Rivista d`Arte e Storia Anno quarto, numero otto
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Rivista d`Arte e Storia Anno quarto, numero otto
Il Quirinale Anno quarto, numero otto Il Quirinale Rivista d’Arte e Storia Rivista d’Arte e Storia, Anno quarto, numero otto SEGRETARIATO GENERALE DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA Al lettore Questa ottava uscita della rivista “Il Quirinale” ribadisce la continuità dell’impegno della Fondazione Marilena Ferrari-FMR in favore della conoscenza e della promozione del primato italiano nel campo della cultura, segno di una identità che, attraverso i secoli, ha alimentato in modo decisivo la modernità nel rispetto della tradizione. È un impegno, beninteso, che si intende attivo, propositivo, non relegato in una sterile enunciazione di principi ma quotidianamente praticato in ognuna delle nostre scelte e delle nostre iniziative. In questo senso la decisione di affiancarsi attivamente alle massime istituzioni civili del Paese è esemplare. Porre a disposizione del Quirinale, il luogo per antonomasia – politico e simbolico – dell’italianità, la propria eminenza nel campo dell’editoria e della ricerca culturale è per la Fondazione Marilena Ferrari-FMR un modo di calare il proprio pensiero, la propria filosofia, la propria irrinunciabile vocazione, nel cuore di un progetto da cui far nascere una rivista che si considera, ed è da tutti considerata, interprete autorevole della cultura italiana nel mondo. “Il Quirinale” è diffusa a livello internazionale presso tutti gli ambiti, istituzionali e culturali, in cui si pensa all’Italia come a un luogo dell’eccellenza. Di tale eccellenza la rivista vuol essere, più che testimone, protagonista. Marilena Ferrari Editoriale L’ottavo numero della rivista “Il Quirinale” rende conto di due grandi mostre allestite rispettivamente nel palazzo sede della Presidenza della Repubblica e presso le Scuderie del Quirinale. La mostra “L’eredità di Luigi Einaudi. La nascita dell’Italia repubblicana e la costruzione dell’Europa”, che si è svolta nel Palazzo del Quirinale tra il 13 maggio e il 6 luglio 2008, ripercorre le varie tappe della vita privata e pubblica del Presidente Luigi Einaudi. Il primo Presidente della Repubblica Italiana ha lasciato una forte impronta nella coscienza della Nazione. Il suo rigore, la sua dedizione allo Stato, la sua fede nell’Europa hanno segnato i primi anni della neoistituita Repubblica e il catalogo, realizzato in occasione di questo evento allestito nella Galleria delle Regioni e in quella di Alessandro VII, ne dà testimonianza. La mostra su Giovanni Bellini, che il Presidente della Repubblica ha inaugurato presso le Scuderie del Quirinale il 29 settembre 2008, è la più grande e completa mostra dedicata all’artista veneto dopo quella oramai storica del 1949 a Venezia. Sono stati radunati ed esposti dal 30 settembre 2008 all’11 gennaio 2009 sessantaquattro dipinti del pittore, ovvero i tre quarti della produzione certa del maestro veneziano, fra cui lo straordinario Battesimo di Cristo, di oltre quattro metri, eseguito per la chiesa di Santa Corona a Vicenza e la stupefacente Pala di Pesaro. Oltre a queste grandi opere, sono state esposte le serie complete dei Crocifissi e delle Pietà, una selezione dei prototipi della vasta produzione di Madonne e ritratti, le meno conosciute allegorie e mitologie come la Continenza di Scipione (un fregio di oltre tre metri che simula il marmo) dalla National Gallery di Washington. “Prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco”, secondo lo storico dell’arte Roberto Longhi, Bellini viene presentato come l’inventore della rappresentazione dei sentimenti e della natura in pittura e la mostra delle Scuderie del Quirinale ha riservato una lettura incisiva e originale alla sua opera. La collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali prosegue grazie all’amichevole disponibilità e all’impegno del Segretario Generale Giuseppe Proietti. Dopo aver illustrato nei precedenti numeri della rivista l’operato del Ministero in Iran, con il restauro della cittadella di Bam colpita dal devastante terremoto del 2004, in Cina con il lavoro svolto dai nostri restauratori nel luogo sacro per eccellenza della Città Proibita, la Sala della Suprema Armonia (o Sala del Trono d’oro), a Baghdad con la riapertura del Museo nazionale devastato dopo l’occupazione della città da parte delle truppe americane, Giuseppe Proietti descrive il progetto di restauro dei dipinti di Ajanta in India. L’anno 2009 sarà l’anno galileiano; Paolo Galluzzi dedica un pregevole articolo alla presenza di Galileo, quattrocento anni fa, nei giardini di Monte Cavallo dove sperimentò gli strumenti che rivelarono l’esistenza delle macchie solari. Come non ricordare che l’uomo che ha rivoluzionato la conoscenza dell’universo e aperto la strada alla ricerca moderna era socio, accanto al fondatore Federico Cesi, dell’Accademia dei Lincei? Ambedue, insieme ai loro consoci, si definivano “discepoli della natura al fine di ammirarne i portenti e ricercarne le cause”. Questi “accademici” si ripromettevano di approfondire lo studio delle discipline naturali e matematiche e favorire la collaborazione scientifica fra cultori di scienze e lettere in un processo di mutuo insegnamento. Cesi auspicava il sorgere e il diffondersi in tutto il mondo d’istituti chiamati “Licei”, ove i soci avrebbero dovuto collaborare nella ricerca scientifica usufruendo di stamperie, librerie, musei, con l’intesa che ogni scoperta dovesse venire comunicata subito agli altri “Licei”. Al giorno d’oggi, molti ricercatori e scienziati dovrebbero meditare sullo spirito di collaborazione e di apertura che caratterizzava l’atteggiamento di questi padri della ricerca moderna e trarne proficui esempi. Michael Meier-Brügger ha accettato di scrivere un dotto articolo sulla famosa iscrizione Duenos. La testimonianza scritta, databile al VI secolo a.C., che corre sull’orlo di questo vaso a uso cultuale, rinvenuto nei pressi del Quirinale, ci riporta agli albori della storia romana e all’associazione tra il “Colle” e il più antico passato di Roma. Ricordo infatti che il nome Quirinale deriva dal latino Quirinus, un termine che indicava una divinità italica d’oscura origine, assimilata dai Latini a Romolo e a Marte. È probabile che Quirino fosse la divinità locale della tribù stanziata sul Colle che dal nome del dio prese appunto la denominazione di Quirinalis e dal cui sinecismo con gli abitanti del Palatino sorse la città di Roma. Siamo intorno all’VIII secolo a.C. Dell’antichissima localizzazione del culto di Quirino sul colle del Quirinale rimane la testimonianza in un sacello trasformato in tempio nel 293 a.C. su lascito del console Lucio Papirio Cursore; distrutto da un incendio, il tempio fu riedificato da Augusto nel 16 a.C., come informa il Monumentum Ancyranum; le ricerche geomagnetiche condotte nel 2006 da Andrea Carandini nei giardini del Quirinale hanno forse permesso di ipotizzare la presenza del tempio di Quirino nei pressi della Palazzina del Fuga. Infine in questo numero l’ambasciatore Zanardi Landi ci guida attraverso Palazzo Borromeo e i tesori di una delle nostre più prestigiose Ambasciate presso gli Stati esteri: l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Consegnando l’ottavo fascicolo della rivista “Il Quirinale” alla stampa, mi preme esprimere la viva gratitudine del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica alla Fondazione Marilena Ferrari-FMR per il suo generoso sostegno: dopo aver accettato di pubblicare gratuitamente la seconda edizione della guida Il Palazzo del Quirinale. La storia, le sale e le collezioni, la Fondazione assicura altrettanto gratuitamente la stampa e la diffusione della rivista, spedendola a oltre duemila indirizzi in tutto il mondo, tra cui le nostre Ambasciate e i nostri Istituti di Cultura. In questo modo, senza gravare minimamente sul bilancio del Quirinale, l’attività culturale di cui il palazzo è il teatro e l’illustrazione di alcune delle più importanti imprese internazionali che vedono impegnato il nostro Ministero per i Beni e le Attività Culturali sono portate a conoscenza del grande pubblico e contribuiscono a diffondere in tutto il mondo l’immagine di un’Italia preoccupata di difendere e valorizzare il patrimonio culturale dell’intera umanità. Louis Godart Direttore Louis Godart Direttore responsabile Flaminio Gualdoni Comitato scientifico Caterina Cardona, Francesco Colalucci, Loretta Dolcini, Alessandra Ghidoli, Louis Godart, Marco Lattanzi, Maria Giuseppina Lauro, Luisa Morozzi, Maria Rovigatti, Maria Angela San Mauro Coordinamento editoriale Luciana Del Buono Servizi redazionali Alfa Studio Editoriale, Bologna Stampa Tecnostampa, Loreto Il Quirinale Rivista semestrale d’Arte e Storia, n. 8, marzo 2009. Registrata presso il Tribunale di Bologna in data 29.12.2004, n.7492. Iscritta nel Registro Nazionale della Stampa, n. 4178 Sped. A.P.-DL 353/03 (L. n. 46 del 27.2.04), art.1, c.1, DCB AN © 2009 Fondazione Marilena Ferrari-FMR Tutti i diritti riservati. Printed in Italy. Editore Fondazione Marilena Ferrari-FMR Via Santo Stefano, 17/a tel. (+39) 051-648892 fax (+39) 051-6488921 www.marilenaferrari-fmr.it Al lettore Marilena Ferrari 3 Editoriale Louis Godart 5 L’eredità di Luigi Einaudi. La nascita dell’Italia repubblicana e la costruzione dell’Europa Louis Godart 9 Giovanni Bellini Giovanni C.F. Villa 17 Il Buddha di Ajanta Giuseppe Proietti 33 Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C. Michael Meier-Brügger 73 Galileo e gli “spettacoli del cielo” sul Colle del Quirinale Paolo Galluzzi 81 La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede Antonio Zanardi Landi 91 Abbonamenti FMR-Art’è spa - Società Internazionale di Arte e Cultura numero verde 800.019632 fax verde 800.279343 [email protected] La distribuzione della rivista e la gestione degli abbonamenti sono a carico di FMR-Art’è spa - Società Internazionale di Arte e Cultura - Servizio Abbonamenti, via Cavour 2, 40055 Villanova di Castenaso (Bologna), alla quale è possibile rivolgersi per informazioni o chiarimenti. Ai sensi di legge, per la vendita di periodici e riviste non è previsto il diritto di recesso dal contratto. Prezzi di vendita Un numero e 20 Abbonamento annuale (2 numeri, spese di spedizione incluse) per l’Italia e 38 per l’Europa e 50 per USA / Canada e 60 per il resto del mondo e 75 Crediti fotografici Berlino: Antikensammlung Staatliche Museen, pp. 73, 75-80. Firenze: Biblioteca Nazionale Centrale, pp. 86-87; Gabinetto fotografico Soprintendenza P.S.A.E. e per il Polo Museale, pp. 20-21; Istituto e Museo di Storia della Scienza, pp. 83, 89-90; Massimo Listri, pp. 4, 91-118. Forth Worth, Texas: Kimbell Art Museum, p. 19. Londra: The National Gallery, pp. 30-32. Parigi: © Giovanni Ricci Novara, pp. 46-49; © RMN/Hervé Lewandowski, p. 84. Roma: Archivio Famiglia Einaudi, pp. 10, 12-13, 16; Archivio fotografico Soprintendenza Speciale P.S.A.E. e per il Polo Museale, p. 18; Ministero per i Beni e le Attività Culturali, pp. 17, 22, 33, 35, 37, 38, 41-44, 50-62, 64-72. Torino: Archivio Fondazione Luigi Einaudi, pp. 9, 11, 14, 15. Venezia: Fondazione Querini Stampalia, copertina e pp. 2425; Musei Civici Veneziani, Museo Correr, pp. 2, 27. Vicenza: Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati, pp. 28, 29. Vienna: Kunsthistorisches Museum Wien, Gemäldegalerie, p. 26. Washington: National Gallery of Art, Samuel H. Cress Collection, p. 23. In copertina: Giovanni Bellini, Presentazione di Gesù al Tempio, 1465-1466, tavola. Venezia, Fondazione Querini Stampalia. A pagina 2: Giovanni Bellini, Cristo morto sorretto da due angeli, 1470 circa, tavola. Venezia, Musei Civici Veneziani, Museo Correr. Riservatezza e tutela dei dati FMR - Art’è S.p.A. tutela i dati personali dei propri abbonati, che sono trattati con le modalità e le finalità precisate nell’informativa resa in occasione della sottoscrizione dell’abbonamento, che potrà in ogni momento essere nuovamente consultata contattando il servizio abbonamenti ai numeri e agli indirizzi sopra riportati. A pagina 4: Scuola toscana, Ritratto di cardinale, seconda metà del Cinquecento, olio su tavola. Roma, Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. 8 L’eredità di Luigi Einaudi. La nascita dell’Italia repubblicana e la costruzione dell’Europa di Louis Godart L’eredità di Luigi Einaudi maggio – luglio 2008 di Louis Godart Alla pagina precedente: Il Presidente Einaudi al tavolo di lavoro al Quirinale con Donna Ida. In basso: Luigi Einaudi durante il periodo di Presidenza della Repubblica, 1948-1955. A fronte: Il saluto del Presidente. I l Palazzo del Quirinale ha ospitato tra il 13 maggio e il 6 luglio 2008 una mostra dedicata a Luigi Einaudi dal titolo: “L’eredità di Luigi Einaudi. La nascita dell’Italia repubblicana e la costruzione dell’Europa”. La mostra, prima di una serie di iniziative per celebrare il sessantesimo anniversario dell’elezione di Luigi Einaudi a Presidente della Repubblica (1948), è stata promossa dalle due Fondazioni, di Roma e di Torino, intitolate a Luigi Einaudi e realizzata in collaborazione con la Presidenza della Repubblica e la Banca d’Italia, con il patrocinio del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Opere d’arte, fotografie, testimonianze inedite e oggetti quotidiani, provenienti dagli Archivi dello Stato, dalla Presidenza della Repubblica, dalla Banca d’Italia, dalla Camera dei deputati, dalla Fondazione Corriere della Sera, dalle Fondazioni intitolate a Luigi Einaudi, dalla famiglia Einaudi e da collezioni private, documentano le fasi della vita di quest’intellettuale e statista di alto rigore morale e forte impegno civile. Le opere in mostra, oltre a far luce sulla figura di Einaudi, concorrono alla ricostruzione della memoria storica dell’Italia. Come scrive il Presidente Napolitano: “Luigi Einaudi fu il primo presidente a svolgere il mandato settennale previsto dalla Costituzione e lo fece con la dedizione, la puntuale e competente attenzione, la severità di cui restano vivida ed esauriente testimonianza le centinaia di pagine dello Scrittoio del Presidente”. Il Capo dello Stato aggiunge: “Luigi Einaudi era strenuo assertore – netto e forte fu il suo pronunciamento nell’Assemblea costituente – dell’unità europea contro ‘il mito funesto della sovranità assoluta degli Stati’: ma seppe essere costruttore del nuovo Stato repubblicano, ‘voluto dal popolo’, dandoci – come disse nel mirabile messaggio rivolto, dopo il giuramento, alle Camere in seduta comune – ben più di ‘una mera adesione’. Vi diede l’impronta della sua fede nella libertà e nella democrazia e della sua sapienza di ‘tutore dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica’”. Per ricordare Luigi Einaudi a sessant’anni dalla sua elezione alla massima magistratura dello Stato repubblicano, la mostra voluta dall’architetto Roberto Einaudi, Presidente della Fondazione Einaudi di Roma, ripercorre le tappe della vita e della carriera del grande statista, dagli anni formativi e la prima maturità (1874-1914), al periodo della Grande Guerra e dell’avvento del fascismo regime (1914-1926), agli anni che vanno dal raccoglimento all’esilio svizzero (1926-1944) per poi passare alla descrizione del ruolo di Einaudi nella Consulta e nella Costituente, al periodo in cui fu Governatore della Banca d’Italia (1945-1948), Presidente della Repubblica (1948-1955) per concludersi con l’evocazione di San Giacomo e le terre di origine. La figura di Luigi Einaudi è poliedrica. Lo si può ricordare come professore, economista, bibliofilo, giornalista, viticoltore, liberale, europeista, uomo politico, Governatore della Banca d’Italia, Capo dello Stato, padre di famiglia. Un episodio narrato nel catalogo può essere emblematico della sua personalità: nel suo 10 L’eredità di Luigi Einaudi saggio Roberto Einaudi racconta che un giornalista, amico di Einaudi, si rifiutò di scrivere un articolo sul Presidente a pochi giorni dalla sua scomparsa in quanto gli sembrava impossibile descrivere una figura così complessa, fuori della norma. Si limitò a riferire un solo aneddoto. Einaudi, avendo ricevuto un assegno in pagamento per un necrologio di un amico richiestogli da un giornale, lo restituì. Non poteva accettare danaro per aver ricordato un amico. Chiese al giornale di versare la somma stanziata in beneficenza, precisando che ciò avvenisse a nome del giornale e non suo. Sarebbe stato altrimenti costretto a dichiarare la somma nella sua denuncia dei redditi. 12 Carlo Azeglio Ciampi ricorda che, oltre a essere stato un economista insigne e un bibliofilo molto raffinato, fu europeista convinto, per analisi e per fede nell’ideale federalista. Fu anche uomo politico, dentro e fuori dal Parlamento. I suoi convincimenti erano ispirati a un elevatissimo, nobile senso dello Stato. Queste virtù, nella neo- istituita Repubblica fondata sulla sovranità popolare e sul lavoro, fecero di lui il Capo dello Stato che, conquistando il rispetto e la stima degli Italiani, seppe rappresentare l’unità nazionale. Allo stesso modo seppe guadagnare fiducia e credibilità a un Paese che voleva stare a pieno titolo, dopo la tragedia della guerra, nel consesso delle Nazioni. 13 Il “Risorgimento liberale” saluta il Presidente della Repubblica, 12 maggio 1948. L’eredità di Luigi Einaudi In basso: La folla saluta il nuovo Presidente insediatosi al Quirinale. A fronte: Il Presidente Einaudi lascia il Quirinale al termine del suo mandato, maggio 1955. Mario Draghi lo descrive come una figura di assoluto rilievo nella vita pubblica nazionale, sia come intellettuale sia come personalità politica di primo piano. Grazie all’autorevolezza di cui godeva, all’interno del nostro Paese e a livello internazionale, fu il punto di raccordo di uomini e forze che fermarono l’inflazione e che posero le solide basi dello sviluppo economico e della rinascita democratica dell’Italia. Nonostante la breve durata del suo governatorato, Einaudi ha lasciato un’impronta indelebile nello stile intellettuale della Banca d’Italia, la cui attività continuò a seguire sino all’ultimo. L’apertura internazionale, la visione europeista, il rifiuto del dogmatismo, l’attenzione scrupolosa per i dati empirici, la riflessione storica sono suoi lasciti profondi. Il podere di San Giacomo in Dogliani, acquistato a soli ventitré anni, indebitandosi, è sicuramente il luogo più amato da Luigi Einaudi. Vi ritornò sempre, per curare i suoi vigneti e la sua grande biblioteca, pervenuta nel tempo a 70.000 volumi. Nel commovente capitolo del 14 L’eredità di Luigi Einaudi catalogo dedicato a “San Giacomo e le terre d’origine”, Roberto Einaudi ricorda le parole scritte da Luigi Einaudi nel 1934 in occasione della morte dell’amico Francesco Ruffini: “L’autorità sua morale gli veniva, sì, dagli studi, dagli uffici coperti e dalla vita intemerata: ma anche dall’essere sempre stato legato alla terra che aveva visto nascere lui e i suoi. Là dove il contadino è tenace nel conservare la casa avita, e lo scienziato insigne cerca in Luigi e Ida Einaudi durante l’esilio essa il conforto degli ultimi anni in Svizzera, 1944. e il riposo ultimo, non v’ha tramonto, ma perpetua rinascita”. Queste parole possono essere lette come se fossero riferite allo stesso Luigi Einaudi e la mostra del Quirinale ne ha dato testimonianza. 16 Giovanni Bellini di Giovanni C.F. Villa Giovanni Bellini settembre 2008 – gennaio 2009 di Giovanni C.F. Villa Alla pagina precedente: Madonna degli Alberetti, 1487, olio su tavola. Venezia, Gallerie dell’Accademia. In basso: Madonna con il Bambino, 1510 circa, olio su tavola di pioppo. Roma, Museo e Galleria Borghese. A fronte: Cristo risorto benedicente, 1500 circa, olio su tavola. Forth Worth, Texas, Kimbell Art Museum. “ C he spettacolo, quando si farà, una mostra completa di Giovanni Bellini!”: così, nel 1946, Roberto Longhi auspicava una grande rassegna monografica del “genio creatore sublime e instancabile” che con la sua pittura ha portato l’arte alla modernità. E una grande retrospettiva su Giovanni Bellini è, così come fu per Antonello da Messina, operazione ritenuta di difficilissima strutturazione, causa la preziosità e delicatezza di opere su tavola di notevole formato: la sola mostra monografica, curata da Rodolfo Pallucchini nel 1949 e ospitata in Palazzo Ducale a Venezia, offrì un’immagine del pittore oggi, alla luce degli studi, completamente da rivedere. Le ricerche dell’ultimo mezzo secolo hanno infatti apportato notevolissimi cambiamenti alla nostra percezione di molti artisti minori (con ovvi riflessi anche su quelli maggiori) e sui collegamenti fra nord e sud Europa, arricchendo straordinariamente il quadro d’insieme. Con Giovanni Bellini che ha sempre giocato un ruolo di protagonista assoluto. Ma anche misconosciuto. Raramente, infatti, un pittore eccelso, un classico alle soglie della modernità, è tanto congetturale. Cominciando dalla data di nascita, per cui non si è trovato alcun documento utilizzabile, e così la si ipotizza fra il 1423 e il 1438. E poi per corpus, con gli studiosi che partono da un centinaio di pezzi pressoché unanimemente accettati, di cui comunque pochi con autografia certa e documentata, per giungere a più di trecento, assommando le ipotesi attributive dei più accreditati storici dell’arte. Per terminare alla cronologia interna fra le opere attribuite e alla loro reciproca scansione, oggetto di continue discussioni, messe a punto, polemiche intorno a variazioni, a volte, di oltre un ventennio. Le poche date garantite sono molto tarde: “Ioannes Bellinus Pinxit 1487” è segnato sulla Madonna degli Alberetti delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, mentre del 1488 sono il Trittico della basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari e il Paliotto Barbarigo di San Pietro a Murano. Se consideriamo la data di morte, nel 1516, ci rendiamo conto di come l’arco sicuro della creazione si collochi nell’ultimo trentennio di vita di un artista già noto e ammirato, a cui fin dal 1479 erano state affidate le decorazioni di Palazzo Ducale. Inoltre, si tratterebbe dell’ultimo trentennio di vita di un pittore che molti, seguendo le indicazioni di Vasari, ritengono morto vecchissimo, novantenne. Il problema non è da poco: si tratta di sapere, in buona sostanza, se Giovanni Bellini sia “prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco” come ancora Longhi lo riassumeva in un celebre passo del Viatico; dunque un artista che ha assimilato, seguito e rielaborato novità eclatanti della pittura intorno alle epoche della sua vita o se, invece, abbia compiuto un proprio percorso autonomo e creativo, dialogando alla pari con i grandi del tempo, e sovente anzi proposto con genialità sperimentale ciò che altri hanno poi accolto e rilanciato. In quest’ottica, a coronamento di un progetto scientifico durato quasi un decennio, le Scuderie del Quirinale hanno portato a Roma 18 Giovanni Bellini circa i tre quarti della produzione certa di Giovanni Bellini. A mostrare l’arco evolutivo di una delle più ampie carriere che la storia della pittura ci ha consegnato, l’arte di un Maestro che, partito dalla tenera cedevolezza dello stile goticointernazionale del padre Jacopo Bellini, si è misurato con la grandezza del cognato Andrea Mantegna, trovando poi, verso la metà degli anni Settanta, in un forte dialogo con Antonello da Messina, un linguaggio personalissimo che in qualche modo costituisce la base dell’unificazione linguistica di almeno una parte consistente d’Italia; e vedendo infine Leonardo, Dürer e Giorgione, con i quali ancora colloquia con 20 straordinario impegno e altezza di stile. Di Giovanni Bellini è un lascito indiscutibile: quello di un artista che seppe interpretare al meglio la volontà di costruzione di una lingua che superasse le specificità lessicali locali. Che seppe oltrepassare la pittura “veneziana”, quale era ancora quella del fratello Gentile, non limitandosi a osservare la sola realtà padana. Ma entrando in dialogo con il mondo toscano e le sue sperimentazioni e specificità, e poi quello dell’Italia mediana, di corti internazionali, lo straordinario Mezzogiorno di porti e committenze mediterranee fino alla Sicilia, dove Antonello aveva sintetizzato le lezioni apprese da giovane da Colantonio con le 21 Allegoria sacra, 1485-1488 circa, tavola. Firenze, Galleria degli Uffizi. Giovanni Bellini presenze provenzali e fiamminghe. È la volontà “linguistica” nazionale della pittura, così specifica in Bellini, grandissimo nel disegno che poi ricopre con un velo di colore, transitando con estrema delicatezza dalla tempera grassa all’olio, quasi che studi e mediti ogni contributo tecnico prima di collocarlo nella giusta misura. È una volontà parallela all’impegno letterario nazionale che trova in Pietro Bembo la figura di riferimento e poi in Ariosto la piena realizzazione. Non a caso tutti e due ferventi ammiratori di Giovanni Bellini, il primo anzi sodale e in qualche caso mediatore A fronte: Madonna con il Bambino tra san Giovanni Battista e una santa (Sacra Conversazione Giovanelli), 1500 circa, tempera e olio su tavola. Venezia, Gallerie dell’Accademia. e committente. Così che diverranno emblematici i versi, le prime due quartine del quindicesimo sonetto delle Rime, che Bembo gli dedica: “O immagine mia celeste et pura;/ Che splendi più che ’l sole a gli occhi miei,/ Et mi rassembri il volto di colei,/ Che scolpita ho nel cor con maggior cura;/ Credo che ’l mio Bellin con la figura/ T’habbia dato il costume ancho di lei:/ Che m’ardi, s’io ti miro: et per te sei/ Freddo smalto, cui giunse alta ventura”. Esaltato per i ritratti, nonché conosciutissimo per le variazioni sull’immagine della Madonna con il Bambino, che in nessun altro A fianco: Ritratto di giovane, 1485-1490, tavola. Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Cress Collection. Alle pagine seguenti: Presentazione di Gesù al Tempio, 1465-1466, tavola. Venezia, Fondazione Querini Stampalia. artista saprà essere tanto Madre e così impalpabilmente spirituale, il linguaggio belliniano troverà la migliore espressione in quella sorta di pura astrazione scenica, ininterrotto dialogo fra umano e divino che si realizza nella forma di una pala d’altare equilibrata e mediana, davvero petrarchesca, devota all’antico e rigorosamente addolcita. Il lavoro di Bellini costruisce un eccezionale sistema di variazioni 22 che risponde all’esigenza del singolo committente, variando con strepitosa lucidità intellettuale e sentita emozione ogni icona cristiana, a cominciare dalla maternità. In questo sistema, che lascia ogni volta stupiti per l’invenzione, la disposizione, l’espressione linguistica originale e insieme regolare, Bellini si offre anche a possibili sguardi analitici su una personalità ritrosa e generosa, introversa e socievole, 23 Giovanni Bellini In basso: Presentazione di Gesù al Tempio, 1488-1490 circa, tavola. Vienna, Kunsthistorisches Museum Wien, Gemäldegalerie. A fronte: Trasfigurazione, 1465 circa, tempera e olio su tavola. Venezia, Musei Civici Veneziani, Museo Correr. orgogliosa e modesta, sempre dignitosissima e inafferrabile, forse segnata dalla coscienza di una nascita in qualche modo da dimenticare. Così la mostra comincia con l’opera di svolta, summa della pittura sacra del secolo, autentica rivoluzione posta alla metà esatta degli anni Settanta del Quattrocento: l’Incoronazione della Vergine – la Pala di Pesaro – l’olio su tavola di dimensioni impressionanti che propone un’inquadratura di assoluta novità. In essa riconosciamo un prodigioso naturalismo rappresentativo, con le figure dei protagonisti immerse nella luce e nell’aria che connette evento naturale, storicità architettonica, gestualità sacra e soprannaturale con l’intensità cromatica che scala naturalmente i piani prospettici e informa ogni dettaglio. È così nelle rigorose geometrie del pavimento che recuperiamo la formula coniata da Longhi per Piero della Francesca, quel “sintetismo prospettico di forma-colore” cui Bellini giunge in piena autonomia, sempre teso a ricercare la fusione tra linea, volume, colore e luce. Un rapporto fra divino e umano che si traduce in paesaggio. Un rapporto che si fa prospettiva mentale. Poiché la realtà ultima è quella che vediamo, ovvero al di là dei 26 Giovanni Bellini In basso e a fronte: Battesimo di Cristo, 1503 circa, tempera e olio su tavola. Vicenza, Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati. piani della scena sacra c’è il mondo, creatura di Dio: che non è là dove ci aspetteremmo, ovvero sul primo piano, ma letta in una sorte di prospettiva a cannocchiale rovesciato. E, nei due piani di esposizione delle Scuderie, il primo è così consacrato alla committenza pubblica, tranne la seconda sala che mostra l’abbrivio pittorico dell’artista, con la fuga prospettica finale chiusa dall’opera che esalta il sublime dialogo tra Bellini e la pittura a lui contemporanea, che lo considera maestro sommo: è il Battesimo di Cristo di Santa Corona a Vicenza ove, nella perfetta fusione tra figure e natura, mostra a qual punto è arrivata, all’aprirsi del Cinquecento, la sua arte. Una sottilissima riflessione sulla simmetria, sull’equilibrio delle parti, sulla lontananza e distanza del paesaggio, e sullo sperdersi della luce nella presenza angelica e questa, a sua volta, nella trasparenza del cielo. Il dipinto è un altro vertice di Bellini, così moderno da apparire opera non di un anziano pittore ma di un giovane della generazione successiva, tanto che fin dal 1676 Boschini osservava: “L’Altare, che contiene s. Giovanni Battista, che battezza Cristo, con diversi Angeli assistenti, è opera di Gio. Bellino, così fresca di colorito, e tenerezza di carne impastata, che pare di mano di Giorgione suo scolare: ma perché vi si vede scritto il nome di Gio. Bellino, così bisogna dire”. Da qui si ascende al secondo piano espositivo, orientato a raccontare la committenza privata, laica e devozionale. Accanto alle principali iconografie dedicate alla Madonna con il Bambino, testimoniate tramite la scelta dei sedici esempi più alti, si ammirano le allegorie e mitologie provenienti dai principali musei del mondo. Introdotte da un’opera di raccordo – la Resurrezione di Cristo di Berlino, in origine a San Michele in Isola a Venezia – con, a congedarsi dalla mostra, quella definita da Longhi “la prima opera della pittura moderna”: il Noè deriso di Besançon, dall’iconografia ancora bizantina in stesura ormai pienamente cinquecentesca, che sembra realizzata da un coetaneo di Giorgione e Tiziano che vuole aprire la maniera moderna, non certo da un pittore ultrasettantenne. Un capolavoro che dipende dall’elaborazione dei generi tradizionali e prediletti, ma in forma improvvisamente e quasi sfacciatamente libera, incondizionata, come accade talvolta nelle grandi vecchiaie al momento del confronto con le nuove gioventù. Sarà anche il caso di Michelangelo. Un dipinto che assume un significato amaro: sfruttando la consolidata metafora della famiglia come immagine della società e dello Stato, condanna la diffamazione dell’ignorante e del superbo nei confronti del giusto e del sapiente, l’oltraggio del cattivo suddito nei confronti dell’autorità. Da leggere come malinconica riflessione sulle sorti di una Venezia indebolita dalla crisi del governo e della giustizia, minacciata dalla discordia famigliare e civile. E qui si accomiata Giovanni Bellini, senza un testamento scritto, solo con un lascito di sovrumana ricchezza. “Se intese questa matina esser morto Zuan Belin optimo pytor, havia anni [...] la cui fama è nota per il mondo et cussì vechio come l’era, dipenzeva per excellentia. Fu 28 Giovanni Bellini Alle pagine precedenti e a fianco: San Gerolamo nel deserto, 1478-1480 circa, tavola. Londra, The National Gallery. sepulto a San Zane Polo in la soa arca, dove etiam è sepulto Zentil Belin suo fradelo etiam optimo pytor”, scrive nel suo Diario Marin Sanudo: è il 29 novembre 1516. L’anno dell’Utopia di Tommaso Moro e dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto: gli avvisi palesi di una modernità da cui allontanarsi coltivando illusioni. Un mondo da cui Giovanni si ritira per sempre, nel cimitero di Sant’Orsola, dietro l’abside dei Santi Giovanni e Paolo nella sua città amatissima dalle luci cangianti, ove anche l’ombra più remota riflette un brivido di colore. Il colore capace di dar vita a quel racconto iconico, di struggente lirismo, segreto dell’immanente arte di Giovanni Bellini, il Giambellino. 32 Il Buddha di Ajanta di Giuseppe Proietti Il Buddha di Ajanta di Giuseppe Proietti Alla pagina precedente: Visvantara Jataka, particolare. A fronte: Veduta d’insieme della Gola di Ajanta; al centro la fascia rocciosa nella quale sono scavate le “Grotte”; in basso il torrente Waghora. “ I l luogo ideale per la contemplazione del Divino è una grotta recondita, protetta dal vento, il cui ambiente circostante accompagni lo spirito con il canto dell’acqua e la bellezza della vista.” Questo è il “precetto” che il saggio Svetasvatara Upanishad, tra gli ultimi testi Veda composti nei secoli V e IV a.C. e di enorme influenza su tutto il successivo pensiero spirituale indiano, indica a coloro che vogliano avvicinarsi alla verità trascendente attraverso il momento della contemplazione. Il sito di Ajanta, proprio per la grandiosità delle manifestazioni multiformi della natura che lo caratterizzano, deve essere apparso agli occhi dei suoi primi frequentatori ben rispondente ai canoni tardo-upanishadici: qui, infatti, la vista spazia libera verso la linea dell’orizzonte, dove le cime dei monti che si rincorrono l’un l’altro sfumano nel manto azzurro del cielo; e poi si sposta in basso, sullo scorrere del torrente Waghora nel fondo del burrone; e poi si ferma di fronte, sulle balze della parete rocciosa incavate dalle acque che precipitano dall’alto del coronamento della gola. Le cascate che ne risultano e il suono musicale del riversarsi dell’acqua suggellano l’incanto del luogo. Certamente il luogo è pervaso da un’aura che invita a cercare la presenza del Divino. Ma non è da escludersi che, oltre all’alone di “sacralità” ispirato dalla sua suprema bellezza, possano probabilmente aver contribuito allo stabilirvisi dei primi monaci buddhisti anche considerazioni di ordine più “profano”. Esse troverebbero il proprio antefatto sullo scorcio del primo quarto del secolo III a.C. nelle visioni, agli occhi di Ashoka il Grande, delle orrende carneficine sui campi di battaglia del Kalinga; e nell’incarico conferito al suo inviato Dhamarakshita di diffondere gli editti proclamati dal sovrano Maurya, Colui che per secondo mise in moto la Ruota della Legge, con il loro messaggio di pace e di fratellanza, dalla sua residenza nella ricca città portuale di Suparaka, sulla costa nordoccidentale verso l’interno del Maharashtra e del sub-continente indiano. L’onda lunga degli editti e delle provvidenze imperiali, che li seguono a sostegno del pensiero buddhista e dei suoi discepoli e che si attuano anche attraverso aiuti concreti alle attività monastiche, è ancora ben viva quando, alcuni decenni più tardi, un periodo storico caratterizzato da un ampio contesto di stabilità politica si accompagna all’ascesa al potere della dinastia Satavahana. Professanti il Brahmanesimo, ma assai tolleranti nei confronti del pensiero buddhista, i sovrani Satavahana pongono la propria capitale a Pratishtana e promuovono una fitta rete di commerci che, grazie anche alla continuità territoriale assicurata dai domini Seleucidi e dal Gran Regno Arsacide, si irradia dal Deccan fino alle regioni gravitanti sul bacino mediterraneo orientale di impronta ellenisticoromana, dando luogo alla creazione di una solida e diffusa ricchezza economica; stimolo e condizione, a sua volta, per una stagione di vivace fioritura artistica. Ed è proprio muovendo dai virtuosi effetti di questo clima che ad Ajanta producono il loro risultato più mirabile le sinergie 34 Il Buddha di Ajanta dei due fenomeni, il sacro e il profano: la bellezza del sito e gli esempi di pace, amore e generosità predicati dai monaci da una parte; e, dall’altra, la sua posizione lungo una delle direttrici commerciali più importanti della regione. Il sito è infatti posto geograficamente in un’area strategica per il sistema delle comunicazioni con l’India settentrionale: circa quattrocentocinquanta chilometri a est di Mumbai, a quattrocentotrenta metri di altitudine, in una regione nella quale la catena del Satmala – che separa le pianure del Kandesh dalla piana del Maharashtra – è tagliata da un passo proprio non lontano da Ajanta. Qui le formazioni geologiche, con le rupi scoscese e i terrazzamenti, sembrano offrire ai monaci un rifugio ideale per la loro vita di meditazione e di preghiera. Le grotte che vi sono scavate si riconducono perciò al novero dei numerosissimi altri complessi di ambienti scavati nei banchi rocciosi dell’India occidentale per offrire un momento di raccoglimento ai monaci e, soprattutto durante la stagione delle piogge, un luogo collettivo per la loro residenza e la loro educazione. Essendo posti generalmente lungo le vie commerciali, essi offrono rifugio, ospitalità e occasioni di incontro ai mercanti, provenienti anche da Paesi lontani (in empori come quello di Dhenukakata si contano anche presenze di mercanti occidentali). Al punto che, spesso, i mercanti gareggiano nel fare offerte ai monaci e contribuiscono direttamente allo scavo e alla decorazione delle grotte. Ad Ajanta l’inizio delle attività di scavo sembra potersi porre in parallelo con il vicino abitato dal significativo toponimo di Lenapur (città-grotta), contrassegnato da numerose presenze di ceramica satavahana e collegato alla gola sul Waghora da un sentiero tracciato nella roccia. Qui, a mezza costa lungo gli oltre seicento metri del percorso intagliato sul terrazzamento della grandiosa parete di masso basaltico che si conforma a ferro di cavallo seguendo il percorso del fiume, sono scavate ventinove “grotte” (contraddistinte da una numerazione – con l’eccezione della 29 – di semplice posizionamento progressivo in direzione est-ovest), in origine collegate singolarmente da sentieri con gradini fino al fondovalle. Otto sono chaitya-grihas, ambienti riservati alla preghiera; e ventuno viharas (o sangharamas), veri e propri “monasteri”. Tutte presentano decorazioni scolpite e dipinte; e costituiscono la significativa testimonianza di un fenomeno di architettura rupestre la cui evoluzione tipologica, sulla base di considerazioni strutturali, scultoree e paleografiche, può riportarsi a un disegno di iniziale parallelismo con le coeve costruzioni in legno, che viene progressivamente affievolendosi con il passare del tempo. Gli chaityas più antichi di Ajanta (il 9 e il 10) sono a pianta rettangolare, assai semplice. Il 10, inoltre, presenta tre navate divise da trentanove colonne ottagonali e la parete di fondo absidata, per consentire la rituale circumdeambulazione (Pradaksina); mentre la volta, a imitazione delle coperture nelle costruzioni lignee, riproduce una struttura di travature semiarcuate. I viharas più antichi (l’8, il 12 e il 13) sono ambienti monastici, 36 con sale quadrangolari centrali dai soffitti piani, sulle cui pareti laterali si aprono le celle nelle quali conducono la loro vita i monaci buddhisti. Il gruppo delle cinque grotte più antiche (II-I secolo a.C.), che si ascrivono alla prima fase di Ajanta, è realizzato per ospitare monaci di professione Hinayana (o del Piccolo Veicolo), la più antica, “ortodossa” e più legata alle prerogative salvifiche del movimento monacale. I loro apparati decorativi, in ossequio al divieto di riprodurla, sono privi, perciò, dell’immagine del Buddha, che vi è onorato esclusivamente attraverso elementi formali come gli stupas (simbolo del corpo e della mente del Buddha e che, in richiamo alla calotta semisferica impostata attorno all’arma del dio Indra, che nelle culture gangediche restituisce l’immagine del microcosmo, vi viene assimilato nella forma originaria del semplice tumulo di terra eretto a protezione delle ceneri del Maestro ed evolve poi nelle forme spesso grandiose diffuse nell’intero continente asiatico). Sei secoli dopo lo scavo delle prime grotte, Ajanta conosce una stagione di rinnovata frequentazione monastica e di riflessa fioritura artistica. Il contesto storico, preceduto dall’opera di paziente ordinamento 37 Il sentiero moderno, a mezza costa, che collega in un unico percorso la serie delle “Grotte”. Il Buddha di Ajanta dottrinale promossa, a partire dal terzo quarto del secolo II d.C. dal gran re Kanishka della dinastia Kushana, è quello offerto dalla benevolenza della dinastia Vakataka, unita all’impero gupta nella sua “età dell’oro”, e in particolare del grande re Harisena, che governa il Deccan nella seconda metà del secolo V d.C. Anch’egli di religione brahmanica, e anch’egli protettore del pensiero buddhista, ha come suoi più diretti collaboratori alcuni dei seguaci laici del Buddha, che contribuiscono direttamente alla realizzazione delle grotte. È questo il caso, ad esempio, del ministro reale Varahadeva, che in un’iscrizione ricorda di aver dedicato il vihara 16 alla comunità del clero buddhista (Sangha). Questa seconda fase si accompagna alla grande diffusione della corrente di pensiero Mahayana (o del Grande Veicolo che, rifacendosi ai Prajnaparamita Sutra e al Sutra del Loto e alla “superiorità” della via del Bodhisattva, si espande a partire dal secolo II d.C. in tutta l’Asia centro-orientale), il cui influsso principale in campo artistico porta al superamento del vincolo della rappresentazione dell’essenza del Buddha attraverso il solo momento formale del 38 simbolo. Si è supposto che tutte le grotte di fase Mahayana potrebbero essere state realizzate in un ristretto arco cronologico, inferiore di poco al ventennio, grazie al sostegno della potente dinastia Vakataka e a esaltazione del ruolo di protettore delle arti, assunto dal suo più grande sovrano. Vi è però da tenere nel dovuto conto, al riguardo, una considerazione fondamentale che nasce da un’iscrizione del monaco Buddhabhadra: vi si afferma che un uomo continua a godere in paradiso tanto più a lungo quanto più il suo ricordo è vivo nel mondo. Egli dovrebbe erigersi un monumento che duri tanto a lungo quanto il sole e la luna. Se questo è lo spirito incardinato nel pensiero buddhista, appare poco probabile che Harisena non abbia lasciato memoria esplicita – di cui in alcun modo e in alcun dove si fa, anzi, menzione – di un suo diretto intervento nella grandiosa opera di realizzazione delle grotte; proprio al contrario, invece, di quel che fanno il suo ministro Varahadeva, il suo feudatario Upendragupta e un gran numero di monaci e mercanti. Vi è poi da aggiungere che la lettura del processo di evoluzione delle arti figurative indiane e delle loro caratteristiche, così come vengono documentate nei repertori di Ajanta, lascia supporre fasi realizzative più articolate, anche temporalmente. Lo studio accurato dei caratteri paleografici consente di fissare, in linea generale, in un arco cronologico di circa otto/nove secoli la vita del complesso buddhista di Ajanta. Le più antiche iscrizioni sono quella dello chaitya 10, del secolo II a.C., che ne fa il dono di Katahadi figlio di Vasithi; e quella del vihara 12, dono del mercante Ghanamadada, che costituisce anche la prima testimonianza indoccidentale di “patronato” mercantile nei confronti del Buddhismo. La più recente è probabilmente quella ricavata su una parete del sanctum posto tra lo chaitya 26 e il vihara 27, riferibile ai secoli VIII-IX d.C. e che, peraltro di non chiara evidenza buddhista, proprio per questo lascerebbe ipotizzare il venir meno, dopo il secolo VI, della presenza dei monaci buddhisti ad Ajanta. Ciò, forse, anche in conseguenza di modificazioni dei flussi viari nelle comunicazioni commerciali e soprattutto dell’affermarsi del Brahmanesimo, attestato dagli eccezionali monumenti rupestri splendidamente esemplificati dal grande tempio Hindu del Kailasa, dedicato nel secolo VIII al dio Shiva, nella non molto lontana Ellora. Nonostante l’ampiezza dell’arco cronologico lungo il quale si sviluppano le due fasi storiche di realizzazione del complesso rupestre, il suo disegno esecutivo sembra conservare, negli elementi fondamentali, una indubbia continuità. Le grotte si presentano scavate nel vivo della roccia, con una tecnica di lavorazione che, come si può evincere da quelle rimaste incomplete, procede dall’alto del soffitto verso il basso del pavimento e dalla facciata verso l’interno. Le loro dimensioni variano considerevolmente da caso a caso: quelle di dimensioni minori, come il vihara 27, costituiscono quasi degli ambienti “aggiunti” a quelli vicini, ben più grandi. Tra le altre, lo chaitya 10, che appartiene al gruppo di fase 39 Particolare del prospetto di facciata della “Grotta”, ornata dalle sei colonne che introducono al portico. Il Buddha di Ajanta Hinayana, è lungo trenta metri e alto dodici; mentre la sola sala principale del vihara 1, del gruppo di fase Mahayana, ha una superficie di quasi quattrocento metri quadrati. Le grotte più antiche mostrano la facciata aperta, mentre quelle di seconda fase iniziano a evidenziare la tendenza a una composizione più articolata quando quella viene chiusa da una cortina in legno costituita generalmente da un portico colonnato; questo evolve poi in una struttura intagliata nella pietra e ripartita in alcuni casi in due registri orizzontali, di cui l’inferiore con porte e finestre e il superiore con un finestrone centrale. La facciata viene anche arricchita con elementi ornamentali in rilievo e con una progressiva introduzione di elementi figurati. Gli chaityas 19 e 26, di pianta rettangolare con abside nel fondo, e il nutrito gruppo degli altri viharas della seconda fase di Ajanta, sono la testimonianza più significativa di questo passaggio importante nella evoluzione formale dell’architettura rupestre dell’India occidentale: i due chaityas, entrambi dell’età di Harisena, esemplificano la cura particolare per la facciata con l’aggiunta di un portico, di decorazioni scultoree e di un cortile anteriore con ambienti colonnati per i monaci. Proprio queste lavorazioni lapidee sottolineano come le due arti della scultura e dell’architettura siano strettamente legate tra di loro, e come l’architettura rupestre sia essenzialmente opera di scultura, e viceversa; al punto che, in linea più generale, gli elementi strutturali si configurano come L’elefante, uno dei motivi più ricorrenti nei fregi scultoreo-decorativi, vere e proprie opere scultoree, posto all’esterno della “Grotta” 16. dando vita nelle grotte buddhiste del Deccan ad alcune classi tipologiche scultoreo-figurate che contribuiscono in maniera importante allo sviluppo dell’arte indiana. Tutte le figurazioni sono incentrate sull’essenza del Buddha: gli artisti fanno della sua rappresentazione, scolpita sulla roccia, una delle componenti canoniche negli chaityas e nei viharas; in questi ultimi, in particolare, le colossali statue del Maestro nei Sancta sono generalmente sedute, con le mani nella posa della predicazione (DharmachakraPravartanamudra). Con l’affermarsi dell’influenza del “politeismo” Mahayana, le statue vengono fiancheggiate dai Bodhisattvas, gli Esseri che, nel loro cammino verso la suprema conoscenza e il Nirvana, aiutano lungo le loro vite l’umanità nella ricerca dell’Illuminazione. Essi compaiono dapprima in “aggiunta” anche funzionale alla figura del Buddha, poi con una valenza iconografica autonoma, rafforzata dal sempre più largo favore che le loro più spiccate qualità umane riscuotono tra i devoti del Maestro. Ai motivi del Buddha e dei Bodhisattvas si accompagnano poi in gran numero altri soggetti figurati, “divini” o fantastici, soli o con le proprie compagne. E poi tutta una serie di motivi ornamentali modellati nel masso lapideo: fregi di elefanti dalla proboscide sollevata; combattimenti di bufali selvaggi; motivi floreali; medaglioni con fiori di loto aperti; loti rampicanti; conchiglie; perle pendenti; animali fantastici; gioielli. scultori nel duro corpo dell’anima rocciosa del Deccan, una peculiarità, eccezionale, vale a distinguere le Grotte di Ajanta rispetto a tutti gli altri monumenti rupestri indiani: essa è costituita dalla presenza, su larga scala, di una serie di fantastici apparati di dipinti murali. In nessuno degli altri complessi rupestri chaityas e viharas mostrano le superfici interne ricoperte da una decorazione pittorica tanto fastosa, che ne fa un unicum, nel già ricco contesto delle arti figurative indiane di età gupta e post-gupta, di splendore ineguagliato per la maestria tecnica, per la luminosità della policromia, per l’armonia del disegno formale e per la dovizia iconografica. Sul piano tecnico la decorazione pittorica si presenta composta dai tre elementi del supporto, dell’intonaco e del pigmento. Il supporto di base è offerto direttamente dal masso roccioso, di natura basaltica e quindi di origine vulcanica, la cui consistenza volumetrica non è del tutto compatta, dal momento che è caratterizzata da numerose Pur a fronte del repertorio di varietà inusitata, che viene plasmato dalle abili mani degli 40 41 Il Buddha di Ajanta cavità amigdaloidi, pur di ridotte dimensioni, originate da numerosi inclusi più o meno conservati. La superficie del supporto non è lisciata; evidenzia anzi, oltre a un accentuato fenomeno di alveolizzazione, numerose irregolarità, con tracce spesso profonde ed evidenti delle scheggiature prodotte dall’azione combinata di martello e scalpello per il taglio e la rifinitura delle pareti, dei soffitti, dei pilastri e degli altri elementi architettonici ricavati all’interno degli ambienti. Proprio tale tecnica di taglio delle superfici risulta aver consentito la predisposizione di una rete diffusa di punti di ancoraggio per l’applicazione del soprastante strato di intonaco, migliorandone notevolmente la capacità meccanica di adesione. L’intonaco è composto di fango, 42 polvere ferrosa, polvere di roccia e sabbia, materiali fibrosi di natura vegetale. L’uso di calce sembra assai limitato, ma tracce di uno strato biancastro in superficie, appena al di sotto del pigmento, indicano la presenza di elementi di calce, caolino e gesso. L’impasto si mostra morbido e poroso, privo della durezza del comune intonaco di calce. L’intonaco, per la precisione, risulta applicato su due strati, distinti da evidenti linee di congiunzione rilevate dall’analisi condotta al microscopio. Lo strato più profondo, a diretto contatto con il supporto roccioso, ha uno spessore variabile da grotta a grotta, assolutamente non uniforme, condizionato com’è dalla funzione di livellamento delle irregolarità del masso sottostante. Presenta una composizione a grana grossa, con fango, polvere di roccia, sabbia e una percentuale considerevole di materiali fibrosi di natura vegetale. Lo strato più superficiale, soprammesso al primo, ha uno spessore anch’esso variabile, ma più regolare e compreso fra i due e i tre millimetri. Mostra una composizione di fango e polvere ferrosa, con polvere di roccia o sabbia e materiali di natura vegetale a fibra raffinata. L’analisi del particellato dell’impasto evidenzia che il rapporto nella mescola tra le diverse parti di polvere ferrosa, polvere di roccia e sabbia è molto attentamente calibrato; e che le particelle hanno una conformazione di accentuata spigolosità, che ha molto contribuito alla stabilità e alla compattezza dell’intonaco. La sua superficie è resa ancora più liscia dall’applicazione di un sottile strato di latte di calce, su cui è infine steso il colore, dallo spessore generalmente inferiore al millimetro. Il composto dei pigmenti risulta di una mescola nella quale sono presenti, per una percentuale del 10-12%, acqua e materiali organici di fibre vegetali, pula di riso e altri elementi fibrosi di origine organica, sabbia; per una percentuale del 60% silice; per una percentuale del 27% ferro e alluminio; per una percentuale del 2-3% calcio e magnesio. I pigmenti si mostrano di estrema varietà. La tavolozza dei colori di base è composta dal nero (krshna), dal verde (harit), dal rosso (rakta), dal giallo (pita), dal bianco (sveta), con combinazioni di diverse tonalità. Tutti, a eccezione del nero che è ottenuto con nerofumo, sono di origine minerale: il giallo e il rosso sono ottenuti con ocre gialle e rosse; il verde con glauconite; il bianco con calce, caolino e gesso; il blu, che si aggiunge soltanto nei dipinti di seconda fase, con lapislazzuli, certamente importati dalle regioni dell’India nord-occidentale. Tutti gli altri pigmenti sono ricavati localmente dalla lavorazione delle rocce di natura vulcanica: le argille ocracee sono prodotte con i resti argillosi della disgregazione della roccia; la glauconite (terra verde), un composto verde di silicato ferroso, è prodotta dalla disgregazione del basalto; la malachite per il verde e l’azzurrite per il blu, presenti in labili tracce, sono componenti di rame. Non sembra emergere con chiara evidenza l’uso di coloranti organici, i cui resti, comunque, non sarebbero più presenti. La tecnica utilizzata per l’esecuzione dei dipinti è la tempera. Convincono in tal senso la mancanza di intonaco di calce; 43 A fronte: La decorazione sulla parete di fondo, a destra, nella camera centrale della “Grotta” 17. In alto: Particolare della parete di fondo nella camera centrale. la presenza di resti di colla, riscontrati in analisi condotte seppur episodicamente; la considerazione che la colla possa essere stata oggetto di un processo di ossidazione o comunque di deterioramento. Spinge anche, in tal senso, l’analisi dei leganti e degli adesivi utilizzati per fissare all’intonaco i pigmenti: questi evidenziano una facile solubilità in acqua, il che è indice della presenza nello strato pittorico di un fissante solubile. Spingono ancora a favore della tempera le osservazioni relative allo stato dei pigmenti, al manifestarsi dei caratteristici fenomeni della esfoliazione e del sollevamento della pellicola pittorica secondo il tipico fenomeno “a bolla”. Spingono infine in tal senso le analisi condotte su sezioni di intonaco dipinto, dalle quali si evidenzia chiaramente che i pigmenti costituiscono un sottile ma ben distinto strato steso accuratamente sull’intonaco. Le analisi eseguite sull’intonaco, d’altra parte, non evidenziano alcuna traccia di penetrazione del colore al suo interno; come invece dovrebbe riscontrarsi in presenza di una tecnica ad affresco. In tal caso il colore avrebbe dovuto essere steso su un composto ancora tanto umido da permettere l’imbibizione e utilizzando pigmenti minerali compatibili con un intonaco di calce, senza alcun fissante solubile. È dunque evidente che sia stato un fissante di probabile natura organica, come la colla, a legare saldamente i pigmenti all’intonaco. Ciò trova conferma nelle osservazioni condotte su numerose campionature di intonaco prelevate da grotte differenti: secondo l’esame al microscopio tracce di colla sono ancora conservate sui pigmenti in quantità apprezzabile; mentre l’analisi chimica consente di classificare la colla fra quelle di tipo animale. Sul piano iconografico le figurazioni sono totalmente condizionate dal fatto che chaityas e viharas nascono come ambienti dedicati alla preghiera e alla venerazione del Buddha: evidentemente, volendo rendere più viva e palpabile la sua presenza, i monaci ne devono fermare le immagini sulle pareti, dando vita a dei veri e propri cicli illustrativi incentrati esclusivamente sulla figura del Maestro. I cicli traggono le propria origine da quella importante corrente delle tradizioni filosofiche indiane che è portatrice del concetto della trasmigrazione dell’anima e dalla legge cosmica del Karma, secondo la quale ciascuno è artefice del proprio destino: le azioni del corpo e i pensieri nella vita corrente, nella loro inevitabile interrelazione, determinano la forma della successiva nascita e le condizioni della vita che sopravviene, nulla lasciando al caso; dal momento, inoltre, che tutte le forme della vita sono considerate in reciproco rapporto e che tutte sono manifestazioni del divino, esse possono susseguirsi sia in forma di animali che di esseri umani. Il concetto ha dato luogo a una ricchissima tradizione letteraria, già presente nell’ampio repertorio brahmanico, sulle storie delle vite precedenti di eroi e santi; al punto che le letterature religiosa e mitologica ne abbondano da sempre. Lo stesso Buddha racconta ai suoi seguaci molte storie sulle sue passate nascite: 45 A fronte: Simhala Jataka; il re Simhala, sul suo elefante bianco, muove alla testa dell’esercito contro Tamradvipa, l’isola delle orchesse. Alle pagine seguenti: Veduta d’insieme del grande Stupa di Sanchi, nell’India Centrale. Il Buddha di Ajanta In basso: Particolare dell’ingresso settentrionale allo Stupa di Sanchi, che reca scolpite scene tratte dallo Shaddanta e dal Visvantara Jatakas, nonché dalla tentazione di Mara. A fronte: Particolare della sfarzosa decorazione scultorea dell’ingresso occidentale allo Stupa di Sanchi, che ricorda la visita di Ashoka all’Albero della “Illuminazione” del Buddha. sono, queste, le parabole note come Jatakas; esse devono perseguire lo scopo di illustrare i diversi aspetti del vivere virtuoso insegnato dal Maestro, la sua nobiltà d’animo, il suo amore verso il prossimo, il suo spirito di sacrificio. La loro rappresentazione nei rilievi scolpiti dei luoghi sacri buddhisti di Sanchi, Amravati e Bharhut ne attesta la larga diffusione già nel secolo III a.C. L’antica opera Pali Il Jataka elenca cinquecentotrentasette storie delle precedenti vite del Buddha, vissute come Bodhisattva, e considerate singole tappe nel suo cammino progressivo verso l’ottenimento della suprema conoscenza. Anche ad Ajanta, in ciascuno degli Jatakas raffigurati, gli artisti, sotto la guida dei monaci, illustrano le azioni compiute dal Bodhisattva per coltivare le sue dieci virtù (Paramita): così il Vidhurapandi, tra gli Jatakas, è quello scelto per metterne in luce la saggezza; il Visvantara per il suo spirito di carità; lo Shaddanta per la sua infinita generosità. Il fine vero della rappresentazione figurata di queste “parabole” non è tanto quello dell’insegnamento degli aspetti dottrinali del Buddhismo, quanto quello di suscitare in chi le vede la spinta a condurre una vita virtuosa; ciò grazie, soprattutto, al ruolo dell’elemento narrativo. L’infinita varietà dei temi consente di arricchire i racconti con i principali eventi della vita del Buddha: dalla sua nascita come Gautama degli Shakya nel giardino di Lumbini alle vane tentazioni di Mara, alla conversione di Nanda, alla sottomissione di Nalagiri, alla conquista della suprema conoscenza. Si manifesta qui il profondo legame che unisce i dipinti di Ajanta alla tradizione figurativa dell’arte scultorea di ispirazione buddhista a Bharhut, Bodh-Gaya, Sanchi e Amravati. Qui gli avvenimenti della vita del Buddha e delle sue nascite precedenti erano stati armoniosamente scolpiti in composizioni con modanature iscritte che in molti casi consentivano di comprenderne protagonisti e svolgimenti: a Sanchi e Amravati, soprattutto, i cicli in rilievo restituivano un 48 Il Buddha di Ajanta susseguirsi di scene dal significato compiuto, ma con tutti i limiti imposti dalla minore possibilità, offerta dal rigido supporto roccioso, di definire i particolari con lo scalpello. Le figurazioni di Ajanta, tracciate con pennelli e colori sulla superficie lisciata dell’intonaco, aprono nuovi orizzonti alla vena immaginaria degli artisti, che riempiono letteralmente tutti gli spazi sulle pareti, sui soffitti, sui pilastri. La flessibilità connaturata all’uso del pennello consente nuove maniere per tracciare il susseguirsi dei singoli eventi nelle storie e di ripartirli con ricchi e involuti motivi architettonici e floreali; di distribuirli spazialmente e di metterli in relazione temporalmente con il ricorso a semplici accorgimenti formali; di impreziosirli di infiniti particolari. Lo squisito gusto della policromia, il senso per il modellato formale e la maestria nell’uso del pennello fanno ribaltare nelle figurazioni una temperie di sollecitazioni di immediatezza e sottolineano i contenuti spesso drammatici degli avvenimenti illustrati. Ciò coinvolge direttamente i visitatori, fino a renderli partecipi e a far sentire sempre meno la necessità delle iscrizioni esplicative, il cui 50 uso viene conservato soltanto nei casi dei temi poco comuni, i cui protagonisti sono difficilmente identificabili. La rappresentazione evidenzia forme di accentuato realismo e riveste perciò una grande importanza anche ai fini della documentazione sui costumi dell’India contemporanea. Le pareti delle grotte si popolano infatti di moltitudini di città e villaggi con uomini, donne e bambini, ciascuno intento alle proprie attività quotidiane; di umanità, in definitiva, totalmente immersa nel mondo della natura. Le acconciature e gli abbigliamenti che rivestono i personaggi della fase Hinayana ad Ajanta, ad esempio, trovano diretti confronti con quelli delle figure scolpite nella fase più antica dei siti buddhisti di Sanchi e Bharhut, confermandone la datazione agli ultimi due secoli a.C. Gli chaitays 9 e 10, con le loro figurazioni più antiche, costituiscono la maturazione dell’esperienza artistica della fase Hinayana. Molti dei loro soggetti sono ancora privi di identificazione e alcuni di loro, con tutta probabilità, si rifanno alla consolidata tradizione della rappresentazione del Buddha attraverso elementi simbolici, come ad esempio il canonico stupa nella figurazione del banchetto reale. La seconda fase di Ajanta, con ventiquattro nuove grotte, di cui alcuni chaityas e numerosi viharas, consente agli artisti di arricchire a dismisura il patrimonio iconografico delle scene figurate, che vedono moltiplicarsi la trasposizione degli Jatakas. Nel vihara 17 si rappresentano tra tanti altri il Visvantara, l’Hamsa, il Simhala, il Sibi; nel vihara 1 il Sankhapala e il Champeyya; nel vihara 2 il Vidhurapandita. Naturalmente il soggetto largamente dominante è sempre il Buddha: viene di preferenza raffigurato mentre predica ai principi e ai discepoli; oppure mentre predica a sua madre nel cielo di Tushita; o nella sua discesa sulla Terra; nelle sembianze di Manushi; e, soprattutto, nella sua Prima Predica, che costituisce probabilmente il tema di più largo favore popolare; e poi, ancora, seduto su un loto dischiuso; oppure promanante fiamme dall’aureola che lo circonda, secondo una tradizione che vuole attestato il Maestro come Pilastro di Fuoco, già in antico ad Amravati e nel Gandhara, quale simbolo di suprema conoscenza e di luce spirituale frutto della sconfitta del buio dell’ignoranza da parte della fiamma splendente. Il progressivo affermarsi dei canoni estetici introdotti nelle arti figurative dalla “scuola” Mahayana, come già nella scultura, arricchisce l’iconografia buddhista grazie alla fantasia degli artisti, che si lasciano condurre dalla mano. Prende forma così tutto l’universo popolato di esseri semidivini: dai Naghas, i serpentire delle acque, agli Yakshas, Sovrani dei Quattro Punti Cardinali dal portamento regale; sono posti, divinità guardiane, sui montanti delle porte d’ingresso dei viharas e dei sancta. E poi i Kinnaras, divinità celesti con busto umano e corpo di uccello; e poi i Gandharvas, le Apsaras e i Vidyadharas, musicanti celesti, spesso con le loro donne, che si librano fra le nuvole negli spazi aerei del “Paradiso”; e i Mithunas, coppie di amanti dal buon auspicio. E poi, ancora, motivi geometrici e floreali e i fregi sul 51 A fronte: Visvantara Jataka; il principe e sua moglie Madri, esiliati, lasciano la città di Jetuttara. In alto: Particolare della decorazione scultorea della porta di accesso alla camera centrale della “Grotta”. Il Buddha di Ajanta mondo animale: essi costituiscono motivi ricorrenti nella decorazione dei soffitti, dei medaglioni e degli angoli. I soffitti piani dei viharas – che richiamano con le loro partizioni le strutture a cassettone delle coeve costruzioni lignee adibite a monasteri – presentano spesso decorazioni di motivi geometrico-floreali simili a quelli diffusi anche in altre aree dell’Asia orientale: è questo, ad esempio, il caso dei fiori di loto racchiusi in quadrati incrociati, presenti ad Ajanta ma anche nella Cina centro-settentrionale, con Ghandharvas e Apsaras negli angoli. I dipinti della seconda fase di Ajanta, al loro apogeo, costituiscono la più splendida fioritura formale dell’arte figurativa buddhista; ne rappresentano l’ultima testimonianza della semplicità dottrinale, che ne è la fonte ispiratrice prima dell’affievolirsi della sua fresca vitalità, spenta dal sopravanzare delle influenze Hindu e dall’affermarsi di un “ordine religioso” progressivamente gerarchizzato al proprio interno. L’inaridimento delle capacità creative che ne segue porta man mano a una costante sostituzione delle scene narrative con ripetitive e formalistiche rappresentazioni della figura del Buddha, sempre più spesso donate da monaci per acquisire meriti religiosi: emblematica, a tal riguardo, l’iscrizione che nel vihara 2 ricorda la donazione di Mille Buddha. Più figure vengono spesso dipinte negli spazi vuoti delle grotte già in uso, ivi comprese quelle più antiche di prima 52 fase e nelle quali il Maestro era rappresentato per mezzo dei suoi simboli tradizionali. Le tecniche di esecuzione e gli stilemi formali propri dei dipinti della seconda fase di Ajanta delineano una cornice storicoartistica che risponde appieno alle prescrizioni del trattato di pittura noto come Vishnudharmottara Purana. Già fondato su basi di tradizioni orali, diviene, probabilmente tra la seconda metà del IV e il secolo VII d.C., uno dei più antichi grandi “manuali” di tecnica pittorica. Caratterizzato da un’estrema chiarezza e da una solida conoscenza della materia, esso contiene una enorme quantità di indicazioni di dettaglio sui metodi di raffigurazione dei diversi tipi di persone, animali, paesaggi; sui diversi modi di conferire tonalità e sfumature cromatiche; sui diversi modi di preparare e di usare i pigmenti; sulle diverse misure nel rendere i rapporti intercorrenti tra le diverse parti del corpo. Gli artisti creano, dunque, sulla scorta di una sapienza consolidata, tesa a dare per scontato che il pittore abbia familiarità anche con altre arti come la danza, la scultura, la musica. Nel trattato in sanscrito sul teatro e sulla danza tramandato come Natyashastra, composto probabilmente nel IV e V secolo d.C. e noto anche come quinto veda, il mitico saggio Bharata insegna che il pittore deve essere in grado di esprimere visivamente le diverse emozioni (Rasas): la bellezza (Sringara), lo stato d’animo (Hasya), il patos (Karuna), l’eroismo (Vira), 53 A fronte: Particolare della decorazione del soffitto nel portico, con il grande medaglione centrale e i motivi geometrico-floreali inquadrati nello pseudo-cassettonato. In basso: La porta d’ingresso al vihara; in alto il doppio fregio con il Bodhisattva Manushi e il Bodhisattva Maitreya; al di sotto, otto copie di Mithunas, gli amanti. Il Buddha di Ajanta la collera (Raudra), la paura (Bhayanaka), il disgusto (Vibhatsa), la meraviglia (Adbhuta), la serenità (Santa). Gli artisti di Ajanta sembrano muoversi in coerente sintonia con i precetti indicati dai trattati nel raffigurare i protagonisti delle storie dipinte, da cui traspaiono con chiarezza sentimenti e stati d’animo particolari. Eppure, nonostante la evidente ricerca del perfezionismo formale, tutto sembra volto soprattutto a esaltare il senso di devozione verso la divinità. Il pittore di Ajanta non rappresenta soltanto, nelle sue figure, il mondo della fisicità; egli guarda all’umanità, che crea con le sue mani, come se guardasse all’interno del proprio spirito di devoto ed è la sua devozione che prende corpo nella sua opera. Si è scritto che il pittore indiano è come uno yogi perduto nella sua arte. Egli crea i suoi capolavori non con l’intento di affermare la propria personalità o di conseguire onori personali o di fama; ma annullando se stesso e prendendo il suo più grande piacere nell’offrire la sua arte a Dio. In tal senso la pittura di Ajanta è l’arte dell’India; ed è tanto forte e originale che la sua fonte di ispirazione, con i suoi caratteri formali, si irradia lontano trasmettendo il messaggio figurativo del Buddha fino alle grotte afghane di Bamyan in Occidente, ai monasteri che punteggiano la Via della Seta 54 nell’Oriente centro-asiatico e in Cina, fino alla penisola di Corea e al Giappone. La pittura di Ajanta, con le sue tecniche esecutive, i suoi repertori figurati e i suoi intenti illustrativi e didascalici, raggiunge una delle sue più compiute esemplificazioni quasi al centro della gola, dove è scavato il vihara 17, a pianta quadrangolare con orientamento SE-NO. Un portico trasversale (m 19,50 x 3), su ciascuno dei cui lati brevi si apre una cella, introduce a una sala centrale quadrata con venti colonne (sei per ciascuna delle pareti d’ingresso e di fondo, quattro su ciascuna delle due pareti laterali) che delimitano un corridoio lungo tre dei cui quattro lati si aprono sedici celle (sei su ciascuna delle due pareti laterali, quattro su quella di fondo). Al centro della parete di fondo, un’apertura fra due colonne collega la grande sala a un’anticamera che porta al Sanctum. Questo è di pianta quadrangolare, di quasi sei metri per lato, e contiene all’interno una colossale statua del Buddha in atto di insegnare, fra i Bodhisattvas Padmapani e Vajrapani, distaccata dalle pareti per poter consentire la rituale Pradaksina. I suoi apparati iconografici sono fra i più ricchi dell’intero complesso rupestre. Il portico presenta decorazioni dipinte sul soffitto con motivi floreali e geometrici inquadrati da elementi che riproducono il sistema a travature delle coperture lignee. Lungo le pareti, procedendo da sinistra verso destra, scorrono le figurazioni del Buddha e degli Jatakas, aperte dal Visvantara Jataka, nel quale si narra del Bodhisattva, nato – per l’ultima volta prima di raggiungere l’illuminazione e di divenire il Buddha – principe Visvantara, nella città di Jetuttara, dal re Sanjaya e dalla regina Phusati. Le scene si ispirano alla grande generosità che lo portava a donare tutti i suoi averi ai bisognosi, tanto da privarsi per il vicino regno di Kalinga, colpito da una grave siccità, di un prezioso e magico elefante pieno dell’acqua del proprio regno; e fino a incorrere, per questo, nell’ira e nelle minacce di ribellione degli abitanti di Jetuttara e nel bando dalla città. Le figurazioni ritraggono il principe nell’atto della partenza, con la moglie Madri e i figli Jali e Kanhajna, mentre distribuisce elemosine ai mendicanti sotto gli occhi della coppia reale che osserva da una finestra del palazzo. Proseguono con l’illustrazione del tentativo di corromperne l’animo da parte del crudele Brahmino Jujuka, inviato maliziosamente dagli dei sotto le false spoglie di un uomo vecchio e debole per chiedere qualcosa con cui alleviare il suo stato. E ricordano come il principe, commosso, gli donasse i suoi stessi figli; come il perfido li picchiasse e li maltrattasse per quattordici giorni prima di giungere a Jetuttara, e il loro riconoscimento alla presenza del re, e la gioia di questi; il riscatto pagato per ottenerne il rilascio e il rimorso suo e della città; il ritorno di Visvantara e Madri tra grandi festeggiamenti, allietati dalla discesa dalle nuvole della divinità vedica Indra tra i musicanti celesti Apsaras. A seguire, in alto, un fregio con sette Buddha Manushi – il corpo umano del Maestro – e con il Bodhisattva Maitreya – il 55 A fronte: L’interno della camera centrale, sul cui fondo si apre la porta d’accesso al Sanctum con la statua del Buddha. In basso: Particolare della decorazione a motivi floreali di una delle colonne esagonali che delimitano la sala centrale. Il Buddha di Ajanta In basso: Veduta dell’insieme della decorazione pittorica della parete di fondo della camera centrale. A fronte, in alto: Shaddanta Jataka; particolare della presentazione delle zanne eburnee del Bodhisattva Shaddanta, nato re-elefante, alla regina di Benaras. prossimo Buddha – e, al di sotto del fregio, otto coppie di amanti (Mithunas). Subito dopo, un gruppo di splendide figure di Gandharvas e di Apsaras riccamente ingioiellate – secondo le canoniche indicazioni del Vishnudarmottara – precede l’illustrazione della storia nella quale si narra di come Devhadatta – l’invidioso cugino del Buddha – e Ajatashatru – re di Rajagraha –, complottando per attentare alla vita del Buddha, imbottissero di liquore il feroce elefante Nalagiri e lo scatenassero nelle strade della città al momento del passaggio del Maestro. Le figurazioni illustrano i due cospiratori su un balcone del palazzo; le devastazioni apportate dall’elefante lungo il suo cammino; il miracolo compiuto dal Buddha con il semplice sollevare la mano dinanzi al pachiderma furioso; la sottomissione di questo, inginocchiato e reso mansueto da una carezza, sotto gli occhi degli abitanti affacciati ai balconi. Dopo alcune figurazioni nelle quali si susseguono il Bodhisattva Avalokitesvara – o della Compassione e dalle mille braccia –, uno Yaksha con servitore e una scena di caccia, segue la rappresentazione, unica nel suo genere ad Ajanta, della Ruota dell’esistenza (Samsarachakra), eccezionale documento di natura “dottrinale”. Sorretta da due gigantesche mani, era originariamente suddivisa al proprio interno in otto sezioni, in buona parte perdute. Vi sono illustrate le multiformi attività della vita quotidiana: giardini, mercati, il laboratorio di un vasaio, appartamenti regali e la baracca lignea di un povero, scimmie ed elefanti. Il tutto con il chiaro intento di illustrare, attraverso simbolismi, l’infinità degli stati nei quali gli esseri viventi sono posti in conseguenza delle loro azioni passate. Una donna con bambino e un Buddha in preghiera chiudono le scene figurate dell’ambiente esterno. Nell’interno della sala centrale e del corridoio laterale che la racchiude i soffitti ripetono 56 i motivi decorativi di genere presenti su quello del portico. Lungo le pareti laterali si sviluppa una lunga serie di Jatakas, da sinistra verso destra, che si aprono con lo Shaddanta Jataka, nel quale si narra del Bodhisattva re-elefante Shaddanta, il grande elefante bianco dalle sei zanne, fonti di raggi di luce di differenti colori, capo di un branco di ottantamila pachidermi sulle rive di un lago nella regione himalayana, e delle sue mogli Mahasubhadda e Cullasubhadda; di come un giorno, attraversando un bosco, recasse inavvertitamente offesa alla moglie più giovane, scrollando un ramo da un albero e coprendo con i suoi splendidi fiori Mahasubhadda e offrendole, per di più, un grande fiore di loto a sette germogli; e del rancore di Cullasubhadda e della sua preghiera di poter rinascere come regina di Benaras per poter così prendere la sua vendetta contro Shaddanta; e di come, esaudito il suo desiderio, ella si ammalasse e chiedesse al re suo marito di poter avere in dono le sei zanne di un grande elefante bianco delle lontane foreste himalayane; di come il cacciatore Sonuttara, incaricato della sua cattura, lo intrappolasse e gli scagliasse contro una freccia avvelenata, senza però riuscire a segare le sue splendide zanne; e di come Shaddanta, udito del desiderio della regina e sebbene molto sofferente, con la sua stessa proboscide si strappasse le zanne, raccolte dal cacciatore impressionato da tanta benevolenza e offerte poi alla regina; e di come questa, alla loro vista, ricordasse d’improvviso il magnifico elefante, suo marito nella precedente vita, e, presa dall’immenso dolore per averne provocato la morte, ne morisse a sua volta. Alcune figurazioni, a seguire, presentano ampie lacune. Dopo le parti conservate degli Jatakas del Mahakapi – o del Bodhisattva Grande Re Scimmia – e dello Hasti – o del nobile elefante –, sulla parete sinistra e sull’adiacente 57 Il Buddha di Ajanta In basso: Hamsa Jataka; il Bodhisattva Dhritarashtra, nato re Oca d’Oro, catturato e presentato alla corte di Benaras. A fronte: Hamsa Jataka; il re Samyama e la regina Khema, con i loro dignitari, ascoltano del coraggio di Dhritarashtra. pilastro scorrono le scene dello Hamsa Jataka. Vi si narra della sacra oca d’oro Dhritarashtra che viveva con il suo stormo sul monte Chitrakuta; di come la regina Khema di Benaras sognasse la predica di un’oca d’oro e pregasse il re di chiedere ai Brahmini di corte di trovare l’oca in modo da poter ascoltare la fine del sermone; di come il re, sentito del Bodhisattva oca, facesse costruire a Benaras un bellissimo lago artificiale coperto da loti multicolori per attirarvi Dhritarashtra e il suo stormo; di come l’oca d’oro, catturata, avvertisse lo stormo del pericolo e facesse fuggire tutte le sue compagne; di come il cacciatore riferisse al re della decisione del fedele Sumukha di non abbandonare Dhritarashtra e di come questa predicasse al re Samyama e alla regina Khema, colpiti da tanta fedeltà, sulla Legge del Dharma, la regola cosmica dell’Universo e degli Esseri viventi. La parete sinistra è completata da una replica del Visvantara Jataka, che si distingue dalla versione rappresentata nel portico soprattutto per la marcata caratterizzazione dei volti di alcuni personaggi. Nel successivo, il Kapi Jataka, si narra del re Brahmadutta di Benaras. Di come, recandosi nel bel giardino di Migacira, egli s’imbattesse in un Brahmino malato di lebbra e, avendogli chiesto le ragioni del suo sfortunato stato, si sentisse raccontare la storia delle avversità che lo avevano portato a una fine tanto miserevole; fin da quando, cogliendo frutti nella foresta ed essendo caduto in una profonda fossa, ne era stato salvato dal Bodhisattva scimmia, poi addormentatosi, stremato dallo sforzo per averlo trasportato sulla propria schiena; di come l’uomo, affamato, decidesse di uccidere con una pietra la scimmia; dell’ammonimento di questa, ferita e sanguinante, per la sua ingratitudine; della sua indicazione all’uomo per uscire dalla foresta e raggiungere un lago al quale dissetarsi; e di come l’uomo, non appena bevuta l’acqua, si ammalasse di peste e fosse scansato da tutti. A seguire, il Sutasoma Jataka, la cui versione tradizionale narrava del Bodhisattva Sutasoma, figlio del re di Indraprashta, dei suoi studi nella famosa scuola di Tkasila e della sua ascesa al trono, e del principe Saudasa, suo discepolo e poi re di Benaras; di come Saudasa, incapace di reprimere la sua voglia di carne umana, si cibasse dei suoi sudditi dopo averli uccisi e fosse per questo scacciato dai cittadini di Benaras in armi; di come, rifugiatosi nella foresta, egli prendesse come preda i viandanti e catturasse Sutasoma al bagno in un laghetto di loti; e di come il Bodhisattva lo inducesse a rinnegare il cannibalismo parlandogli della Legge del Dharma. Le raffigurazioni nel vihara 17 riportano una variante rispetto alla versione tradizionale; esse narrano di come una leonessa rimanesse pregna nel leccare i piedi del re di Benaras addormentatosi nella foresta, e della vita normale del figlio, generato come principe Saudasa, fino all’involontario assaggio di carne umana e al cannibalismo. Le scene mostrano la leonessa a corte per la rivelazione al re; il bagno rituale di Saudasa per 58 Il Buddha di Ajanta l’ascesa al trono; la cucina del palazzo e l’errore del cuoco nel servire al re carne umana; la battaglia in armi per scacciare dalla città il sovrano sul suo elegante cavallo. Nell’anticamera di passaggio al Sanctum segue poi una serie di scene “estemporanee”: da sinistra, è raffigurato il Buddha in atto di rispondere a sua moglie Yashodara e a suo figlio Rahula – dai cui volti traspaiono intense e realistiche emozioni – che rivendica la sua legittima eredità di figlio di principe, di possedere soltanto la sua ciotola per le elemosine; poi ancora il Buddha in atto di predicare nel paradiso di Tushita a sua madre Mahayama, morta sei anni dopo averlo generato; poi la discesa sulla terra del Buddha, preceduto da divinità ed esseri celesti; e l’omaggio che vengono a rendergli personaggi regali tra i quali è forse Bimbisara di Rajagraha, il suo primo storico “protettore”; poi l’assemblea degli asceti, “scettici” di fronte al miracolo di Shravasti, curiosamente e realisticamente raffigurati nella loro obesità. Dopo il Sarabha Jataka – o del Re-cacciatore –, scorrono le scene del Matriposhaka Jataka, che narra della devozione di un figlio verso la madre cieca. Vi si racconta del Bodhisattva, elefante bianco delle regioni himalayane e della sua amorevole cura per la madre cieca durante il regno di Brahmadutta di Benaras; di come il Bodhisattva, imbattutosi in un guardaboschi smarritosi nella foresta, lo accompagnasse fuori e di come questo, colpito dalla bellezza dell’elefante bianco e pensando che potesse essere gradito al re di Benaras, marcasse gli alberi lungo il percorso; di come apprendesse, giunto a Benaras, della morte dell’elefante reale e, volendo approfittare dell’occasione per ingraziarsi il re, ne guidasse gli uomini al monte Chadorana dal Bodhisattva, lasciatosi catturare senza resistenza per non ferire alcuno; di come il re facesse approntare una stalla speciale e invitasse l’elefante a mangiare cibi scelti, rifiutati per il dolore della lontananza della madre e, conosciuta la storia, liberasse l’elefante restituendolo alla madre cieca, ricevendone una invocazione di benedizione divina. Al successivo Matsya – o del Pesce – Jataka segue il Mahisha Jataka. Vi si narra di una scimmia impertinente; di come il Bodhisattva bufalo vivesse nelle regioni himalayane e fosse oggetto, 60 sempre sopportandole, delle molestie di una scimmia; di come un bufalo selvaggio si trovasse un giorno sotto l’albero usuale del Bodhisattva, fosse beffeggiato per errore dalla scimmia e, per questo, la calpestasse e la uccidesse malgrado le invocazioni di quella. A seguire, dopo il Syama – o della Pietà filiale –, il Simhala Jataka. Vi si narra di come nel regno di Simhakalpa, retto da re Simhakesri, vivessero il ricco mercante Simhaka con il coraggioso figlio Simhala; di come questi chiedesse a suo padre di poter fare un viaggio per mare con altri mercanti, ottenendone l’assenso pur dopo molti ammonimenti; del naufragio sull’isola Tamradvipa, abitata da orchesse cannibali sotto le spoglie di graziose donne; di come queste prima allettassero i mercanti con il loro fascino e poi, di notte, li divorassero; di come il Bodhisattva, nato magico cavallo bianco di nome Bahala, volando sull’isola, vedendo la triste situazione dei mercanti ed essendone mosso a compassione, riuscisse a salvare Simhala e altri duecentocinquanta avvinghiati l’uno agli altri. Vi si narra, ancora, di come nel frattempo un’orchessa si presentasse al cospetto di re Simhakesri conducendo un fanciullo e presentandolo come il figlio, abbandonatole, di Simhala; di come il re, interrogato Simhala, e nonostante avesse questi rivelato a suo padre la vera identità dell’orchessa, la introducesse comunque nel suo harem permettendole di far penetrare nel palazzo le sue compagne per uccidere tutti i suoi occupanti; di come il popolo offrisse il trono all’intrepido Simhala e di come questi sconfiggesse con il suo esercito in una grande battaglia le orchesse a Tamradvipa, poi ribattezzata Simhaladvipa. L’ottimo stato di conservazione del dipinto consente di apprezzarne la qualità di dettaglio: dalla scena di naufragio agli allettamenti fascinosi dei malefici esseri, alle loro arti di seduzione, alla trasformazione in orchesse, alla uccisione dei mercanti, al salvataggio da parte del Bodhisattva cavallo alla corte di Simhakesri, alla strage nell’harem, all’esercito vittorioso di Simhala sul suo cavallo bianco. Dopo una splendida figura femminile che si ammira allo specchio fra le sue serventi, segue il Sibi Jataka. Vi si narra del Bodhisattva re Sibi, sovrano della città di Aritthapura e osservante delle Dieci Virtù; della grande 61 A fronte: Matriposhaka Jataka; il Bodhisattva nato elefante bianco, dopo la cattura sul monte Chadorana, alla corte del re Brahmadutta di Benaras. In basso: Shaddanta Jataka; dalla scena dell’agguato al re-elefante, particolare con scimmia sotto un albero di palasa. Il Buddha di Ajanta generosità del re e della sua decisione di costruire sei grandi palazzi – uno per ciascuna delle porte di accesso alla città – per la distribuzione delle elemosine quotidiane; di come il re, tuttavia, non fosse soddisfatto e desiderasse donare qualcosa di ancor più importante, impegnandosi con ciò a donare i suoi stessi occhi; di come il Signore Indra, volendo mettere alla prova il re, gli si presentasse sotto le vesti di un vecchio Brahmino cieco e lo supplicasse di donargli uno dei suoi stessi occhi; di come il re decidesse di donarglieli entrambi, ordinando al suo servitore Sivaka di asportarli, suscitando il dolore del suo popolo con il suo sacrificio e abbandonando la città convinto della inutilità di un re cieco; di come il Signore Indra, colpito da un gesto tanto caritatevole, apparisse a Sibi, gli facesse dono di due occhi divini in grado di vedere oltre muri e colline e lo restituisse al suo trono, consentendogli di predicare al popolo la Legge dell’Autosacrificio. Nel successivo Mriga Jataka si narra la storia del cervo d’oro; di come il Buddha vivesse, in una delle sue precedenti nascite, come cervo dal pelo dorato e dalla voce melodiosa in una foresta; di come un giorno si gettasse a nuoto in un fiume per salvare un uomo che vi era caduto e lo ponesse sulla via per Benaras, raccomandandogli di non rivelare mai la sua esistenza e di non guidare nessuno nella foresta; di come l’uomo, giunto in città, udisse di una ricompensa promessa dal re a chiunque gli facesse avere notizie di un cervo dorato apparso in sogno alla regina Khema facendo nascere in lei il desiderio di averlo con sé e, spinto dall’avidità, guidasse il re nella foresta facendo catturare il cervo dai suoi cacciatori; di come il re fosse incantato dalla stupenda voce del cervo e fosse preso da collera nell’apprendere del tradimento dell’uomo al punto da volerlo mettere a morte; e di come il cervo d’oro, chiesto e ottenuto il perdono per l’uomo, venisse condotto con grandi onori a Benaras e qui predicasse alla regina Khema e alla corte sulla Legge del Dharma. Il Nigrodhamiga Jataka – o della Monaca e del principe Kassapa – chiude gli splendidi cicli figurati del vihara 17, che unitamente al 16 può ben essere considerato la perla più preziosa dello scrigno di Ajanta e che è donato, come si attesta in una sua iscrizione, da Upendragupta, feudatario di Harisena, nel terzo quarto del secolo V d.C. In un momento, dunque, che precede di poco più di un secolo l’abbandono, da parte dei monaci buddhisti, dell’insediamento monastico; e di poco meno di due secoli Particolare della scena con la grande rappresentazione della Ruota dell’Esistenza (Samsarachakra). 62 la menzione dell’esistenza del complesso rupestre fatta da parte di Hiuen Tsang, noto viaggiatore cinese vissuto nella prima metà del VII secolo d.C. e autore dunque della più antica notizia tramandata dalle fonti letterarie sull’esistenza del sito di Ajanta. Nella parte orientale del Maharashtra – egli scrive – si susseguiva una serie di catene montuose; qui era un monastero, elevato su un’orrida gola, i cui ambienti erano cavati nella roccia su più terrazzamenti affacciati verso il burrone. Il monastero era stato costruito da A-Che-Lo dell’India Occidentale. Dopo Hiuen, il silenzio e l’oblio sembrano avvolgere le balze incantate del Buddha di Ajanta. Dovranno trascorrere oltre milleduecento anni fino a quando, il 28 aprile 1819, la pace “divina” è rotta dal risuonare dei secchi richiami nella lingua mai udita prima del capitano John Smith e di alcuni altri ufficiali della guarnigione di cavalleria inglese di Chennai che, tutti presi in una battuta di caccia, si spingono sulla gola del Waghora. Inizia così l’avventura moderna dei dipinti e così prende avvio una lunga serie di azioni volte a documentare le scene raffigurate nelle pitture e a studiarne i contenuti, anche se all’inizio la “scoperta” non sembra suscitare particolare interesse: è solo un quarto di secolo più tardi, infatti, che dopo alcune visite rese ancora da ufficiali dell’esercito, James Fergusson fornisce la prima notizia “erudita”dell’esistenza delle grotte in un rapporto alla Società Reale Asiatica di Gran Bretagna e Irlanda. Sulla scia di tale rapporto la Compagnia delle Indie Orientali richiede alle 63 Il Buddha di Ajanta Autorità locali di far eseguire, da parte di ufficiali, copie delle pitture murali e di fare in modo da preservarle dalla rovina. Del lavoro di copiatura viene incaricato il maggiore Robert Gill, anch’egli della guarnigione di Chennai, che attende dal 1849 al 1855 all’esecuzione di una trentina di dipinti a olio purtroppo in gran parte distrutti, nel 1866, dall’incendio del Palazzo del Tribunale Indiano a Sydenham, dove erano custoditi. Ancora su impulso di Fergusson, le Autorità di Mumbai chiedono a John Griffiths, Preside della Scuola d’Arte della città, di documentare i dipinti: egli, utilizzando un buon numero di allievi, dirige personalmente l’esecuzione di copie colorate delle decorazioni delle grotte quasi ininterrottamente dal 1872 al 1885. In quest’anno, sfortunatamente, molte delle copie vengono distrutte nell’incendio del Museo Indiano di South Kensington. Nel 1896, a seguito della pubblicazione, in due volumi, di centocinquantanove tavole delle copie salvate dal fuoco, il mondo degli studiosi d’arte può finalmente conoscere e apprezzare l’importanza dei dipinti di Ajanta. Nel frattempo James Fergusson e James Burgess – del Servizio Archeologico dell’India –, a partire dal 1871, prendono a studiare le grotte, a tradurre le iscrizioni murali e a collocarle nel processo cronologico dell’arte indiana e della storia dell’India. E, da ultimo, a tentare di dare un’identità – ma con risultati assai limitati – ai soggetti raffigurati nelle sculture e nei dipinti. Nel 1895 S.F. Oldenburg, leggendo i testi scritti di Burgess, riconosce i contenuti di otto Jatakas. H. Luders, nel 1902, studiando le riproduzioni dei dipinti, riconosce due Jatakas nella versione tramandata come Jataka Mala di Aryasura. Dal 1909 al 1911, in due distinte campagne, Lady C. Herringham, con l’aiuto di Syed Ahmad e Muhammad Fazhud-Din di Hyderabad, di Asit Kman Holdar e Samarendranath Gupta di Kolkata, di Nandalal Bose del Distretto di Moonghyr e dell’inglese Dorothy M. Larcher, esegue copie di alcuni dipinti, cinquantacinque delle quali (diciassette a colori e le rimanenti 64 in monocromia) vengono pubblicate nel 1915 dalla India Society. Nel 1911 Victor Goloubew esegue una campagna fotografica in bianco e nero delle pitture; settantuno di queste fotografie – tutte del vihara 1 – verranno pubblicate nel 1927. Nel 1915 l’Archaeological Department di Hyderabad incarica Syed Ahmad (già partecipe alle campagne di rilievo con Lady C. Herringham) di procedere alla esecuzione, per più anni, di una nuova campagna di riproduzione dei dipinti, che vengono esposti nell’Ajanta Pavilion dei Giardini Pubblici di Hyderabad. Nel 1919 Alfred Foucher avvia i suoi studi sugli apparati iconografici, che portano alla identificazione della grandissima parte dei soggetti raffigurati nelle scene. Nel 1920 e nel 1922, anche al fine di fare eseguire una campagna fotografica a colori, il medesimo Department incarica il restauratore italiano Lorenzo Cecconi e il suo assistente conte Orsini di procedere, in due riprese, a rendere meglio leggibili le figurazioni attraverso la rimozione delle incrostazioni di polveri, sporcizia e di strati di lacca applicati nel secolo precedente a scopo protettivo. La loro opera consente a E.L. Vassey di riuscire, nel corso di cinque mesi, a realizzare una completa documentazione fotografica degli apparati dipinti, sulla cui base Ghulam Yazdani pubblica le quattro parti (1930, 1933, 1946, 1955) del suo monumentale lavoro su Ajanta, con settantasette tavole a colori, cinquantacinque con disegni in rosso e duecentosettantatré in monocromia. Intanto, nel mentre promuove le attività di documentazione anche con l’uso delle tecnologie più moderne, nel 1951 il Parlamento indiano proclama le Grotte di Ajanta monumento di interesse nazionale e, nel 1953, affida la cura diretta della loro tutela all’Archaeological Survey of India. Nel 1955, a seguito di un apposito accordo stipulato fra il Governo indiano e l’UNESCO, David L. De Harport e due fotografi dell’Archaeological Survey eseguono, in sei mesi, cinquecentottanta diapositive e seicentodiciassette fotografie in bianco e nero, segnando un 65 A fronte: Particolare dallo Hasti Jataka. In basso: Visvantara Jataka; la contrizione degli abitanti di Jetuttara che assistono alla partenza del principe e della sua consorte dalla città. Il Buddha di Ajanta momento fondamentale nella storia della documentazione dei dipinti. Nel 1983, infine, le Grotte di Ajanta sono iscritte nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità: viene così pienamente suggellata la loro rilevanza nella storia dell’arte universale. Dopo la “riscoperta” delle grotte, naturalmente, il Governo dell’India non si è limitato ad attivare iniziative di sola documentazione delle figurazioni. Sforzi imponenti sono stati compiuti dalle Autorità indiane anche per la loro conservazione dal momento che, purtroppo, il trascorrere dei millenni non ha lasciato indenni gli splendidi apparati decorativi di Ajanta. Il quadro degli studi compiuti a partire dall’inizio del secolo XX, e intensificati con l’avvento della Repubblica, consente oggi di conoscere analiticamente i complessi processi di deterioramento di cui i dipinti sono stati oggetto e di attribuirne l’origine sia a pur limitati fenomeni di natura meccanica sia, soprattutto, ad alterazioni di natura biologica e chimica; e di riferire i primi, comunque, a fattori ambientali e climatici. Gli studi consentono anche di poter affermare che, pur essendo le grotte sufficientemente protette rispetto all’azione disgregatrice propria dei comuni agenti atmosferici, la bassa porosità e la ridotta permeabilità del masso basaltico non risultano aver impedito del tutto all’acqua piovana di ricavarsi vie di penetrazione all’interno degli ambienti attraverso fessurazioni, crepe e alveolizzazioni da inclusi nella roccia. Nonostante ciò, anche se il dilavamento delle acque ha contribuito a creare le condizioni per l’aggravamento o per l’attivazione di fenomeni di deterioramento, il supporto roccioso non sembra evidenziare tracce diffuse di efflorescenze saline sulle superfici dipinte. In buona sostanza, il supporto sembra presentarsi compatto, solido e stabile e la sua aderenza all’intonaco è generalmente salda, 66 a eccezione di alcune limitate zone dove si presentano fenomeni di distacco. Gli studi fanno emergere molteplici cause di deterioramento esogeno. Tra le più significative sono da evidenziarsi quelle ascrivibili agli effetti delle brusche variazioni di temperatura e di umidità; quelle dovute alle reazioni attivate dagli inquinanti atmosferici; quelle derivanti dall’accumulo di polveri, sporco, escrementi di uccelli e di pipistrelli, depositi catramosi; quelle prodotte dalla nidificazione degli insetti e dalla loro attività; quelle conseguenti alle colonizzazioni microbiche; quelle prodotte dal ristagno di chiazze d’acqua, dalle infiltrazioni di umidità e dallo sviluppo, seppur localizzato, di muffe; quelle conseguenti alla combustione dei fuochi e delle lampade a olio usate in passato all’interno degli ambienti; quelle conseguenti alla presenza e all’azione dell’uomo. Inoltre, a causa dell’indurimento delle polveri e dello sporco depositatisi sulle superfici e alla conseguente formazione di uno strato opaco e semitrasparente, l’accumulo di fumo e catrame risulta aver provocato la creazione di una patina di fuliggine e di una mistura catramosa, grassa e oleosa. Le principali cause di deterioramento endogeno risultano essere, invece, quelle da riportare alle conseguenze attivate dal degrado dei leganti e dalle alterazioni chimiche dei pigmenti; quelle ascrivibili alla debolezza intrinseca dell’intonaco, ai suoi movimenti e ai suoi rigonfiamenti; quelle originate dalla formazione di goccioline di condensa provocate dalle brusche variazioni di umidità e temperatura e favorite dalla crescita localizzata di muffe e dal moltiplicarsi dei nidi di insetti; quelle relative al sempre più marcato fenomeno della esfoliazione della pellicola pittorica, conseguente alla prolungata disidratazione e alla combinazione di umidità e infestazione di insetti, per la quale il legante presente originariamente nei pigmenti 67 Veduta dell’insieme della decorazione della parete sinistra della camera centrale. Il Buddha di Ajanta risulta aver progressivamente perduto la sua capacità fissativa. A fronte dell’assommarsi di tutti questi fattori di degrado dei dipinti, il problema della loro conservazione mostra di essere stato tempestivamente fronteggiato, nel corso della seconda metà del ’900, dalle Autorità indiane. Il prologo alle attività sistematiche di conservazione, negli anni 1920 e 1922, segue alla prima decisione del Governo di Hyderabad di mettere in campo interventi sullo chaitya 10 e sui viharas 1, 2, 16 e 17, avvalendosi dell’opera di Lorenzo Cecconi e del conte Orsini. Le due campagne di Cecconi e Orsini, la cui esperienza viene poi raccolta dagli esperti del Dipartimento Archeologico di Hyderabad, si pongono l’obiettivo prioritario di contrastare l’indebolimento della pellicola pittorica attraverso una tecnica basata sull’uso diffuso di gommalacca sciolta in alcol e di colla con trementina; sull’applicazione di colla molto diluita nelle zone di esfoliazione dello strato pittorico; sul trattamento finale con delicate pressioni superficiali a spazzola per consentire la riadesione del pigmento all’intonaco. La tecnica utilizzata da Cecconi per le successive operazioni di rimozione delle vecchie lacche scurite comporta l’uso di alcol puro o diluito in trementina; e, all’occorrenza, di poche gocce di acido cloridrico nonché, a titolo assolutamente sperimentale, di ammoniaca; mentre, nelle zone caratterizzate da sollevamenti, risponde con l’esecuzione di iniezioni di calce di caseina in presenza di spessori di ridotte entità o di riempiture con gesso di Parigi, calce e pozzolana fine in presenza di spessori maggiori. Comporta poi l’utilizzo di chiodini per fissare le parti pericolanti, al fine di assicurare un supporto più stabile alla rinzaffatura fatta con intonaco a grana grossa; il rinforzo della rinzaffatura per mezzo di strisce superficiali adesive di lino con una soluzione di gelatina calda e la loro rimozione con acqua calda a fissaggio ottenuto; la stesura diffusa di un protettivo a base di lacca diluita in alcol. L’esecuzione di tali interventi, volti nelle intenzioni dei promotori a impedire l’insorgere di nuovi processi di deterioramento almeno per un secolo, non riesce però a rispondere alle aspettative. Infatti, quando un quarto di secolo più tardi l’Archaeological Survey of India assume direttamente la responsabilità del sito di Ajanta, i fenomeni di degrado mostrano di avere ripreso a dispiegare per intero i propri effetti, a causa soprattutto della presenza di infiltrazioni delle acque meteoriche, del verificarsi diffuso di distacchi dell’intonaco, della disidratazione e della tendenza alla esfoliazione dello strato dei pigmenti. Oltre a ciò si manifesta anche un marcato processo di ossidazione della pellicola di gommalacca, con effetti di alterazione della tonalità cromatica. Per far fronte a tale situazione, nel 1949, una Commissione speciale, presieduta da Ghulan Yazdani e incaricata dal Governo di Hyderabad di studiare la questione della conservazione delle Grotte di Ajanta e di Ellora, elabora una serie di raccomandazioni sulla conservazione strutturale dei monumenti rupestri. A livello operativo, la risposta dell’Archaeological Survey si 68 concretizza nella messa in cantiere di un piano, a iniziare dai viharas 16 e 17, finalizzato al consolidamento degli intonaci e al miglioramento del loro ancoraggio al supporto roccioso. Il piano prevede anche il fissaggio della pellicola pittorica, in presenza di perdite o di aderenza, attraverso impregnazioni superficiali con un fissante trasparente. Le operazioni di consolidamento vengono compiute con la saturazione dei vuoti mediante l’utilizzo di una appropriata miscela con l’aggiunta di sabbia fine iniettata con siringhe ipodermiche o, in alcuni casi, di gesso di Parigi. Successivamente al consolidamento e al fissaggio, le fasi esecutive del piano si attuano attraverso la rimozione meccanica dalla superficie pittorica delle concrezioni di polveri, sporco e ragnatele per mezzo di spazzole di piuma o pelo di cammello. Il piano affronta poi il problema della rimozione chimica dei depositi di catrame, grassi e fumo, attraverso l’utilizzo di idonee quantità di reagenti, solventi e detergenti a base di alcol, nafta e trementina. Il piano affronta inoltre il problema – di difficile soluzione anche a causa della mancanza di esperienze condotte su monumenti di primaria importanza – della rimozione della gommalacca attraverso la sperimentazione di diversi solventi organici, miscelati in proporzioni differenti. La sperimentazione in corso d’opera, volta a individuare le miscele di solventi più idonee a 69 A fronte: Simhala Jataka; particolare con scena di seduzione di un mercante da parte di un’orchessa. In basso: Particolare della parete destra della camera principale, con scene dal Sibi Jataka. Il Buddha di Ajanta rimuovere le resine naturali senza dar luogo a fenomeni di sbiancamento e senza sottoporre i pigmenti ai rischi propri di stress locali, si basa su una mirata selezione della combinazione delle proprietà fisico-chimiche dei differenti solventi in rapporto alle specifiche condizioni delle zone di intervento, senza procedere con metodologie e miscele generalizzate: se ne eliminano così alcuni mentre se ne aggiungono altri in presenza di concrezioni grasse e si varia la proporzione dei diversi reagenti in ragione dei diversi stati di conservazione dei dipinti. Naturalmente l’applicazione dei solventi, al fine di evitare ogni contatto diretto con la delicata pellicola pittorica, è eseguita mediante l’uso di carta filtrante e solo in casi eccezionali vi accompagna l’uso di morbide spazzole di pelo di cammello o di batuffoli di cotone; evitando comunque, nella maniera più assoluta, interventi di raschiatura a secco. Il piano comporta inoltre, dopo la sperimentazione su zone campione, l’applicazione di protettivi chimici sulla superficie della pellicola pittorica; che viene attuata, sempre sperimentalmente, in zone limitate; e tenendo ben presente la necessità di utilizzare prodotti idonei a non attrarre polveri e in grado, a fronte delle condizioni climatico-tropicali di alta temperatura e di alta umidità presenti ad Ajanta, di conservare dopo l’esposizione all’aria una facile solubilità in solventi di natura organica; e tenendo ancora ben presenti le necessità di utilizzare prodotti, pur non ingiallenti, capaci di idonee resistenze alle condizioni climatico-ambientali del luogo. Il piano, infine, prevede un intervento di ritocco pittorico sulle lacune mediante l’utilizzo di una tinta neutra. Ogni fase di attuazione degli interventi viene documentata con campagne fotografiche eseguite sia in bianco e nero che a colori. Viene inoltre eseguita una analitica documentazione fotografica all’ultravioletto e all’infrarosso: ciò sia per “fissare” le condizioni dei dipinti; sia per evidenziare particolari invisibili – restauri precedenti e sopradipinture – ai comuni mezzi di ripresa, sia per una più specifica lettura degli strati del pigmento ai fini dell’analisi e dello studio dei fattori di degrado. Parallelamente all’attuazione del piano, e nella cornice della sempre più compiuta attenzione prestata alla conservazione del sito di Ajanta, l’Archaeological Survey decide di far procedere gli studi delle tecniche di analisi e di intervento sui dipinti murali nel quadro di più stretta sintonia con le attività condotte, in materia, a livello internazionale. In particolare, viene posta in essere una iniziativa sinergica tra le esperienze di conservazione sui dipinti murali maturate in India dagli esperti indiani e quelle maturate in Italia, nei Balcani, in Medio Oriente e in Asia Orientale dagli esperti italiani. A tal fine, dopo un’apposita intesa tra il Ministro della Cultura Jaipayal Reddy e il Ministro per i Beni Culturali Giuliano Urbani, 70 nel gennaio 2005 un gruppo di tecnici italiani guidato da Giuseppe Proietti, Capo Dipartimento per la Ricerca, con Caterina Bon Valsassina, Direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, le restauratrici Annamaria Marcone e Francesca Capanna, la chimica Annamaria Giovagnoli e il fotografo Edoardo Loliva, tutti dell’Istituto, si incontra a Delhi con i responsabili del Survey. Qui, insieme con il Direttore generale del Survey C. Babu Raieev, con il Direttore generale aggiunto C. Mirsa, con il Vice Direttore generale R.K. Sharma, con il Direttore per gli Scavi e i Musei R.C. Agrawal, con il Direttore G.C. Chauley e con il Soprintendente archeologo ingegner M.M. Kanade, vengono delineati i principali problemi di conservazione che caratterizzano i monumenti rupestri e i loro apparati pittorici. Il gruppo italiano raggiunge poi Ajanta, dove insieme al Soprintendente archeologo del Distretto di Aurangabad Dr. R. Krisnaiah e al Responsabile del Laboratorio chimico del Sito M. Singh, si procede a effettuare tutta una serie di sopralluoghi diretti sui dipinti murali del vihara 17, che per la rilevanza degli apparati decorativi e la multiformità degli aspetti di degrado viene individuato come l’oggetto della cooperazione specialistica bilaterale. Si studiano con gli esperti indiani le condizioni dei dipinti; si confrontano le metodologie conservative utilizzate; si verificano sul campo le operazioni da impostare e si iniziano a pianificare le campagne volte a individuare i passaggi tecnici indispensabili per elaborare un progetto esecutivo 71 A fronte: Simhala Jataka; irruzione delle orchesse nell’harem della reggia di Simhakesri. In basso: Simhala Jataka; particolare con dignitari alla corte del re Simhakesri. Il Buddha di Ajanta dell’intervento di conservazione del vihara. Dopo la prima missione operativa ne seguono numerose altre, da parte degli esperti italiani, in un arco di tempo che va dall’ottobre 2005 all’ottobre 2007, sempre sostenute dalla costante presenza dell’Ambasciatore d’Italia in India Antonio Armellini, del Primo Segretario culturale Silvia Chiave e della Direttrice dell’Istituto italiano di cultura a New Delhi Patrizia Raveggi. Gli incontri tecnici a Delhi e le attività sul campo ad Ajanta vedono ancora Giuseppe Proietti e Caterina Bon Valsassina, con l’architetto Stefano D’Amico, i chimici Annamaria Giovagnoli, Domenico Artioli, Marcella Iole e Gianfranco Santonico, il geologo Maurizio Mariottini, il fisico Elisabetta Giani, il biologo Maria Pia Nugari, i restauratori Annamaria Marcone, Sutasoma Jataka; particolare con il re Saudasa a cavallo nel mezzo della Francesca Capanna, Lidia Laura battaglia. Rissotto, Emanuela Ozino Caligaris, Carlo Cacace, il fotografo Edoardo Loliva, tutti dell’Istituto Centrale del Restauro; l’archeologa Laura Giuliano del Museo Nazionale d’Arte Orientale; il tecnico Fabio Iorio della Direzione regionale dei Beni culturali del Lazio; Alberto Torsello, Guido Malara, Tommaso Masiero, Filippo Previtali e Giorgio Andreatta della SAT Survey. Le diverse missioni consentono di effettuare indagini sul supporto roccioso; studi degli effetti indotti dalla frequentazione antropica; studi sulla infiltrazione delle acque; misurazioni microclimatiche e monitoraggio ambientale; indagini chimiche, fisiche e biologiche; prelievi di campioni e analisi di laboratorio; studio dei metodi di disinfestazione ambientale, di pulitura e di consolidamento; individuazione dei prodotti più idonei per le operazioni di rimozione dei vecchi fissativi; attività di diagnostica non distruttiva con videomicroscopio e con colorimetro; documentazione fotografica e ortofotografica; mappature tematiche su base fotogrammetrica tridimensionale. Tutte le attività sono condotte congiuntamente agli esperti indiani del Survey. Nel febbraio 2008, a Delhi, ha luogo un incontro al quale partecipano per la parte indiana il nuovo Direttore generale dell’Archaeological Survey Aishu Vaish, il Direttore generale aggiunto Vijay Madan, il Condirettore generale B.R. Mani, il Direttore per la Scienza e Coordinatore dell’ASI per il Progetto Ajanta K.S. Rana, il Soprintendente archeologo ingegner M.M. Kanade, il Vice Soprintendente archeologo chimico V.K. Saxena e, per la parte italiana, Giuseppe Proietti con Caterina Bon Valsassina, alla presenza dello stesso Ambasciatore Antonio Armellini e del Consigliere dell’Ambasciata Sara Eti Castellani. L’incontro consente di procedere alla verifica complessiva degli studi preprogettuali condotti dagli esperti dei due Paesi e di prefigurare un nuovo accordo di cooperazione tecnica indo-italiana per la esecuzione sperimentale di un primo cantiere-stralcio di restauro nel vihara 17. 72 Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C. di Michael Meier-Brügger Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C. di Michael Meier-Brügger N el 1880 l’archeologo tedesco Heinrich Dressel, allora attivo a Roma, venne a conoscenza del ritrovamento di un recipiente formato dall’amalgama di tre vasetti recanti un’iscrizione e lo acquistò. Per suo tramite è quindi giunto a Berlino e si trova oggi nel deposito dell’Altes Museum nel “Lustgarten”. Purtroppo il luogo esatto del ritrovamento è sconosciuto. Pare che il recipiente facesse parte del complesso di oggetti in ceramica disponibili sul mercato e provenienti dalla già Villa Hüffer, in via Nazionale, che, situata nei pressi della chiesa di San Vitale si trovava a pochi passi dal Quirinale. La relazione tra il recipiente e il vicino Colle del Quirinale pare dunque più che giustificata. Il recipiente-bucchero in oggetto è composto da tre piccoli vasi lavorati al tornio (altezza cm 3,5 circa, diametro cm 4,5 circa). I tre contenitori sono collegati da tre anelli orizzontali fatti a mano che, raccordandosi fra loro, formano un triangolo che lascia al centro un’apertura circolare. Esistono altri recipienti triplici e quadruplici comparabili e databili alla prima metà del VI secolo a.C. La stessa datazione è quindi attribuibile all’esemplare in oggetto il quale, per la presenza di un’iscrizione che si sviluppa su tre linee, assume un particolare valore storico. La funzione del recipiente non è chiarita dall’iscrizione; conteneva probabilmente delle essenze. Vasi di questo genere sono spesso utilizzati nelle manifestazioni cultuali. I gruppi di segni non appaiono suddivisi da interpunzioni. Linea A IOVESATDEIVOSQOIMEDMI TATNEITEDENDOCOSMISVIRCOSI ED = iouesa– t deiuo– s qoi me– d mita– t, nei te– d endo– cosmis virco– sie– d Linea B ASTEDNOISIOPETOITESIAI PACARIVOIS = as(t)te– d noisi o(p)petoit – – – esiai pacari uois Linea C DVENOSMEDFECEDEN MANOMEINOMDVENOINEMEDMA LOSTATOD = duenos me– d fe– ced en – – manom einom dueno– i ne– me– d malo(s) stato– d Dalla disposizione del testo non appare alcuna intenzione, da parte dello scrittore, di un susseguirsi delle linee A, B, C. Non è da escludere però che la linea C – quella che circonda il recipiente a metà – sia stata incisa prima e che lo scrittore abbia aggiunto successivamente, sopra la linea centrale, le altre due, cioè A e B. A e B, infatti, formano un insieme coerente, mentre C presenta un contenuto diverso. La scrittura utilizzata è ovviamente arcaica. Sappiamo che l’alfabeto era stato adottato dai vicini Etruschi, i quali, a loro volta, l’avevano appreso dai coloni greci che abitavano il golfo di Napoli, Ischia e Cuma. La notazione delle gutturali è infatti caratteristica specifica della scrittura latina arcaica. 74 Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C. Precedentemente non veniva evidenziata alcuna differenza nella trascrizione fra le lettere sonore e quelle sorde. Le tre lettere adottate dagli Etruschi C, K e Q erano associate alle cinque vocali. Mentre davanti a u si scriveva il cosiddetto segno Q, si metteva C davanti a e e i, ma K davanti ad a e o. Successivamente vennero introdotti cambiamenti. Mentre QV fu mantenuto (cfr. ancora il classico qualis, quaestor, sequor ecc.) la lettera C prendeva gradualmente il posto della lettera K, la quale persisteva, come arcaismo grafico, solo nella sigla KAL per kalendae, “le Calende, il primo giorno del mese” o nella sigla onomastica K = Kaeso. In tutti gli altri casi veniva utilizzata, senza eccezione, la lettera C per k e g. L’indifferenziata trascrizione di k e g fu abbandonata soltanto nel III secolo a.C., allorquando la lettera C definirà solo g. Esemplare, in tal senso, la sigla onomastica C = Gaius. L’iscrizione rispecchia la lingua arcaica dell’epoca, sia dal punto di vista fonico, che formale e 76 lessicale, la quale è nettamente differente da quella d’epoca classica. Due esempi: nella linea A, la prima parola, IOVESAT = forma verbale arcaica, tempo presente, terza persona singolare “implora”; in epoca classica si trasforma in iurat. Il cambiamento da IOVESAT a iurat risulta apprezzabile se si tiene conto che nel IV secolo a.C. la s intervocale è cambiata in r (cosiddetto rotacismo) e che le due sillabe ove sono state semplificate in u. Così, per analogia, la seconda parola DEIVOS = accusativo plurale “gli Dei”, nel classico si traforma in deos. Nella linea C si trova l’espressione EN MANOM EINOM “per un buon uso”. Entrambe le parole MANOM e EINOM scompaiono nel latino classico, ma grazie agli appunti dei grammatici e alle supposizioni dei linguisti storici siamo oggi in grado di comprenderne il significato. Un’analisi più approfondita dell’argomento richiederebbe un approccio storico-linguistico specializzato. 77 Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C. Mentre l’interpretazione della Linea C linea B non è chiara, le linee A e C “Un uomo per bene mi ha sono relativamente comprensibili. fabbricato per un uso buono [...] non usarmi per un fine cattivo.” Linea A “Giura per gli dei colui che mi L’iscrizione sul recipiente non è manda che se una ragazza non l’unica del suo genere proveniente sarà carina con te [...] vuoi che dall’antica Roma. Ci sono infatti ti sia amica.” pervenuti altri due frammenti di vasi iscritti e un’iscrizione su Linea B pietra. Pur non essendo sufficientemente Uno di questi frammenti di vaso, chiaro nei dettagli, appare un fondo di ciotola, è stato comunque certo che il recipiente portato alla luce nel 1899 al Foro in questione, in virtù del suo Romano, nelle vicinanze della contenuto aromatico, fosse capace Regia; risale probabilmente al di mutare l’antipatia in simpatia. VI secolo a.C. e reca ben leggibile 78 la parola REX “Re”. L’iscrizione presente sull’altro reperto, trovato intorno al 1887 e successivamente perduto, contiene soltanto l’indicazione del proprietario: “Io sono il recipiente di…”. Importantissima risulta l’iscrizione su pietra. Si trova ancora oggi nell’area del cosiddetto Lapis Niger. Si tratta di un pavimento rinvenuto al Foro Romano, davanti alla Curia, il quale risulta essere composto da pietre nere incorniciate da marmo nero. Il Lapis Niger risale nelle sue parti più antiche al VI secolo a.C. Gli scavi del 1899 hanno portato alla luce sul sito un piccolo santuario e la base quadrata di una colonna, il cosiddetto cippo. Santuario e cippo oggi si trovano interrati e non sono accessibili al pubblico. Il cippo reca un’iscrizione in latino arcaico. Su ogni lato vi sono quattro linee che lo percorrono dal basso verso l’alto. Il cippo risulta mutilato nella parte superiore, ragione per cui l’iscrizione è sfortunatamente incompleta. La scrittura è bustrofedica (cioè da sinistra a destra e da destra a sinistra). Sembrerebbe trattarsi di un’iscrizione ufficiale, 79 Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C. probabilmente una Lex Sacra. L’iscrizione è resa in un latino arcaico simile a quello del recipiente in esame e usa forme che si sono trasformate foneticamente e formalmente in epoca classica. Troviamo, ad esempio, SAKROS ESED “sia sacro” (il nominativo singolare è ancora SAKROS, scritto con K al posto di C, ma sacer in epoca classica); RECEI “al Re” (scritto con C al posto di G, la forma del dativo singolare ancora dittongato con –EI, forma classica regi); KALATOREM “l’araldo” e IOUXMENTA “bestiame da tiro” (iumenta in epoca classica). dalla Regia nel Foro Romano e RECEI “al Re” nella Lex Sacra del Lapis Niger, anch’essa nel Foro Romano. In quelle a carattere privato, ad esempio nel frammento di vaso di provenienza sconosciuta già citato nel testo, l’iscrizione indica semplicemente il possessore del vaso stesso, mentre la ricchezza d’informazione presente nell’iscrizione sul recipiente oggetto della nostra attenzione ci mostra che già allora esisteva un ceto benestante capace di creare regali con dedica. Le quattro iscrizioni dell’epoca arcaica qui presentate, provenienti dalla città di Roma, sono dedicate a temi pubblici e privati. In quelle di carattere istituzionale si parla due volte di un “Re”: REX “Re” sul fondo di un ciotolo 80 Galileo e gli “spettacoli del cielo” sul Colle del Quirinale di Paolo Galluzzi Galileo e gli “spettacoli del cielo” sul Colle del Quirinale di Paolo Galluzzi Alla pagina precedente: Justus Sustermans, Ritratto di Galileo Galilei, 1636, olio su tela. Pisa, Domus Galileana. A fronte: Antiporta del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, Firenze 1632. N ei frequenti viaggi a Roma compiuti da Galileo per presentare le sensazionali scoperte celesti ottenute col telescopio, per promuoverle in modo da ottenere il più vasto e autorevole consenso e, successivamente, per difendersi dalle accuse di sostenere dottrine sospette di eresia, lo scienziato pisano ebbe almeno una volta l’occasione di calpestare il suolo del Colle del Quirinale. Ne dà indubitabile testimonianza una lettera dello stesso Galileo ad Antonio Antonini del 20 febbraio 1638 (OG, XVII, p. 297), nella quale ricorda di avere offerto ripetute dimostrazioni della presenza di macchie sulla superficie del Sole “nel tempo che io mi trovavo in Roma, dove più volte le feci vedere a molti prelati grandi negli Orti Quirinali”. Testimonianza peraltro confermata nell’Epistola al lettore dell’accademico linceo Angelo De Filiis, premessa all’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti di Galileo (Roma 1613). Il De Filiis vi afferma che, durante il soggiorno romano del 1611, Galileo divulgò la propria scoperta del “Sole macchiato” non soltanto a parole, ma mostrando “l’effetto stesso”, facendo cioè osservare direttamente il fenomeno a numerosi testimoni “nel Giardino Quirinale” (OG, V, pp. 81-82). Nella sua Vita di Galileo – la più antica biografia dello scienziato – Vincenzo Viviani precisa che la dimostrazione delle macchie solari “nel Giardino Quirinale”, alla presenza di cardinali, rappresentanti del clero e personalità della cultura, avvenne nell’aprile del 1611, nel contesto di una serie di presentazioni pubbliche nel corso delle quali Galileo “fece vedere i nuovi spettacoli del cielo” svelati dal suo cannocchiale (OG, XIX, p. 612). Apporta specificazioni preziose circa la precisa localizzazione di quelle pubbliche dimostrazioni la lettera di Monsignor Piero Dini del 2 maggio 1615 a Galileo, scritta dal “giardino di Monte Cavallo dell’Ill.mo Bandini [il Cardinale Ottaviano Bandini] dove V. S. mi fece vedere per la prima volta le macchie del Sole” (OG, XII, p. 175). Devo alla gentile comunicazione di Francesco Colalucci l’informazione che il giardino Bandini di Monte Cavallo era vicinissimo a quello del Palazzo papale del Quirinale. Il Colle del Quirinale tornò a essere teatro di eventi significativi della biografia galileiana pochi anni più tardi, nel contesto del cosiddetto “primo processo” a Galileo. Il 2 aprile del 1615 si tenne nel Palazzo Apostolico del Quirinale la Congregazione del Santo Uffizio, che esaminò la deposizione rilasciata il 20 marzo di quell’anno da uno dei più accaniti accusatori di Galileo, il frate domenicano Tommaso Caccini, che aveva avanzato il sospetto che le dottrine copernicane sostenute dallo scienziato fossero in odore di eresia. La Congregazione prese atto della deposizione e deliberò di inviarla all’Inquisitore di Firenze perché ne verificasse la veridicità, interrogando le persone nominate dal Caccini (OG, XIX, p. 277). Il 9 giugno del 1616, di nuovo nel Palazzo del Quirinale, la Congregazione dell’Inquisizione esaminò un’altra questione inerente la battaglia galileiana a favore del copernicanesimo: decise infatti di scrivere all’arcivescovo 82 Galileo e “gli spettacoli del cielo” sul Colle del Quirinale di Napoli, cardinale Carafa, approvando la sua decisione di carcerare lo stampatore che aveva impresso senza licenza il libro nel quale frà Paolo Antonio Foscarini si era espresso a favore del moto della Terra e della stabilità e centralità del Sole. Il libro era stato proibito nella riunione del Santo Uffizio del 3 marzo (OG, XIX, p. 278). In un saggio recente che inquadra le drammatiche vicissitudini galileiane negli anni del secondo processo e della condanna per eresia (1632-1633), nel contesto della disastrosa peste di manzoniana memoria che flagellò la Penisola a più riprese dal 1630 al 1633, F.A. Levi e G.R. LeviDonati hanno descritto una seconda e più prolungata occasione di visita del Quirinale da parte di Galileo (F.A. Levi e G.R. LeviDonati, Galileo e la peste, “Quaderni di Storia della Fisica”, 8, 2001, pp. 3-32). A parere dei due autori, egli vi sarebbe stato infatti carcerato dal 12 al 20 aprile del 1633, nel corso del processo che portò alla sua condanna e all’abiura. I Levi arrivano perfino a localizzare e descrivere puntualmente, pubblicandone la planimetria, le tre stanze del palazzo, in prossimità della cosiddetta “scala delle prigioni”, che sarebbero state assegnate come carcere a Galileo. A meno che non abbiano avuto accesso a documenti che mi sono ignoti, ritengo che i due autori 84 siano stati vittime di un fraintendimento. C’è concordia, infatti, tra gli studiosi sul fatto che Galileo, nel corso del processo dell’aprile 1633, fu carcerato nel Palazzo del Santo Uffizio, in prossimità di San Pietro (l’attuale Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede), e non nel Palazzo del Quirinale. Peraltro, questo fatto è inequivocabilmente attestato da molteplici evidenze nel carteggio galileiano e nei documenti processuali, oltre che da autorevoli testimonianze contemporanee. Il verbale del primo costituto del processo (12 aprile 1633) attesta che Galileo comparve come imputato nel Palazzo del Santo Uffizio (comparuit personaliter Romae in Palatio S.ti Offitii: OG, XIX, pp. 336-337). Dallo stesso verbale apprendiamo che, dopo l’interrogatorio, all’imputato fu assegnata come prigione una stanza del Palazzo del Santo Uffizio: assignata ei fuit, loco carceris, camara quaedam in dormitorium officialium, sito in Palatio S.ti Offitii (ibid.). Con una lettera del 9 aprile l’ambasciatore toscano a Roma, Francesco Niccolini, aveva, d’altra parte, informato il segretario del granduca che Galileo sarebbe stato convocato al Santo Uffizio, interrogato e vi sarebbe stato trattenuto “non come prigione, né in secrete, come è solito con gli altri, ma provisto di stanze buone et fors’anche lasciate aperte” (OG, XV, pp. 84-85). La localizzazione del carcere galileiano nel Palazzo del Santo Uffizio è attestata dallo stesso Galileo che, scrivendo il 16 aprile a Geri Bocchineri, gli comunicava di “restare ritirato, ma con ben insolita larghezza e comodità, in tre camere che sono parte di quelle dove abita il Fiscale del S.to Offizio” (OG, XV, p. 88). Nei processi dell’Inquisizione il Procuratore Fiscale (Procurator Fiscalis) svolgeva funzioni assimilabili a quelle dell’attuale Pubblico Ministero e disponeva di un alloggio nel Palazzo del Santo Uffizio. Le lettere di Geri Bocchineri e di suor Maria Celeste, figlia di Galileo, del 20 aprile (OG, XV, pp. 97-98) offrono ulteriori conferme circa la sede del carcere. Lo ribadisce anche l’annotazione vergata da Giovanfrancesco Buonamici nel proprio diario in data 2 maggio: “Il Sig.r Galileo Galilei uscì dal S.to Ufizio, dove è stato ritenuto in assai larga custodia per 12 [in realtà 18!] giorni, per esaminarlo sopra il suo libro de’ Dialogi della costituzione dell’universo…” (OG, XV, p. 111). Se Galileo non soggiornò da inquisito sul Colle che lo aveva visto acclamato protagonista nel 1611, va sottolineato che il Palazzo del Quirinale fu teatro di eventi non marginali nel corso delle drammatiche vicende processuali del 1633. Fu nelle sale della residenza papale infatti che l’ambasciatore toscano Francesco Niccolini perorò l’11 novembre del 1632, davanti a Urbano VIII e alla Congregazione del Santo Uffizio, la richiesta di Galileo di essere esentato dal periglioso viaggio a Roma a motivo della sua età avanzata (stante eius gravi aetate). L’appassionato intervento del Niccolini, certamente compiuto a nome del Granduca di Toscana, non produsse l’effetto sperato: Urbano VIII nihil voluit concedere, sed scribi mandavit ut obediat, et Inquisitori ut eum compellat ad Urbem venire (OG, XIX, p. 280). Fu sempre sul Colle del Quirinale 85 Joseph Nicolas Robert-Fleury, Galileo di fronte al Santo Uffizio, 1847, olio su tela. Parigi, Musée du Louvre. Galileo e “gli spettacoli del cielo” sul Colle del Quirinale che il 16 giugno del 1633 la Congregazione del Santo Uffizio adottò una decisione fondamentale per l’esito del processo a Galileo. Alla presenza di Urbano VIII, i commissari, preso atto della caparbia difesa di Galileo e della sua renitenza a riconoscersi colpevole, deliberarono che si procedesse alla sua formale interrogazione sopra l’intenzione (supra intentione), ricorrendo, se necessario, anche alla tortura (etiam comminata ei tortura). Strappata la sua formale confessione, l’imputato sarebbe stato condotto davanti all’assemblea plenaria della Congregazione per pronunciare l’abiura (praevia abiuratione de vehementi in plena Congregatione Sancti Officii). Successivamente, sarebbe stata emessa la condanna al carcere ad arbitrio della Congregazione (condannandum ad carcerem arbitrio Sacrae 86 Congregationis), col divieto di trattare, né in voce, né in scritto, della dottrina copernicana, sotto pena di recidiva (sub pena relapsus), che avrebbe comportato punizioni di severità estrema (OG, XIX, p. 283). Pochi giorni dopo (22 giugno), Galileo abiurò formalmente (abiuravit de vehementi) nel Convento di Santa Maria sopra Minerva (OG, XIX, p. 283). L’atto di sottomissione indusse la Congregazione, riunitasi il 23 giugno, di nuovo al Quirinale, alla presenza di Urbano VIII, a concedergli di trasferirsi dal carcere nel Palazzo del Santo Uffizio agli arresti domiciliari presso la residenza dell’ambasciatore toscano a Trinità dei Monti (OG, XIX, p. 284). In successive riunioni, tenutesi nel Palazzo del Quirinale, la Congregazione del Santo Uffizio tornò a occuparsi del caso Galileo (OG, XIX, pp. 285 e 288). 87 A fronte e a fianco: Disegni autografi di Galileo delle macchie solari, realizzati con l’elioscopio, ms. galileiano 57, cc. 86v e 92r. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale. Galileo e “gli spettacoli del cielo” sul Colle del Quirinale Il Colle del Quirinale fu dunque teatro di eventi particolarmente significativi che segnarono momenti cruciali della biografia di Galileo: il suo debutto trionfale, grazie alle meraviglie mostrate in cielo dal cannocchiale, sulla scena romana del potere, da un lato, e la drammatica conclusione della sua straordinaria avventura intellettuale, dall’altro. Merita dedicare qualche ulteriore riflessione alla fortunata serie delle dimostrazioni galileiane degli “spettacoli del cielo” e, in particolare, delle macchie solari, compiute negli “Orti Quirinali” nella primavera del 1611. Non solo perché quelle dimostrazioni rappresentano la prima comunicazione pubblica data da Galileo di questo fenomeno astronomico, osservato per la prima volta quando ancora si trovava a Padova ma del quale erano a conoscenza solo pochi amici. Si trattava di una scoperta particolarmente eccitante per Galileo, dato che forniva ulteriore conferma – contro Aristotele e i suoi seguaci – della natura corruttibile dei corpi celesti (il Sole “macchiato” faceva il paio con la superficie corrugata della Luna, illustrata nel Sidereus Nuncius del 1610). Le ripetute osservazioni degli spostamenti delle macchie sulla superficie solare convinsero inoltre presto Galileo che il Sole ruotava sul proprio asse, come già Copernico aveva intuito. Viene spontaneo domandarsi in che modo Galileo abbia concretamente operato per mostrare le macchie a “prelati grandi” e a personaggi di notevole autorità. È da escludere che li abbia invitati a osservare il Sole Frontespizio dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari di Galileo, a occhio nudo, dato che in tal Roma 1613. modo, oltre alle gravi offese per la vista, sarebbero stato impossibile individuare le macchie. Se, come è estremamente probabile, le fece osservare attraverso le lenti del cannocchiale (la novità sensazionale che recò con sé nella città pontificia), per proteggere gli occhi avrebbe potuto oscurare la lente obiettiva affumicandola o schermandola con un vetro scuro. In entrambi i casi si sarebbe tuttavia verificata una notevole perdita di definizione, che avrebbe reso problematico percepire le macchie. Più probabile che Galileo abbia messo in pratica sul Colle del Quirinale la soluzione suggeritagli dall’appassionato discepolo Benedetto Castelli (OG, V, p. 136), che gli consentirà nei mesi successivi di osservare il Sole con continuità, senza pericoli per la vista e, soprattutto, di realizzare una serie di puntuali raffigurazioni grafiche dei diversi aspetti delle macchie solari: proiettare l’immagine del Sole intercettata dal cannocchiale su uno schermo mobile. Dopo avervi fissato un foglio di carta sul quale era stata in precedenza disegnata una circonferenza di diametro a piacere, Galileo allontanava lo schermo dall’oculare del telescopio fino alla distanza nella quale l’immagine proiettata dal Sole coincideva perfettamente con la circonferenza precedentemente tracciata sul foglio. A questo punto Galileo poteva vedere e mostrare ai presenti le immagini (speculari) delle macchie, che fissava sulla carta con rapidi tratti di penna, ottenendo in tal modo rappresentazioni di precisione quasi fotografica. Il suo grande concorrente nella disputa per la priorità nella scoperta delle macchie solari, il gesuita Christoph Scheiner, 88 Galileo e “gli spettacoli del cielo” sul Colle del Quirinale Elioscopio (o telioscopio) nella configurazione utilizzata dal gesuita Christoph Scheiner, Rosa Ursina, Roma 1630. battezzò più tardi questo geniale strumento col nome di elioscopio. Non è affatto improbabile che questo singolare dispositivo, il cui funzionamento dipende da principi simili a quelli della camera oscura, abbia fatto la sua prima comparsa in pubblico proprio nelle dimostrazioni delle macchie solari nei giardini sul Colle del Quirinale. Credo che Angelo De Filiis si riferisse proprio alle immagini del Sole mostrate dall’elioscopio quando, nella premessa all’Istoria e dimostrazioni, affermò che Galileo non si limitò a illustrare a parole la presenza di macchie sul Sole, ma ne mostrò “l’effetto stesso”. La proiezione dell’immagine del Sole consentiva inoltre di presentare il fenomeno simultaneamente a più persone, come le fonti suggeriscono che avvenne nelle dimostrazioni galileiane negli “Orti Quirinali”. Se le cose andarono effettivamente così, è facile immaginare che quel curioso strumento dovette generare negli illustri e privilegiati personaggi radunati sul Colle del Quirinale uno stupore non minore di quello prodotto dalla visione del “Sole macchiato”. *** I documenti citati nel testo sono tratti dall’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, a cura di Antonio Favaro, 20 volumi in 21 tomi, Firenze, G. Barbèra, 1890-1909 [OG]. 90 La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede di Antonio Zanardi Landi La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede di Antonio Zanardi Landi Alla pagina precedente: Pietro Fiorini, stemma di papa Pio IV de’ Medici di Marignano. Roma, Palazzo Borromeo, passaggio triangolare tra il salotto blu e il salotto rosso. In basso: Particolare della facciata su via Flaminia. A fronte: Facciata ad angolo tra via Flaminia e via di Valle Giulia. L’ Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede rappresenta un unicum nel mondo della diplomazia e delle relazioni internazionali. È infatti l’unica Ambasciata bilaterale a operare nella stessa capitale del proprio Paese. Essa ha dunque una posizione particolarissima, che non incide peraltro sulle modalità di svolgimento della propria missione. Il rapporto tra l’Italia e la Santa Sede, che solo con una certa fatica può essere disgiunto da quello simmetrico con la Chiesa in Italia, ha rivestito, sin dalla conclusione dei Patti Lateranensi nel 1929, un’importanza e un rilievo del tutto particolari ed è per questo che l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede è stata dotata per le proprie attività di rappresentanza di quello strumento eccezionale che è costituito dal cinquecentesco Palazzo Borromeo, prescelto e fortemente voluto dal primo Capo Missione, Cesare Maria de’ Vecchi di Val Cismon. Tra poco tempo ricorrerà l’ottantesimo anniversario non solo della conclusione dei Patti Lateranensi, ma anche dell’acquisizione da parte dello Stato italiano di Palazzo Borromeo, la cui denominazione risente in certo modo di una scelta consapevolmente operata dai miei predecessori. In effetti il palazzo appartenne solo per pochi anni alla famiglia Borromeo: dei due nipoti per i quali il papa Pio IV, al secolo Giovanni Angelo Medici di Marignano (1559-1565), aveva fatto costruire l’edificio, Federico morì prematuramente e il cardinale Carlo, che verrà poi canonizzato all’inizio del Seicento, venne ben presto chiamato alla guida dell’Arcidiocesi di Milano. Il cardinale, lasciando Roma, cedette il palazzo alla sorella Anna in occasione delle nozze di quest’ultima con Fabrizio Colonna. Il palazzo rimase poi in proprietà della grande famiglia romana per oltre tre secoli, ma l’Ambasciata preferì mantenere una denominazione che sottolineasse il collegamento ideale con un grande santo italiano, a preferenza di altre denominazioni quali “la Casina di Pio IV” o “Palazzo Colonna a Valle Giulia” che avrebbero avuto un significato meno pregnante per un edificio destinato a servire le relazioni tra l’Italia e la Santa Sede. Una denominazione fortemente collegata con Milano e con l’Italia del nord implicitamente sottolinea inoltre la valenza nazionale e non solo romana della presenza e dell’attività dell’Ambasciata che vi ha sede. Il grande edificio racchiude in sé 92 La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede È per me oggetto di quotidiano, ammirato stupore il fatto che gli architetti che nel 1929 misero mano all’ampliamento del palazzo siano riusciti a interpretare in maniera filologicamente corretta l’impostazione di Pirro Ligorio e a realizzare un’intera nuova ala senza alcuna forzatura o discrasia. E, in effetti, un recente studio di Christoph Luitpold Frommel dimostra che il progetto originario e rappresenta molti elementi di forte valenza positiva per la storia di Roma sede del Papato e di Roma capitale d’Italia: innanzitutto il frutto di una committenza intelligente ed energica, quella di Pio IV che in pochi anni letteralmente cambiò il volto della Roma del Cinquecento, e dell’abilità e della fantasia di quel grande architetto che fu Pirro del grande architetto del Cinquecento prevedeva un’ala, non realizzata, che avrebbe dovuto chiudere il chiostro in maniera non troppo dissimile da quella poi realizzata nel 1929. L’atmosfera del palazzo è evidentemente riuscita a incantare tutti coloro che hanno avuto la ventura di abitarvi e molti dei miei predecessori hanno lasciato un segno importante e positivo Ligorio. Dopo un lungo periodo di abbandono, il grande edificio che sorgeva al di fuori della cerchia muraria fu inoltre oggetto di un’imponente opera di intelligente e accurato restauro condotto da Ugo Jandolo e, dopo l’acquisizione al Demanio, di un altrettanto intelligente ampliamento con la costruzione di un’ala adibita oggi a residenza del Capo Missione. 94 95 A fronte: Cortile esagonale con un antico pozzo al centro e la visuale sul giardino del palazzo. A fianco: Particolare della fontana con il mascherone che getta l’acqua nel sottostante catino. La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede nell’arredamento e nella cura dell’edificio. Il risultato è quello di una grande casa che consente di condurre un’attività di rappresentanza ai livelli più alti e di ospitare ogni anno il grande ricevimento per l’anniversario dei Patti Lateranensi, che viene sempre onorato dalla presenza del Capo dello Stato. Preesisteva al palazzo una bella fontana, opera del fiorentino Bartolomeo Ammannati, tuttora esistente ad angolo tra la via Flaminia e l’attuale via di Villa Giulia. Costruita nel 1552 per conto di Giulio III Del Monte (1550-1555), la fontana, data la sua importanza per lo sviluppo successivo del palazzo, merita una breve descrizione. Concepita, contemporaneamente all’abbeveratoio, dall’altra parte della strada, come consuetudine all’epoca, segnava l’inizio del percorso che Giulio III doveva compiere per recarsi a Villa Giulia, il suo amato loco delitiae. La fontana in peperino era in origine composta dal solo primo piano di ordine corinzio e terminava con un arco sormontato da una cornice a timpano, ancora oggi visibile, ornata da numerosi obelischi e statue. Purtroppo queste ultime – tra le quali figurava una “gran testa antica e bellissima d’un Apollo”, come sappiamo dallo stesso Ammannati che la descrive in una lettera e da alcune rappresentazioni cinquecentesche dell’opera – sono andate perse nel corso dei successivi rimaneggiamenti dell’edificio. Del pari l’iscrizione originale della fontana “JULIUS III PONT. MAX. / PUBLICAE COMMODITATI / ANNO III” è stata sostituita con quella attuale che ricorda un successivo proprietario, Filippo Colonna, duca di Paliano. La fontana, oltre alla facies “pubblica”, quella appena descritta, rivolta verso la strada, a sottolineare sia la generosità del pontefice nel realizzare una fonte per l’uso dei romani che il suo amore per l’arte e per l’antichità, aveva una facies “privata”, rivolta verso la villa del pontefice. Quest’ultima, poi in parte trasformata nel portico del cortile del Palazzo Borromeo, era costituita da una loggia aperta sulla peschiera e sui molti giochi d’acqua e fontane che abbellivano i giardini di Villa Giulia. 96 Nel dicembre del 1559, l’elezione al soglio di Pietro di Pio IV significò un positivo rinnovamento per una città che dal Sacco dei Lanzichenecchi del 1527 agli ultimi anni del decennio, quelli del pontificato dell’austero Paolo IV Carafa (1555-1559), attraversava un periodo estremamente difficile, scandito dalle continue carestie. Giovanni Angelo era una persona notevolmente colta, amante e protettore delle Arti e in particolare dell’architettura, che senza mai abbandonare il proverbiale pragmatismo dei lombardi promosse una renovatio di Roma di ampio respiro, emulando in questo modo i pontefici della famiglia de’ Medici di Firenze, suoi omonimi, raffinati mecenati dell’inizio del secolo. “Pio IV – scriveva nel 1564 l’ambasciatore Gerolamo Soranzo al Senato Veneto – ha un’inclinazione grandissima al fabbricare, e in questo spende volontieri e largamente, pigliando gran piacere quando sente laudare le opere che va facendo, e par che abbia per fine lasciar anco per questa via memoria di sé, non vi essendo ormai luogo di Roma che non abbia il nome suo; ed usa di dire, il fabbricare esser particolare 97 A fronte: Particolare dell’alzato della facciata del Palazzo Borromeo, realizzato da Pirro Ligorio al di sopra della preesistente fontana con l’arme di Pio IV tra due angeli allusivi al nome di battesimo del pontefice. In basso: Salotto rosso. La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede inclinazione di Casa de’ Medici. In Roma, poi, fa acconciar strade, fabbricar chiese e rinnovarne altre con spesa così grande che al tempo mio per molti mesi nelle fabbriche di Roma solamente passava dodici mila scudi il mese; spesa certo grande, ma grandissima in Sua Santità che nelle altre cose è molto assegnata”. Poco dopo essere stato eletto, Pio IV promosse la costruzione di una residenza a ridosso della fontana dell’Ammannati e ne affidò il progetto al suo architetto di fiducia, il napoletano Pirro Ligorio. I lavori per la costruzione del palazzo ebbero inizio nel maggio del 1561 e videro l’architetto cimentarsi in un intelligente dialogo con le preesistenti costruzioni: la fontana, vincolo dell’edificio dal nascere, viene sopraelevata di un piano con un muro in mattoni che si alza leggero sulla parte bassa in peperino e diviene la parte centrale del prospetto di facciata del palazzo. Al centro del nuovo ordine ionico due colonne incorniciano lo stemma papale fra due grandi angeli, evocativi del nome di battesimo del pontefice, Giovanni Angelo e l’iscrizione celebrativa del cardinale Borromeo, affiancata da due sfingi. L’eccezione alle regole dell’architettura classica, l’ordine ionico sovrapposto al corinzio della fontana è quindi dovuto alla preesistenza di questa. A quel tempo la vicina Villa Giulia, confiscata agli eredi di Giulio III, era divenuta proprietà dello Stato Pontificio e quindi il nuovo edificio venne a fare parte di un complesso residenziale papale composto, oltre che dall’edificio stesso, da Villa Giulia e dalla piccola chiesa di Sant’Andrea, da poco costruita dal Vignola per servire da “cappella” della villa. 98 Come già accennato, l’edificio venne donato dal pontefice agli amati nipoti, il conte Federico e suo fratello, il cardinale Carlo Borromeo, destinati dallo zio a perpetuare le glorie del casato: il primo avrebbe dovuto consolidare la posizione sociale della famiglia lombarda, il secondo invece aveva intrapreso la carriera ecclesiastica. L’edificio che Ligorio andava costruendo era quindi destinato ex-ante a due padroni per cui l’architetto, come proposto da Frommel, progettò due residenze gemelle, a destra e a sinistra della fontana. La prematura scomparsa di Federico nel 1562, quando i lavori 99 A fronte: Salotto Direttorio. In alto: Scuola napoletana, San Carlo Borromeo in gloria, prima metà del Settecento, olio su tela, salotto Direttorio. La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede erano da poco iniziati, portò a ultimare solamente l’ala sinistra dell’edificio, quella lungo la via Flaminia, lasciando incompleta per oltre tre secoli l’ala destra, lungo la via di Villa Giulia. Ciascuno dei due appartamenti si sarebbe dovuto comporre di alcune stanze a uso privato, di ambienti di servizio, di una loggia, probabilmente destinata a servire anche da sala da pranzo; infine un nucleo centrale di saloni di rappresentanza avrebbe dovuto collegare le due residenze. Il maggiore e più importante di questi ultimi, l’attuale salotto blu, si trova esattamente sopra la fontana dell’Ammannati; ai lati di questo, attraverso due passaggi triangolari – ingegnosa soluzione che ha permesso di risolvere l’irregolarità della pianta – si passa agli altri due, detti il salotto rosso e il salotto Direttorio. I citati saloni recano tuttora al centro del soffitto l’arme del papa Medici incorniciata da eleganti angeli e puttini affrescati da Pietro Fiorini nel 1564. La facciata dell’edificio sulla via consolare presenta al centro del pianterreno un’unica apertura, un portale bugnato in peperino, inquadrato da lesene di ordine corinzio che si richiamano all’ordine della fontana. Al primo piano, all’altezza del portone, un’elegante loggia retta da due colonne marmoree affiancate da due pilastri in peperino, sempre di ordine corinzio, interrompe la successione delle finestre, quattro per parte. Dalla loggia si poteva godere di una splendida vista sul Tevere (prima che gli edifici che possiamo attualmente vedere tra la via Flaminia e il fiume la ostruissero), in grado di competere con la vista dall’altro lato: la Villa Giulia, sovrastata dalla verde collina dei Parioli. All’interno l’edificio avrebbe 100 dovuto chiudersi in un grande cortile esagonale con un solo lato aperto, quello in asse con il portico situato sul retro della fontana, per permettere la vista di Villa Giulia. Frommel ha ipotizzato che l’intero progetto del palazzo con il prospetto della facciata centrato sulla fontana e quindi in diagonale rispetto alla via Flaminia sia stato concepito da Ligorio per permetterne la vista dal Tevere, per l’esattezza dal piccolo molo dove il papa soleva sbarcare quando si recava in visita alla sua residenza suburbana. La pianta dell’edificio così insolita, una sorta di C allargata, sembra essere stata 101 A fronte: Salotto blu. In alto: Loggia. La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede preoccupò di completarne la costruzione affidando ancora una volta, con ogni probabilità, il progetto e la supervisione dei lavori a Pirro Ligorio. L’architetto propose una variazione sul primo progetto e completò l’ala esistente con un lungo androne che dal portone d’ingresso sulla via Flaminia conduce al giardino interno. L’androne è sormontato da un grande salone che si viene a trovare leggermente in diagonale rispetto alla loggia sul Tevere, della quale costituisce il proseguimento ideale verso il giardino. La costruzione si studiata dal colto architetto con meticolosa cura al fine di permettere una serie di richiami visivi, ma anche concettuali, tra la Palazzina di Pio IV e la vicina Villa Giulia. Forzando le frontiere della prospettiva in architettura, Ligorio avrebbe così formulato il più originale dei suoi progetti, rimasto a lungo sconosciuto. Nel 1565, quando la palazzina non era ancora completata, pochi mesi prima della morte dello zio pontefice, Carlo Borromeo si trasferì a Milano, per assumere la guida della diocesi lombarda che mantenne per vent’anni, fino alla morte. Nella città lombarda sarebbe poi dovuta ripetere a specchio a destra della fontana, cosicché grazie all’aggiunta del corpo di fabbrica dell’andronesalone l’edificio si sarebbe chiuso all’interno in un cortile sempre esagonale, di minori dimensioni rispetto a quello progettato per il pontefice ma pur sempre originale. Purtroppo però i Colonna non completarono il palazzo: l’ala su via di Villa Giulia verrà costruita solo agli inizi del Novecento proprio per ospitare la Cancelleria dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede e attualmente residenza del Capo Missione. il cardinale Borromeo fu esempio di carità e generosità cristiana, come quando durante la peste del 1576 si recò a visitare i malati relegati nelle capanne e nel lazzaretto. Come premesso, una volta trasferito, il cardinale non ebbe motivo di mantenere il palazzo romano, che nel 1566 venne a essere parte della dote della sorella Anna, andata in sposa a Fabrizio Colonna, figlio di Marcantonio II, eroe della battaglia di Lepanto, e di Felice Orsini. Da questo momento il palazzo divenne proprietà della grande famiglia romana che subito si 102 103 A fronte e alle pagine seguenti: Manifattura di Bruxelles (attribuito a), Gedeone interroga un giovane della gente di Socoth, ante 1561, sala da pranzo. In basso: Sala da pranzo. La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede Marcantonio Colonna si preoccupò di completare la decorazione interna degli ambienti di rappresentanza dell’ala costruita e commissionò i fregi a fresco, tuttora presenti nella loggia e nel salone grande. Il fregio della loggia è composto da sei riquadri nei quali viene narrata la storia di due giovani cavalieri di non facile identificazione, certo da interpretare in chiave allegorica e moralizzante. I riquadri sono inseriti in una ricca cornice composta da figure maschili e femminili, festoni di frutta e fiori, mascheroni, ovali in forma di cammei antichi e coppie di arpie alate. Nel fregio del salone sono raffigurati paesaggi con festoni di frutta e fiori incorniciati da coppie di telamoni dorati inseriti tra due erme a monocromo e da coppie di puttini alati. A intervalli regolari nei due fregi compare lo stemma Colonna ornato con il Toson d’Oro, prestigiosa onorificenza ricevuta da Marcantonio, e lo stemma combinato Orsini-Colonna in onore dei genitori di Fabrizio. Gli affreschi, tradizionalmente riferiti, sebbene con sempre maggiore prudenza, agli Zuccari, sono opera di un gruppo di artisti tra i quali compare Durante Alberti, attivo in quegli anni in alcuni cantieri coordinati da Pirro Ligorio, come le ricerche di archivio condotte da Fausto Nicolai hanno recentemente dimostrato. Il palazzo rimase proprietà dei Colonna per oltre tre secoli, ma la famiglia, che pure sostituì con il proprio gli stemmi di facciata e le iscrizioni della fontana, non vi abitò molto; per la verità vi si recò di rado, tanto che, come 106 accennato, non si preoccupò di completarne la costruzione. Nel 1900 il palazzo, ridotto in condizioni miserrime perché da tempo in stato di abbandono, venne venduto dai Colonna al cavaliere Giuseppe Balestra, già proprietario della villa contigua sul colle dei Parioli. Al figlio di Giuseppe, Giacomo, dobbiamo la prima monografia sull’edificio, nella quale vennero pubblicati i documenti d’archivio che ne attestano la paternità di Pirro Ligorio. I Balestra tuttavia non diedero inizio ai molti lavori di restauro di cui lo storico palazzo, vincolato nel 1910 dallo Stato italiano, 107 A fronte e alle pagine seguenti: Salone grande. In alto: Particolare del fregio a fresco della loggia. 108 109 La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede aveva urgente, disperato bisogno e nel 1920 lo cedettero all’antiquario romano Ugo Jandolo. Questi trovò il palazzo: “in cenci da mendicante e come brandelli gli pendevano addosso i lembi della sua sbiadita veste regale” e promosse un restauro integrale dell’edificio che poi utilizzò come abitazione e galleria d’arte. Jandolo fece dapprima consolidare la struttura dall’ingegnere Carlo Giuliani, in seguito affidò il restauro – da lui definito “artistico” – agli architetti Arnaldo Foschini e Attilio Spaccarelli, i quali avevano A fronte: Facciata interna del palazzo verso il giardino. mostrato nelle loro opere di quegli ultimi anni una particolare attenzione agli aspetti storicoartistici degli edifici. A restauri completati, nel 1923, Jandolo promosse la pubblicazione di un piccolo volume sul palazzo nel quale si trova, oltre al testo con le informazioni storiche curato da Sante Bargellini e a un’accurata relazione dei restauri appena conclusi, una completa documentazione fotografica. Le diverse parti dell’edificio, una dopo l’altra, sono messe a confronto nelle riprese fotografiche eseguite prima e dopo il restauro A fianco e alla pagina seguente: Portico del cortile cinquecentesco del palazzo. intrapreso dall’antiquario. Vedere le illustrazioni del libro – fortunatamente ristampato nel 1989 per volere dell’ambasciatore Emanuele Scammacca del Murgo e dell’Agnone con un’interessante introduzione di Carlo Pietrangeli – colpisce ancora oggi tale è il contrasto tra lo stato fatiscente dell’edificio al momento dell’acquisto da parte di Jandolo e lo splendore che l’edificio progettato da Pirro Ligorio per 110 Pio IV de’ Medici tornò ad avere dopo i lavori di restauro intrapresi dal raffinato antiquario. In seguito all’acquisto del palazzo da parte del Governo italiano, toccò al primo ambasciatore, Cesare Maria de’ Vecchi, conte di Val Cismon, seguire i lavori mirati a trasformare l’edificio in sede diplomatica che, oltre alla residenza del Capo Missione, doveva contenere gli uffici di una moderna ed efficiente Cancelleria. 111 La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede dall’interno dell’edificio tra la parte nuova e l’antica, tra gli uffici e il salone grande. L’ufficio dell’ambasciatore viene sistemato nell’attuale biblioteca, la sala che segue il cosiddetto salotto Direttorio, ultimo degli ambienti di rappresentanza dell’edificio antico. Il ballatoio permette ancora oggi di compiere il giro completo dei salotti del piano Nell’assoluto rispetto delle parti rinascimentali Florestano di Fausto, architetto all’epoca al servizio del Ministero degli Esteri, decide di completare l’edificio: l’ala mancante, su via di Villa Giulia, viene costruita dopo quasi quattro secoli. I lavori, iniziati nel 1929, vengono proseguiti da Aldo Fraschetti nel 1934 e la nuova costruzione in mattoni, in origine destinata a ospitare la Cancelleria nobile, dal salone grande si passa alla loggia, poi all’infilata di salotti: quello rosso, quello blu e quello Direttorio; segue la biblioteca e infine un salotto dal carattere più intimo dal quale si passa nuovamente al ballatoio. Dei tanti lavori d’integrazione e restauro condotti dal 1929 a oggi si ricorda solamente, per ovvie ragioni di spazio, la costruzione dell’Ambasciata, completa il prospetto del palazzo su via di Villa Giulia e prosegue ad angolo retto verso il giardino, dove viene unita all’edificio cinquecentesco con un arco che lascia aperta la visuale sull’elegante portico rinascimentale del cortile, finalmente chiuso in un esagono. Sopra l’arco viene alzato un ballatoio in ferro e vetro che permette il collegamento 112 113 A fianco: Fontana della facciata verso il giardino del palazzo, realizzata nel 1929-1930 secondo il progetto di Florestano di Fausto. La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede della nuova Cancelleria, ultimata secondo il progetto di Mario Tonelli nel 2002. Di Fausto viene incaricato dall’ambasciatore de’ Vecchi di supervisionare anche l’arredamento della nuova sede diplomatica e a tal fine alcune opere vengono acquistate dallo stesso Ugo Jandolo (è il caso di uno stucco raffigurante una Madonna col Bambino, replica fedele di un originale in marmo opera di Antonio Rossellino). Molti arredi vengono concessi in deposito temporaneo dai principali musei e gallerie d’Italia, grazie anche al fondamentale A fronte: Cappella realizzata al piano terreno dell’Ambasciata. aiuto di Federico Hermanin, all’epoca Soprintendente alle Gallerie e ai Musei del Lazio e degli Abruzzi, che sceglie alcuni dei dipinti concessi in prestito e si preoccupa di fare arrivare in Ambasciata da Firenze i sei arazzi che tuttora si trovano in situ. Tra questi compaiono i due grandi panni, parte di una serie delle Storie di Gedeone, il personaggio biblico eletto nel Quattrocento a patrono dell’Ordine del Toson d’Oro, tessuti, come ha proposto di recente Lucia Meoni, probabilmente a Bruxelles in una manifattura ancora non identificata e fatti acquistare nel A fianco: Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, Adorazione dei Pastori, 1537, olio su tela, salotto blu. 1561 da Cosimo I de’ Medici come corredo per il viaggio diplomatico in Spagna del figlio, il principe Francesco. I soggetti degli arazzi che rappresentano Gedeone interroga un giovane della gente di Socoth e Gedeone invia ambasciatori in varie città si adattano perfettamente alla sede diplomatica. Tra i primi dipinti entrati a fare parte della collezione dell’Ambasciata per merito del connubio De Vecchi-Hermanin vi è il quadro forse più importante tra quelli conservati presso la sede diplomatica, L’adorazione dei pastori del Garofalo – uno dei massimi rappresentanti del Rinascimento ferrarese – firmato 114 e datato 1537, ora esposto nel salotto blu. In una parete del salone grande si trova un interessante dipinto che rappresenta il Martirio di santo Stefano di scuola bolognese di primo Seicento, forse riferibile a Lucio Massari. Il primo ambasciatore piemontese riceve in dono dalla Cassa di Risparmio di Torino tredici ritratti di diversi personaggi della famiglia Savoia, all’epoca regnante; tutti esposti in bella mostra nei diversi saloni dell’Ambasciata. Il primo nucleo di opere d’arte del 1929 è andato aumentando soprattutto per successive concessioni di opere in deposito 115 La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede esterno da parte di istituzioni museali italiane ma anche per gli acquisti effettuati dal Ministero degli Affari Esteri. Un bellissimo stipo-monetiere in ebano con decorazioni in bronzo e tartaruga si trova nella loggia dal 1969. Il mobile seicentesco è impreziosito da lastrine vitree dorate e graffite, particolare forma di decorazione del vetro detta verre églomisé, su alcune delle quali si leggono le iniziali “GF” e illustrano episodi della mitologia classica tratti dalle Metamorfosi di Ovidio. Due bei dipinti di scuola napoletana del Settecento, probabilmente due bozzetti, che raffigurano la Gloria di Carlo Borromeo e la Gloria di san Gennaro sono stati comprati dal Ministero, pochi anni orsono, per venire destinati a Palazzo Borromeo. Tra i numerosissimi ospiti ricevuti nella sede diplomatica si ricordano le visite dei pontefici Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il 2 giugno del 1951, anniversario della festa nazionale italiana, Pio XII (1939-1958) visita l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede dopo avere inaugurato l’altare maggiore della confinante basilica di Sant’Eugenio. La visita di Paolo VI (1963-1978) ha luogo il 2 ottobre del 1964, giorno dell’anniversario della nascita di san Carlo Borromeo, in occasione della cerimonia di consacrazione al santo lombardo della cappella dell’Ambasciata, appena restaurata. Durante la cerimonia, svoltasi alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri Aldo Moro e del Ministro degli Affari Esteri Giuseppe Saragat, Paolo VI consegnò in dono all’Ambasciata una reliquia di san Carlo Borromeo. Giovanni Paolo II (1978-2005), il 2 marzo del 1986, dopo avere compiuto la visita pastorale alla vicina basilica di Sant’Eugenio, venne ricevuto a Palazzo Borromeo dal Ministro degli Esteri Giulio Andreotti. Con l’occasione 116 il pontefice donò alla cappella dell’Ambasciata, dov’è tuttora esposta, un’icona che riproduce la Madonna Nera di Czestochowa. *** Il desiderio di fare conoscere Palazzo Borromeo a coloro che non vi sono stati, di ricordare la sua particolarissima atmosfera a quanti invece lo hanno visitato, di fermare nel tempo i luoghi dove ho la fortuna di risiedere e lavorare a partire dall’ottobre del 2007 mi ha spinto a promuovere lo studio completo del palazzo dalle origini ai giorni nostri e la conseguente pubblicazione di un volume monografico. Il presente articolo 117 A fronte: Manifattura toscana del Seicento, stipo-monetiere, loggia. In alto: Scuola romana, Alessandro Magno riceve la vedova di Dario, prima metà del Settecento, olio su tela, loggia. La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede Q Madonna con il Bambino, copia in stucco di un bassorilievo marmoreo di Antonio Rossellino, sala da pranzo. dipende in buona parte dai saggi scritti da Daria Borghese, Cristoph Luitpold Frommel, Fausto Nicolai, Patrizia Marchetti, Lucia Meoni e Pietro Pastorelli per il citato volume curato da Daria Borghese con fotografie di Massimo Listri, edito da Umberto Allemandi e attualmente in corso di stampa. 118