
piano pratico, lo resero celebre e gli procurarono notevoli guadagni, che egli prodigalmente spese in
un trattamento principesco. Tornato a Parma, fu proclamato maestro ed annoverato nel Collegio dei
dottori, onore che gli tributarono in seguito Milano e Bologna nel 1719 e più tardi, nel 1730, Firenze.
Chiamato a Roma da Innocenzo XIII, guarì quel pontefice da una grave forma di singulto di fronte alla
quale i più valenti medici della capitale s'erano dimostrati impotenti. A Palermo, ove andò poco dopo, fu
nominato pubblico lettore di chimica e filosofia sperimentale ed in seguito direttore di un importante
laboratorio chimico. Ma la naturale irrequietezza l'indusse a ritornare in Alta Italia, dove ricusò di
entrare al servizio del duca Antonio Farnese per accettare il lucroso incarico di soprintendente alle
miniere di piombo e d'argento di Schio e del Treto nel vicentino, che gli era stato offerto dalla
Repubblica di Venezia.
Anche questa attività finì tuttavia con l'annoiarlo e riprese allora a peregrinare per la Penisola. Fu a
Bologna, Firenze, Genova, Torino ed a Milano, città nella quale si trattenne tre anni. Da Milano passò a
Brescia; si occupò poi di scavi di miniere in Valcamonica, quindi si recò di nuovo a Venezia, donde
raggiunse Trieste e Gorizia. Nel 1711 ritornò nel Veneto ed a Verona, infierendo un'epidemia di peste, si
rese benemerito per l'opera di assistenza prestata ai colpiti, così da essere acclamato protomedico
della città.
Fu uomo di indiscusso valore. Suo merito principale è quello di aver volgarizzato la medicina,
monopolio allora di pochi, rendendola accessibile a tutti. In questo campo, egli può essere considerato
a buon diritto un precursore. Avendo fatto tesoro delle esperienze acquisite durante i suoi viaggi, non
v'era formula o ricetta che non conoscesse e della quale non si fosse servito per dispensare a buon
mercato la salute. Il suo ampio Ricettario per la cura delle malattie (1724) ebbe larghissima diffusione
e contribuì efficacemente a combattere il dilagante empirismo e l'inveterata abitudine del popolo a
ricorrere alle prestazioni dei medicastri.
Accanto a quest'opera, fondamentale, meritano di essere ricordati i trattati sull'efficacia curativa
delle acque bollenti di Acqui di Monferrato (1714) e sulle Terme di Masino in Valtellina (1734), oltre al
citato opuscolo londinese sulla peste. Ingegno versatile, si dilettò anche di letteratura e pubblicò una
commedia, La bella Negromantessa, una tragedia, Circe, ed un opuscolo sul Vero modo di apprendere
l'arte della Cabala.
Aveva accettato nel 1745 dal re di Prussia la cattedra di medicina all'università d Stato, retribuito con
5 mila fiorini all'anno ma la morte lo colse a Caldiero, dove stava ultimando uno studio sul potere
terapeutica di quei bagni.
La sua salma, traslata a Verona per la esequie, ebbe sepoltura nella chiesa dei Ss Apostoli di quella
città.
VITALI BUONAFEDE ( junior)
Medico e letterato, nato a Bersano di Besenzone il 29. settembre 1726; morto a Busseto il 10 settembre
1799.
Buonafede Vitali junior
Ritratto nel Civico Museo di Busseto.
Fratello di Fabio, più oltre ricordato fu adottato dal cugino Buonafede, il quale allorchè il bimbo era
ncora in grembo alla madre, aveva chiesto e ottenuto da genitori del nascituro, che già dovevano
provvedere alle cure di dodici figli, di tenerlo con sè e di imporgli il proprio nome. Il giovanetto
ricevette la prima istruzione a Busseto e seguì poi l'illustre parente nei frequenti viaggi attraverso
l'Italia. Durante una sosta in Valcamonica fu iniziato allo studio delle lettere da un sacerdote del luogo,
certo don Arcangelo Barcellandi, ma molto apprese dal dotto cugino, che fu il suo vero precettore e
che l'istruì in filosofia, nelle scienze chimico, fisico e matematiche e persino nella cabalistica, allora in
voga.
Alla morte nel 1745 del congiunto, cui era legato da profondo affetto, si arruolò nell'esercito ducale,
pervenendo un anno dopo al grado di alfiere in un reggimento di stanza a Guastalla; ma, poco versato
alla carriera militare, lasciò l'uniforme e intraprese gli studi di medicina, laureandosi il 9 giugno 1747
all'Università di Padova.
L'amore per le belle lettere era connaturato nei Vitali ed anch'egli non ne andò alieno. Ritornato infatti
a Busseto si dilettò di poesia e con il fratello prevosto Fabio e l'abate Francesco Eletti fondò
l'accademia Emonia, della quale dettò egli stesso il regolamento e fece parte con lo pseudonimo di
Egisto Mantide.
Esercitò la professione di medico condotto a Bettola, ma per breve tempo, perchè la cagionevole
salute l'indusse a troncare quell'attività ed a rientrare a Busseto, dove insegnò a lungo nelle pubbliche
scuole lingue antiche e storia.
Raccoglitore di memorie locali, svolse ricerche sulle origini della famiglia Pallavicino, che indicò negli
antichi marchesi di Toscana. Rivendicò a Busseto, contro l'opinione dell'Ughelli e di altri, l'onore di aver
dato i natali al celebre vescovo di Montefiascone e Cornetto Guinigi; illustrò l'altro Buonafede Vitali
scrivendone la vita e ricostruì alberi genealogici di illustri famiglie bussetane.
Fu maestro del giovane Affò, il quale si dichiarò debitore verso di lui di quanto sapeva, definendolo
inoltre mare di erudizione, enciclopedia ambulante, grande maestro. All'Affò, divenuto bibliotecario
della Parmense, il Vitali inviò Cenni sulla città di Busseto che I'Orlandi pubblicò in una sua opera sulle
città d'Italia.
Lasciò inediti i lavori di indagine storica Del tempo in cui fiori Nino, gran conquistatore e fondatore
dell'Impero delli Assiri; Dei pretesi Astri, o Costellazioni del libro di Giobbe; Ragionamenti intorno a
Borgo S. Donino: Di Teodora Romana e di Teodora e Marocia di lei figlie; Ricerca intorno all'Anonimo
Ravennate: Di Sanconiatone. Scrisse intorno agli Atti dei Santi Giovanni e Paolo; si rivelò critico non
privo di acume nella Dissertazione intorno a un passo del V libro della geografia di Strabonee; lasciò
infine Difese della Cabalistica e, incompiuti, Serie cronologica dei Papi da San Pietro ad Urbano 1; Della
Cattedra di S. Pietro; Della Chiesa posseditrice prima di Costantino: Dell'anno del nascere di Cristo e
dell'anno di Sua morte; Chi è il Papa?, quest'ultimo lavoro a confutazione di un libro recante lo stesso
titolo, apparso a Vienna nel 1782.
Fu Prefetto a Busseto della pubblica Biblioteca e socio di varie accademie letterarie.
La morte gli impedì di continuare la Storia di Parma lasciata incompiuta dalI'Affò, incarico che gli era
stato affidato dal Seniorato parmense e che egli aveva di buon grado accettato.
VITALI FABIO
Prevosto di Busseto, nato a Busseto I'll ottobre 1724; morto ivi il 31 dicembre 1812.
Iniziò gli studi a Busseto e li continuò a Parma, fintanto che, sorta in lui la vocazione al sacerdozio,
entrò nel seminario diocesano per seguirvi i corsi teologici. Ventottenne, ricevette la sacra
ordinazione dal vescovo di Reggio Emilia, essendo allora vacante la sede episcopale fidentina, ed in
quella città conseguì la laurea nelle leggi civili e canoniche.
L'insegnamento in seminario e la predicazione in diocesi ed altrove assorbirono la sua attività prima
della nomina a prevosto di Busseto, disposta il 19 marzo 1762 dal vescovo Girolamo Bajardi.
Fu sacerdote di scienza e pietà.
Inclinato alle lettere e raccoglitore appassionato di memorie locali, scrisse una documentata e
diligente Storia delle Chiese di Busseto. Compose anche molte poesie, in parte inedite, e, con il fratello
Buonafede e l'amico Francesco Eletti, fondò l'accademia bussetana Emonia per incrementare nei
giovani l'amore per le belle lettere, in seno alla quale ricoprì la carica di gran pastore con il nome di
idalmo Talaride. Fece parte di numerose altre accademie e, oltre a lasciare omelie adorne di eleganze
letterarie, compose operette per uso del clero, fra le quali una stampata a Parma nel 1786 con i tipi
Carmignani.
Si distinse nell'epígrafia latina e appartengono a lui le due iscrizioni scolpite nella sagrestia della
collegiata di Busseto.
Fermo sostenitore dei diritti della sua chiesa, continuò l'azione pili volte intrapresa dai prevosti che
l'avevano preceduto perchè venisse riconosciuto ad essa il diritto di preminenza sulla collegiata di
Monticelli d'Ongina ed a questo scopo indirizzò nel 1790 al vescovo di Fidenza una legazione in forma di
supplica sottoscritta dall'intero capitolo.
Il 3 luglio 1778 era stato dal pontefice Pio V1 annoverato fra i suoi prelati domestici e successivamente
elevato alla dignità di protonotario apostolico.
Per la santità della vita, la bontà del carattere e l'operante carità fu molto caro al suo popolo.
Racconta il Seletti che, quando morì, i bussetani pretesero si facesse per lui eccezione al divieto di
seppellire nelle chiese al punto di ribellarsi alle forze militari, intervenute durante le esequie per
impedire che tale proposito fosse posto in atto; e, chiuse le porte della collegiata, la salma del
benemerito parroco fu inumata nel tempio.
VITALI GIROLAMO
Giureconsulto, nato a Busseto nel 1519; morto ivi il 21 marzo 1571.
Si laureò in entrambe le leggi a Piacenza nel febbraio 1550 ed entrò al servizio del marchese Sforza
Pallavicino, del quale seppe acquistare la fiducia, ottenendo da lui le cariche di podestà di Fiorenzuola,
quindi eli Cortemaggiore, di Borgo San Donnino ed infine di Sant'Arcangelo di Romagna, territorio
recato in dote al marchese dalla moglie Giulia Sforza.
Rientrato al diretto servizio del suo signore, questi lo nominò ministro e segretario di Stato e come
tale lo volle seco a Padova allorchè si recò in missione in quella città come generale dei Veneziani.
Nel 1596 si ritirò per ragioni di salute dalla vita pubblica e ritornò a Busseto, dove morì due mesi dopo
e fu sepolto con gran pompa nella chiesa collegiata.
Scrisse numerose Allegazioni. ma di lui non rimangono che Annotazioni allo Statuto Pallavicino,
stampate in calce alle stesse con quelle di Pietro Pettorelli.
VITALI GIUSEPPE
Magistrato e letterato, nato a Busseto il 3 marzo 1783; morto a Piacenza 1'8 dicembre 1856.
Fratello di Pietro, ebbe in comune con lui l'amore per le belle lettere, che coltivò in gioventù
componendo poesie che gli valsero l'aggregazione all'accademia bussetana Emonia con il nome di
Idalgo Archeside.
Studiò legge e, conseguita a Bologna la laurea, esercitò la professione a Parma, dove s'era stabilito,
acquistando fama di valente avvocato. Intrapresa la carriera della magistratura, fu membro del
collegio parmense dei giudici, consigliere di Corte d'appello, pro-pretore a Bettola ed a Ponte dell'Olio,
giudice infine a Piacenza.
Appassionato raccoglitore di codici antichi, molti dei quali cedette alla Biblioteca civica di Parma, si
interessò anche di archeologia e della ricerca di genealogie di nobili famiglie parmigiane.
Lasciò fra le opere date alle stampe alcuni sonetti, un'interpretazione del 30' verso della prima
cantica della Divina Commedia e lettere che trattano della natura degli atti contenuti nella tavola degli
Alimentari di Velleja; tra le inedite, oltre alle accennate notizie genealogiche, un'illustrazione della
tavola di bronzo rinvenuta a Macinesco di Lugagnano e più sopra citata, lettere su argomenti di
archeologia e di storia patria dirette al canonico Pietro Seletti, infine altre poesie scritte per
l'accademia Emonia.
VITALI LATTANZIO
Prevosto di Busseto nato a Busseto nel 1559; morto ivi nel 1612.
Era laureato in entrambe le leggi e la sua nomina a prevosto di Busseto con arcidiaconale dignità,
disposta nel 1606 dai marchesi Pallavicino, sollevò una questione di diritto sul patronato che fu
trascinata a Roma alla S. Congregazione del Concilio, la quale si espresse a favore del designato Mons.
Giovanni Linati, vescovo fidentino di allora, approfittò della momentanea vacanza per sottrarre alla
giurisdizione della chiesa bussetana le chiese di Zibello, Pieveottoville, Santa Croce e Ragazzola.
Prelato di vasta dottrina, fu protonotario apostolico e referendario di segnatura.
VITALI PIETRO
Bibliofilo e letterato nato a Busseto l'1l aprile 1759; morto a Parma i: 2 maggio 1839.
Pietro Vitali
Ritratto nel Civico Museo di Busseto.
Figlio del dr. Buonafede junior e della nobildonna Teresa Cantelli, ricevette dal padre la prima
istruzione. A Parma si applicò poi allo studio delle leggi, ma, non inclinato alla giurisprudenza,
l'abbandonò per le lingue orientali e per le belle lettere, nelle quali già s'era distinto componendo
poesie allorchè fece parte nel paese natale dell'Accademia Emonia con il nome dì Filoctipo Chelio.
A Busseto aveva anche avuto parte nella fondazione dell'accademia di lettere greche, in seno alla quale
fu eletto console con il nome di Anzioso.
Nel 1811 venne annoverato nel collegio elettorale del dipartimento e fu aggiunto al podestà, dando
prova, nell'esercizio di tale funzione, di prudenza e saggezza. Sposò la contessa Francesca Dordoni di
Busseto e, morta questa, Laura Avigni di Viadana, dalla quale ebbe numerosi tigli.
A Parma, dove nel 1814 aveva fissato la propria residenza, trascorse i rimanenti anni di vita. Sapiente
ed appassionato bibliofilo, raccolse una ricca biblioteca, impreziosita da codici manoscritti, medaglie,
monete e da rilevante numero di disegni e stampe. Lasciò opere di storia e letteratura italiana,
antiquaria, belle arti, musica e letteratura ebraica.
Nel 1819, con i tipi della Stamperia ducale, pubblicò un'opera illustrativa delle pitture di Busseto, con
citazione di importanti documenti per la storia di quel paese. Scrisse una biografia del padre e del
concittadino Francesco Delfò Ghirardelli, Memorie storiche di Busseto dalle origini alla caduta dello
Stato Pallavicino, Memorie dei Letterati Bussetani, lavori di dissertazione e critica letteraria, un
ragionamento sulla pittura degli Egizi, dei Greci, della scuola parmense; è autore infine di un'opera
suddivisa in tre libri dal titolo Delli elementi armonici dei suoni, di poesie, epigrafi, orazioni.
Colto archeologo e numismatico, conoscitore del greco e dell'ebraico, nel 1822 si dedicò
all'insegnamento, succedendo a Gian Bernardo De Rossi, che gli era stato maestro, nella cattedra di
lingue orientali all'ateneo parmense.
ZILIANI ALESSANDRO
Tenore, nato a Busseto il 3 giugno 1906; morto a Milano nel 1977.
Alessandro Ziliani
al tempo del debutto al Teatro Dal Verme di Milano (1929).
Dotato di bellissima voce, dette prova sin da ragazzo di un trasporto invincibile per il canto. I familiari,
maturati in un ambiente di lavoro e portati a considerare le cose sotto un aspetto pratico, avrebbero
desiderato che egli apprendesse un mestiere e fu vincendo la loro contraria volontà che il futuro
tenore si trasferì a Milano a studiarvi canto con il maestro Alfredo Cecchi, che gl'impartì una solida
preparazione musicale e sotto la cui esperta e valida guida andò affinando le doti eccezionali del suo
organo vocale.
Nell'autunno 1929 debuttò al Teatro Dal Verme di Milano — anticamera della Scala — nella Madama
Butterfly, conseguendo un successo che gli valse la replica del capolavoro pucciniano per dieci sere
consecutive. Il suo modo di dire e di cantare si distaccava talmente da quello degli altri tenori da
suscitare nell'uditorio l'impressione più favorevole, sicchè si può affermare che egli non conobbe il
duro tirocinio di molti suoi colleghi, avendo acquistato subito notorietà.
Come secondo teatro Ziliani scelse il Reale di Malta, dove incominciò a formarsi un primo repertorio.
Durante il viaggio di ritorno, meta Busseto, dove egli desiderava recarsi a riabbracciare i suoi e
rivedere gli amici, il maestro Angelo Ferrari insistette per una sua sosta a Roma e conseguente
audizione al Teatro Reale dell'Opera alla presenza del maestro Gino Marinuzzi, che lo scritturò
immediatamente.
Esordì, senza neppure una prova, ne La dannazione di Faust di Berlioz, cui seguirono Manon Lescaut, La
Bohème e Madama Butterfly di Puccini, Giulietta e Romeo e Francesca da Rimini di Zandonai, Wally di
Catalani, Palla de' Mozzi di Marinuzzi, Gioconda di Ponchielli, Beatrice Cenci di Pannain, Boris
Godounow, di Moussorgskv, Madame San-Gène di Giordano, Rigoletto di Verdi ed altre ancora.
Il successo conseguito anche in questo teatro, dove in seguito prese parte a tredici stagioni
operistiche accanto alle cantanti più celebrate del tempo, gli consentì di inziare una brillante carriera
artistica artistica scene dei principali teatri del mondo. Fu dapprima in Argentina nella compagnia di
cui facevano parte, tra gli altri, Ebe Stigani, Claudia Muzio. Gilda Dalla Rizza, Cari Galeffi e Beniamino
Gigli, suscitando entusiasmo al Colori di Buenos Ayres in sei opere eseguite sotto la direzione
orchestrale di Gino Marinuzzi.
Fu poi in Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, nel Sud-Africa e
nelle due Americhe, producendosi in un vasto ed eclettico repertorio comprendente oltre settanta
opere in prevalenza di autori italiani - Puccini, Verdi, Rossini, Donizetti, Zandonai, Mascagni, Ponchielli,
Giordano, Cìlea — e francesi — Bizet, Massenet, Charpentier, Boicldieu, Saint-Saens imponendosi
anche nel repertorio wagneriano (Parsifal, Il crepuscolo degli dei) ed in opere moderne, quali Il
pastore d'Engadina di Piazzi, Orontea di Cesti, Fiamma di Respighi, Turandot di Busoni, Primavera
fiorentina di Pedrollo, La farsa amorosa di Zandonai; fu pure primo interprete dell'opera Pinotta di
Mascagni, rappresentata nel 1932 al Teatro del Casinò di Sanremo sotto la direzione dell'autore, e
partecipò, nel cinquantenario della Cavalleria rusticana, a molte rappresentazioni commemorative del
capolavoro mascagnano.
Il tenore Ziliani in Manon Lescaut, Adriana lecouvreur, Madama San-Gène
Scritturato al Metropolitan di New York, non potè prendere parte alla stagione operistica nel massimo
teatro statunitense in seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale, che lo colse a Milano pochi
giorni prima della partenza per l'America. Da allora egli continuò a prodursi nei maggiori teatri della
Penisola, specie alla Scala, il cui pubblico l'ebbe per anni particolarmente caro e dove egli si produsse
nella parte più eletta del suo vasto repertorio. Fu pure in Spagna e Portogallo ed al termine del
conflitto riprese le peregrinazioni artistiche all'estero: in Argentina, nel Cile, negli Stati Uniti ed in
numerosi Paesi d'Europa.
Cantò nuovamente alla Scala, all'Arena di Verona, all'Opera di Roma, al San Carlo di Napoli, al Verdi di
Trieste ed ancor giovane si ritirò nel 1958 dalle scene del teatro d'opera dopo essersi prodotto per
l'ultima volta a Palermo nella Persefone di Strawinski sotto la direzione del maestro Tullio Serafin.
Continuò però a cantare, ma solo in concerti per lo più a scopo benefico. Uomo generoso, nel corso
della sua carriera artistica ha infatti partecipato a circa 150 concerti di beneficenza, eseguendo brani
d'opera e romanze da sala, di cui è stato un interprete eccezionale, cogliendo anche in questo settore
artistico, in Italia ed all'estero, soprattutto in Germania, larghi consensi di pubblico e di critica.
Ha pure interpretato tre films: Canto per te (1936), Canzone d'amore (1937) e Il diario di una stella
(19401.
Per Ziliani ha risieduto a Milano, sua città di adozione, dove spesso è invitato a partecipare, quale
commissario straordinario esterno, agli esami di conservatorio ed alla giuria in concorsi di canto.
Socio dei Circolo della Stampa e organizzatore emerito di iniziative culturali e di spettacoli a scopo
benefico, fondò a Busseto il Concorso internazionale per artisti interpreti di opere verdiane.
Alessandro Ziliani può essere considerato uno degli esponenti pio rappresentativi del nostro bel canto.
Tenore di fama mondiale, in possesso di prezzi vocali d'eccezione, di grande temperamento e di non
comuni doti sceniche ed interpretative, per un ventennio egli divise con pochi altri tenori quei successi
che il pubblico decreta agli artisti veramente superiori.
La sua voce armoniosa dal timbro inconfondibile, calda e appassionata nelle note centrali e basse
quanto squillante in quelle acute, produceva effetti che trascinavano l'uditorio al più schietto
entusiasmo. Alieno da ogni torma di esibizionismo, le sue interpretazioni si distinguevano per misura
ed equilibrio; nè la generosa profusione di mezzi che egli poneva nelle sue esecuzioni poteva essere
confusa con quella prodigalità di fiati cui taluni ricorrono per strappare un facile applauso più che a
strabiliare il pubblico, Ziliani badò saprattutto a cantare; e lo fece nell'osservanza scrupolosa dei
canoni più rigorosi, senza con ciò lesinare nella manifestazione piena delle doti singolari del suo
organo vocale.
Egli è stato il tenore lirico-spinto per eccellenza, quello che i tedeschi chiamano eroico; artisti
intelligente e versatile, molto si è valso della collaborazione del maestro ed amico suo carissimo
Alberto Soresina, scartando le opere inadatte a proprio temperamento e sottoponendosi ad uno studio
continuo sia per mantenersi nella piena efficienza dei mezzi vocali, che per rendere con sempre
maggiore aderenza i personaggi portati sulla scena.
Puccini, in particolare, ebbe in lui un interprete che seppe esprimere con calda umanità ed efficacia i
personaggi delle sue opere più significativ: Bohème, Madama Btttterfly. Fanciulla di West, Turandot,
Manon Lescaut, Tosca, Il tabarro.
Ed è in queste opere che Ziliani raccolse i maggio consensi, nonostante talune di esse costituissero
cavallo di battaglia d'altri tenori fioriti accanto lui: Antonio Cortis, Miguel Fleta, Giacomo Lauri Volpi,
Giovanni Malipiero, Galliano Masini.
Con questi artisti egli e giustamente annoverato dalla Casa discografica La Voce del Padrone tra le
celebrità con altri nomi che mantennero alto nel mondo la nostra tradizione di bel canto: Tamagno,
Caruso, Martinetti, Gigli, Fertile, Schipa, Bernardo De Muro e pochissimi altri.
Ziliani (a sinistra) con Arturo Toscanini (in primo piano)
al rientro in Italia da una tournèe nel nord America nella primavera del 1950
La Voce del Padrone ha raccolto di Ziliani esecuzioni che meglio esprimono e compendiano l'arte sua:
del repertorio pucciniano, specialmente, ed altre di Fedora, Lohengrin, La dama bianca, l'intera opera
Traviata, romanze da sala e brani musicali tolti dai films da lui interpretati.
Altre sue incisioni figurano nel più scelto repertorio delle Case Telefunken, Elettrola e Columbia.
ZILIOLI GAETANO
Uomo di scienze e lettere, nato a Busseto il 2 febbraio 1812; morto a Parma il 2 maggio 1887.
Proveniva da umile famiglia. Rimasto orfano di padre in tenera età, dopo aver ricevuto la prima
istruzione nel paese natale ottenne da quel Monte di pietà, in considerazione delle sue disagiate
condizioni economiche e delle particolari attitudini allo studio, una pensione che gli permise di
frequentare a Parma le pubbliche scuole sino a conseguire, il 26 luglio 1836, la laurea in scienze
fisico-matematiche.
Acquistata la libera docenza, insegnò nell'ateneo parmense meccanica razionale, geometria
descrittiva ed idraulica e geodesia teoretica.
Nel '59 fu nominato preside della facoltà di matematica e nel 1881 delle facoltà di scienze fisicomatematiche e naturali, contribuendo notevolmente, nei lunghi anni di insegnamento, al prestigio
dell'istituto per l'altezza cui portò gli studi, specie nel campo della meccanica idraulica.
Alcuni saggi di osservazione e di discussione scientifica, da lui dati alle stampe, testimoniano la vigoria
e la versatilità del suo ingegno, aperto alle scienze ed anche alle lettere, delle quali fu appassionato
cultore.
Fra le opere a carattere scientifico ricorderemo: Delle acque correnti studiate nel fatto del moto; Del
diritto dei privati al terreno che è sotto l'acqua dei fiumi; Sul valore delle monete e sulla restituzione
del denaro ricevuto; Della mediana di un tronco di fiume corrente fra sponde ad arco di cerchio;
Piccolo saggio di discussione scientifica; Saggio di discussione sulla legge del costipamento delle
invernaglie e sulla determinazione del rapporto fra i componenti delle misture; Legge dei pesi specifici
dei foraggi considerati nei rari punti di una verticale entro una massa data e determinazione dei
componenti una mistura d'invernaglie, Studi sul modo di fermare un convoglio ferroviario; fra le opere
filosofico-letterarie: Essere, esistere, sussistere; Dell'obiettività dell'idea; i poemi Sul potere
temporale, La creazione del mondo, Grandezza e miseria; il discorso Dell'efficacia degli studi scientifici
ed estetici sull'educazione dell'uomo; infine poesie a soggetto sacro e profano, tra le quali il Seletti
rimarca tre sonetti composti per la morte di re Vittorio Emanuele II.
Nella pubblica amministrazione lo Zilioli ricoprì onorevolmente le cariche dì ispettore della Cassa di
Risparmio dì Parma e di commissario governativo dell'Istituto Tecnico dì Ravenna.
Di nobili ideali e di ferme convinzioni rosminiane, amò di un amore fattivo la patria. Nel 1831 combattè a
Rimini contro gli Austriaci, presso i quali, nel periodo di loro dominazione a Parma, cadde in sospetto
di liberale, ciò che gli procurò non poche noie.
Al Monte di pietà di Busseto, che l'aveva generosamente soccorso nei difficili anni della giovinezza,
dedicò riconoscente un libro.
ZUCCHERI BERNARDINO
Cappuccino, natoi a Fidenza il 1' giugno 1673; morto a Busseto il 31 dicembre 1749.
Nacque dal cav. Bernardino e da Francesca Della Galeotta da illustre famiglia. Fu l'ottavo di dieci
fratelli, dei quali il primo e l'ultimo rimasero nel secolo, mentre gli altri si consacrarono tutti al
sacerdozio.
Ottavio Secondo, come venne battezzato vestì giovanissimo l'abito talare, tuttavia contrasti di famiglia
l'indussero a svestirsi per rientrare nel mondo.
A Parma, dove gli Zuccheri avevano nel 1690 trasferito il proprio domicilio, ebbe per direttori nella
pietà e nello studio i padri Gesuiti. Un giorno, dovendosi recare con un compagno a Fiorenzuola, tu
costretto dai genitori a rinunciarvi per seguirli invece a Busseto.
Ubbidì ed apprese poi che l'amico era stato assassinato nella pubblica piazza da malviventi. Si narra a
questo proposito che nel momento tragico il futuro servo di Dio avesse intravisto il suo destino e la
sua salvezza, manifestando alla sorella l'intenzione di abbandonare un mondo di miserie. Le due anime
s'intesero. Poco dopo la sorella entrò nel monastero di Santa Teresa in Parma ed egli fu accettato dal
provinciale tra i Cappuccini con l'ordine di portarsi a Carpi per il noviziato. Il 2 ottobre 1694 raggiunse
quel convento e, vestendo l'abito dell'Ordine, lasciò il vero nome per assumere quello di Bernardino
(da Parma).
Una corona di luce e di muti eroismi cinse la sua vita di noviziato e la sua carriera di sacerdote, di
predicatore, di guardiano, di maestro, di provinciale ed infine di definitore dei frati Cappuccini per la
Lombardia. Peregrinò da un convento all'altro dell'Emilia, a Reggio, Parma, Guastalla, Fidenza,
Monticelli, Fiorenzuola e Busseto, circondato ovunque di grande venerazione. A Carpi fu maestro dei
novizi e guardiano per 24 anni. Ebbe tra í suoi allievi p. Lorenzo da Zibello, salito poi alla gloria della
venerabilità
V'è anzi singolare analogia tra queste due anime, avvolte nella stessa vivida luce della vocazione e
della santità. Come al venerabile Lorenzo, anche a p. Bernardino vengono attribuite numerose grazie.
Guarire gli infermi, ridare la vista ai ciechi e la parola ai muti, tutte le facoltà soprannaturali gli furono
concesse da Dio, sicchè quando mori non stupisce che l'unanime consenso ne acclamasse la santità.
Aveva predetto con cronometrica precisione la data del suo trapasso ed il luogo; cadde infatti sulla
breccia a Busseto a 76 anni di età e 55 di professione religiosa.
La sua salma fu esposta alla pubblica venerazione e inumata poi nella chiesa bussetana dei Cappuccini;
ivi rimase sino al 1811, quando, soppressi gli ordini religiosi per disposizione napoleonica, in seguito a
una ordinanza della Curia vescovile fidentina del 2 ottobre di quell'anno e con l'assistenza del canonico
parroco Pier Francesco Carnevalini, fu trasferita in collegiata per essere sepolta nel presbiterio dal
lato del vangelo.
Una lapide marmorea ne rammenta l'avvenuta traslazione. L'iscrizione che vi si legge, fu dettata dal
celebre epigrafista p. Ramiro Tonani, benedettino.
Dei prodigi operati dal Signore per intercessione di questo suo Servo furono rogati gli atti dal notaio di
Busseto Bernardo Antonio Bertolini: uno il 1° gennaio 1750, due il 3 gennaio successivo, altri da diversi
notai in seguito.