l`influenza della religione in africa

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l`influenza della religione in africa
 Università degli Studi di Siena
Facoltà di Scienze Politiche
anno accademico 2013/2014
Seminario di Demografia
“L'INFLUENZA DELLA RELIGIONE IN
AFRICA”
di
Giacomo Ciuffoletti
Giovanni Contu
Samuele Mencacci
Francesco Rottura
Teresa Zappelli
1. Introduzione di Giovanni Contu
Il continente africano è sempre stato terra di conquista dei paesi coloniali e imperialisti. Ciò
accadeva già con l’Impero Romano, quando venne conquistata gran parte dell’Africa Settentrionale.
A partire dal 476 d.C., anno della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, un gran numero di
potenze internazionali tenteranno di estendere la loro egemonia all’interno del continente,
inizialmente fermandosi sulle meglio conosciute coste, successivamente addentrandosi nel
pericoloso e selvaggio entroterra. Il periodo ricordato come apice dei tentativi di conquista è
sicuramente quello che va dalla metà del XIX secolo agli inizi del XX secolo, ovvero il periodo
degli imperialismi europei, quando l’Africa fu totalmente spartita fra i paesi del Vecchio
Continente. L’influenza dei paesi conquistatori nelle varie epoche è stata tale da imporre usi e
costumi extra-africani, in particolar modo quelli da ricollegare all’ambito religioso.
Originariamente in Africa erano diffusi esclusivamente culti indigeni di natura preistorica, ispirati
alla venerazione degli antenati e degli elementi naturali, i quali venivano considerati come antidoto
per le avversità del mondo esterno.
La necessità di espansione dell’Impero Romano, e degli Arabi successivamente, portò i condottieri
di queste potenze a fare del Nord Africa una delle mete principali per le loro conquiste. Se la
diffusione del Cristianesimo Romano non fu per niente capillare, dato il breve lasso di tempo fra
l’ufficializzazione di tale religione nell’Impero e l’abbandono del continente da parte dei Romani, la
stessa cosa non può essere detta per la religione Islamica, che ha conosciuto una diffusione graduale
e continua dall’VIII secolo d.C. fino ai giorni nostri.
Il processo di colonizzazione, da parte dei paesi europei, iniziato intorno al XV secolo e protrattosi
fino all’età contemporanea ha permesso alla religione e alla cultura cristiana di insediarsi
nuovamente e di diffondersi, mentre l’Islam ha perso lentamente la propria egemonia. La
conseguenza più visibile e più discussa di questi cambiamenti è stata la netta decrescita dei seguaci
dei culti tradizionali come l’animismo e il naturalismo.
Dagli ultimi dati emersi dal CESNUR (Centro Studi sulle nuove religioni), i cristiani rappresentano
il 46,53 % della popolazione africana, rispetto al 40,46% dei musulmani e all’11,8% degli aderenti
alle altre religioni africane tradizionali. Secondo questi dati si nota che su 59 paesi africani, 31
hanno una maggioranza cristiana, 22 hanno una maggioranza musulmana e 6 vedono la presenza
maggioritaria delle religioni tradizionali.
L’azione di sostituzione delle religioni monoteiste rispetto ai culti tradizionali africani si è svolta
soprattutto nella zona sub-sahariana nello scorso secolo, come ci dimostra il grafico seguente,
estrapolato dal World Religion Database.
2. Il Cristianesimo in Africa di Giacomo Ciuffoletti & Francesco Rottura
Il Cristianesimo giunse in Africa nel I secolo d.C., tanto che alla caduta dell’Impero Romano
d’Occidente contava un gran numero di proseliti soprattutto nei grandi centri urbani dei paesi
mediterranei. La leggenda vuole che Marco, uno dei quattro evangelisti, avesse portato la parola del
Messia da Gerusalemme ad Alessandria d’Egitto, addirittura prima che questa giungesse in Europa.
Attorno al IV secolo il re etiope Ezana dichiarò il Cristianesimo religione ufficiale del suo regno.
Con l’avvento dell’Islam la diffusione del Cristianesimo fu ridotta al punto che, nel giro di alcuni
secoli, quest’ultima religione era in molte regioni scomparsa. Molti cristiani ed ebraici si
convertirono all’Islam, anche per motivi economici; successivamente il Cristianesimo si diffonderà
largamente fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, in seguito alla quale sorgeranno chiese
autonome con una gerarchia ecclesiastica quasi completamente africana.
Nel XIX secolo si era appunto diffusa la predicazione cristiana, andando di pari passo con la
colonizzazione europea; ci sono vari fattori che hanno influito nello sviluppo del Cristianesimo in
Africa; il primo è l’istruzione, in quanto i primi missionari hanno costruito quasi da subito scuole ed
hanno insegnato la fede cattolica attraverso di esse; da ricordare inoltre l’impegno per lo sviluppo
sociale: l’assistenza sanitaria, l’incremento del settore agricolo ed altri progetti, utili a cercare di
aumentare il benessere locale. Ma se da un lato l’evangelizzazione africana aiutò molte popolazioni
indigene, portando scuole ed assistenza, dall’altro gli europei tolsero ogni forma di dignità alle
culture e alle cerimonie locali. Anche per questo motivo si sono sviluppate, soprattutto negli ultimi
anni, forti persecuzioni nei confronti della popolazione di religione cristiana.
Le persecuzioni dei cristiani sono un fenomeno oppressivo contro comunità e persone di fede
cristiana. Nel corso della storia i cristiani morti per la loro fede sono stimati in circa settanta
milioni, di cui quarantacinque milioni solo nel XX secolo.
Le persecuzioni dei cristiani non ci devono riportare solo al periodo dell’Impero Romano; nel corso
dei secoli infatti il Cristianesimo fu ritenuto in moltissimi casi una religione considerata una vera e
propria minaccia per la struttura sociale di diversi paesi; l’allarme maggiore veniva e viene ancora
dall’Africa, dove il fondamentalismo islamico divampa da nord a sud, nei luoghi un tempo occupati
da una convivenza pacifica fra Cristiani e Musulmani. Per fare subito un esempio, frequenti, negli
ultimi anni, sono state le stragi di cristiani tramite soprattutto attacchi di chiese e luoghi di preghiera
in Kenya, paese fortemente diversificato a livello religioso: qui infatti, su una popolazione di
40.512.682 abitanti, vivono presbiteriani, quaccheri e altri protestanti (45%), cattolici e ortodossi
(35%), musulmani (11%) e seguaci di culti tradizionali (9%).
Le azioni terroristiche, tra gli altri, hanno l’obiettivo di islamizzare l’Africa Orientale, la cui
componente cristiana, che si riflette anche nei governi nazionali, è in molti casi vicina a Israele e
politicamente ostile alla componente musulmana. Ad oggi si contano centinaia di attacchi contro i
cristiani in quella zona.
Soffermandoci al solo anno 2013, in Nigeria sono state colpite due chiese provocando numerosi
morti e in Tanzania altre tre chiese sono state distrutte; queste persecuzioni continuano a seminare
violenza e a mietere vittime spesso nel silenzio. I leader cristiani hanno insistentemente chiesto
giustizia dopo che negli ultimi dieci anni solo nella regione autonoma di Zanzibar sono state
abbattute venticinque chiese, ma gli attentatori sono rimasti impuniti e il governo non si è mosso
per ricostruire i luoghi di culto.
In Nord Africa, invece, la concezione che gli Islamici avevano dei cristiani fino a poco tempo fa
non si tramutava in un forte desiderio di violenza, anche grazie all’azione dei governi recentemente
travolti dalla Primavera Araba (che potrebbe creare una nuova volontà di radicalizzare il conflitto
contro i Cristiani): se prima il Cristianesimo veniva visto come un fastidioso prolungamento
dell’influenza occidentale, venendo però tollerato, oggi i cambiamenti avvenuti potrebbero portare a
una nuova serie di violenze portate avanti dai fondamentalisti. Secondo il quotidiano cattolico
“Avvenire”, comunque, al 2011 i Cristiani sono vittime del 75% delle violenze antireligiose in
Africa.
In generale, nonostante i Cristiani costituiscano statisticamente la religione predominante, essi sono
stati maggiormente oggetto di discriminazione o di violenze da parte della popolazione musulmana
rispetto a qualsiasi minoranza presente. La conversione dei musulmani al cristianesimo è vista come
un crimine la cui pena è la morte e anche nei paesi in cui, per legge, non è vietata apertamente la
conversione, i convertiti sono spesso oggetto di minacce, vendette, ricatti, linciaggi da parte della
popolazione. Alcune organizzazioni, come Amnesty International o Human Rights Watch,
monitorano tale fenomeno ed hanno stipulato un elenco dei paesi nei quali è più pericoloso essere
cristiani. Di seguito, ricordiamo alcuni degli esempi più riprovevoli di persecuzione verso i Cristiani
e le loro istituzioni religiose.
In Algeria nel maggio 2011 è stata ordinata la chiusura di sette luoghi evangelici.
Sempre nel 2011 è stato fatto un attentato nella chiesa dei Santi ad Alessandria d’ Egitto, dove ha
provocato 21 morti. L’episodio si inserisce nel contesto di numerosi attacchi alla chiesa cristianoCopta, fra i quali quello del 2010 all’uscita della messa di Natale che ha provocato otto vittime.
Dopo questo episodio migliaia di cristiani copti si riunirono a Il Cairo, capitale dell’Egitto, per
manifestare contro l’ennesimo attacco nei loro confronti; l’intervento dell’esercito provocò più di
venti morti e duecento feriti.
In Libia nel gennaio 2012 viene annunciata la creazione del primo partito islamico libico, il quale
è contrario all’evangelizzazione cristiana della popolazione libica, desidera per il proprio paese
l’istituzione della pena di morte per “bestemmia” (critica dell’Islam) e per “apostasia” (conversione
ad altre religione).
Passando all’Africa Orientale, in Somalia nel 1989 fu ucciso il Vescovo di Mogadiscio e nel 2008
rasa al suolo la cattedrale. In molte zone del paese, che sta attraversando un lungo periodo di
anarchia, dove il potere è suddiviso fra le varie tribù ed etnie, ogni pratica religiosa diversa
dall’islam è proibita. Sempre in questo martoriato paese, Il 25 settembre 2011 viene rapito un
ragazzo cristiano di 17 anni e viene decapitato dagli estremisti Islamici, gli stessi responsabili
dell’uccisione di donne cristiane, della decapitazione di un altro giovane cristiano nel 2 settembre
del 2011 e dell’uccisione a colpi di arma da fuoco di un giovane cristiano di ventuno anni il 18
aprile del 2011.
In Sudan il conflitto tra nord del paese prevalentemente islamico ed un sud cristiano ha alimentato
una guerra civile che è durata più di quaranta anni e costituisce una delle più gravi situazioni
umanitarie esistenti. Tuttavia questo ha lasciato i cristiani del nord (oltre un milione) in una
situazione molto precaria: questi ultimi infatti, da quando il paese si è diviso in Sudan del Nord e
Sudan del Sud, hanno iniziato a subire una violentissima persecuzione in quanto, come affermano i
capi musulmani, “il Cristianesimo non è più una religione accettata nel Paese”.
Passiamo adesso a esaminare la condizione della donna e delle minoranze religiose nell’Africa
Cristiana.
La condizione della donna in Africa è da sempre stata subordinata ad un sistema politico e sociale
patriarcale; ciò ha creato una forte ed intensa discriminazione nei confronti del “sesso debole”,
malgrado le donne rappresentino in Africa il 70% della forza agricola del continente, che producano
l’80% delle derrate alimentari e ne gestiscano la vendita per il 90%. Sono cifre importanti, queste
commentate da Guido Barbera, Presidente del coordinamento di associazioni Solidarietà
e
Cooperazione (CIPSI) che ci danno un quadro dell’economia africana assai arretrato rispetto ai
continenti più ricchi. Sviscerando ancora qualche cifra possiamo leggere alcuni importanti numeri:
nel continente africano le donne provvedono per il 90% alla produzione di mais, riso, frumento,
facendo la semina, irrigando, applicando fertilizzanti e pesticidi, mietendo e trebbiando. Da ciò si
deduce che l’economia di sussistenza del continente dipende in gran parte dal loro impegno
quotidiano assunto nonostante le difficoltà e gli ostacoli, dall’accesso limitato alle risorse di
produzione come il credito e la proprietà delle terre, alla durezza del lavoro.
Se a questa condizione di evidente discriminazione sessuale in forma medievale, sommiamo quella
sociale e religiosa abbiamo un quadro tristemente completo di quella che è la figura femminile in
Africa. Le religioni ed il loro conflitto interno hanno partorito il ruolo dell’attuale donna africana,
subordinato alla già inferiore condizione sociale. In un’importante libro dal titolo “Tenacemente
donne” edito da Paoline viene narrato, attraverso i racconti di Alessandra Buzzetti e Cristiana
Caricato, le storie e le esperienze al femminile nella chiesa cristiana d’Egitto, in particolare per
quanto riguarda il ruolo della donna copta nella Terra dei Faraoni.
I copti sono i cristiani egiziani nativi nello stesso Egitto, un importante gruppo etno-religioso nel
paese. Il cristianesimo era la religione predominante nell’Egitto di epoca romana fino alla conquista
da parte dei musulmani, avvenuta dopo il VII secolo. Ciò nonostante la fede cristiana rappresenta
una significativa minoranza della popolazione. Ad oggi i copti in Egitto costituiscono la più
importante comunità cristiana del Medioriente, nonché la più grande minoranza religiosa della
popolazione egiziana. Essendo una minoranza appunto i copti sono vittime di una significativa
discriminazione nell’Egitto moderno e degli attacchi di gruppi islamici estremisti. In una società in
cui essere donna e cristiana ha un costo sempre più alto, la donna copta si trova in una situazione di
maggiore precarietà, data la crescita della violenza verso la popolazione copta in Egitto. Un
esempio di queste escalation violente è l’Egitto della primavera araba dove le violenze hanno
accompagnato la transizione dal regime di Hosni Mubarak alla elezione e successiva destituzione di
Mohamed Morsi. Questo periodo storico ha significato, per le minoranze religiose, la rarefazione
della sicurezza sociale, soprattutto per i sempre più perseguitati copti, minoranza che ha visto molte
sue donne uccise o gravemente ferite negli scontri di piazza. Per sopravvivere in questa condizione
sociale, cristiani cattolici, copti, ortodossi e protestanti egiziani oggi si aiutano a vicenda, si
stringono tra loro, creando uno dei primi esempi di collaborazione fra minoranze religiose cristiane
in Africa . Anche Papa Francesco ha più volte denunciato questo condizione di sofferenza e
discriminazione: tra gli appelli più forti che ha lanciato c’è quello del 10 maggio scorso quando, in
occasione della visita in Vaticano di Tawadros II, Papa dei copti ortodossi, ha parlato di
ecumenismo della sofferenza.
In Africa, come purtroppo sappiamo dalle maggiori organizzazioni umanitarie, una delle piaghe
principali è la enorme diffusione del virus dell’HIV e di altre malattie sessualmente trasmissibili. La
condizione sessuale in Africa è un vero e proprio disagio sociale, allarmante nei numeri e nelle
ripercussioni che la donna subisce a seguito di un rapporto. È opportuno, e questo ormai è da tempo
che molte organizzazioni lo fanno, trasmettere ai popoli più disagiati un’adeguata educazione
sessuale, con lo scopo di ridurre malattie infettive, favorire una nascita regolare e tracciare le linee
guida verso un futuro che sia educato e al passo con i tempi.
Da una parte c’è l AIDS, grande questione mondiale e soprattutto vera e propria piaga del
“continente nero”, conosciuta anche come la peste del secolo, dall’altra parte c’è la questione
demografica, un vero disagio in paesi dove le politiche contraccettive sono tutt’altro che di facile
attuazione, sia per motivi culturali che per questioni di denaro, e dove la povertà pone il problema
delle troppe bocche da sfamare e dove si muore ancora mettendo al mondo un figlio. Da non
sottovalutare assolutamente, in questo senso, il fattore religione: dopo le parole di Papa Benedetto
XVI durante un suo viaggio ecumenico in Camerun nel 2009, un numero crescente di africani di
religione cristiana, secondo alcune indagini di Amnesty International, hanno abbandonato i loro
propositi di iniziare a utilizzare il preservativo e gli altri contraccettivi, abbandonando una via
abbastanza sicura sia di prevenzione dell’AIDS e delle altre malattie sessualmente trasmissibili sia
di controllo delle nascite utile a “curare” l’esplosione demografica dei Paesi Africani in via di
sviluppo. C’è poi un’ulteriore questione, quella della contraccezione ormonale. Secondo uno studio
condotto dalla Washington University e pubblicato dalla rivista “The Lancet”, le donne africane
cristiane, nei casi in cui utilizzino i contraccettivi, preferiscono di gran lunga il metodo ormonale
per iniezione, volto a eliminare l’ovulazione, dopo aver avuto un certo numero di figli; ciò perché la
campagna ecclesiastica anti-contraccettivi ha preso di mira soprattutto il preservativo, cosicché le
donne lo considerino un “peccato” molto maggiore rispetto all’utilizzo di altri contraccettivi, anche
se la Chiesa li considera naturalmente tutti sullo stesso piano. La Washington University ha
drammaticamente sperimentato che l’aumento di malati di AIDS è direttamente proporzionale
all’aumento di utilizzo di terapie contraccettive ormonali: il tasso di contagio delle donne con tali
metodi sarebbe del 6,6%, contro il tasso di contagio femminile generale del 3,8% (ciò dipende in
larga parte dall’utilizzo di strumenti di iniezione non sterilizzati e dal trattamento in strutture con
condizioni igienico-sanitarie precarie); fra i partner delle donne che utilizzano il metodo ormonale a
iniezione, il tasso di contagio è del 2,6% contro il tasso generale dell’1,5%.
3. Donne e Islam nel Continente Africano di Teresa Zappelli
3.1. Premessa.
L'Islam Africano è stato definito per lungo tempo come “Islam nero”; tale nozione indicava l'idea di
una religione di minore importanza, grossolana e impura, un credo superficiale che non incideva
sulle strutture mentali e sociali del' Africa sub–sahariana; infatti tale concezione individuava come
vera e autentica religione africana l'animismo.
Superando la visione stereotipata di stampo coloniale e imperialista possiamo arrivare alla
conclusione che l'Islam è parte integrante dell'Africa o ancora meglio è l'Africa parte integrante
della storia della religione islamica, dunque “l'Islam nero” non è né inferiore né scollegato dall’
“Islam
Arabo”
anche
se
esso,naturalmente,presenta
proprie
caratteristiche
che
lo
contraddistinguono proprio perché non è solo religione ma anche una prassi politica,un sistema di
pensiero globale che comprende la storia, la cultura, il diritto, il potere.
In questa ottica difficile e differenziata possiamo quindi individuare il ruolo della donna come un
argomento al centro di accesi dibattiti e estremamente contrastanti ma dal punto di vista
strettamente religioso non sembrano esserci problemi: per la legge islamica la donna è
ontologicamente uguale all'uomo. Eppure ancora oggi le donne musulmane non vivono in una
condizione di libertà eguale negli stati di cultura islamica tradizionalista, gli stessi che mirano a una
reintroduzione della Shari'a,dove le norme del Corano sono applicate e interpretate in modo più
estremo e rigido; qui le donne vivono un'esistenza difficile.
La Shari'a, percepita come un codice di legge, una fonte di diritto positivo, permettendo di
concedere in spose le minorenni ammette di fatto la pedofilia, sancisce la schiavitù infantile,
legittima le pene corporali e la mutilazione di arti e genitali.
In paesi del'Africa sub-sahariana le statistiche dimostrano come questa cultura fondamentalista
porta ogni giorno migliaia di donne e bambine a subire violenze, ma tali oscenità sono da attribuire
alla sola cultura islamica o anche alla brutalità degli uomini?
3.2. Spose bambine: troppo giovani per dire “Si”.
Secondo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo, la Convenzione contro ogni
discriminazione contro le donne e la Convenzione sui diritti del fanciullo il matrimonio infantile è
una grave violazione dei diritti delle bambine. Nonostante le molteplici dichiarazioni e convenzioni,
stando al Rapporto del 2012 pubblicato dalle Nazioni Unite per la Popolazione (UNPFA) nel
periodo 2000-2011 circa 67 milioni di donne africane hanno dichiarato di essersi sposate prima dei
18 anni,tra queste il 12% prima dei 15 anni di età.
Tra i paesi in cui la pratica delle spose bambine è particolarmente diffusa il podio è tristemente
conquistato dal Niger dove la maggior parte della popolazione è di religione musulmana di
professione sunnita (93%) e quasi la metà della popolazione (49%) ha meno di 18 anni.
In modo particolare la crisi alimentare, che negli ultimi anni ha messo in ginocchio la nazione,ha
portato a un aumento di tale fenomeno; infatti si è notato che i genitori cercano di incassare la dote
il prima possibile sollevandosi così dalla responsabilità di una bocca da sfamare: una bambina su
due convola a nozze prima dei 15 anni di età con un uomo che generalmente ha il doppio dei suoi
anni.
Come si può ben capire il tasso di natalità è uno dei più alti al mondo: in media ogni donna
partorisce 7 figli ma la mortalità infantile si mantiene a alti livelli e anche quella dei bambini di età
compresa tra uno e quattro anni è eccezionalmente alta (100 morti su 248 vivi).
Porre rimedio alla crisi alimentare,stabilire un'età minima per il matrimonio,garantire un'istruzione
primaria è fondamentale affinché questa grave violazione dei diritti umani sia inizialmente arginata
e successivamente risolta.
3.3. Mutilazioni genitali: pratiche non terapeutiche.
Le mutilazioni genitali femminili (MGF) sono un fenomeno vasto e complesso, che include pratiche
tradizionali che vanno dall'incisione all'esportazione, parziale o totale, dei genitali femminili esterni.
Si stima che in Africa il numero di donne che convivono con tali laceranti disagi siano circa 20
milioni; dati gli attuali trend demografici l'Unicef ha calcolato che circa ogni anno 3 milioni di
bambine sotto i 15 anni si addizionano a queste statistiche. Nell'Africa sub-sahariana ma anche in
Egitto e in Guinea l'incidenza del fenomeno rimane altissima toccando il 90% della popolazione
femminile.
Le MGF sono praticate essenzialmente da donne che possono essere levatrici o ostetriche secondo
le più disparate motivazioni:per soggiogare o ridurre la sessualità femminile, per una maggiore
integrazione sociale delle giovani donne o anche per credenze secondo le quali tali oscenità
favoriscano la fertilità e la forza della futura prole e sopratutto per credenze religiose:tali pratiche
sono probabilmente risalenti a religioni tradizionali pre-islamiche tramandate fino ai giorni nostri
che trovano fondamento grazie a una cattiva interpretazione del Corano.
Le mutilazioni sono praticate su bambine che hanno dai 4 ai 14 anni di età ma in alcune comunità
l'escissione può essere effettuata anche su donne più adulte alla vigilia del matrimonio o all'inizio
della prima gravidanza e addirittura anche su donne che hanno appena partorito.
L'escissione, l'infibulazione la circoncisione si fondano su concezioni culturali della differenza di
genere,della sessualità,del matrimonio,della famiglia che influenzano e rappresentano un gravissimo
pericolo per l'integrità fisica e psicologica della donna aumentando in modo smisurato la mortalità
per questo l'Unicef, Amnesty International, le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali
le considera come una delle più grandi violazioni dei diritti delle donne e delle bambine.
3.4. Donne e AIDS.
Con una drammatica esposizione alla violenza sessuale, minori possibilità di istruzione e lavoro, il
61% delle donne dell'africa Sub-sahariana convive con l'Hiv. Matrimoni precoci, mutilazioni
genitali femminili ed altre pratiche islamiche tradizionali, risultano essere correlate all’incremento
del virus.
In questa regione le probabilità che una giovane tra i 15 e i 24 anni contragga l'Hiv sono dalle due
alle sei volte maggiori rispetto ai coetanei maschi.
A causa della maggiore vulnerabilità biologica è più probabile che una donna contragga il virus da
un uomo che non il contrario,ciò è accresciuto dai rapporti sbilanciati che impediscono alle donne
di avere rapporti sessuali protetti a causa della loro stessa condizione di dipendenza e
subordinazione.
Durante la gravidanza, il parto e l’allattamento, le madri possono trasmettere, se non adeguatamente
curate, il virus ai neonati; si stima che nel mondo approssimativamente 2,5 milioni di bambini sotto
i 15 anni di età siano sieropositivi. Nel corso del 2009 sono stati circa 370.000 i nuovi contagi da
HIV e 260.000 le morti per cause riconducibili all’Aids tra i bambini sotto i 15 anni di età. Circa il
90 % dei bambini sieropositivi vive in Africa sub-sahariana.
L'articolo 24 della Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza stabilisce che tutti i
bambini hanno il diritto di godere del miglior stato di salute possibile. L’Hiv/Aids non solo nega
questo diritto, ma minaccia direttamente anche i quattro principi fondamentali della Convenzione
che sono:
-Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo: l’Aids è una malattia mortale che
chiaramente minaccia il diritto alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino.
-Non discriminazione: a causa dell’ignoranza, della paura e dei pregiudizi verso i bambini
sieropositivi, o i cui genitori sono affetti da Hiv/Aids, viene negato il diritto all’istruzione, l’accesso
ai servizi sanitari e sociali e vengono emarginati dalla comunità di appartenenza; la discriminazione
di genere comporta che spesso le ragazze hanno meno possibilità di accesso all’istruzione e ciò gli
impedisce di avere le informazioni necessarie alla prevenzione della pandemia.
- Superiore interesse del bambino/a: in molti paesi i servizi relativi all’HIV/AIDS sono stati
pensati per gli adulti, quindi risultano difficilmente accessibili ai più giovani.
-Partecipazione: il bambino ha il diritto di contribuire ad alzare il livello di attenzione sul
problema dell’Hiv, di parlare dell’impatto che esso ha avuto sulla sua vita e di partecipare alla
stesura di politiche e programmi per la lotta della malattia.
Rafforzare le strutture sanitarie è essenziale per una riduzione del contagio ma per incidere
maggiormente e arginare il più possibile il fenomeno serve eliminare la discriminazione di genere e
alimentare una educazione alle sessualità e alla conoscenza del proprio corpo.
Come è evidente la discriminazione di genere viene provocata nella maggior parte dei casi dalla
cultura islamica e dal fondamentalismo che ne discende e che in queste regioni amministra la vita di
tutti i giorni; porre un rimedio a questa violenza fisica e psicologica è essenziale.
Come scrive Dounia Ettaib,vicepresidente dell'associazione delle donne marocchine in Italia: “non
c'è da fare troppa teoria: il vero problema delle donne musulmane è il fondamentalismo. La
condizione della donna non è determinata dal Corano ma dalle assurde interpretazioni che ne fanno
certi uomini. La religione non è un ostacolo alla civiltà, soltanto l'integralismo fanatico lo è.”
4. Religione tradizionale e persecuzione degli albini di Samuele Mencacci
Figura 1
Il bambino che possiamo vedere nell’immagine sovrastante (figura 1) si chiama Akin, e ha tre anni.
I suoi sono i classici lineamenti di un bambino africano della sua età, ma salta subito agli occhi di
tutti il particolare colore della sua pelle: candida come un manto di neve. I suoi capelli, crespi come
quelli dei suoi coetanei, non hanno il tipico colore nero scuro: sono biondi, come quelli della
maggior parte dei bambini del Nord Europa. I suoi occhi, così innaturalmente chiari, non resistono
per più di un secondo al riflesso di un raggio di sole. Akin è affetto da albinismo. Probabilmente
molti di noi conoscono bene questa parola, avendola sentita soprattutto associata al mondo animale:
la volpe albina, il canguro albino, il cervo albino… esseri viventi molto rari, che tutti gli esperti del
settore ammirano. Akin e tutti i bambini che, come lui, sono stati colpiti da questo problema,
devono invece lottare ogni giorno contro un nemico splendente e silenzioso: il Sole. Tutti noi
associamo la nostra stella alla vita che rinasce, agli abbondanti raccolti, alla felicità stessa. Spesso,
per un bambino albino (di ogni parte del mondo), il Sole è invece associato alla morte, per giunta
dovuta a un male terribile: il tumore della pelle. Basta una semplice giornata passata all’aria aperta
sotto il sole affinché un bambino albino possa rischiare di trovarsi con un tumore della pelle il
giorno dopo: e tale rischio è tanto più maggiore in Africa, dove la vita di un bambino di tre anni si
svolge prevalentemente fuori dalle mura domestiche.
Stime dell’ammontare di popolazione affetta da albinismo in alcune zone del mondo
Zona
Popolazione albina stimata
Tanzania
34.000 ca.
Kenya
10.000 ca.
Zimbabwe
3.600 ca.
Mali
2.900 ca.
Africa
300.000 ca.
Stima globale
410.000 ca.
La percentuale globale di popolazione albina è dello 0,0059% (1 albino ogni 17.000 persone),
mentre in Africa è dello 0,029% (1 albino ogni 3.500 persone), con punte dello 0,071% (1 albino
ogni 1.400 persone) in Tanzania. Naturalmente le cifre riportate nella tabella e le percentuali ora
menzionate non godono di un alto grado di precisione, in quanto non abbiamo cifre precise
dell’ammontare degli affetti da albinismo nel mondo, a causa della poco approfondita trattazione
del problema anche da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Il problema si
ingigantisce in Africa, dove il fenomeno è inoltre coperto da un’intensa cortina di omertà, e
successivamente andremo a spiegare il perché. Comunque, le più alte percentuali stimate in Africa
(praticamente ¾ della popolazione albina mondiale risiede nel “Continente Nero”) sono dovute al
maggior numero di unioni fra consanguinei che si hanno nel continente africano, le quali
favoriscono la trasmissione per via ereditaria del gene dell’albinismo. Purtroppo, per le unioni fra
consanguinei i dati sono ancora più incerti: si stima che a livello mondiale sia fra consanguinei 1
matrimonio su 100, ma non abbiamo dati suddivisi per zona, e soprattutto non abbiamo dati certi
per il Continente Africano.
Perché in Africa si ha un maggior numero di unioni fra consanguinei? La spiegazione è da imputare
soprattutto al fattore religione: nonostante l’estesa diffusione di religioni come il Cristianesimo e
l’Islamismo, dovuta soprattutto alla spartizione coloniale/imperialista che in passato è stata portata
avanti da Arabi, Turchi ed Europei, ancora l’11,8% della popolazione africana professa culti
tradizionali. Secondo un’indagine campionaria condotta da Amnesty International nel 2010,
correlata alla stesura dei Rapporti Annuali sull’Africa, un gran numero di persone che professa
religioni “convenzionali” è portato anche a seguire alcune tradizioni dei culti indigeni, come
l’utilizzo della magia, la venerazione degli antenati e il sacrificio degli animali. Al fine della nostra
trattazione potremmo sommare i due gruppi di individui, ottenendo una percentuale intorno al 30%
(seguaci dei culti tradizionali + seguaci delle religioni monoteiste che seguono alcune tradizioni
indigene). Per questa ampia fetta di popolazione africana, atti considerati deplorevoli dalle altre
religioni, come l’incesto, sono assolutamente normali e all’ordine del giorno: è molto frequente
trovare, per esempio in Tanzania, in Kenya o in Zimbabwe, tribù dove ogni settimana si consacrano
matrimoni tra cugini di primo grado, tra fratello e sorella, tra zia e nipote. In questi casi la
motivazione religiosa può essere accompagnata da motivazioni geografiche o sociali: nel primo
caso alcune tribù, vivendo a centinaia di chilometri l’una dall’altra ed essendo formate quasi
esclusivamente da una sola famiglia, officiano matrimoni fra consanguinei per far sopravvivere la
tribù stessa; nel secondo caso (quello degli albini), i consanguinei sono costretti a unirsi in
matrimonio data la discriminazione e l’odio perpetuati nei loro confronti da persone al di fuori della
loro famiglia.
Ma la religione tradizionale africana non ha solo tale influenza nella popolazione albina: c’è un
altro aspetto ben più grave, che solo da poco tempo la Comunità Internazionale sta cercando di
risolvere, peraltro con scarso successo, e che adesso andiamo a spiegare.
Ogni culto tradizionale africano ha dei particolari sacerdoti, detti sciamani o stregoni, che tendono a
risolvere qualsiasi problema della vita quotidiana tramite rimedi preistorici e superstiziosi.
Naturalmente, data l’ignoranza scientifico-medica che contraddistingue tali personaggi (ignoranza
che è base fondamentale dell’esistenza di questi culti), ogni cosa che si allontana da ciò che viene
considerata “normalità” viene vista come avversione degli spiriti e impronta del demonio; per
questo, il problema deve subito essere eliminato. Per quanto riguarda gli albini, essi sono
considerati principalmente una forma di manifestazione demoniaca, anche se una minoranza delle
credenze tende a considerarli immortali o in grado di prevedere il futuro (o di percepire le anime
all’interno dei corpi umani) tramite i loro occhi chiari; le differenti considerazioni, però, non
cambiano la sostanza: gli albini sono comunque una manifestazione innaturale dell’esistente. Gli
sciamani si dividono tra coloro che li considerano con totale indifferenza e coloro che invece li
considerano così pieni di malvagità da poter essere utilizzati come cura di altri mali. Nel primo caso
gli affetti da albinismo sono chiamati con nomi dispregiativi quali Zeruzeru (fantasma, nella lingua
della Tanzania), Isope (colui che svanisce, in Swaili), o Nobody (nessuno, in inglese). Significativa,
in questo senso, l’esperienza di Josephat Torner, albino e attivista per i diritti umani di coloro che
sono affetti da questo problema, il quale non fu riconosciuto come essere vivente dai genitori della
sua sposa, una ragazza dalle convenzionali fattezze africane.
Ben più incerto è il destino di coloro che, dagli sciamani, sono considerati come talismani in grado,
con la loro aura malvagia, di preservare gli uomini dai mali che li possono affliggere. Si prospetta,
in questi casi, una vera e propria “moderna caccia alle streghe”, dai risvolti incredibilmente
drammatici. Nei paesi a più alta densità di popolazione albina (su tutte la Tanzania, ma anche
Uganda, Burundi, Kenya e Zimbabwe, dove nascono 1 albino su 2.000/2.500 individui), gli stregoni
utilizzano gli albini come rimedi per guarire dalle malattie, soprattutto quelle sessualmente
trasmissibili, come il famigerato AIDS, vera e propria piaga dell’Africa odierna.
La cartina seguente mostra la percentuale di persone affette dal virus dell’HIV nell’anno 2013.
Come possiamo notare dalla cartina, nei paesi a maggiore incidenza di religione tradizionale vi è
anche una alta incidenza di malati di AIDS: tale percentuale si aggira attorno al 9% in Tanzania, al
12% in Kenya e addirittura la percentuale di malati è superiore al 30% in Zimbabwe. È possibile
affermare che religione tradizionale e malati di AIDS siano due fattori che si influenzano a vicenda:
1) dove il virus si manifesta nella sua maggiore brutalità, la disperazione potrebbe spingere la
popolazione a ricorrere a rimedi superstiziosi tipici della religione tradizionale e dello
sciamanesimo;
2) possiamo considerare la religione tradizionale come una vera e propria via di trasmissione della
malattia stessa, in quanto non è poco frequente che un sacerdote animista, o di qualsiasi altro culto
tradizionale africano, prescriva a un malato di AIDS un rapporto sessuale con una donna albina per
guarire dalla propria malattia. Quando tale trattamento non si conclude con l’uccisione della
ragazza, cosa considerata ulteriormente favorevole nel placare gli spiriti, essa rischierà di andare a
incrementare la percentuale di malati, e di poter trasmettere la malattia anche ad altri individui.
Frequenti, nei vari paesi che prima abbiamo menzionato, sono gli infanticidi di albini, le cui ossa, il
sangue e i genitali vengono poi utilizzate nella creazione di pozioni magiche utili a sconfiggere
l’infertilità. Le storie raccontate a vari missionari e attivisti europei sono struggenti: in Tanzania, nel
2009, un gruppo di persone fece irruzione in una casa dove viveva una bambina albina; essi
immobilizzarono la madre e tagliarono un braccio alla infante (rimasta miracolosamente in vita),
spiegando alla donna che essi erano emissari di un potente uomo della zona, arricchitosi grazie al
traffico di parti del corpo albine utilizzate per pozioni e collanine anti-malocchio; commovente,
invece, un’altra storia proveniente dalla Tanzania e raccontata nel romanzo “Ombre bianche”: un
nonno, dopo aver visto la propria nipotina uccisa da dei fanatici, ha deciso di seppellirla sotto il suo
letto, affermando:”se vorranno profanare la sua tomba dovranno prima passare sul mio cadavere”.
Infatti, soprattutto in Tanzania, è frequente vedere tombe di albini profanate per rimuoverne i resti,
che saranno poi utilizzati per i suddetti scopi.
Vi sono altri paesi africani dove l’incidenza dell’albinismo è minore ma comunque significativa
(Camerun, Mali, Senegal e Nigeria, dove si contano all’incirca 1 albino su 5.000 individui). Il
maggiore sviluppo religioso, sociale e culturale di tali civiltà ha portato la popolazione a
considerare gli albini in maniera maggiormente positiva, anche se la soppressione dei neonati albini
è ancora abbastanza significativa.
Purtroppo non abbiamo molti dati demografici certi che riguardano i paesi dell’Africa sub
sahariana, dove è presente il problema della persecuzione albina, in quanto nessuno dei paesi di
questa zona ha servizi demografici abbastanza avanzati da poter produrre delle statistiche idonee;
abbiamo alcuni dati abbastanza rilevanti dove il problema ha raggiunto dimensioni tali da spingere
molti attivisti a organizzarsi in alcune associazioni: è il caso della Tanzania Albino Society (TAS),
della quale uno dei leader più importanti è il già citato Josephat Torner. I dati della TAS sono i
seguenti: dal 2006 al 2011 sono stati denunciati, contro gli albini, 58 assassini (19 vittime erano
bambini al di sotto dei 14 anni), 9 amputazioni di arti e 10 profanazioni di tombe. Dobbiamo
comunque aggiungere che tali dati non tengono conto del numero dei bambini uccisi o lasciati
morire dalle famiglie nella foresta o sotto il sole, sperando che riacquistino il colore naturale; dei
bambini venduti dai propri genitori o abbandonati; degli attacchi, scomparse, profanazioni di tombe
o assassini non denunciati alle autorità. Le cifre andrebbero così a gonfiarsi a dismisura tanto che,
secondo il Segretario Generale della TAS Samweli Mluge, dal 2002 al 2011 sarebbero stati in realtà
assassinati ben 686 albini; anche le stesse cifre di amputazioni di arti e profanazioni di tombe
sarebbero molto più alte, ma purtroppo, riguardo a queste efferatezze, non possiamo neanche
conoscere alcune stime. È utile ricordare, inoltre, l’ultimo Rapporto di Amnesty International che ha
trattato il problema dell’albinismo in Tanzania, ovvero quello del 2010: secondo tale rapporto, fra il
2009 e il 2010 sono state uccise circa 50 persone albine, ma soltanto i casi relativi a due uccisioni si
sono conclusi con una sentenza del tribunale.
Purtroppo dobbiamo anche ricordare una orribile pratica molto diffusa fra i paesi a più alta
percentuale di popolazione albina e le nazioni limitrofe: il commercio di albini o di loro parti del
corpo. Spesso, quando una profanazione di una tomba di un defunto affetto da albinismo si
conclude a buon fine, le parti del corpo rimosse vengono vendute al mercato nero per farne poi
pozioni magiche o talismani. Inerente a ciò possiamo accennare la storia di un “businessman”
tanzano, che nel 2009 è stato arrestato mentre attraversava il confine tra il Burundi e la Tanzania.
Trasportava una valigia contenente teste di esseri umani, ovviamente albini. Ovviamente destinate
al mercato nero delle pozioni magiche.
Tumori e malattie della pelle; assassini, amputazioni, infanticidi e violenze; la vita degli albini
africani è un vero e proprio calvario. Si è calcolato che l’80% di loro non superi i 30 anni di vita; in
Tanzania, per quanto riguarda gli albini, la loro speranza di vita alla nascita è di 32 anni, mentre la
speranza di vita alla nascita della popolazione in generale è di 53,14 anni.
Come abbiamo già accennato, la Comunità Internazionale (e le autorità nazionali dei paesi
interessati, su tutti la Tanzania) ha iniziato da poco tempo a occuparsi del problema della
persecuzione nei confronti degli albini. La prima nazione ad aver dato asilo politico a un albino a
causa della persecuzione subita è stata la Spagna, ma solamente nel 2009. Inoltre, una delle prime
voci a farsi sentire, dall’alto della sua autorità, è stata quella di Papa Benedetto XVI, il quale, in
dichiarazioni tenutesi a Luanda il 21 marzo 2009 e ad Assisi il 27 ottobre 2011 ha fortemente
condannato le orrende pratiche che portano alla decimazione della popolazione albina. Un
assordante silenzio, invece, proviene dai maggiori leader politici mondiali.
Da citare naturalmente il prezioso lavoro della Tanzania Albino Society, associazione fondata nel
1978 allo scopo di tutelare i diritti delle persone affette da albinismo nel paese sub-sahariano.
Purtroppo la sua azione è stata inizialmente frenata dall’indifferenza della Comunità Internazionale
e delle autorità locali. Un grosso cambiamento si è avuto solo a partire dal 2005, con l’elezione a
Presidente della Repubblica di Jakaya Kikweete il quale, nonostante la sua presidenza semiautoritaria, ha sposato in pieno la causa degli albini, facendo molto per difendere la loro incolumità.
Il primo simbolico passo del Presidente è stato quello di nominare in Parlamento una donna albina,
Al Shaymar Kwegyr, volendo dimostrare che un albino (donna, per giunta!) può degnamente
rappresentare la popolazione del paese. Ma l’azione concreta più importante del Presidente
Kikweete, oltre a creare una buona serie di norme volte a evitare il diffondersi delle pratiche antialbini, è stata quella di creare e potenziare le strutture di protezione dei bambini albini situate nelle
regioni tanzane di Shynianga, Musoma, Kigoma, Misungwi, Tabora, Tanga e Rukwa. Sebbene tali
strutture rappresentino un notevole passo in avanti rispetto agli anni precedenti, ancora nel 2011 le
strutture costruite sono fatiscenti, prive di risorse idriche e alimentari. I bambini (oltre agli albini,
trovano rifugio in queste strutture anche infanti disabili, sordomuti o semplicemente abbandonati)
vivono in condizioni precarie e non ricevono alimentazione e istruzione adeguate. Dobbiamo inoltre
aggiungere che, nonostante negli ultimi due anni non si siano registrati uccisioni di albini (fra quelle
denunciate, ricordando che il fenomeno della persecuzione è fortemente sottostimato), la
discriminazione nei loro confronti, in Tanzania come negli altri paesi ad alta incidenza, è ancora
forte.
Per concludere, è assolutamente fondamentale ricordare che c’è bisogno di una presa di posizione
comune di una forte maggioranza degli Stati Mondiali, coordinati dalle Nazioni Unite e interessati a
debellare la persecuzione non solo in Tanzania, ma in tutte le nazioni africane dove il problema è
forte, senza lasciare sole le (ancora poche) organizzazioni nazionali che difendono gli albini (oltre
alla Tanzania Albino Society, ricordiamo anche la Albinism Foundation of East Africa, la Albinism
Society of Kenya e la Zimbabwe Albino Association) e le organizzazioni internazionali come
Amnesty International. È necessario che ciò sia fatto al più presto: per Akin e per tutti i bambini (e
non solo!) come lui che hanno il diritto di vivere un’esistenza migliore di quanto gli si prospetta
oggi.
5. Conclusione di Giacomo Ciuffoletti,Samuele Mencacci,Francesco Rottura,Teresa Zappelli
Scrivere una tesina attingendo informazioni solamente da Internet o da documenti cartacei ci ha
fatto nascere la curiosità di capire come dei nostri coetanei africani vivono in prima persona
l’influenza della loro religione; per questo abbiamo deciso di svolgere una serie di interviste a
ragazze e ragazzi provenienti dal continente africano, che si sono stabiliti nel nostro paese per
motivi di studio e/o di lavoro.
Abbiamo formulato un questionario, con all’interno sia domande aperte che domande chiuse,
esposto direttamente in prima persona, a studenti della nostra Università, a studenti lavoratori e a
lavoratrici, per un totale di 10 persone (6 maschi e 4 femmine), la cui età va dai 22 ai 30 anni per i
maschi e dai 21 ai 24 anni per le femmine.
Fra i maschi: 3 provenivano dal Camerun, 2 dal Togo e 1 dall’Algeria.
Fra le femmine: 2 provenivano dal Marocco, 1 dal Togo e 1 dal Camerun.
Queste sono le domande che abbiamo proposto.
-
Età
-
Sesso
-
Luogo di nascita
-
Professione
-
Culto religioso professato
-
Come vivevi la religione nel tuo luogo di provenienza?
-
Seguivi solamente tradizioni tipiche della tua religione? Se no, quali?
-
è cambiato il rapporto che hai con la religione da quando sei in Italia? Se si, in che
modo?
-
Secondo te, come è considerata la donna nella tua religione?
-
Nel tuo continente di origine uno dei problemi più grandi è la diffusione dell’HIV. In
che modo la tua religione ha agito contro questo problema, se lo ha fatto? E se lo ha
fatto, come consideri la sua azione?
-
Pregi e difetti della tua religione.
Questi invece sono i risultati della nostra piccola indagine.
-
Culto religioso professato.
4 maschi e 2 femmine sono di religione cristiana, mentre 2 maschi e 2 femmine sono di
religione islamica.
-
Come vivevi la tua religione nel tuo luogo di provenienza?
Questa era una domanda a risposta chiusa che prevedeva le risposte “Praticante e osservante
le regole religiose”, “Praticante” e “Non praticante”.
La totalità dei musulmani, sia maschi che femmine, ha risposto “Praticante e osservante le
regole religiose”.
Trai i cristiani abbiamo osservato che le femmine sono entrambe praticanti e osservanti,
mentre fra i maschi 1 solo ragazzo ha risposto “Praticante e osservante”, mentre gli altri 3
hanno risposto solo “Praticante”.
-
Seguivi solamente tradizioni tipiche della tua religione? Se rispondi no, quali?
Questa domanda prevedeva le risposte “si” e “no”. In caso di risposta negativa, l’intervistato
indicava le tradizioni seguite al di fuori della propria religione di appartenenza.
In questa domanda abbiamo notato che i musulmani, tutti praticanti e osservanti, non sono
propensi ad accettare tradizioni diverse da quelle impartite dalla religione di appartenenza;
stessa cosa non si può dire dei cristiani: infatti 2 “Praticanti” hanno risposto che seguono
anche tradizioni e riti che non provengono dai dogmi del Cristianesimo; in particolare hanno
affermato entrambi di venerare i propri antenati, mentre solo uno ha detto di aver partecipato
a sacrifici animali (di galli, polli, capre e pecore) consigliati da una sorta di “stregone” per
superare problemi familiari.
Il “Praticante e osservante” e uno dei “Praticanti” cristiani hanno affermato di seguire
solamente gli insegnamenti della loro religione.
-
è cambiato il rapporto che hai con la religione da quando sei in Italia? Se si, in che
modo?
Anche in questa domanda, le risposte possibili erano naturalmente “Si” o “No” e, nel caso di
risposta affermativa, chiedevamo le dovute esplicazioni. Qui troviamo dati interessanti: sono
state soprattutto le due ragazze musulmane a darci l’idea di cambiamento maggiore, in
quanto ci hanno raccontato che, una volta in Italia, il loro stile di vita è cambiato
radicalmente, ma all’oscuro della famiglia. Le intervistate hanno dichiarato di non portare il
velo, di mangiare (anche se moderatamente) durante le ore diurne nel periodo di Ramadan e
di avere rapporti sessuali con ragazzi italiani, nonostante la contrarietà della famiglia, che
anzi auspica il matrimonio con ragazzi di fede islamica. I ragazzi musulmani si sono invece
dimostrati più “conservatori”, in quanto solo uno di loro ha dichiarato di aver cambiato le
proprie abitudini, tra l’altro solo in riferimento alla preghiera e non allo stile di vita.
Passando agli intervistati di religione cristiana, tralasciando coloro che non hanno
abbandonato le proprie abitudini, dobbiamo rilevare che una ragazza, definitasi “Praticante e
Osservante”, ha diminuito la propria partecipazione alle funzioni religiose, mentre i due
ragazzi “Praticanti” che osservavano anche culti tradizionali hanno affermato di aver
abbandonato tali forme di partecipazione in quanto impossibilitati nel nostro paese. Uno di
questi ha inoltre affermato di essersi maggiormente avvicinato alla religione Cristiana, in
particolare alla confessione Cattolica, per motivi personali.
-
Secondo te, come è considerata la donna nella tua religione?
Questa è la prima domanda a completa risposta aperta che abbiamo presentato.
Una delle due ragazze musulmane ha preferito non rispondere a questa domanda. L’altra
invece ci ha spiegato che, come dimostra il radicale cambiamento che ha subito la sua vita
una volta arrivata in Italia, la condizione della donna nel suo paese di origine, il Marocco, è
molto diversa; ciò non vuol dire che la donna è completamente sottomessa all’uomo, ma
subisce un controllo più pressante, prima da parte del padre e degli eventuali fratelli, poi da
parte del marito.
Fra le altre risposte, è molto interessante l’affermazione che ha fatto il ragazzo cristiano
“Praticante e Osservante”, il quale ha precisato che la donna è, nella quotidianità, il
“Ministro dell’Interno” fra le mura domestiche, dove cresce i figli e accudisce il marito. Un
altro ragazzo cristiano ci ha parlato del cosiddetto “culto di vedovanza” nel suo paese di
origine, il Camerun, dove le donne rimaste vedove portano il lutto indossando un particolare
abito, che prima era di colore blu, adesso bianco o nero, fino alla propria morte o
all’eventuale successivo matrimonio, che può avvenire solo dopo un adeguato lasso di
tempo.
I ragazzi musulmani hanno dichiarato che il problema non è tanto quello della donna
islamica, ma quello delle donne occidentali, secondo loro troppo “libertine”.
-
Nel tuo continente di origine uno dei problemi più grandi è la diffusione dell’HIV. In
che modo la tua religione ha agito contro questo problema, se lo ha fatto? E se lo ha
fatto, come consideri la sua azione?
Ragazzi e ragazze musulmane, provenendo da paesi dove l’incidenza dell’HIV è molto
bassa o avendo poca conoscenza personale del problema, non hanno risposto a questa
domanda.
La tendenza generale delle risposte dei cristiani è stata quella di giustificare, e anzi di
spiegarci, le parole di Papa Benedetto XVI, il quale, nel 2009, in un viaggio in Camerun,
affermò che “non si può risolvere la piaga dell’AIDS con la distribuzione dei preservativi,
ma tramite una educazione sessuale e sentimentale della popolazione”. Uno dei ragazzi ci ha
addirittura messo a conoscenza di una ricerca dell’università di Harvard, la quale, sempre
nel 2009, avrebbe affermato che l’utilizzo del preservativo non basta nella prevenzione
dell’HIV, dando quindi ragione al Papa. Lo stesso ragazzo ci ha dato la sua visione in merito
all’argomento: secondo lui la visione del mondo occidentale riguardo ai rapporti sessuali è
distorta, in quanto il sesso viene considerato un mero strumento di piacere, mentre il fine
della procreazione e della fedeltà di coppia viene messo in secondo piano. Egli ci ha detto
che, in Italia, “fare sesso è come utilizzare lo spazzolino da denti”.
-
Pregi e difetti della tua religione.
Uno dei ragazzi musulmani ci ha simpaticamente detto che il difetto più grande dell’Islam è
il divieto di utilizzare alcolici, mentre le due ragazze islamiche hanno rispetto per la loro
religione, ma non condividono fino in fondo la cultura che ne è scaturita; infatti, come
abbiamo detto precedentemente, esse vivono un forte conflitto fra la loro religione e lo stile
di vita da esse seguito.
Per quanto riguarda ragazzi e ragazze cristiani, fra i pregi hanno ricordato il rispetto per il
prossimo, la fedeltà nel matrimonio e l’importanza di educazione e istruzione. Mentre, per
quanto riguarda i difetti, essi sono attribuiti soprattutto alla Chiesa come istituzione:
l’inspiegabile ricchezza, la pedofilia e l’ingerenza nella politica nazionale.