Città del fuoco celeste

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Città del fuoco celeste
Cassandra Clare
Shadowhunters
città del fuoco celeste
Traduzione di Raffaella Belletti
e Manuela Carozzi
Per Elias e Jonah
Manuela Carozzi ha tradotto la prima parte del volume, Raffaella Belletti ha
tradotto la seconda parte.
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni
dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi
analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
www.mondichrysalide.it
© 2014 Cassandra Claire, LLC
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana
Titolo dell’opera originale The Mortal Instruments. City of Heavenly Fire
Prima edizione luglio 2014
Stampato presso ELCOGRAF S.p.A.
Stabilimento di Cles (TN)
Printed in Italy
ISBN 978-88-04-64129-2
In Dio è la gloria: e quando gli uomini vi aspirano
quella non è che una scintilla in più del fuoco celeste.
(John Dryden, Absalom and Achitophel)
prologo
STILLI COME PIOGGIA
Istituto di Los Angeles, dicembre 2007
C’
era un tempo magnifico, il giorno in cui i genitori di Emma Carstairs vennero uccisi.
D’altronde a Los Angeles era quasi sempre così.
Una serena mattina d’inverno, sua madre e suo padre
l’avevano lasciata davanti all’Istituto, sulle colline oltre
la Pacific Coast Highway dalle quali si godeva una splendida vista dell’oceano. Il cielo era una distesa senza nuvole che si allungava dalle scogliere di Pacific Palisades
fino alle spiagge di Point Dume.
La sera prima era giunta notizia di attività demoniache
in corso vicino alle grotte marine nel parco naturale Leo
Carrillo, e ai Carstairs era stato assegnato il compito di
monitorarle. In seguito Emma avrebbe ricordato sua madre che le rimetteva dietro l’orecchio una ciocca di capelli spettinata dal vento, mentre lei si offriva di disegnare
una runa Antipaura al padre, che diceva ridendo di non
saper bene cosa pensare delle rune così all’avanguardia:
tante grazie, ma gli bastavano quelle del Libro Grigio.
Quella mattina, Emma aveva salutato in fretta i suoi
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genitori, abbracciandoli rapidamente prima di schizzare su per i gradini dell’Istituto, con lo zaino che le ballonzolava fra le spalle, mentre loro la salutavano con la
mano dal cortile.
Emma era entusiasta di potersi allenare all’Istituto.
Non solo lì abitava Julian, il suo migliore amico, ma si
aveva la sensazione di fluttuare sull’oceano. Era un edificio massiccio di legno e pietra, in fondo al lungo viale
acciottolato che serpeggiava fra le colline. Ogni stanza,
ogni piano si affacciavano sull’oceano, sulle montagne e
sul cielo, con le loro vaste increspature di azzurro, verde
e oro. Il sogno di Emma era arrampicarsi sul tetto con Jules – fino a quel momento i genitori erano riusciti a sventare ogni loro tentativo – per vedere se l’occhio poteva
spingersi fino al deserto, a sud.
Il portone d’entrata la conosceva, e si aprì senza difficoltà sotto il suo tocco familiare. L’ingresso e i piani più
bassi dell’Istituto erano affollati di Shadowhunters adulti che camminavano in tutte le direzioni. Doveva essere
in corso una qualche riunione, ipotizzò Emma. In mezzo alla folla intravide il padre di Julian, Andrew Blackthorn, capo dell’Istituto. Per evitare di essere trattenuta
dai soliti convenevoli, saettò verso lo spogliatoio al secondo piano, dove si tolse jeans e maglietta per indossare la tenuta da allenamento: maglietta oversize, pantaloni larghi di cotone e, dettaglio più importante di tutti, la
spada a tracolla sulla schiena.
Cortana. Il nome significava semplicemente “spada
corta”, ma per Emma non lo era. Lunga quanto il suo
avambraccio, di metallo lucente, portava incise parole
che non mancavano mai di farle correre brividi lungo
la schiena: il mio nome è cortana e condivido l’acciaio e la tempra di gioiosa e durlindana. Suo padre le aveva spiegato il significato di quella frase quan8
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do, a dieci anni, le aveva messo per la prima volta l’arma
fra le mani.
— Puoi usarla per allenarti finché non avrai diciotto
anni, momento in cui sarà tua — aveva detto John Carstairs, sorridendo alla figlia che faceva scorrere un dito
sull’incisione. — Capisci cosa significa quella scritta?
Lei aveva scosso la testa. “Acciaio” le era chiaro, ovviamente, ma “tempra”? Per un uomo significava avere
carattere, ma una spada che carattere poteva mai avere?
— Hai già sentito parlare della famiglia Wayland — aveva aggiunto lui. — Erano famosi fabbricanti d’armi, prima che le Sorelle di Ferro iniziassero a forgiare tutte le
spade degli Shadowhunters. Wayland il Fabbro realizzò
Excalibur e Gioiosa, quelle di Artù e di Lancillotto, così
come Durlindana, la spada dell’eroe Orlando. E fecero anche Cortana, partendo dallo stesso acciaio. L’acciaio deve
sempre essere temprato, cioè sottoposto a un calore quasi
in grado di fondere o distruggere il metallo, in modo da
renderlo più resistente. — A quel punto le aveva dato un
bacio sulla testa. — I Carstairs custodiscono questa spada
da generazioni. L’iscrizione ci ricorda che gli Shadowhunters sono le armi dell’Angelo. Tempraci nel fuoco, e diventiamo più forti. Pur soffrendo, sopravviviamo.
Emma non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle i sei anni
che la separavano ancora dai diciotto, età in cui avrebbe
potuto viaggiare per il mondo dando la caccia ai demoni
ed essere temprata nel fuoco. Si allacciò la spada a tracolla e uscì dallo spogliatoio, fantasticando su come sarebbe
stato. Si vedeva in cima ai promontori oceanici di Point
Dume, impegnata a tenere a bada con Cortana un manipolo di demoni Raum. Julian era con lei, ovviamente, e
brandiva la sua arma preferita, la balestra.
Nella mente di Emma, Jules c’era sempre. Lo conosceva da tempo immemore. I Blackthorn e i Carstairs erano
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sempre stati vicini, e Jules aveva appena qualche mese
più di lei: poteva dire di non essere mai vissuta in un
mondo senza la sua presenza. Aveva imparato a nuotare nell’oceano con lui quando erano ancora piccolissimi.
Avevano cominciato a camminare e poi a correre insieme.
Era stata presa in braccio dai genitori di Jules e sgridata
da suo fratello e sua sorella maggiori quando con lui aveva disobbedito.
Ed era capitato tante volte. Tingere di azzurro il pelo
soffice e bianco di Oscar, il gatto dei Blackthorn, era stata
un’idea di Emma, a sette anni. Julian si era preso la colpa,
come faceva spesso. Dopotutto, le aveva fatto notare, era
figlia unica, mentre loro erano sette tra fratelli e sorelle:
i suoi genitori si sarebbero dimenticati di essere arrabbiati con lui molto prima di quanto sarebbe capitato a lei.
Emma ricordava quando la madre di Jules era morta,
subito dopo la nascita di Tavvy, e di come lei gli avesse
tenuto la mano mentre la salma bruciava nei canyon e il
fumo saliva su fino al cielo. Ricordava che lui aveva pianto, e lei aveva notato quanto fosse diverso il pianto dei
maschi rispetto a quello delle femmine: singhiozzi aspri
che sembravano strappati fuori dalla gola con gli uncini.
Forse per loro era peggio, perché proprio in quanto maschi, teoricamente non potevano piangere…
— Oh! — Emma barcollò all’indietro. Era così assorta nei suoi pensieri da essere andata a sbattere contro il
padre di Julian, un signore alto con gli stessi capelli castani arruffati di gran parte dei suoi figli. — Mi scusi, signor Blackthorn!
Lui sorrise. — È la prima volta che vedo qualcuno che
ha tanta voglia di andare a lezione — commentò, mentre lei già sfrecciava via lungo il corridoio.
La palestra era uno dei suoi posti preferiti. Occupava
quasi un piano intero, e le pareti rivolte a est e a ovest
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erano vetrate. L’azzurro dell’acqua entrava praticamente
da ogni angolazione. La curva della linea costiera era visibile da nord a sud, con la sconfinata distesa del Pacifico che si perdeva verso le Hawaii.
In piedi al centro della sala, sul pavimento in legno lucidissimo, c’era la tutor della famiglia Blackthorn, una
donna imperiosa di nome Katerina; in quel momento
era impegnata a insegnare ai gemelli come si lanciano i
coltelli. Livvy seguiva le istruzioni con diligenza, come
sempre, mentre Ty era scuro in volto e non sembrava affatto bendisposto.
Julian, con la sua tenuta leggera da allenamento, era
sdraiato sulla schiena lungo la vetrata a ovest. Stava parlando con Mark, che invece affondava la testa tra le pagine di un libro, facendo il possibile per ignorare il fratellastro minore.
— Secondo te il nome “Mark” non suona sbagliato
su uno Shadowhunter? — stava dicendo Julian quando
Emma si avvicinò. — Pensa se dovessi dire: «Mettimi un
Marchio, Mark».
Mark sollevò la testa di capelli biondi dal libro che
stava leggendo e fulminò il fratello minore con un solo
sguardo. Julian aveva uno stilo in mano e lo faceva girare e rigirare pigramente tra le dita. Lo impugnava come
un pennello, abitudine che Emma gli rimproverava sempre, perché uno stilo va tenuto come uno stilo, ovvero
come un’estensione della mano, non come lo strumento di un artista.
Mark sospirò con aria teatrale. Dall’alto dei suoi sedici anni, era più grande di Emma e Julian abbastanza da
trovare irritante o ridicola qualunque cosa loro facessero. — Se ti disturba tanto, puoi sempre chiamarmi con il
mio nome completo.
— Mark Anthony Blackthorn? — Julian arricciò il naso.
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— Ci vuole un sacco di tempo per dirlo tutto. E se ci attaccasse un demone? Non farei in tempo a pronunciarne
metà che saresti già morto.
— Stai pensando a una situazione in cui saresti tu a
salvare me? — chiese Mark. — Non ti sembra di correre
un po’ troppo con la fantasia, nessuno che non sei altro?
— Invece potrebbe succedere. — Julian, poco felice di
quella definizione, si alzò in piedi. Così però la testa costellata di ciuffi ribelli spiccava ancora di più. Helen, la
sorella maggiore, cercava sempre di domargli la chioma a
colpi di spazzola, ma senza ottenere mai un risultato decente. Julian aveva i capelli tipici dei Blackthorn, proprio
come suo padre e la maggior parte dei fratelli: ispidi, selvaggi, color cioccolato fondente. Quel tratto comune aveva sempre affascinato Emma, che invece aveva preso molto poco dai genitori, a parte i capelli biondi di suo padre.
Da qualche mese Helen si era trasferita a Idris insieme
alla sua ragazza, Aline; si erano scambiate gli anelli di
famiglia e, secondo i genitori di Emma, avevano “intenzioni serie”. In altre parole, non facevano che scambiarsi sguardi svenevoli. Emma era sicura che, se mai si fosse
innamorata, non si sarebbe sdilinquita tanto. Sapeva che
qualcuno aveva avuto da ridire sul fatto che Helen e Aline fossero entrambe femmine, ma non riusciva a capire
perché, e comunque ai Blackthorn Aline piaceva molto.
Era una presenza rassicurante, che aiutava Helen a non
preoccuparsi troppo.
In assenza di Helen, nessuno stava facendo manutenzione ai capelli di Jules, e la luce del sole che entrava dalle vetrate gli accendeva d’oro le punte ispide. Attraverso
la parete orientale, la linea ondulata delle montagne separava l’oceano dalla San Fernando Valley: colline aride
e polverose crivellate da canyon, cactus e cespugli spinosi. A volte gli Shadowhunters si allenavano all’aperto, ed
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Emma adorava quei momenti, in cui poteva scovare sentieri nascosti, cascate segrete e lucertole sonnacchiose che
riposavano sulle rocce. Julian era un maestro nel convincere i piccoli rettili a raggomitolarsi sul suo palmo e nel
farli addormentare accarezzandoli con il pollice sulla testa.
— Attenzione!
Emma si abbassò mentre un coltello dalla punta in legno le sibilava accanto, rimbalzava contro la finestra e
poi colpiva Mark sulla gamba. Il ragazzo sbatté il libro a
terra e balzò in piedi con aria scocciata. In teoria Mark
doveva fare da secondo a Katerina, ma di fatto preferiva
leggere che insegnare.
— Tiberius, non lanciarmi addosso i coltelli.
— Guarda che non ha fatto apposta! — Livvy si mise
fra Mark e il suo gemello. Tiberius era moro quanto Mark
era biondo, ed era l’unico fra i Blackthorn (a parte Mark e
Helen, che però erano un’eccezione per via del loro sangue di Nascosto) a non avere i capelli color cioccolato e
gli occhi verde-azzurro tipici della famiglia. Ty sfoggiava
una chioma nera e riccia, gli occhi grigi come il ferro.
— No, non è vero — precisò Ty. — Stavo proprio mirando a te.
Mark sospirò, enfatico, e si passò le mani fra i capelli,
gesto che li fece rizzare come gli aculei di un riccio. Aveva gli occhi dei Blackthorn, color verderame, ma i capelli
erano biondo platino, gli stessi della madre. Si mormorava che la donna fosse una principessa della Corte Seelie e
che dalla sua storia con Andrew Blackthorn fossero nati
due figli, abbandonati sulla soglia dell’Istituto la notte
prima di scomparire per sempre.
Il padre di Julian aveva accolto quei figli con metà sangue di fata e li aveva cresciuti come Shadowhunters. In
fondo era quella la componente dominante del loro essere e il Consiglio, per quanto controvoglia, doveva ammet13
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tere i figli di Nascosti nel Conclave, purché la loro pelle
tollerasse le rune. Sia Helen che Mark le avevano ricevute per la prima volta a dieci anni, e la pelle aveva reagito
alla perfezione, benché Emma fosse certa che Mark avesse sofferto più di uno Shadowhunter qualsiasi. L’aveva visto trasalire, nonostante gli sforzi per trattenersi, quando
lo stilo gli era stato appoggiato alla cute. In seguito aveva
notato molte altre cose di lui: quanto fosse affascinante la
strana forma del suo viso, influenzata dal sangue di fata,
e quanto larghe le spalle sotto il tessuto della maglietta.
In realtà non capiva perché la colpissero tanto particolari del genere, e il fatto che succedesse non le andava
affatto a genio. Anzi, le faceva venire voglia di schiaffeggiare Mark, oppure di nascondersi, e spesso le due cose
insieme.
— Stai fissando… — disse Julian, inginocchiato nella
tenuta da allenamento chiazzata di vernice.
Lei si scosse. — Fissando cosa?
— Mark. Di nuovo. — Sembrava infastidito.
— Sssh! — gli sibilò sottovoce strappandogli di mano
lo stilo. Lui se lo riprese, e ne nacque una zuffa. Emma
ridacchiò, rotolando via da Julian. Si allenavano insieme
da così tanto tempo che era in grado di prevedere ogni
sua mossa prima ancora che lui la pensasse. L’unico problema era che le veniva spontaneo andarci piano, troppo
piano con lui. Il pensiero che qualcuno potesse fargli del
male la mandava in bestia, e a volte quel qualcuno includeva anche se stessa.
— Ce l’hai con me per le api in camera tua? — stava
chiedendo Mark camminando a grandi passi verso Tiberius.
— Lo sai anche tu perché abbiamo dovuto sbarazzarcene!
— Presumo che tu l’abbia fatto per contrariarmi — rispose Ty. Era piccolo per avere dieci anni, ma aveva il vocabolario e la dialettica di un ottantenne. Di solito non
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diceva bugie, soprattutto perché non ne vedeva la necessità. Non riusciva a spiegarsi come mai alcune sue azioni
irritassero o turbassero gli altri, e trovava la loro collera
sconcertante o spaventosa, a seconda dell’umore.
— Non è questione di volerti contrariare, Ty, ma non
puoi tenere uno sciame di api in camera e…
— Le stavo studiando! — ribatté l’altro, diventando
paonazzo. — Era una cosa importante, loro erano mie
amiche, e sapevo che cosa stavo facendo.
— Lo sapevi anche la volta del serpente a sonagli, vero?
— fece Mark. — A volte ti portiamo via una cosa perché
non vogliamo che tu ti faccia male. So che è difficile da
capire, Ty, ma noi ti vogliamo bene.
Il ragazzino lo squadrò con aria impassibile. Conosceva il significato di una frase come “Ti voglio bene” e sapeva che era positiva, ma non capiva perché dovesse essere anche la spiegazione per tutto.
Mark si chinò, mani sulle ginocchia, e portò gli occhi
al livello di quelli grigi di Ty. — Okay, ecco cosa faremo…
— Ah! — Emma era riuscita a ribaltare Julian sulla
schiena e a sottrargli lo stilo con un’abile mossa. Lui rise,
contorcendosi sotto di lei, finché non si sentì bloccare il
braccio contro il pavimento.
— Mi arrendo — disse. — Mi arr…
Jules le stava ridendo in faccia, e all’improvviso Emma
si rese conto che quella posizione, con il proprio corpo
sopra quello di lui, le stava dando una sensazione un po’
strana. Si accorse inoltre che, come Mark, anche Julian
aveva un bel viso. Rotondo, da ragazzino, piuttosto comune, ma lei poteva già intuire l’aspetto che avrebbe avuto
in futuro, da grande.
Il suono del campanello d’ingresso riecheggiò nella palestra. Era un tintinnio profondo, dolce e squillante come
quello delle campane di una chiesa. Da fuori, agli occhi
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dei mondani, l’Istituto appariva come il rudere di un’antica missione spagnola. Sebbene ci fossero cartelli quali
proprietà privata e vietato l’ingresso disseminati un
po’ ovunque, a volte qualcuno – di solito mondani con
una leggera Vista – riusciva comunque a trovare l’entrata.
Emma rotolò via da Julian e si aggiustò i vestiti. Non
rideva più. Lui si rialzò in piedi facendo leva sulle mani,
lo sguardo incuriosito. — Ehi, tutto bene?
— Ho sbattuto un gomito — mentì lei, guardando verso gli altri.
Livvy si stava facendo spiegare da Katerina come impugnare un coltello, mentre Ty scuoteva la testa in direzione di Mark. Ty. Quando era nato, era stata lei ad assegnargli quel soprannome: a diciotto mesi non era capace
di dire “Tiberius”, ma soltanto “Ty-Ty”. A volte si domandava se lui se ne ricordasse. Aveva un senso delle
priorità tutto suo, davvero imprevedibile.
— Emma? — Julian si chinò in avanti, e fu come se attorno a loro tutto esplodesse all’improvviso. Ci fu un’enorme ondata di luce, e il mondo fuori dalle vetrate divenne d’oro, bianco e rosso, quasi che l’Istituto stesso avesse
preso fuoco. In quel preciso istante, il pavimento sotto
di loro ondeggiò come il ponte di una nave. Emma scivolò in avanti proprio mentre dal piano inferiore saliva un
urlo – un urlo tremendo, irriconoscibile.
Livvy trasalì e corse da Ty, prendendolo fra le braccia
come se potesse circondarlo completamente e fargli scudo
con il proprio corpo. Livvy era una delle pochissime persone a cui Ty permettesse di toccarlo; in quel momento
era in piedi con gli occhi spalancati, una mano che strizzava una manica di sua sorella. Anche Mark era già balzato in piedi; sotto le spire dei capelli scuri, Katerina aveva il volto esangue.
— Voi restate qui — disse a Emma e Julian, sguainando
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la spada dal fodero che teneva allacciato in vita. — Controllate i gemelli. Mark, tu vieni con me.
— No! — protestò Julian, cercando di rimettersi in
piedi. — Mark…
— Andrà tutto bene, Jules — gli disse lui con un sorriso rassicurante. Aveva già un pugnale in ogni mano. Era
abile e veloce con i coltelli, non sbagliava un colpo. —
Rimani con Emma — disse facendo un cenno a entrambi, poi svanì dietro Katerina, e la porta della palestra si
richiuse sbattendo alle loro spalle.
Jules si avvicinò di più a Emma, le prese una mano tra
le sue e l’aiutò ad alzarsi. Emma avrebbe voluto fargli notare che stava benissimo e che poteva farcela anche da
sola, ma lasciò correre. Capiva il bisogno di sentirsi occupati a fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di essere d’aiuto.
All’improvviso un altro grido si levò dal piano inferiore,
seguito da uno schianto di vetri in frantumi. Emma attraversò di corsa la sala per raggiungere i gemelli, ancora immobili come statue. Livvy era cinerea in viso, Ty le
stringeva la maglietta in una morsa letale.
— Andrà tutto bene — disse Jules, appoggiando una
mano fra le scapole esili del fratello. — Di qualunque
cosa si tratti…
— Tu non ne hai la minima idea — ribatté Ty, secco.
— Non puoi dire che andrà tutto bene. Perché non lo sai.
Seguì un altro suono. Peggiore di un grido. Fu un ululato terrificante, bestiale e malvagio. Lupi mannari? pensò
Emma, sbalordita, ma le era già capitato di sentire i loro
versi. E quello era qualcosa di molto più cupo e feroce.
Livvy si strinse contro la spalla di Ty. Lui sollevò il visino pallido, lo sguardo che lasciava Emma per posarsi
su Julian. — Se ci nascondiamo qui, e quella cosa ci trova e poi fa del male a nostra sorella, allora sarà colpa tua.
Il viso di Livvy era nascosto contro quello di Ty, che
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aveva parlato con voce calma, ma si capiva bene cosa intendesse dire. Nonostante l’intelligenza spaventosa, le
stranezze e l’indifferenza per il resto del mondo, il ragazzino era inseparabile dalla gemella. Se Livvy era malata,
Ty dormiva ai piedi del suo letto; se si procurava un graffio, lui andava in panico. E la cosa era reciproca.
Emma vide espressioni contrastanti rincorrersi sul viso
di Julian. L’amico la cercò con gli occhi, lei annuì senza
esitare. L’idea di rimanere lì dentro in attesa che la misteriosa fonte di quel suono andasse a prenderli tutti la faceva
sentire come se la pelle le si stesse staccando dalle ossa.
Julian attraversò deciso la stanza e tornò portando con
sé una balestra ricurva e due pugnali. — Ty, ora devi lasciare Livvy — disse, e un secondo dopo i gemelli si separarono. Jules passò a Livvy uno dei pugnali e porse l’altro
a Tiberius, che lo fissò come se fosse un oggetto alieno.
— Ty — gli disse Jules, riabbassando la mano. — Perché
tenevi le api in camera tua? Cos’hanno che ti piace?
Nessuna risposta.
— Ti piace il fatto che collaborino tra loro, giusto? —
proseguì Julian. — Bene, ora anche noi dobbiamo collaborare. Dobbiamo raggiungere l’ufficio e chiamare il Conclave, okay? Una chiamata d’emergenza. Perché mandino
rinforzi in nostro aiuto.
Con un breve cenno, Ty tese la mano per accettare il
pugnale. — È quello che avrei suggerito anch’io, se Mark
e Katerina mi avessero dato ascolto.
— Lui l’avrebbe fatto — disse Livvy. Aveva preso l’arma
con più sicurezza rispetto a Ty, e la stringeva come se sapesse bene cosa farne. — Era quello a cui stava pensando.
— Ora dobbiamo fare molto piano — riprese Jules. —
Voi due mi seguirete nell’ufficio. — Alzò gli occhi, e il
suo sguardo incontrò quello di Emma. — Emma ora va a
prendere Tavvy e Dru, poi ci incontriamo lì. Tutto chiaro?
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Il cuore di Emma fece un tuffo, cadendo in picchiata
come un uccello marino. Octavius, detto Tavvy, due anni
appena. E Dru, otto, ancora troppo giovane per iniziare
l’addestramento fisico. Era ovvio che qualcuno dovesse
andarli a recuperare. E gli occhi di Jules erano supplicanti.
— Sì — disse. — È esattamente quello che sto per fare.
Emma teneva Cortana assicurata alla schiena e aveva in
mano un coltello da lancio. Aveva quasi l’impressione di poter sentire il metallo che le pulsava attraverso le vene come
un battito cardiaco mentre, spalle al muro, scivolava lungo il corridoio dell’Istituto. Di tanto in tanto nelle pareti si
aprivano delle finestre, e la vista dell’oceano azzurro e delle
montagne verdi sormontate da nuvole candide la traeva in
inganno. Pensò ai suoi genitori, da qualche parte in spiaggia, completamente ignari di cosa stesse succedendo dentro
l’Istituto. Avrebbe voluto averli lì con sé, ma allo stesso tempo era felice che non ci fossero. Almeno così erano al sicuro.
Ora si trovava nella parte dell’edificio che conosceva
meglio: quella riservata alla famiglia Blackthorn. Sgattaiolò accanto alla camera vuota di Helen, montagne di
vestiti e copriletto polveroso. Accanto a quella di Julian,
una seconda casa dopo un milione di notti passate a dormirci dentro da ospite. Accanto a quella di Mark, con la
porta ben chiusa. La stanza successiva era quella matrimoniale, e subito accanto c’era la nursery. Emma inspirò a fondo e aprì la porta con una spallata.
Lo spettacolo che l’aspettava in quella stanzetta dipinta
di azzurro le fece strabuzzare gli occhi. Tavvy era nel suo
lettino, con le mani strette alle sbarre e le guance paonazze dal tanto piangere. In piedi davanti a lui c’era Drusilla, con una spada in mano (solo l’Angelo sapeva dove se
la fosse procurata). La stava puntando contro Emma, e la
mano le tremava così tanto che l’arma oscillava a destra
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e a sinistra; ai lati del viso paffuto pendevano due trecce
da bambina, ma lo sguardo nei suoi occhi da Blackthorn
rivelava una determinazione d’acciaio: “Non ti azzardare a toccare mio fratello”.
— Dru — pronunciò Emma con tutta la calma di cui
era capace. — Dru, sono io. Jules mi ha mandata qui a
prenderti.
La bambina lasciò andare la spada − che cadde fragorosamente sul pavimento − e scoppiò in lacrime. Emma
le passò subito accanto per prelevare con il braccio libero il piccolo dal suo lettino, sollevandolo e mettendoselo
su un fianco. Tavvy era piccolo per la sua età, però pesava comunque più di dieci chili. Fece una smorfia quando
lui le agguantò una ciocca di capelli.
— Memma — disse.
— Sssh! — Gli diede un bacio sulla testa. Sapeva di
borotalco e di lacrime. — Dru, aggrappati alla mia cintura, okay? Adesso andiamo nell’ufficio. Lì saremo al
sicuro.
Dru strinse le piccole mani alla cintura delle armi di
Emma; aveva già smesso di piangere. Gli Shadowhunters non lo facevano mai a lungo, nemmeno a otto anni.
Emma si fece strada fuori dalla stanza, in corridoio. I
suoni provenienti da sotto si erano fatti ancora più paurosi: grida interminabili, ululati gutturali, rumori di vetri
infranti e legno sfasciato. Avanzò poco alla volta, stringendo forte a sé Tavvy e sussurrandogli che andava tutto
bene, che non gli sarebbe successo niente di male. Passò accanto alle altre finestre, e il sole molesto che faceva irruzione attraverso i vetri quasi la accecò.
Anzi, la accecò veramente, con il contributo del panico. Era l’unica ragione per giustificare la direzione sbagliata che imboccò subito dopo: un corridoio che, anziché
portarla dove si sarebbe aspettata, la fece finire in cima
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all’ampia scalinata che scendeva fino all’atrio e all’imponente portone d’ingresso.
Shadowhunters ovunque. Alcuni, che riconosceva come
i Nephilim del Conclave di Los Angeles, in tenuta da combattimento nera, altri in rosso. C’erano file di statue, ormai ribaltate a terra e ridotte a cumuli di cocci e polvere.
La finestra panoramica che si affacciava sull’oceano era
andata in frantumi, schegge di vetro e sangue ovunque.
Emma fu assalita da un conato di vomito. Al centro
dell’atrio c’era una figura alta, vestita di rosso scarlatto. Aveva i capelli biondo chiarissimo, quasi bianchi, e
il viso simile a quello scolpito nel marmo di Raziel, ma
senza alcuna traccia di misericordia. I suoi occhi erano
neri come il carbone; in una mano teneva una spada incisa con un motivo di stelle e nell’altra un calice fatto di
adamas scintillante.
La vista di quella coppa fece scattare qualcosa in testa a
Emma. Agli adulti non piaceva parlare di politica in presenza degli Shadowhunters più giovani, ma lei sapeva che
il figlio di Valentine Morgenstern si faceva chiamare con
un nuovo nome e aveva giurato vendetta al Conclave. Sapeva anche che aveva creato una coppa opposta a quella dell’Angelo, capace di trasformare gli Shadowhunters
in creature spietate, demoniache. Aveva sentito il signor
Blackthorn definirli “Shadowhunters oscuri” oppure “Ottenebrati”, e dire che avrebbe preferito morire piuttosto
che diventare uno di loro.
Allora quello era lui. Jonathan Morgenstern, chiamato da tutti Sebastian. Un personaggio uscito da una fiaba,
una storia raccontata per spaventare i bambini che si faceva realtà. Il figlio di Valentine.
Emma posò una mano sulla testa di Tavvy, premendosi
il suo visino contro la spalla. Non era in grado di muoversi. Si sentiva come se avesse il piombo ai piedi. Tutto at21
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torno a Sebastian c’erano vari Shadowhunters vestiti di
nero e di rosso, oltre a misteriosi personaggi con dei mantelli scuri: altri Shadowhunters? Impossibile dirlo, avevano il viso coperto. E poi c’era Mark, le mani costrette
dietro la schiena da uno Shadowhunter in rosso. I suoi
pugnali giacevano a terra, e la tenuta da allenamento era
macchiata di sangue.
Sebastian alzò una mano e inarcò una delle sue lunghe
dita bianche. — Portatela qui — disse. Nella folla si diffuse un brusio, e il signor Blackthorn si fece avanti trascinando con sé Katerina. Lei tentava di ribellarsi, lo colpiva a mani nude, ma lui era troppo forte. Emma guardò,
in preda a un terrore incredulo, la donna che veniva spinta sulle ginocchia.
— Adesso — le intimò Sebastian con voce di seta —
bevi dalla Coppa Infernale. — Con quelle parole, le spinse il bordo del calice contro la bocca.
In quell’istante Emma si rese conto di cosa fosse l’ululato sentito poco prima. Katerina cercava di liberarsi, ma
Sebastian era implacabile: le forzò con violenza le labbra,
finché Emma la vide sussultare e deglutire. A quel punto
si contorse, ma il signor Blackthorn non si scompose: rideva, anzi, così come rideva Sebastian. Katerina crollò a
terra, il corpo vittima degli spasmi, e dalla gola le salì un
unico grido. No, peggio di un grido, un lamento di dolore
come se le stessero strappando l’anima dal corpo.
Una risata si propagò per la stanza; Sebastian sorrise,
e in lui c’era qualcosa di tremendo e di bellissimo, proprio come nei serpenti velenosi e negli squali bianchi.
Emma si accorse che lui era affiancato da due compagni:
una donna con i capelli castani striati di grigio, armata di
ascia, e una figura alta interamente coperta da un mantello nero. Di quest’ultima non si vedeva niente tranne
gli stivali scuri che spuntavano da sotto l’orlo della tuni22
STILLI COME PIOGGIA
ca. Soltanto dall’altezza e dalla stazza si poteva intuire
che fosse un uomo.
— Era l’ultimo degli Shadowhunters, qui dentro? —
domandò Sebastian.
— C’è il ragazzo, Mark Blackthorn — rispose la donna
in piedi accanto a lui puntando un dito contro Mark. —
Dovrebbe essere grande abbastanza.
Sebastian abbassò lo sguardo su Katerina, che nel frattempo aveva smesso di contrarsi e giaceva immobile, i
capelli scuri sul viso. — Alzati, sorella Katerina. Portami Mark Blackthorn.
Emma, paralizzata sul posto, rimase a guardare Katerina che lentamente si rialzava in piedi. Da che ricordasse,
aveva sempre fatto la tutor all’Istituto; era stata la loro
insegnante quando era nato Tavvy, quando era morta la
madre di Jules, quando lei stessa aveva iniziato l’addestramento fisico. Da lei avevano imparato le lingue, si
erano fatti medicare tagli e graffi e avevano ricevuto le
loro prime armi. Per loro era stata come una di famiglia,
e ora avanzava sulle macerie disseminate a terra, con lo
sguardo vuoto, per catturare Mark.
Quando Emma sentì Dru che tratteneva il respiro, tornò in sé. Si girò di scatto e mise Tavvy in braccio alla
bambina, che sulle prime barcollò, ma poi riuscì a tenere ben saldo il fratellino. — Corri. Corri nell’ufficio. Di’
a Julian che arrivo subito.
La voce di Emma le aveva trasmesso un chiaro segnale d’emergenza: Drusilla non ribatté, si limitò a stringere Tavvy ancora più forte e a scappare via, con i piedi
nudi che calpestavano silenziosi il pavimento del corridoio. Emma tornò a voltarsi per guardare l’orrore ancora
in corso nell’atrio. Katerina era dietro Mark e lo spingeva in avanti puntandogli un pugnale fra le scapole; lui inciampò e per poco non cadde davanti a Sebastian. Ora il
23
citt à d el f u oco celeste
ragazzo era più vicino alla scala, ed Emma riusciva a vedere su di lui i segni della lotta: ferite da difesa su mani e
polsi, tagli sul viso − sicuramente per delle rune di Guarigione non c’era stato tempo. Tutta la guancia destra era
imbrattata di sangue. Sebastian lo guardava arricciando
un labbro per il disappunto.
— Questo non è affatto un Nephilim — dichiarò. —
Ha metà sangue di fata, non è vero? Perché non ne sono
stato informato?
Ci fu un mormorio. — Significa che con lui la Coppa non
funzionerà, mio signore? — chiese la donna al suo fianco.
— Significa che non lo voglio — rispose.
— Potremmo portarlo nella valle del sale — suggerì lei.
— Oppure negli alti luoghi di Edom, sacrificandolo per il
piacere di Asmodeo e di Lilith.
— No — rispose lentamente Sebastian. — No. Non
sarebbe saggio, credo, fare una cosa del genere a chi possiede il sangue del Popolo Fatato.
Mark gli sputò addosso.
Sebastian parve turbato. Si girò verso il padre di Julian:
— Vieni a legarlo. Feriscilo, se vuoi. Non avrò altra pazienza con il tuo figlio mezzosangue.
Il signor Blackthorn fece un passo in avanti, armato
di spadone. La lama era già sporca di sangue. Gli occhi
di Mark si spalancarono per il terrore: lo spadone si sollevò e…
Il coltello da lancio lasciò la mano di Emma. Si librò nell’aria e andò a piantarsi nel petto di Sebastian
Morgenstern.
Lui vacillò all’indietro, e la mano del signor Blackthorn
che impugnava l’arma tornò al fianco. Gli altri gridavano;
Mark balzò in piedi mentre Sebastian fissava sgomento la
lama nel proprio petto, l’elsa che gli sporgeva dal cuore.
Fece una smorfia.
24
STILLI COME PIOGGIA
— Ahia — disse, estraendo la lama. Era insanguinata,
eppure lui non sembrava per nulla scosso. La gettò a terra e indirizzò lo sguardo verso l’alto. Emma poté letteralmente sentire quegli occhi neri e vuoti su di sé, come
un tocco di dita gelide. Lui la stava studiando, soppesando, giudicando e infine liquidando.
— È un peccato che tu non possa sopravvivere — le disse — per raccontare al Conclave di come Lilith mi abbia
rafforzato oltre ogni misura. Forse solo Gloriosa potrebbe
mettere fine alla mia vita. È un peccato che i Nephilim
non abbiano più favori da chiedere al Paradiso. Ora nessuno di quei fragili strumenti di guerra che forgiano nella Città di Diamante può farmi alcun male. — Si rivolse
agli altri. — Uccidetela — ordinò, facendo il gesto disgustato di pulirsi la giacca ormai zuppa di sangue.
Emma vide Mark sfrecciare verso le scale nel tentativo
di raggiungerla, ma la tetra figura al fianco di Sebastian lo
fermò e lo fece tornare indietro tirandolo con le sue mani
guantate di nero. Strinse le braccia intorno a Mark e lo
trattenne, quasi a volerlo proteggere. Il ragazzo si dimenò, poi Emma non riuscì più a vederlo. L’orda degli Shadowhunters oscuri stava risalendo i gradini.
Emma fece dietrofront e scappò. Aveva imparato a correre sulle spiagge della California, dove la sabbia cedeva
a ogni passo sotto i piedi: su una superficie dura, quindi, era veloce come il vento. Sfrecciò lungo il corridoio, i
capelli che le svolazzavano lungo la schiena, saltò e volò
giù da una breve rampa di scale; scartò a destra e fece irruzione dentro l’ufficio. Si girò, sbatté la porta e tirò il
chiavistello prima di voltarsi a guardare.
L’ufficio era piuttosto ampio, le pareti tappezzate di
libri da consultazione. Anche all’ultimo piano c’era una
biblioteca, ma era da questa che il signor Blackthorn gestiva l’Istituto. La scrivania di mogano ospitava due te25
citt à d el f u oco celeste
lefoni: uno bianco, l’altro nero. Il ricevitore di quest’ultimo era staccato e Julian stringeva la cornetta, gridando
nel microfono: — Dovete tenere aperto il Portale! Non
siamo ancora al sicuro! Vi supplico…
La porta dietro Emma tuonò quando gli Ottenebrati vi si scagliarono contro. Julian alzò lo sguardo, allarmato, e appena vide la ragazza si lasciò sfuggire di mano
la cornetta. Emma ricambiò lo sguardo e poi si accorse
che l’intera parete a est stava brillando. Al centro c’era
un Portale, un’apertura di forma rettangolare attraverso
la quale vedeva sagome d’argento vorticanti, un caos di
nuvole e di vento.
Barcollò per raggiungere Julian, e lui la prese per le spalle. La strinse forte con le dita, come se non credesse che
fosse davvero lì, o che fosse reale. — Emma — sussurrò
piano, poi la sua voce riprese un tono normale. — Ehm,
dov’è Mark? Dov’è mio padre?
Lei scosse la testa. — Non possono… Non sono riuscita
a… — Deglutì. — È Sebastian Morgenstern — annunciò,
trasalendo quando la porta tremò di nuovo sotto l’impeto di un altro assalto. — Dobbiamo tornare da loro… —
proseguì, voltandosi, ma la mano di Julian era già attorno al suo polso.
— Il Portale! — gridò lui sopra al suono del vento e i
colpi alla porta. — Conduce a Idris! L’ha aperto il Conclave. Emma… resterà aperto solo per pochi secondi!
— Ma… Mark! — protestò lei, pur non avendo la minima idea di come agire, di come farsi strada attraverso
la folla di Ottenebrati, né di come sconfiggere Sebastian
Morgenstern, più forte di qualsiasi altro comune Shadowhunter. — Noi dobbiamo…
— Emma! — gridò Julian, poi la porta dell’ufficio si
spalancò e la feroce orda si riversò nella stanza. La ragazza udì la donna dai capelli castani che, tentando di cattu26
STILLI COME PIOGGIA
rarla, farneticava qualcosa a proposito del fatto che tutti i
Nephilim sarebbero stati bruciati, consumati dalle fiamme di Edom, uccisi e distrutti…
Julian saettò verso il Portale, trascinando Emma per
mano; lanciato un ultimo sguardo dietro di sé, lei non oppose resistenza. Si abbassò quando una freccia sibilò vicinissimo a loro e mandò in frantumi una finestra alla sua
destra. Julian la agguantò, frenetico, e le strinse entrambe le braccia intorno al corpo; lei sentì le dita dell’amico
intrecciarlesi dietro la schiena, mentre insieme cadevano dentro il Portale, risucchiati dalla tempesta.
27
parte prima
sprigionare
un fuoco
«…perciò in mezzo a te ho fatto sprigionare un fuoco
per divorarti. Ti ho ridotto in cenere sulla terra sotto gli
occhi di quanti ti guardano. Quanti fra i popoli ti hanno conosciuto sono rimasti attoniti per te, sei divenuto oggetto di terrore, finito per sempre.»
(Ezechiele 28:18-19)
capitolo 1
I L C O N T E NU T O D E L L O R O C A L I C E
I
mmagina qualcosa di rilassante. La spiaggia di Los
Angeles: sabbia bianca, onde azzurre che la lambiscono, tu che passeggi sulla battigia…
Jace socchiuse una palpebra. — Suona molto romantico.
Il ragazzo seduto di fronte a lui fece un sospiro e si passò le dita fra i capelli scuri e arruffati. Anche se era una
fredda giornata di dicembre, i lupi mannari non erano
sensibili al clima quanto gli umani, e Jordan se ne stava senza giacca e con le maniche della camicia arrotolate. Erano seduti l’uno di fronte all’altro su una macchia
erbosa brunastra in una radura a Central Park, entrambi
con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia, i palmi rivolti all’insù.
Accanto a loro, dal terreno affiorava una roccia suddivisa in formazioni più o meno grandi, e sopra una di quelle maggiori erano appollaiati Alec e Isabelle Lightwood.
Quando Jace alzò lo sguardo, Isabelle ricambiò l’occhiata
e gli fece un cenno d’incoraggiamento. Notando il gesto,
Alec le diede uno schiaffetto sulla spalla. Jace lo vide fare
la ramanzina a Izzy, probabilmente dicendole di non interrompere la sua concentrazione. Sorrise fra sé: nessuno
—
31
citt à d el f u oco celeste
di quei due aveva davvero motivo di starsene lì, ma erano
venuti comunque per offrire “sostegno morale”. Nonostante tutto, Jace sospettava che in realtà Alec non sopportasse l’idea di non avere niente da fare in quei giorni,
che Isabelle detestasse il fatto di vedere suo fratello da
solo e che entrambi stessero evitando genitori e Istituto.
Jordan gli fece schioccare le dita sotto il naso. — Ma
almeno mi stai ascoltando?
Jace corrugò la fronte. — Lo stavo facendo, finché non
siamo sconfinati nel territorio degli annunci di incontri
per trovare l’anima gemella.
— E va bene, allora dimmi: cos’è che ti fa sentire calmo e rilassato?
Jace staccò le mani dalle ginocchia – la posizione del
loto gli stava facendo venire i crampi ai polsi – e si appoggiò all’indietro sui gomiti. Un vento gelido scosse i
resti delle fronde morte ancora appese ai rami degli alberi. Sullo sfondo del pallido cielo invernale, le foglie avevano un’eleganza sobria, come schizzi fatti a china. —
Uccidere i demoni. Una bella esecuzione netta e decisa,
perché i massacri splatter sono una rottura. Dopo c’è un
sacco da pulire…
— No! — Jordan alzò le mani, esasperato. Da sotto le
maniche della camicia spuntavano i tatuaggi che salivano a spirale lungo le braccia. Shanti shanti shanti. Jace
sapeva che quella parola significa “la pace che supera
ogni comprensione” e che andava ripetuta tre volte a
ogni occasione in cui pronunciavi il mantra, per calmare la mente. In quei giorni, tuttavia, sembrava che niente potesse calmare la sua. Il fuoco nelle vene gli faceva
viaggiare anche la testa a mille, con i pensieri che si succedevano troppo in fretta uno via l’altro come un’esplosione di fuochi d’artificio. Sogni vividi e saturi di colori come dipinti a olio. Aveva cercato di sfogarsi con gli
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I L C O N T E NU T O D E L L O R O C A L I C E
allenamenti, ore e ore trascorse in palestra fra sangue,
lividi, sudore e, una volta, persino dita fratturate. Alla
fine era riuscito solo a irritare Alec con le continue richieste di rune di Guarigione e, in una memorabile occasione, era arrivato ad appiccare accidentalmente il
fuoco a una delle travi.
Era stato Simon a dirgli che il suo coinquilino faceva
meditazione tutti i giorni, spiegando che imparare quella
disciplina gli era servito per placare gli incontrollabili accessi di rabbia che spesso accompagnavano la trasformazione in lupo mannaro. Da quello al suggerimento di Clary per cui “tanto valeva provarci” il passo era stato breve,
quindi eccoli lì, alle prese con la seconda lezione. La prima si era conclusa con Jace che aveva marchiato a fuoco
il parquet di Simon e Jordan, motivo per cui quest’ultimo aveva suggerito di proseguire gli incontri all’aperto
ed evitare così ulteriori danni domestici.
— Nessuna uccisione — disse Jordan. — Stiamo cercando di farti sentire in pace. Sangue, morte e guerra sono
tutto il contrario. Non c’è nient’altro che ti piaccia?
— Le armi — fu la risposta di Jace. — Mi piacciono le
armi.
— Comincio a pensare che qui siamo alle prese con
una problematica filosofia di vita.
Jace si sporse in avanti, i palmi aperti sull’erba. — Io
sono un guerriero. E sono stato cresciuto come un guerriero. Non avevo giocattoli, avevo armi. Ho persino dormito con una spada di legno fino all’età di cinque anni.
I miei primi libri sono stati manuali medievali di demonologia con le pagine miniate. Le prime canzoni, formule per scacciare i demoni. So cosa mi dà pace, e non sono
né la sabbia delle spiagge né il canto degli uccelli nella
foresta pluviale. Voglio un’arma in mano e una strategia per vincere.
33
citt à d el f u oco celeste
Jordan lo guardò dritto negli occhi. — In pratica mi stai
dicendo che ciò che ti dà pace è la guerra.
Jace alzò le braccia e si rimise in piedi, spazzolandosi via l’erba dai jeans. — Ci sei arrivato, finalmente. —
Sentì l’erba secca scricchiolare dietro di sé e, quando si
girò, vide Clary che si infilava nello spazio fra due alberi
e riemergeva nella radura, seguita a breve distanza da Simon. Aveva le mani dentro le tasche posteriori dei jeans,
e ridacchiava.
Jace rimase a guardarli per un istante – era strano osservare gli altri quando non sapevano di avere spettatori.
Ricordò la seconda volta della sua vita in cui aveva visto
Clary, dall’altra parte della sala principale al Java Jones.
Anche allora rideva e chiacchierava con Simon come stava facendo in quel momento. Ripensò all’insolita fitta di
gelosia che gli aveva colpito il petto, togliendogli il fiato,
e al senso di soddisfazione che aveva provato quando lei
si era allontanata da Simon per andare a parlargli.
Come cambiavano le cose. Era passato dai morsi della gelosia nei confronti di Simon a un riluttante rispetto
per la sua tenacia e il suo coraggio, arrivando infine a considerarlo un amico, pur dubitando che avrebbe mai avuto il coraggio di dichiararlo a voce alta. Jace vide Clary
guardare nella sua direzione e mandargli un bacio, mentre i suoi capelli rossi ondeggiavano legati in una coda di
cavallo. Era così piccola… Delicata, una bambola, aveva pensato prima di scoprire la sua forza.
Clary raggiunse Jace e Jordan, mentre Simon si fermò
per arrampicarsi sul masso dove sedevano Alec e Isabelle; appena si lasciò cadere accanto a Izzy, lei si sporse per
dirgli qualcosa, il viso nascosto dietro la cortina di capelli corvini.
Clary si fermò di fronte a Jace, puntandosi sui talloni
con un sorriso. — Come sta andando?
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I L C O N T E NU T O D E L L O R O C A L I C E
— Jordan vuole che pensi alla spiaggia — rispose lui,
depresso.
— È testardo — disse Clary, rivolta a Jordan. — Quello che vuole dire è che apprezza molto il tuo impegno.
— A dire il vero no — le fece eco Jace.
Jordan sbuffò. — Senza di me saresti in giro per Madison Avenue a mandare scintille da tutti gli orifizi. — Si
alzò in piedi e si rimise la giacca verde. — Il tuo ragazzo
è pazzo — comunicò infine a Clary.
— Sì, ma è anche uno schianto — commentò lei. — Va
tenuto in considerazione.
Jordan fece una smorfia, ma si vedeva che era divertito.
— Io vado. Mi trovo con Maia in centro. — Fece il saluto militare e si dileguò in mezzo agli alberi, scomparendo con il passo felpato del lupo qual era sotto le spoglie
umane. Jace lo guardò allontanarsi. Improbabili salvatori, pensò. Se solo sei mesi prima qualcuno gli avesse
detto che sarebbe finito a prendere lezioni di comportamento da un lupo mannaro, non gli avrebbe mai creduto.
Negli ultimi mesi Jordan, Simon e Jace avevano stretto una sorta di amicizia. Jace non riusciva a fare a meno
di sfruttare casa loro come una specie di rifugio, lontano
dalle pressioni quotidiane dell’Istituto e dai continui segnali che il Conclave non era ancora preparato allo scontro con Sebastian.
Erchomai. Quella parola gli sfiorò la mente con il tocco
leggero di una piuma, facendolo rabbrividire. Vide l’ala di
un angelo, staccata dal corpo, in una pozza di sangue dorato.
Sto arrivando.
— Cosa c’è che non va? — gli chiese Clary; all’improvviso Jace sembrava distante anni luce. Da quando il fuoco
celeste era entrato nel suo corpo, lui aveva sviluppato la
tendenza a perdersi più spesso nei propri pensieri. Clary
35
citt à d el f u oco celeste
aveva la sensazione che quello fosse un effetto collaterale del suo voler sopprimere le emozioni. Avvertì una debole fitta: quando l’aveva conosciuto, Jace le era apparso
sin troppo controllato, e soltanto una piccola parte della
sua vera identità riusciva a trapelare attraverso le crepe
della sua armatura, come la luce attraverso le fessure di
un muro. C’era voluto molto tempo per abbattere quelle
difese. E ora il fuoco dentro le sue vene lo stava costringendo a rialzarle, a soffocare le emozioni per non compromettere la sicurezza in se stesso. Ma quando il fuoco
fosse scomparso, sarebbe stato in grado di smantellarle
di nuovo?
Jace sbatté le palpebre, riscosso dalla voce di lei. Il sole
invernale era alto in cielo e freddo; gli metteva in risalto le ossa del viso e le ombre sotto gli occhi. Le prese la
mano, inspirando profondamente. — Hai ragione — disse con quella voce pacata e più seria del solito che riservava soltanto a lei. — Mi aiutano. Le lezioni con Jordan,
intendo. Mi aiutano e, sì, apprezzo il suo impegno.
— Lo so. — Clary gli strinse il polso. Sentì la sua pelle calda sotto la mano, come se, da quando lui aveva incontrato Gloriosa, avesse raggiunto una temperatura di
svariati gradi superiore alla norma. Il cuore di Jace continuava a battere al solito ritmo regolare, ma quando lei
lo toccava sentiva il sangue nelle vene martellare con
l’energia cinetica di un incendio sul punto di scoppiare.
Si mise in punta di piedi per dargli un bacio sulla guancia, ma lui si girò e le loro labbra si sfiorarono. Da quando quel fuoco aveva iniziato a cantargli nelle vene, non
avevano fatto niente di più che baciarsi, e pure quello con
prudenza. Anche in quel momento Jace era cauto, la sua
bocca scivolava morbida contro quella di lei, la mano le
racchiudeva la spalla.
Per un attimo furono corpo a corpo, e Clary sentì pul36
I L C O N T E NU T O D E L L O R O C A L I C E
sare il sangue di lui. Jace si mosse per tirarla più vicino a
sé, e fra loro scoccò una scintilla improvvisa, secca, come
il crepitio della corrente statica.
Jace interruppe il contatto e arretrò sussultando; prima ancora che Clary potesse dire qualcosa, un coro di
applausi beffardi eruppe dalla vicina collinetta. Simon,
Isabelle e Alec li stavano prendendo in giro. Jace fece un
inchino, mentre Clary si allontanò un po’ timidamente,
agganciando i pollici nella cintura dei jeans.
Jace sospirò. — Pensi che dovremmo unirci ai nostri
fastidiosi amici guardoni?
— Sfortunatamente, è l’unico genere di amici che abbiamo. — Clary gli diede una spallata al braccio, e insieme camminarono verso la roccia. Simon e Isabelle,
seduti fianco a fianco, parlavano a bassa voce. Alec era
un pochino in disparte, lo sguardo fisso sul cellulare e
un’espressione di intensa concentrazione.
Jace si sedette accanto al suo parabatai. — Ho sentito dire che se fissi quei cosi abbastanza a lungo, prima o
poi squillano.
— Sta scrivendo un messaggino a Magnus — spiegò Isabelle, lanciando al fratello uno sguardo di disapprovazione.
— Non è vero — rispose lui di scatto.
— E invece sì — disse Jace, sporgendosi per sbirciarlo
da sopra una spalla. — E gli hai anche telefonato. Vedo le
tue chiamate in uscita.
— È il suo compleanno — spiegò Alec chiudendo di scatto il cellulare. In quei giorni sembrava più emaciato, era
quasi pelle e ossa nel maglione azzurro liso, con tanto di
buchi sui gomiti; anche le labbra erano tutte mordicchiate
e screpolate. A Clary dispiaceva moltissimo. Dopo che Magnus l’aveva lasciato, Alec aveva vissuto la prima settimana immerso in una specie di nebbia fatta di tristezza e
incredulità. Nessuno di loro riusciva davvero a capacitar37
citt à d el f u oco celeste
sene. Clary era sempre stata convinta che Magnus amasse Alec, che lo amasse sul serio, ed era evidente che anche
Alec aveva creduto la stessa cosa. — Non voglio lasciargli pensare che non ho… che mi sto dimenticando di lui.
— Ti stai struggendo — commentò Jace.
Alec fece spallucce. — Senti chi parla. «Oh, io la amo.
Oh, è mia sorella. Oh, perché, perché, perché…»
Jace gli lanciò contro una manciata di foglie secche che
lo fece sputacchiare.
Isabelle rideva. — Sai benissimo che ha ragione, Jace.
— Dammi il telefono — ordinò lui ad Alec, ignorandola. — Su, Alexander.
— Non sono affari tuoi! — si difese l’altro, allontanando il cellulare. — Dimenticati questa storia, okay?
— Non mangi, non dormi, fissi il cellulare e pretendi che io me ne dimentichi? — La voce di Jace era insolitamente carica di inquietudine; Clary sapeva quanto
gli dispiacesse vedere Alec così triste, ma non era sicura
che Alec stesso lo sapesse. In circostanze normali, Jace
avrebbe ucciso, o per lo meno minacciato, chiunque avesse osato ferire il suo parabatai. Ma in quel caso era diverso: a Jace piaceva vincere, e non si può vincere contro un
cuore spezzato, nemmeno se appartiene a qualcun altro.
Qualcuno a cui vuoi bene.
Jace si chinò in avanti e sfilò il telefono di mano ad
Alec. Lui protestò e cercò di riprenderselo, ma l’altro lo
tenne a distanza con una mano, usando l’altra per scorrere con abilità tra i messaggi in memoria. magnus, per favore, richiamami. ho bisogno di sapere se stai bene…
Scosse la testa. — Okay, no. Proprio no. — Con una mossa decisa, spezzò il telefono in due. Quando buttò i pezzi
a terra, lo schermo si annerì. — Ecco fatto.
Alec fissò allibito i resti del suo cellulare. — Mi hai
ROTTO IL TELEFONO!
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I L C O N T E NU T O D E L L O R O C A L I C E
L’altro fece spallucce. — I ragazzi non permettono ai ragazzi di continuare a chiamare gli altri ragazzi. Be’, mi è
uscita male. Riprovo: gli amici non permettono agli amici di continuare a chiamare i loro ex per poi riattaccare.
Dico sul serio. La devi piantare.
Alec sembrava furibondo. — Per questo mi hai fatto a
pezzi il cellulare nuovo? Grazie tante!
Jace sorrise serenamente e si sdraiò sulla roccia. — Prego.
— Guarda il lato positivo — intervenne Isabelle. — Non
puoi più ricevere i messaggi della mamma. Oggi me ne
ha inviati sei… Io ho spento — disse picchiettandosi la
tasca con sguardo eloquente.
— E che cosa vuole? — si informò Simon.
— Riunioni costanti — rispose. — Deposizioni. Il Conclave insiste nel voler sentire e risentire che cosa è successo quando abbiamo combattuto contro Sebastian al
Burren. Abbiamo dovuto fornire tutti un resoconto dettagliato, qualcosa come… cinquanta volte. Raccontare di
quando Jace ha assorbito il fuoco celeste di Gloriosa. Fornire descrizioni degli Shadowhunters oscuri, della Coppa
Infernale, delle armi che usavano, delle rune che avevano. E poi cosa indossavamo noi, cosa indossava Sebastian,
cosa indossavano tutti gli altri! Tipo sesso telefonico, ma
molto più noioso.
Simon soffocò una risata.
— Cosa pensiamo che vorrà Sebastian — aggiunse Alec.
— Quando tornerà. E come si comporterà quando lo farà.
Clary puntò i gomiti sulle ginocchia.
— È sempre bello sapere che il Conclave ha un piano
preciso e affidabile.
— Non vogliono crederci — commentò Jace, fissando
il cielo. — È quello il problema. Non conta quante volte raccontiamo cosa abbiamo visto al Burren. Non conta
quante volte ripetiamo che gli Ottenebrati sono perico39
citt à d el f u oco celeste
losi. Si rifiutano di credere che i Nephilim possano davvero essere corrotti, che ci siano Shadowhunters capaci
di uccidere altri Shadowhunters.
Clary era presente quando Sebastian aveva creato il primo Ottenebrato. Aveva visto il vuoto dentro a quegli occhi, la furia con cui la creatura aveva combattuto. E ne era
rimasta scioccata. — Quelli non sono più Shadowhunters
— precisò a bassa voce. — Non sono… persone.
— Ma è difficile crederci se non li hai visti — le fece
notare Alec. — E poi Sebastian non ne ha molti. Sono un
gruppetto disorganizzato. Il Conclave non vuole credere che sia una vera minaccia. Oppure, se lo è, preferisce
pensare che lo sia più che altro per noi, a New York, anziché per gli Shadowhunters in generale.
— Non sbagliano a dire che, se c’è qualcosa a cui Sebastian tiene, si tratta proprio di Clary — aggiunse Jace, e la
ragazza sentì un brivido gelido correrle lungo la schiena,
un misto di ansia e disgusto. — Lui non prova emozioni
vere e proprie. Non come le nostre. Ma se dovesse provarne, allora sarebbero rivolte a lei. In fondo, nei confronti di Jocelyn ne ha: la odia. — Si interruppe, pensieroso.
— Però non penso che verrà a colpire direttamente qui.
Troppo… scontato.
— Spero che tu lo abbia riferito anche al Conclave —
gli disse Simon.
— Circa un migliaio di volte. Ma non credo che tengano
particolarmente in considerazione i miei punti di vista.
Clary si guardò le mani. Aveva testimoniato di fronte
al Conclave, come del resto tutti gli altri, e aveva risposto a ogni singola domanda. Però c’erano ancora cose su
Sebastian che non aveva raccontato né ai suoi amici né
a nessun altro. Cose che lui aveva detto di volere da lei.
Non aveva sognato molto da quando erano tornati dal
Burren, ma se aveva incubi, erano sempre su suo fratello.
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I L C O N T E NU T O D E L L O R O C A L I C E
— È come cercare di combattere contro un fantasma —
proseguì Jace. — Non riescono a localizzarlo, non riescono a trovarlo, non riescono a trovare gli Ottenebrati.
— Fanno quello che possono — commentò Alec. —
Stanno rinforzando le difese attorno a Idris e Alicante.
Anzi, le stanno rinforzando tutte. Hanno mandato decine di esperti sull’isola di Wrangel.
L’isola di Wrangel era la sede di tutte le difese mondiali, gli incantesimi che proteggevano il globo e Idris in
particolare dai demoni e dalle loro invasioni. La rete delle difese non era perfetta, e talvolta capitava che qualche creatura riuscisse a oltrepassarla, ma Clary non osava immaginare come sarebbe stato se quel sistema non
fosse nemmeno esistito.
— Ho sentito dire alla mamma che gli stregoni del Labirinto a Spirale stanno cercando un modo per invertire
gli effetti della Coppa Infernale — disse Isabelle. — Certo sarebbe più facile se avessero dei corpi da analizzare…
La voce le si affievolì, e Clary sapeva perché. I corpi
degli Shadowhunters oscuri uccisi al Burren erano stati
portati nella Città di Ossa, affinché i Fratelli Silenti potessero esaminarli. Loro, tuttavia, non ne avevano mai
avuto la possibilità. Nel corso di una sola notte, i cadaveri si erano decomposti fino a sembrare salme vecchie
decenni. Non c’era stato altro da fare se non bruciare gli
ultimi resti.
Isabelle ritrovò la voce: — E le Sorelle di Ferro stanno sfornando armi su armi. Stiamo ricevendo migliaia di
nuove spade angeliche, chakhram, di tutto… forgiate nel
fuoco celeste. — Guardò Jace. Nei giorni immediatamente
successivi alla battaglia sul Burren, quando il fuoco aveva
imperversato nelle vene di Jace con una violenza tale da
farlo urlare per il dolore, i Fratelli Silenti l’avevano analizzato a ripetizione, gli avevano fatto la prova del ghiac41
citt à d el f u oco celeste
cio e del fuoco, del metallo benedetto e del ferro freddo,
per capire se c’era il modo di togliergli quel fuoco dalle
vene e immagazzinarlo.
Non ci erano riusciti. Il fuoco di Gloriosa, un tempo
condensato in una spada, pareva non avere fretta di abitarne un’altra, o comunque di lasciare il corpo di Jace per
qualsiasi altro veicolo. Fratello Zaccaria aveva raccontato a Clary che all’inizio della storia degli Shadowhunters, i Nephilim avevano cercato di intrappolare il fuoco
celeste in un’arma, qualcosa da poter brandire contro i
demoni. Non ce l’avevano mai fatta, e alla fine le spade
angeliche erano diventate le loro armi d’elezione. Anche
con Jace i Fratelli si erano arresi: il fuoco di Gloriosa si
rintanava nelle sue vene come un serpente, e il meglio
in cui lui potesse sperare era imparare a controllarlo per
non farsi distruggere.
All’improvviso si sentì il suono di un messaggio in arrivo: Isabelle aveva riacceso il cellulare. — La mamma dice
di tornare all’Istituto, adesso — annunciò. — C’è non so
quale riunione e dobbiamo partecipare anche noi. — Si
alzò, riaggiustandosi il vestito. — Ti inviterei, eh — disse a Simon — ma sai com’è, sei bandito in quanto morto
vivente eccetera eccetera…
— Sì, me lo ricordo — rispose lui, alzandosi a sua volta. Clary fece lo stesso e porse una mano a Jace, per aiutarlo a tirarsi su.
— Io e Simon andiamo a fare shopping natalizio — disse lei — e nessuno di voi può accompagnarci perché dobbiamo comprare i vostri regali!
Alec fece una faccia inorridita. — Oddio. Quindi anch’io
devo prendervi qualcosa?
Clary scosse la testa. — Ma scusate, gli Shadowhunters
non… Natale, gente. Avete presente? — All’improvviso le
tornò in mente la cena piuttosto imbarazzante che ave42
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vano organizzato per il Giorno del Ringraziamento a casa
di Luke: quando avevano chiesto a Jace di tagliare il tacchino, lui aveva infierito sul volatile con una spada finché non ne erano rimasti che minuscoli brandelli. Quindi forse no, non ce l’avevano presente.
— Noi ci scambiamo regali per rendere omaggio al
cambio delle stagioni — spiegò Isabelle. — D’inverno
una volta si festeggiava l’Angelo, il giorno in cui Jonathan Shadowhunter ricevette gli Strumenti Mortali. Però
credo che molti Shadowhunters si siano stancati di essere esclusi da tutti i festeggiamenti dei mondani, quindi
oggi diversi Istituti organizzano una festa anche a Natale. Quella di Londra è famosa. — Si strinse nelle spalle.
— Solo che secondo me noi non la faremo… quest’anno.
— Oh. — Clary si sentì una stupida. Ovvio che non
volessero festeggiare il Natale, dopo aver perso Max. —
D’accordo, però almeno accettate i regali. Non deve esserci per forza una festa o qualcosa del genere.
— Esatto. — Simon alzò le braccia al cielo. — Io devo
comprare i regali di Hanukkah. Lo impone la legge ebraica.
Il Dio degli ebrei è un Dio collerico. E molto orientato
ai regali.
Clary gli sorrise. Ormai per Simon era sempre più facile pronunciare la parola “Dio”.
Jace sospirò e diede a Clary un bacio, un rapido sfregamento di labbra sulla tempia, che però le diede i brividi.
Il fatto di non poter toccare Jace né baciarlo come avrebbe voluto cominciava a farle ribollire il sangue. Gli aveva
promesso che la sua condizione non avrebbe mai avuto
importanza, che lei lo avrebbe amato anche se non avessero mai più potuto toccarsi, ma odiava dover sentire la
mancanza della sintonia che c’era sempre stata fra i loro
corpi. — A dopo — la salutò lui. — Io torno all’Istituto
con Alec e Izzy.
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citt à d el f u oco celeste
— No, invece — lo interruppe inaspettatamente Isabelle. — Hai rotto il telefono di Alec. Certo, è quello che
tutti volevamo fare da settimane, ma…
— Isabelle — la rimproverò il fratello.
— Ma il fatto è che tu sei il suo parabatai, e sei anche
l’unico che non ha ancora visto Magnus. Vai a parlargli.
— Per dirgli cosa? Non puoi convincere la gente a restare per forza con qualcuno… O forse sì — aggiunse appena
vide la faccia di Alec. — Non si sa mai. Farò un tentativo.
— Grazie. — Alec gli diede una stretta alla spalla. —
Ho sentito dire che, quando vuoi, sai essere adorabile.
— L’ho sentito dire anch’io — ribatté l’altro, mettendosi a correre all’indietro. Clary pensò, sconsolata, che fosse aggraziato anche in quello. E sexy. Decisamente sexy.
Alzò la mano per fargli un saluto poco entusiasta.
— A più tardi! — gli gridò. Se non sarò morta prima
di frustrazione.
I Fray non erano mai stati una famiglia particolarmente
osservante, ma Clary adorava la Fifth Avenue nel periodo
natalizio. L’aria profumava di caldarroste e le vetrine dei
negozi luccicavano d’argento, blu, verde e rosso. Quell’anno, a ogni lampione erano stati appesi grossi fiocchi di
neve in cristallo, che riflettevano la luce del sole invernale in tanti dardi dorati. Per non parlare dell’enorme albero addobbato al Rockefeller Center; lei e Simon erano
sotto la sua ombra quando si appoggiarono alla transenna della pista di pattinaggio per guardare i turisti che cadevano mentre cercavano di scivolare sul ghiaccio.
Clary stringeva fra le mani un bicchiere di cioccolata calda che le irradiava calore in tutto il corpo. Si sentiva quasi normale: andare sulla Fifth a vedere le vetrine e
l’albero di Natale era una tradizione che lei e Simon rispettavano da sempre.
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— Sembra di essere tornati ai vecchi tempi, eh? — le
disse lui, facendo eco ai suoi pensieri mentre posava il
mento sulle braccia conserte.
Clary provò a guardarlo senza farsi notare. Simon indossava un soprabito e una sciarpa neri che facevano risaltare il suo pallore; le occhiaie erano il segno che non si
era nutrito di recente. Aveva l’aspetto di quello che era:
un vampiro stanco e affamato.
Be’, pensò, quasi come ai vecchi tempi. — C’è più gente a cui bisogna comprare un regalo. — Oltre all’eterno dilemma: «Cosa compro per il primo Natale in cui stiamo
assieme?»
— Cosa si regala a uno Shadowhunter che ha già tutto? — disse Simon con un sorriso.
— A Jace piacciono più che altro le armi. Ama anche i
libri, ma all’Istituto c’è una biblioteca fornitissima. Adora la musica classica… — Clary si illuminò. Simon era
un musicista: anche se il suo gruppo faceva pena e cambiava nome di continuo (in quel momento erano i Lethal
Soufflé), conosceva bene la materia.
— Che cosa regaleresti a uno che suona il pianoforte?
— Un pianoforte.
— Simon!
— Un grande, gigantesco metronomo da poter usare
anche come arma?
Clary sbuffò, esasperata.
— Spartiti. Rachmaninoff è tosto, e a Jace piacciono
le sfide.
— Buona idea. Allora guardo se qui in giro c’è un negozio di musica. — Aveva finito la cioccolata calda; buttò il bicchiere di cartone in un vicino cestino della spazzatura ed estrasse il cellulare dalla tasca. — E tu? Cosa
regali a Isabelle?
— Non ne ho la minima idea — ammise Simon. Ave45
citt à d el f u oco celeste
vano cominciato a incamminarsi verso il viale, dove un
flusso continuo di pedoni con gli occhi incollati alle vetrine intasava la circolazione.
— Oh, dai. Isabelle è una facile.
— Ehi, è della mia ragazza che stai parlando! — Simon aggrottò le sopracciglia. — O almeno credo. Non
ne sono sicuro, non ne abbiamo parlato. Della nostra storia, intendo.
— dtr, Simon. Davvero.
— Che cosa?
— È arrivato il momento di Definire il Tipo di Relazione. Cos’è, dove sta andando. Siete ragazzo e ragazza, vi
state divertendo e basta, “è complicato” o cosa? Quand’è
che lei lo dirà ai suoi genitori? Tu puoi vedere altra gente?
Simon impallidì ancora di più. — Eh? Ma parli sul serio?
— Sul serio. Nel frattempo… profumo! — Lo afferrò per
il collo del soprabito e lo trascinò in un negozio di cosmetici. L’interno era enorme, con file di boccette scintillanti ovunque. — Ah, qualcosa di originale — aggiunse dirigendosi verso la zona dedicata alle fragranze. — Isabelle
non vorrà certo avere lo stesso odore di chiunque altro.
Vorrà sapere di fichi, di vetiver, o di…
— Fichi? Perché, i fichi hanno un odore? — Simon sembrava inorridito. Clary stava per scoppiare a ridere, ma
in quell’istante sentì squillare il telefono. Era un messaggio di sua madre.
dove sei?
Sbuffò, scocciata, e rispose. Jocelyn continuava a essere nervosa quando pensava che sua figlia fosse in giro
con Jace. E questo nonostante lei gli avesse fatto notare
che lui era probabilmente il ragazzo più sicuro al mondo, non potendo (1) arrabbiarsi, (2) fare avances sessuali,
(3) in generale fare qualsiasi cosa in grado di produrre una
scarica di adrenalina.
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D’altro canto, però, non si poteva negare che Jace fosse stato effettivamente posseduto; sia lei sia sua madre
l’avevano visto mentre lasciava che Sebastian minacciasse Luke. Clary ancora non aveva parlato di tutto ciò
a cui aveva assistito nella casa condivisa con Jace e Sebastian per quel breve periodo fuori dal tempo tra il sogno e l’incubo. Non aveva mai detto a sua madre che Jace
aveva ucciso; c’erano cose che Jocelyn non aveva necessariamente bisogno di sapere, cose che lei stessa non voleva affrontare.
— Questo negozio è pieno di roba per cui Magnus impazzirebbe, secondo me — disse Simon prendendo una
confezione di olio per il corpo tempestato di glitter. —
Va contro qualche regola comprare regali per uno che si
è lasciato con un tuo amico?
— Dipende... Sei più amico di Magnus o di Alec?
— Alec si ricorda il mio nome — disse Simon, rimettendo a posto il flacone. — E mi dispiace per lui. Capisco
perché Magnus l’abbia fatto, ma Alec è davvero, davvero a
pezzi. Credo che, quando una persona ti ama, allora dovrebbe anche perdonarti, se tu sei sinceramente dispiaciuto.
— Io penso che dipenda da quello che hai fatto — commentò Clary. — Non sto parlando del caso di Alec, dico
in generale. Sono sicura che a te Isabelle perdonerebbe
qualsiasi cosa — si affrettò ad aggiungere.
Simon non sembrava molto convinto.
— Sta’ fermo — gli ordinò, armeggiando con una boccetta vicino alla sua testa. — Fra tre minuti ti annuso il collo.
— Questa, poi — ribatté Simon. — Ne hai aspettato di
tempo per fare la prima mossa, Fray! Scusa se te lo dico.
Clary non se la prese per la frecciatina; stava ancora pensando a quello che Simon aveva detto a proposito del perdono, rievocando però l’immagine di qualcun altro: altra
voce, altro viso, altri occhi. Sebastian, seduto di fronte a
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lei a Parigi. «Pensi di potermi perdonare? Voglio dire, pensi che il perdono sia possibile per una persona come me?»
— Ci sono cose che non si possono perdonare. Io non
potrò mai perdonare Sebastian.
— Ma tu non gli vuoi bene.
— No. Però è mio fratello. Se le cose stessero diversamente, allora… — Il fatto era che non stavano diversamente. Clary si scrollò via il pensiero e si avvicinò al collo di Simon per annusarlo. — Sai di fichi e albicocche.
— Sei davvero convinta che Isabelle voglia avere lo
stesso odore di un mix di frutta disidratata?
— Forse no. — Prese un’altra boccetta. — E quindi cosa
pensi di fare?
— Quando?
Clary alzò lo sguardo, abbandonando il dilemma su
quale fosse la differenza tra una rosa e una tuberosa, e
vide Simon che la squadrava con gli occhi castani traboccanti di perplessità. — Be’, non potrai vivere con Jordan
per sempre, giusto? C’è il college…
— Tu al college non ci andrai.
— No, ma io sono una Shadowhunter. Proseguiamo gli
studi dopo i diciotto anni, ci assegnano ad altri Istituti…
È quello il nostro college.
— Non mi piace pensare che te ne andrai. — Si infilò le
mani nelle tasche del soprabito. — Io al college non posso andarci. Mia madre non è esattamente disposta a pagarmelo, e io non posso accedere ai prestiti per studenti.
Legalmente sono morto. E poi, quanto ci metterebbero
i miei compagni ad accorgersi che loro invecchiano e io
no? Non so se ci hai mai fatto caso, ma i laureati di solito non hanno la faccia da sedicenni…
Clary rimise a posto il profumo.
— Simon…
— Forse dovrei comprare qualcosa per mia madre —
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disse il ragazzo con amarezza. — Cos’è che esprime al
meglio un messaggio tipo: «Grazie per avermi sbattuto
fuori casa facendo finta che sia morto»?
— Le orchidee?
A Simon però era passata la voglia di scherzare. — Forse è davvero tutto diverso. Una volta ti avrei preso una
scatola di pastelli o qualcos’altro per disegnare, ma ormai hai lasciato perdere, vero? A parte usare lo stilo, intendo, tu non disegni più. E io non respiro. Non è esattamente come l’anno scorso.
— Secondo me dovresti parlarne con Raphael.
— Con Raphael?!
— Lui sa come vivono i vampiri. Come si gestiscono
la vita, come fanno soldi, come trovano una casa… Lui
certe cose le sa. E potrebbe darti una mano.
— Lui potrebbe, ma io non voglio — dichiarò Simon con
espressione contrariata. — Non ho più avuto notizie della
banda del Dumort da quando Maureen ha preso il posto
di Camille. So che Raphael è il suo vice, e sono anche abbastanza sicuro che, secondo loro, io porto ancora il Marchio di Caino, altrimenti a quest’ora avrebbero già mandato qualcuno a farmi una visitina. Questione di tempo.
— No. Sanno di non doverti toccare, altrimenti sarebbe guerra con il Conclave. L’Istituto è stato molto, molto chiaro in proposito. Sei protetto, Simon.
— Clary, nessuno di noi è davvero protetto.
Prima che potesse rispondere, la ragazza sentì qualcuno che chiamava il suo nome. Sbigottita, alzò lo sguardo
e vide sua madre che si faceva largo tra la folla di clienti. Fuori dalla vetrina c’era anche Luke, in attesa sul
marciapiede. Con la sua inseparabile camicia di flanella, sembrava un pesce fuor d’acqua in mezzo ai modaioli newyorkesi.
Una volta uscita dalla calca, Jocelyn corse dai ragazzi e
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citt à d el f u oco celeste
prese Clary fra le braccia. Lei, attonita, sbirciò Simon da
sopra la spalla della madre. Lui fece spallucce. — Avevo
paura che ti fosse successo qualcosa! — esclamò Jocelyn
quando finalmente sciolse l’abbraccio.
— Da Sephora? — fece Clary.
Sua madre aggrottò la fronte. — Non hai saputo? Pensavo che a quest’ora Jace ti avesse già avvisata!
Clary sentì un’ondata improvvisa di gelo correrle nelle vene, come se avesse inghiottito dell’acqua ghiacciata.
— No... Che cosa è successo?
— Scusaci, Simon, ma io e Clary dobbiamo andare subito all’Istituto.
Non c’erano stati grandi cambiamenti in casa di Magnus
dalla prima volta in cui Jace ci aveva messo piede. Lo stesso piccolo ingresso, la solita lampadina nuda. Jace usò una
runa di Apertura per varcare il portone principale, affrontò
i gradini due alla volta e poi suonò il campanello dell’appartamento. Più sicuro che ricorrere a un’altra runa, pensò. Dopotutto, il padrone di casa poteva essere intento a
giocare nudo ai videogame, o a fare chissà cosa. Chi poteva sapere come occupavano il tempo libero gli stregoni?
Suonò una seconda volta, indugiando più a lungo sul
pulsante. Altri due tentativi insistenti, e finalmente Magnus spalancò la porta. Sembrava infuriato. Indossava una
vestaglia di seta nera sopra una camicia bianca elegante e
un paio di pantaloni in tweed. Piedi nudi, capelli scompigliati, un’ombra di barba. — Che ci fai tu qui?
— Ahi, ahi, ahi. Che pessimo benvenuto…
— Perché benvenuto non lo sei.
Jace inarcò un sopracciglio. — Pensavo fossimo amici.
— No. Tu sei amico di Alec. Alec era il mio ragazzo,
perciò dovevo tollerarti anch’io. Ora però non stiamo più
insieme, quindi la tolleranza è finita. Non che qualcuno
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di voi l’abbia capito, sia chiaro. Sarai… Cosa, il quarto?
Il quarto della combriccola che viene a disturbarmi. —
Magnus si mise a enumerare sulle lunghe dita. — Clary.
Isabelle. Simon…
— Simon è venuto qui?
— Mi sembri sorpreso.
— Non pensavo fosse così coinvolto dalla tua storia
con Alec.
— Io non ho una storia con Alec — ribatté lapidario lo
stregone, ma Jace si era già fatto largo oltre l’uscio con un
colpo di spalla per poi fermarsi nel salotto, dove si guardò attorno incuriosito.
Una delle cose che gli erano sempre piaciute nell’appartamento di Magnus era il fatto che di rado avesse due
volte lo stesso aspetto. Poteva presentarsi come un ampio loft moderno. O come un bordello francese, una fumeria d’oppio di epoca vittoriana, o ancora l’abitacolo
di una navicella spaziale. Il quel momento, invece, era
cupo e disordinato. Il tavolino giaceva sotto montagne di
vecchi contenitori d’asporto di cibo cinese. Il Presidente
Miao era sdraiato sul tappeto con tutte e quattro le zampe distese da un lato, come un cervo morto.
— Qui c’è puzza di cuore infranto — fu il commento di Jace.
— È il cibo cinese. — Magnus si abbandonò sul divano e allungò le gambe affusolate. — Dai, falla finita. Di’
quello che sei venuto a dire.
— Penso che dovresti rimetterti con Alec.
Magnus alzò gli occhi al cielo. — E perché, scusa?
— Perché è ridotto come uno straccio. Ed è pentito per
ciò che ha fatto. Non ci riproverà.
— Oh, vuoi dire che non tramerà più alle mie spalle
con uno dei miei ex partner per accorciarmi la vita? Molto nobile da parte sua.
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citt à d el f u oco celeste
— Magnus…
— Certo, Camille è morta, quindi, anche volendo…
— Sai cosa voglio dire. Non ti mentirà, non ti ingannerà, non ti nasconderà più niente né ripeterà l’azione per
cui sei realmente arrabbiato con lui, qualunque sia. — Si
buttò su una poltrona reclinabile in pelle e inarcò un sopracciglio. — Dunque?
Magnus si mise su un fianco. — A te cosa importa se
Alec sta male?
— Cosa mi importa?! — esclamò Jace così forte che il
Presidente Miao si mise dritto a sedere come se gli avessero dato la scossa. — Mi importa un sacco. È il mio migliore amico, il mio parabatai. E sta malissimo. Come te,
del resto, a giudicare da quello che vedo. Cartoni vuoti di
cibo da asporto ovunque, tu che non hai fatto niente per
dare una sistemata, il gatto che sembra morto…
— Non è morto.
— A me importa di Alec — ribadì Jace fissando Magnus con sguardo deciso. — M’importa di lui più di quanto m’importi di me stesso.
— Non hai mai pensato — disse lo stregone con aria meditabonda, cercando di staccarsi un rimasuglio di smalto
dalle unghie — che tutta questa storia del parabatai sia
piuttosto crudele? Te lo puoi scegliere, ma non puoi mai
liberartene. Nemmeno se ti si rivolta contro. Guarda Luke
e Valentine. E anche se, per certi versi, il tuo parabatai
è la persona che ti è più vicina al mondo, non puoi innamorartene. Se muore, poi, muore anche una parte di te.
— Come fai a sapere tutte queste cose sui parabatai?
— Conosco gli Shadowhunters — rispose Magnus, dando una pacca sul cuscino del divano accanto a sé; il Presidente Miao salì e gli strofinò la testa contro. Le lunghe dita dello stregone affondarono nel pelo felino. — E
da molto tempo. Siete strane creature. Tutta fragile no52
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biltà e umanità da un lato, tutto sconsiderato fuoco degli angeli dall’altro. — Fece saettare gli occhi su Jace. —
Soprattutto tu, Herondale, perché il fuoco degli angeli ce
l’hai nel sangue.
— Ti era mai capitato di essere amico di uno Shadowhunter?
— Amico… — ripeté Magnus. — Che cosa intendi di
preciso?
— Lo sapresti, se ti fosse successo. È così? Hai degli
amici? A parte la gente che affolla le tue feste, intendo.
Molte persone hanno paura di te, oppure sembra che ti
debbano qualcosa, oppure hai dormito con loro una volta, ma di amici… A me non sembra che tu ne abbia molti.
— Be’, questa è una novità — commentò lo stregone. —
Nessuno fra gli altri del gruppo aveva cercato di insultarmi.
— Sta funzionando?
— Se mi stai chiedendo se all’improvviso mi sento in
dovere di tornare con Alec, allora no. Mi è venuta un’insolita voglia di pizza, ma potrebbe non c’entrare nulla.
— Alec mi aveva detto che fai così — ribatté Jace. —
Che eviti le domande personali ricorrendo alle battute.
Magnus socchiuse gli occhi. — E sarei l’unico a fare così?
— Già, accetta la critica da chi ne sa qualcosa. Detesti parlare di te e preferisci far arrabbiare la gente piuttosto che essere compatito. Quanti anni hai, Magnus? Voglio la risposta vera.
Lo stregone tacque.
— Come si chiamavano i tuoi genitori? Tuo padre?
Magnus lo fulminò con i suoi occhi verde-oro. — Se
avessi voglia di stare sdraiato su un divano a lagnarmi dei miei genitori con qualcuno, mi rivolgerei a uno
psicanalista.
— Ah, ma le mie prestazioni sono gratuite.
— Sì, l’ho sentito dire.
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citt à d el f u oco celeste
Jace sorrise e si accomodò meglio. Sull’ottomana c’era
un cuscino con il disegno dell’Union Jack; lo prese e se
lo infilò dietro la testa.
— Non ho nessun impegno. Posso restarmene seduto
qui tutto il giorno.
— Fantastico — disse Magnus. — Allora schiaccerò un
pisolino. — Si allungò per prendere una coperta appallottolata sul pavimento e, in quel momento, il cellulare di
Jace si mise a suonare. Lo stregone si bloccò senza completare il suo gesto, guardando l’altro che si frugava in tasca e poi rispondeva.
Era Isabelle.
— Jace?
— Sì. Sono a casa di Magnus. Forse stiamo facendo progressi. Che c’è?
— Torna qui — gli disse lei, e il ragazzo si mise dritto
sulla schiena, facendo cadere il cuscino a terra. La voce
di Izzy era molto tesa. Ne percepiva chiaramente il tono
aspro, come le note stonate di un pianoforte male accordato. — All’Istituto. Subito, Jace.
— Cosa c’è? Cos’è successo?
Anche Magnus si tirò su, lasciando la coperta a terra.
— Sebastian — fu la risposta di Isabelle.
Jace chiuse gli occhi. Vide sangue dorato e piume bianche sparse su un pavimento di marmo. Ricordò l’appartamento, un coltello fra le mani, il mondo ai suoi piedi,
la stretta di Sebastian attorno al polso, quegli occhi neri
impenetrabili che lo guardavano colmi di lugubre ironia.
Sentiva un fischio nelle orecchie.
— Cos’è successo? — La voce di Magnus fece irruzione
nei suoi pensieri. Si accorse di essere già sulla porta, il
cellulare di nuovo in tasca. Si voltò. Magnus era dietro di
lui, l’espressione attonita. — È Alec? Sta bene?
— Cosa te ne importa? — gli rispose Jace, facendolo tra54
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salire. Era la prima volta che vedeva trasalire lo stregone, e solo questo gli impedì, uscendo, di sbattere la porta.
Appese nell’ingresso dell’Istituto c’erano decine di giacche e giacconi mai visti prima. Clary sentì la morsa della
tensione premerle sulle spalle mentre apriva la cerniera
del suo cappotto di lana e lo appendeva a uno dei ganci
lungo le pareti.
— E Maryse non ha detto di cosa si trattava? — domandò. I picchi del suo tono erano acuiti dall’ansia.
Jocelyn si era liberata il collo da una lunga sciarpa grigia, e alzò a malapena lo sguardo quando Luke gliela prese
per appenderla. Gli occhi verdi della donna saettavano qui
e là per tutta la stanza, registrando la gabbia dell’ascensore, il soffitto a volta sopra la sua testa, gli affreschi sbiaditi di uomini e angeli.
Luke scosse la testa. — Solo che il Conclave è stato
attaccato, e che noi dovevamo presentarci qui il prima
possibile.
— È quel “noi” la parte che mi preoccupa. — Jocelyn
si raccolse i capelli in uno chignon dietro la nuca, assicurandolo con le dita. — Sono anni che non metto piede
in un Istituto. Perché mi vogliono qui?
Luke le strinse una spalla, rassicurante. Clary sapeva
di cosa aveva paura Jocelyn, di cosa avevano paura tutti quanti. Poteva esserci un solo motivo se il Conclave
aveva richiesto la presenza di sua madre: c’erano notizie di suo figlio.
— Maryse ha detto che li avremmo trovati in biblioteca — riferì Jocelyn. Clary fece strada. Sentiva, dietro di sé,
Luke e sua madre che discutevano, oltre al suono debole
dei loro passi, quelli di lui più lenti di una volta. Non si
era più ripreso completamente dalla ferita che, a novembre, lo aveva quasi ucciso.
55
citt à d el f u oco celeste
Tu lo sai perché siete qui, vero? le sussurrò un soffio
di voce dentro la testa. Clary si rendeva conto che non
era reale, ma non bastava. Non rivedeva suo fratello dallo scontro al Burren, però lo portava dentro di sé in un
angolino della mente, un fantasma invadente e sgradito.
Per me. Avete sempre saputo che non me ne sarei andato definitivamente. Vi avevo detto che cosa sarebbe accaduto. Ve lo avevo scandito.
Erchomai.
Sto arrivando.
Avevano raggiunto la biblioteca. Dalla porta semiaperta
usciva un’accozzaglia di voci. Jocelyn si fermò un istante, la faccia tirata.
Clary appoggiò la mano sul pomolo. — Sei pronta? —
Fino a quel momento non aveva notato l’abbigliamento di
sua madre: jeans neri, stivali neri, dolcevita nero. Come
se, senza nemmeno pensarci, avesse scelto quanto di più
simile a una tenuta da combattimento.
Jocelyn annuì.
Qualcuno aveva spostato tutti i mobili, creando al centro della stanza un ampio spazio proprio sopra il mosaico
con l’Angelo, su cui era stato collocato il massiccio tavolo formato da un’enorme lastra di marmo in equilibrio su due angeli di pietra inginocchiati. Tutto attorno erano seduti i membri del Conclave. Di alcuni, come
nel caso di Kadir e Maryse, Clary conosceva il nome; altri erano soltanto volti familiari. Maryse, in piedi, spuntava sulle dita un nome di città dopo l’altro, declamandoli tutti a gran voce: — Berlino. Nessun sopravvissuto.
Bangkok. Nessun sopravvissuto. Mosca. Nessun sopravvissuto. Los Angeles…
— Los Angeles? — la interruppe Jocelyn. — Ma è dove
stanno i Blackthorn. State dicendo che sono…
Maryse sembrò colta alla sprovvista, come se fino a
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quell’istante non si fosse accorta dell’arrivo di Jocelyn.
I suoi occhi azzurri si posarono solo un attimo su Luke
e Clary. La donna aveva l’aria tesa, esausta, i capelli tirati all’indietro in una pettinatura austera; sulla manica
della giacca sartoriale, una macchia. Vino rosso, o forse
sangue. — Ci sono alcuni sopravvissuti. Bambini. Adesso si trovano a Idris.
— Helen — disse Alec, e Clary pensò alla ragazza che
al Burren aveva lottato contro Sebastian insieme a loro.
Se la ricordava, nella navata dell’Istituto, in compagnia
di un ragazzino dai capelli scuri che le stava aggrappato
al polso. «Mio fratello, Julian.»
— La ragazza di Aline — gli fece spontaneamente eco
Clary, e notò che il Conclave le rivolse uno sguardo di
malcelata ostilità. Facevano sempre così, come se quello che lei era e rappresentava li rendesse quasi incapaci
di vederla. La figlia di Valentine. La figlia di Valentine.
— Sta bene?
— Era a Idris, con Aline — spiegò Maryse. — I suoi fratelli e sorelle minori sono sopravvissuti, ma sembra che
ci sia stato un problema con il fratello maggiore, Mark.
— Un problema? — intervenne Luke. — Che cosa sta
succedendo esattamente, Maryse?
— Non credo conosceremo la vera storia finché non andremo a Idris — rispose lei, lisciando all’indietro i capelli già tirati. — Ma ci sono stati degli attacchi, più attacchi nel giro di due notti, a sei Istituti. Ancora non siamo
sicuri di come abbiano fatto a introdursi al loro interno,
ma sappiamo che…
— Sebastian — disse Jocelyn. Teneva le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni neri, ma Clary sospettava che, se non fosse stato così, gliele avrebbe viste serrate a pugno. — Arriva al punto, Maryse. Mio figlio. Non
mi avresti fatto venire qui se non fosse stato lui il respon57
citt à d el f u oco celeste
sabile. Mi sbaglio? — Gli occhi di Jocelyn incontrarono
quelli di Maryse, e Clary si domandò se quella fosse la
stessa situazione di quando le due donne erano entrambe
membri del Circolo: gli spigoli aguzzi delle loro personalità che sfregavano l’uno contro l’altro, mandando scintille.
Prima che Maryse potesse rispondere, la porta si aprì
e Jace entrò nella stanza. Era congestionato dal freddo, la
testa scoperta, i capelli biondi scompigliati dal vento. Le
mani, senza guanti, avevano le estremità arrossate e portavano segni di Marchi vecchi e nuovi. Vide Clary e le rivolse un rapido sorriso, poi si accomodò su una sedia accostata a una parete.
Luke, come suo solito, tentò di fare da mediatore. —
Maryse? È Sebastian il responsabile?
La donna trasse un respiro profondo. — Sì, è lui. E ha
con sé gli Ottenebrati.
— Certo che è lui! — esclamò Isabelle. Fino a quel momento aveva tenuto la testa bassa sul tavolo, ma adesso l’aveva rialzata. Il suo viso era una maschera di odio
e rabbia. — Aveva detto che stava arrivando ed eccolo
qui, arrivato.
Maryse sospirò. — Pensavamo che avrebbe attaccato
Idris, tutti i sospetti si concentravano su quell’obiettivo.
Non sugli Istituti.
— Quindi Sebastian ha fatto quello che non vi aspettavate — intervenne Jace. — Peccato che lui faccia sempre
quello che non vi aspettate. Forse il Conclave dovrebbe
pensarci, no? — Fece una pausa. — Ve lo avevo detto. Vi
avevo detto che avrebbe voluto altri soldati.
— Jace, così non ci sei d’aiuto — lo rimproverò Maryse.
— Non ci stavo nemmeno tentando.
— Io pensavo che il suo primo attacco sarebbe stato qui
— disse Alec. — A parte quello che stava dicendo Jace, che
comunque è vero, tutti quelli che lui odia o ama sono qui.
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I L C O N T E NU T O D E L L O R O C A L I C E
— Lui non ama nessuno — esplose Jocelyn.
— Mamma, basta. — Clary sentiva il cuore che le martellava dolorosamente nel petto, ma, allo stesso tempo,
provava uno strano senso di sollievo. Tutto quel tempo
passato ad attendere il ritorno di Sebastian, e adesso era
successo davvero. L’attesa era finita: ora sarebbe iniziata
la guerra. — Quindi che cosa dovremmo fare? Fortificare l’Istituto? Nasconderci?
— Lasciami indovinare — rispose Jace con un tono che
grondava sarcasmo. — Il Conclave ha indetto un Consiglio. Un’altra riunione!
— Il Conclave ha ordinato l’evacuazione immediata
— rispose Maryse. A quella notizia, tutti rimasero senza parole, persino Jace. — Tutti gli Istituti devono essere
sgombrati. Tutti gli Shadowhunters devono fare ritorno
ad Alicante. Le difese attorno a Idris verranno raddoppiate a partire da domani. Nessuno sarà più in grado di
entrare né di uscire.
Isabelle deglutì. — E quando ce ne dovremmo andare
da New York?
Maryse si drizzò sulla schiena. Parte dei suoi modi
autoritari aveva fatto ritorno: la bocca era una linea sottile, la mascella irrigidita dalla determinazione. — Andate a fare le valigie — annunciò. — Partiamo stanotte.
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