FILOSOFIA E PEDAGOGIA DEL DIALOGO

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FILOSOFIA E PEDAGOGIA DEL DIALOGO
Sonia Claris
FILOSOFIA E PEDAGOGIA
DEL DIALOGO
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Prefazione di MILENA SANTERINI
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Introduzione
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Capitolo primo
Filosofia e dialogo
1.1 La domanda filosofica
1.2 Le origini antiche del dialogo
1.2.1 Il dialogo per i sofisti, per Platone nel Sofista
1.3 Il dialogo in Agostino e Tommaso
1.4 Le questioni teoretiche intorno al dialogo
1.4.1 Generatività del dialogo: il dialogo come teoria
o come pratica formativa del filosofare?
1.4.2 Dialogo e interpretazione: cosa mi dice l’altro?
1.4.3 Dialogo e verità
1.4.4 Dialogicità
1.5 Il dialogo come espressione e forma della filosofia
(modus philosophandi)
Capitolo secondo
La filosofia del dialogo in Martin Buber
2.1 La filosofia dialogica di Martin Buber
2.2 Il personalismo relazionista
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2.3 Il principio dialogico
2.3.1 L’Io, il Tu, l’anima
2.3.2 Elementi dell’interumano
2.3.3 Distanza originaria e relazione
2.3.4 Il dialogo con Dio e con gli uomini
2.4 La parola
2.4.1 Domanda e risposta: il problema del singolo
2.4.2 Formulazione della domanda
2.4.3 La relazione “tra”
2.4.4 La dottrina buberiana della partecipazione e
la dottrina medioevale della partecipatio
Capitolo terzo
Per un pedagogia dialogica
3.1 I Discorsi sull’educazione
3.2 Il dialogo e la comunità
3.3 Il dialogo reminiscente
3.4 Il dialogo liberante
3.5 Il dialogo come antidoto alla chiacchiera
nel vivere insieme
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Conclusioni
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Bibliografia
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Prefazione
MILENA SANTERINI
Il dialogo è una realtà costitutiva della persona che entra in relazione con gli altri attraverso la parola. Non per questo è facile
definirlo, poiché non può essere confuso con la conversazione o
la discussione. La panoramica ampia e profonda di tipo pedagogico e filosofico sviluppata dal libro conduce a riflettere sulla valenza educativa del dialogo, strumento di riflessione, crescita del
pensiero, e soprattutto responsabilità. Il dialogo “autentico” porta
infatti a costruire conoscenze, ma soprattutto ad incontrare l’altro,
elaborando concetti e valori che contribuiscono a creare la propria
identità “condivisa”. L’io pensante e cosciente giudica, valuta e
agisce dialogando con l’altro e con se stesso: qui è lo spazio della
costruzione dell’interiorità.
Con il termine “integrazione” potremmo oggi indicare la capacità di riconnettere al senso di identità personale le diverse
espressioni e situazioni che si presentano, mantenendo una fedeltà
all’intenzione etica originaria. Si sbaglierebbe, però, nel pensare
che il conseguimento della capacità di decisione e la possibilità di
giudicare moralmente sul bene e sul male, il giusto e l’ingiusto, sia
un processo di carattere meramente individuale, ovvero qualcosa
che si conquista da soli. Se si sposta l’attenzione verso il modo in
cui la persona costruisce la conoscenza socio-morale, dall’interes7
se verso la maturazione individuale diviene centrale il processo di
co-costruzione intersoggettiva condivisa, in cui l’individuo è considerato sì agente morale, ma nell’ambito sociale. Tutti gli studi
convergono, quindi, nell’affermare che la possibilità di scambio,
dialogo e confronto con gli altri è il “motore” principale della capacità di ragionare e agire moralmente.
Infatti, la capacità di produrre giudizi morali è legata soprattutto, come hanno messo in luce vari studi, ad una capacità di ragionamento complessa e pluralistica. L’utilizzo di diversi criteri
indica una maggiore capacità di riflessività morale. Per questo, un
pensiero cosciente della complessità – come il libro mette bene in
luce – si crea nel dialogo, sia interiore che con gli altri e nel confronto tra posizioni diverse, che permette un discernimento graduale dei problemi in gioco.
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Introduzione
Esaminare a tutto tondo in dimensione filosofica il dialogo e
l’azione del dialogare significa partire dal presupposto che il pensiero umano sia in qualche modo caratterizzato dalla dinamica
della domanda e della risposta. Il porsi interrogativi fa parte della
natura dell’uomo che apre gli occhi sul mondo ed inizia a investigare sul senso delle cose. Abbiamo importanti e significative testimonianze in questa direzione, a partire dalla più autorevole, quella
di Aristotele, che ci ricorda che «[…] Gli uomini hanno cominciato
a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più
semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi
problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i
fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi
riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un
senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per
questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano
meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi
dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine
di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo
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stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all’agiatezza ed
al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun
vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come
diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito
ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera:
essa sola, infatti, è fine a se stessa»1.
Secondo Aristotele, il fatto stesso di essere al mondo è già meraviglia: meraviglia della nascita.
Il mistero del mondo, di ciò che ci circonda, è continua meraviglia per gli occhi di chi non sappia acquietarsi nel “dato per scontato”. L’interrogarsi nasce da questa apertura iniziale sul mondo.
Il sapere filosofico è diventato nei secoli una forma di sapere
che ha attraversato periodi e climi storici differenti, fino al duplice e contraddittorio processo di autoconfutazione e di autoriabilitazione del Novecento2, tra morte e rifondazione della filosofia,
fino a confermare l’immagine di Gilson del dialogo filosofico che
finisce sempre per “affossare i suoi affossatori”. Le domande della società complessa non possono che diventare propriamente filosofiche, aprire nuovi dialoghi, rinnovare la perennità critica del
sapere socratico.
Si vuole provare ad indagare in modo sistematico le valenze
teoretiche del dialogo e dell’azione che dal dialogo trae origine
e natura, il dialogare. Perché la filosofia è connessa al dialogare,
ovvero, perché il pensiero umano si esprime e formula in modalità
dialogiche? Platone ne è indubbiamente il più noto ed esempla1 Aristotele,
Metafisica I, 2, 982b.
Fornero G., Tassinari S., Le filosofie del Novecento, Mondadori, Milano
2002, p. XV.
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re rappresentante, ma prima di lui Socrate e la maieutica avevano aperto la via all’incalzare del domandare come modo proprio
dell’emersione della conoscenza umana.
Il dialogo dai millenni passati ad oggi non ci ha più abbandonato. Non solo in filosofia e nella storia delle idee e dei pensatori
che si sono succeduti nelle diverse epoche (basti pensare solo alla
quantità di scritti di autori diversi che portano nel titolo la parola
Dialogo… e che in tale forma letteraria sono redatti), ma anche nei
tentativi di collaborazione tra scienze e saperi diversi. A questo
proposito sono esemplari il dialogo interreligioso, quello interculturale, quello impiegato quale modalità di mediazione e riconciliazione alternativa alla violenza o allo scontro distruttivo. Mai come
oggi il dialogo è invocato e additato come via percorribile per la
risoluzione di controversie e dilemmi umani e del mondo. Si tratta
solo di un mezzo? Qual è la sua specificità?
Da qui il forte interesse per approfondire il tema e le sue implicazioni.
La prospettiva scelta si propone di fornire alcuni agganci teorici, tenta di andare alla ricerca dei fondamenti, dei nodi che riguardano le domande di fondo della filosofia. Fare del dialogo il
costrutto principale di analisi interpretativa dell’uomo e delle cose
a quali visioni della realtà, dell’uomo, di Dio porta? Quali sono i
più significativi e rilevanti rappresentanti della cosiddetta “filosofia del dialogo”? Le filosofie del dialogo odierne cosa ereditano del
dialogo delle origini? Sul versante pedagogico, quali indicazioni si
ricavano per l’educazione?
A queste e forse a qualche altra domanda si cercherà di fornire
alcune semplici risposte mediante la trattazione dei tre capitoli di
cui si costituisce questo saggio che si riferiscono, nell’ordine, il
primo all’impostazione della problematica nella sua genesi e costi11
tuzione storica, il secondo alla presentazione del pensiero di uno
dei più rappresentativi pensatori del dialogo, Martin Buber, infine
si porranno in evidenza le valenze pedagogiche di una visione pedagogica basata sul principio dialogico.
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Capitolo primo
Filosofia e dialogo
1.1 La domanda filosofica
“Papà, come possiamo essere sicuri che tutto non sia solo un sogno?” domandò Tim (circa 6 anni) mentre era impegnato a leccare
coscienziosamente il fondo di una pentola1.
Con questo esempio Matthews apre il suo primo libro e riporta
i lettori indietro ad un problema filosofico centrale. Tim pone a se
stesso e a suo padre una domanda che, pur partendo da una situazione personale, ha tuttavia un carattere generale.
Se non siamo in grado di distinguere il sogno dalla realtà, Tim
non potrà essere sicuro di non essere costretto ad abbandonare
il bel sogno in cui sta leccando il fondo della pentola per essere
richiamato improvvisamente alla dura realtà. Tim si chiede, più
precisamente, non solo come possiamo ogni volta distinguere fra
sogno e realtà, ma se l’intera vita non sia solo un sogno, sia esso
un bel sogno oppure un incubo.
Si tratta di domande che si pongono non solo i filosofi, ma presumibilmente tutti gli esseri umani.
Domande basilari, come: “Che senso ha vivere?”, “Perché sia1
Matthews G.B., La filosofia e il bambino, Armando, Roma 1981, p. 1.
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mo qui?”, “Perché siamo in questo mondo?” investono in prima
persona ciascun individuo.
Si tratta di questioni generali proprie di ogni persona e di ogni
tempo, non limitate ad una situazione specifica o ad un aspetto
particolare. Eppure non è solo la filosofia a porsi tali domande generali.
Anche nelle religioni, come nella letteratura possono essere
rintracciate le stesse questioni di fondo: “Chi siamo?”, “Da dove
veniamo?”…
La differenza sta però nel modo di trovare le risposte: la filosofia utilizza solo la razionalità, la logica, indagando, argomentando,
criticando con le armi della ragione, senza presupporre nessun atto
di fede o comunque innestando l’assenso di fede nella dinamica
complessiva della “ragione” o “ragionevolezza” umana.
Ovviamente non ci si può aspettare di raggiungere delle risposte definite a simili domande, ma ci sono più e possibili punti di
vista.
Il dato caratteristico delle risposte filosofiche è che non bloccano completamente la domanda, non la coprono, non la chiudono
totalmente, ma lasciano sempre un qualcosa di aperto. Tant’è vero
che le stesse domande tornano a prodursi ogni volta in modo sempre più preciso.
Le domande della filosofia, infatti, non sono mai saturate del
tutto, come possono essere talvolta quelle che pone la scienza.
Se, per esempio, si domanda ad uno scienziato a che temperatura l’acqua vada in ebollizione, questi darà una risposta risolutiva,
che bloccherà la domanda, e dunque non ci sarà bisogno di riformularla. Viceversa, le domande filosofiche possono riproporsi in
continuazione, possono essere ripetute, poiché sono sempre aperte.
Le risposte filosofiche, infatti, s’innestano nel corpo stesso della
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domanda, la mantengono e la conservano aperta. Questa apertura
assoluta della domanda filosofica è il dato caratteristico, l’elemento importante dell’impostazione della filosofia rispetto alla scienza
e rispetto a qualunque altro tipo di pensiero strumentale.
Restando la domanda aperta, è fondamentale secondo Socrate
che l’indagine filosofica si svolga sotto forma di dialogo. Per questo filosofo dell’antichità la virtù è la ricerca intellettuale che nasce
dal confronto con gli altri. Da esso scaturisce il nostro punto di
vista sul mondo. Socrate infatti, in questa prospettiva, ci insegna a
non farci guidare dagli stereotipi e da certezze precostituite, ma a
ragionare con la nostra testa.
«Come la levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava
alla luce le piccole verità del discepolo»2.
L’arte dialettica viene paragonata a quella della levatrice: come
quest’ultima, il filosofo di Atene intendeva “tirar fuori” dall’allievo pensieri assolutamente personali, le piccole verità che sono in
lui, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute con
la retorica e l’arte della persuasione.
Il metodo della maieutica spinge l’allievo, dopo esser stato
interrogato dal maestro su una determinata questione, ad abbandonare le possibili certezze e alla rinuncia dei propri pregiudizi,
per poter far venire alla luce la “verità” che è nell’animo di tutti
(evidente è la correlazione con il termine “educare”, derivante dal
latino “ex ducere”, ovvero, “trarre fuori”). Attraverso lo strumento
del dialogo e conversando con chi era disposto ad ascoltarlo o interrogarlo, il filosofo era persuaso di poter indurre l’interlocutore
all’autocoscienza e al compimento esistenziale nel segno di una
verità più alta. L’interlocutore, presuntuoso di avere la verità in ta2
Platone, Teeteto (a cura di A. Guzzo), Mursia, Milano 1985, p. 6.
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sca, suscitava le ironie di Socrate, che amava dichiararsi ignorante
su tutto con l’aforisma «so solo una cosa, di non sapere nulla».
Così facendo riusciva nell’intento di mettere in crisi il sistema di
credenze e le facili certezze dell’interlocutore.
Ancora oggi, dopo secoli di storia, si mostrano di grande attualità gli insegnamenti educativi e didattici derivanti dalla dottrina socratica: la ricerca costante del dialogo, del confronto e della
cooperazione, l’arte della maieutica, le problematiche connesse ai
processi di concettualizzazione3. L’azione della maieutica ha rappresentato il primo grande passo, compiuto nella storia della pedagogia, volto al rifiuto di un metodo impositivo di trasmissione
culturale unilaterale, dall’esterno verso l’interno, e unidirezionale,
dal maestro verso l’allievo.
La modalità socratica di intendere la relazione educativa si
caratterizza, al contrario, per una vitale circolarità dialogica, che
sconvolge il ruolo dei soggetti che vi partecipano e li riveste di
nuovo senso: il maestro è colui che solleva dubbi, desta incertezze,
mentre l’alunno non si accontenta del dato per scontato, ma viene
stimolato alla ricerca continua ed instancabile della verità.
«La domanda filosofica parte da un certo scetticismo» dice Savater.
«Chi crede a tutto quello che è stabilito, a tutto quello che le
ideologie imposte gli comunicano, non può essere filosofo, non
può sviluppare in sé l’“inquietudine filosofica”»4.
Lo scettico, infatti, sospende la sua credenza, mette fra parentesi
la sua fede, dubita delle cose, cerca di assumere prospettive, punti
3 Sasanelli L.D. (2009), Socrate e la sua attualità, «Rivista didattica»:
http://www.rivistadidattica.com/filosofia/filosofia_40.htm.
4 Savater F. (2000), Domande filosofiche, in: http://www.caffeeuropa.it/
attualita/85filosofia-savater.html (10-10-2010).
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di vista differenti. Si racconta che le ultime parole di Diderot moribondo furono che lo scetticismo è l’inizio di ogni filosofia. Di qui
l’importanza di questo atteggiamento, da assumere nei confronti
della realtà, ma soprattutto come punto di partenza del filosofare.
Un altro attributo della domanda filosofica è l’immaginazione.
Senza immaginazione infatti non ci può essere filosofia. È però importante non confonderla con la fantasia, col capriccio, con quella
sorta di costante ricerca di qualcos’altro che non sia la realtà.
Le persone che hanno un atteggiamento del genere, al contrario,
sono prive di immaginazione, in quanto quest’ultima non consiste
nel cercare una realtà alternativa, bensì nell’esplorare le possibilità
della realtà data. L’immaginazione non vuole qualcosa di alternativo al reale, ma vuole conoscere, approfondire tutte le possibilità
della realtà, senza trascenderle, esplorandone le qualità, andando
sempre più a fondo. Ancora una volta tali riferimenti riportano al
mondo del bambino che non dà nulla per scontato, ma si interroga
di continuo su ciò che lo circonda, sul reale.
Inoltre la sua spiccata immaginazione lo aiuterà ad esplorare
tutte le possibilità della realtà, fino a quelle che sembrano le più
sconcertanti e contrarie al senso comune, fino al dialogo come dialettica, come esplorazione e ricerca, ed anche come abilità logica
ed argomentativa, certamente. Da piccoli siano tutti impegnati su
due fronti: imparare come funziona il mondo ed immaginare come
potrebbe funzionare altrimenti. In pratica, da adulti, possiamo realizzare concretamene quanto da bambini abbiamo immaginato,
grazie anche alla mancanza di un forte controllo esercitato dalla
corteccia cerebrale prefrontale5. Gli adulti non sono che il prodotto
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Diamod A., Normal development of prefrontal cortex from birth to young
adulthood: Cognitive functions, anatomy, and biochemistry, in Strauss D.T.,
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finale dell’infanzia, in cui sono stati accompagnati da caregiver che
hanno investito sull’insegnamento, che consente l’emergere delle
capacità più sofisticate e tipicamente umane. I bambini impiegano
la loro conoscenza per costruire universi alternativi, ovvero modi
diversi in cui potrebbe manifestarsi il mondo. Usano il “fare finta”
in maniera ricorrente. Perché? I mondi possibili vengono definiti
nel linguaggio filosofico “controfattuali”: si tratta delle eventualità
della vita, ciò che potrebbe avvenire in futuro, ma non è ancora
avvenuto, o ciò che sarebbe potuto avvenire in passato, ma non è
avvenuto. Sembrerebbe una raffinata competenza filosofica: immaginare cose inesistenti. Anche gli psicologi sono convinti che il
pensiero controfattuale sia presente nella vita di tutti i giorni e che
influenzi profondamente decisioni, giudizi, emozioni degli esseri
umani. Chi è più contento alle Olimpiadi? Chi vince il bronzo o
chi vince l’argento? Se avessi vinto l’argento… È meno contento
in genere colui che si è visto sfuggire la vittoria o il premio ambito
di un soffio. Gli uomini, non solo i filosofi, usano in continuazione il pensiero controfattuale, quello del “se”, indispensabile per
il nostro progresso evolutivo. Infatti, con questo tipo di pensiero, procediamo oltre il semplice metodo del tentativo per “prove
ed errori” e giungiamo ad una pianificazione più intelligente delle
nostre azioni, grazie all’anticipazione delle future possibilità. Ciò
vale anche per il passato, anch’esso può essere pensato in modo
alternativo per ragionarci sopra. Nel presente è molto evidente
l’immaginazione del possibile nel gioco simbolico, che compare
nei bambini già a partire dai diciotto mesi, e che consente loro
di trasformare oggetti di uso comune in qualcosa di diverso. Le
Knight R.T. (eds.), Principles of Frontal Lobe Function, Oxford University
Press, New York 2002.
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parole impiegate servono ad indicare nello stesso tempo realtà e
possibilità. I bambini già a tre anni sono molto precisi in termini
controfattuali: se l’orsacchiotto fa cadere il tè inesistente ci vuole uno straccio di fantasia per pulire il pavimento6. Tutto ciò non
comporta tuttavia una confusione tra immaginazione e finzione.
Nei piccoli vari segnali mostrano la consapevolezza della finzione,
ovvero ci indicano che essi sono in grado di distinguere il vero dal
finto, pur restando in preda a forti emozioni e suggestioni. La nostra capacità di raffigurarci mondi possibili è collegata a quella del
pensiero causale. Anche qui ci imbattiamo in un’antica questione
filosofica, affrontata in modo specifico da David Hume, che negò
la possibilità di sapere se un evento sia davvero causa di un altro,
dal momento che possiamo constatare solo che uno viene di solito
dopo un altro7. Possedere una teoria causale del mondo consente
di valutare soluzioni alternative ad un problema, prevedendone le
conseguenze, prima di agire nella realtà, con il risultato di avere a
disposizione una gamma molto più vasta ed efficace di possibilità
di intervento. Pare che i bambini in età prescolare siano pervasi da
un’inesauribile curiosità sulle cause, che si esprime nei continui
“perché”. Il gioco simbolico riesce a funzionare proprio perché
si muove da delle premesse immaginarie, da cui si ricavano delle
conseguenze causali, in modo rigoroso. Vengono costruite in questo modo delle mappe causali della realtà, impiegate per immaginare e per cambiare il mondo. La comprensione causale del mondo
e la produzione di controfattuali vanno infatti di pari passo.
ss.
6
Gopnik A., Il bambino filosofo, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 44 e
7
Lewis D., Counterfactuals, Harvard University Press, Cambridge 1986.
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