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scheda tecnica
titolo originale: LAND OF PLENTY
durata: 114 minuti
nazionalità: STATI UNITI
anno: 2004
regia: WIM WENDERS
soggetto: WIM WENDERS, SCOTT DERRICKSON
sceneggiatura: WIM WENDERS, MICHAEL MEREDITH
produzione: JAKE ABRAHAM, IN-AH LEE, SAMSON MUCKE E GARY WINICK PER
EMOTION PICTURES, INDIGENT, REVERSE ANGLE INTERNATIONAL
distribuzione: MIKADO
fotografia: FRANZ LUSTIG
montaggio: MORITZ LAUBE
scenografia: NATHAN AMONDSON
costumi: ALEXIS SCOTT
musiche: THOM & NACKT
interpreti:
MICHELLE WILLIAMS
JOHN DIEHL
SHAUN TOUB
WENDELL PIERCE
RICHARD EDSON
BURT YOUNG
JERIS POINDEXTER
RHONDA STUBBINS WHITE
BERNARD WHITE
YURI ELVIN
LANA
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HASSAN
HENRY
JIMMY
SHERMAN
CHARLES
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AGENTE ELVIN
WIM WENDERS pseud. di ERNST WILHEM WENDERS
Biografia
Nasce il 14/8/1945 a DUSSELDORF (Germania). Per seguire le orme del padre medico,
dopo il diploma si iscrive a medicina ma alla fine del 1966 si trasferisce a Parigi dove
cerca di iscriversi alla scuola di cinematografia IDHEC. Tornato in Germania, dal 1967 al
1970 frequenta la Academy of Film and Television di Monaco e comincia a collaborare dal
1968 come critico cinematografico per 'Filmkritk' e 'Suddeutsche Zeitung'. Già dal 1967 fa i
primi esperimenti dietro alla macchina da presa iniziando a realizzare il primo corto
Scenari, cui seguono nel 1968 Stesso giocatore spara di nuovo, Klappenfilm, Victor I
e nel 1969 Città d'argento, Film sulla polizia, Alabama 2000 anni luce. Intanto, mette a
punto un suo linguaggio particolare, che combina immagini e musica, realizzando per la tv
Tre LP americani con cui inizia la collaborazione con Peter Handke. Nel 1970 realizza il
primo lungometraggio, Summer in the City, cui seguono nel 1971 Prima del calcio di
rigore e La lettera scarlatta l'anno successivo. Il primo film in cui affronta la tematica del
viaggio, una delle sue caratteristiche, è Alice nelle città, (1973), che costituisce la
cosiddetta Trilogia della strada insieme a Falso movimento (1974) e Nel corso del
tempo (1975). Ed è con quest'ultimo film che Wim riceve i primi riconoscimenti
internazionali, il Premio per il miglior film al Chicago Film Festival e il Premio della critica
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internazionale Fipresci a Cannes. Nel 1977 con L'amico americano fa una lucida
riflessione sui rapporti tra la cultura europea e quella americana rivelandosi al grande
pubblico. Nel 1980 Nick's Movie - Lampi sull'acqua, mostra gli ultimi giorni di vita del
regista Nick Ray, suo amico e maestro, minato da un tumore. Nel 1982 con Lo stato delle
cose, ancora una riflessione sul cinema, ottiene il Leone d'oro a Venezia. Nel 1983 negli
Stati Uniti esce Hammet: indagine a Chinatown, iniziato nel 1978 ma più volte interrotto
per contrasti con il produttore Francis Ford Coppola, e un altro road-movie Paris, Texas
con il quale conquista la Palma d'oro a Cannes nel 1974. Nel 1985 dirige Tokyo-Ga, un
documentario sulla città di Tokyo e sul grande regista giapponese Yasujiri Ozu, ma è Il
cielo sopra Berlino che nel 1987 gli regala il Premio per la miglior regia a Cannes. Nel
1991 invece Fino alla fine del mondo divide la critica e i suoi estimatori mentre Così
lontano così vicino!, séguito - ricco di citazioni cinefile - di Il cielo sopra Berlino, ottiene
nel 1993 il Gran Premio della Giuria a Cannes. Due anni dopo Wim accetta di dirigere
insieme a Michelangelo Antonioni Al di là delle nuvole che ottiene il Premio della Critica
internazionale a Venezia. Nello stesso anno dirige anche il suo film più ironico Lisbon
Story e nel 1997 il thriller Crimini invisibili. L'anno successivo la sua passione per la
musica torna in Buena Vista Social Club, diario emozionante dell'incontro con l'anziano
musicista Ry Cooder e i grandi rappresentanti della musica cubana. Nel 2000 firma
l'originale giallo The Million Dollar Hotel e ottiene l'Orso d'argento al festival di Berlino.
Nel 2002 gira uno dei sette episodi di Ten Minutes Older - The Trumpet in cui ogni
regista - gli altri sono Chen Kaige, Victor Erice, Werner Herzog, Jim Jarmusch, Aki
Kaurismaki, Spike Lee - nel tempo di dieci minuti porta sullo schermo la sua personale
interpretazione del "tempo". Il film utilizza la tecnologia cinematografica in maniera
innovativa e provocatoria per mostrare tutte le esperienze umane: nascita, morte, amore,
sesso, il quotidiano, la storia e il mito. Nel 2002 per la miniserie della tv americana The
Blues - cui lavorano, ciascuno ad un episodio, Charles Burnett, Clint Eastwood, Mike
Figgis, Marc Levin, Richard Pearce e Martin Scorsese - è autore di un pregevole
documentario musicale, L'anima di un uomo che viene anche presentato a Cannes nella
sezione 'Un certain regard'. Si tratta di un mix fra fiction, rare immagini di repertorio e
spezzoni di documentari, che illustra le vicende personali e professionali, la musica e la
vita, di tre esponenti di primo piano del mondo del blues: Skip James, Blind Willie Johnson
e J.B. Lenoir, mentre famosi musicisti contemporanei interpretano i loro brani migliori. Nel
2004 presenta in concorso alla 61ma Mostra del Cinema di Venezia La terra
dell'abbondanza, il suo primo film dichiaratamente politico. Dal 1993 insegna in qualità di
professore onorario all'Academy of Film and Television di Monaco ed è presidente
dell'European Film Academy.
Filmografia
AL DI LA' DELLE NUVOLE
ARISHA
REGIA E SCENEGGIATURA - 1995
ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGIATURA 1992
ALABAMA 2000 LIGHT YEARS
REGIA,
SOGGETTO,
MONTAGGIO - 1968
SCENEGGIATURA
E
ALICE NELLE CITTA'
ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1973
BUENA VISTA SOCIAL CLUB
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1998
CHAMBRE 666
ATTORE E REGIA - 1982
APPUNTI DI VIAGGIO SU MODA E CITTA'
CITY OF ANGELS - LA CITTA' DEGLI
ANGELI
ATTORE, REGIA E FOTOGRAFIA - 1989
SOGGETTO - 1998
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COSI' LONTANO, COSI' VICINO
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1993
LO STESSO
NUOVO
GIOCATORE
CRIMINI INVISIBILI
REGIA,
SCENEGGIATURA,
FOTOGRAFIA - 1967
SPARA
DI
MONTAGGIO
E
REGIA E SCENEGGIATURA - 1997
LONG SHOT
DALLA FAMIGLIA DEGLI IDROSAURI
ATTORE - 1978
REGIA - 1974
FALSO MOVIMENTO
NAPOLI-BERLINO UN TAXI NELLA NOTTE
ATTORI - 1987
REGIA E SCENEGGIATURA - 1974
NEL CORSO DEL TEMPO
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1991
ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1976
HAMMETT INDAGINE A CHINATOWN
NICK'S MOVIE - LAMPI SULL'ACQUA
FINO ALLA FINE DEL MONDO
REGIA E SCENEGGIATURA - 1982
I FRATELLI SKLADANOWSKY
ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1980
ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1996
PARIS, TEXAS
IL CIELO SOPRA BERLINO
POLIZEIFILM
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1987
KING KONGS FAUST
ATTORE - 1985
KLAPPENFILM
REGIA - 1967
LA LETTERA SCARLATTA
REGIA E SCENEGGIATURA - 1972
LA TERRA DELL'ABBONDANZA
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 2004
L'AMICO AMERICANO
REGIA - 1984
REGIA,
SCENEGGIATURA,
FOTOGRAFIA - 1969
MONTAGGIO
E
PRIMA DEL CALCIO DI RIGORE
ATTORE, REGIA E SCENEGGIATURA - 1971
SCHNEEWEISSROSENROT
ATTORE - 1991
SUMMER IN THE CITY
ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1970
TAUSEND AUGEN
ATTORE - 1984
ATTORE, REGIA E SCENEGGIATURA - 1977
TEN MINUTES OLDER - THE TRUMPET
L'ANIMA DI UN UOMO
REGIA - 2002
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 2002
THE MILLION DOLLAR HOTEL
LISBON STORY - STORIA DI LISBONA
REGIA - 1999
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1994
TOKYO-GA
LO STATO DELLE COSE
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1982
ATTORE, REGIA, SOGGETTO, SCENEGGIATURA E
MONTAGGIO - 1985
VIEL PASSIERT - DER BAP FILM
REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 2002
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Ci sono almeno due dati biografici di Wenders che permettono di comprendere appieno la
sua opera. Nasce nel 1945, un anno abbastanza simbolico: la fine della Seconda guerra
mondiale, ma anche il momento in cui la Germania distrutta si pone di fronte agli errori
compiuti e alla ricostruzione. La sua formazione, invece, avviene alla fine degli anni
Sessanta, in un clima politico in cui acquisisce la capacità di parlare un linguaggio molto
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e attraverso simboli tipici della civiltà statunitense, come flipper, juke-box, lattine di CocaCola, la musica rock o anche la semplice inquadratura di un foglio di giornale che
annuncia la morte di John Ford (Alice nelle città, 1973). Oggetti e citazioni che
testimoniano la dipendenza della società tedesca da quell
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afferma uno dei protagonisti di Nel corso del tempo (1975). Wenders infatti appartiene a
una generazione che, oppressa dalla memoria storica del nazismo, preferisce affidare la
propria formazione a modelli stranieri. E questo genera conflitti interiori e contraddizioni
sanabili, secondo il regista tedesco, solo con la ricerca di una propria identità, soggettiva e
personale. É in questa direzione che muovono tutti i personaggi wendersiani i quali, persa
la capacità di identificarsi in un ruolo preciso e di percepire staticamente la realtà, sono
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Estate in città (1970), il vagabondaggio urbano del protagonista inizia con la sua uscita dal
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-portiere di Prima del calcio di rigore (1971), inizia dopo la sua
espulsione dal campo di gioco. Il viaggio delle due donne in La lettera scarlatta (1972),
inizia quando decidono di farla finita con la comunità puritana in cui sono emarginate. É
come se alla comprensione del mondo si giunga attraverso uno stacco dal passato, che
permetta di guardare le cose solo attraverso il loro freddo apparire. Stilisticamente questo
concetto induce a ricorrere al bianco e nero, che secondo Wenders rende in maniera più
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le cose, al di là dei colori della realtà. Tematicamente,
invece, i primi film appaiono un cammino coerente verso una compromissione con il reale,
le cose, le persone che, se non porta a un traguardo definitivo, conferma però, in ogni
manifestazione, la sua necessità e il suo dover essere.
Tre esempi emblematici. In Nel corso del tempo,i due protagonisti che vagabondano lungo
la frontiera tra le due Germanie hanno alle spalle, oltre le loro vicende personali, una
speranza generazionale, fallita e ancora dolorosa, di rifondare i rapporti umani e politici. Il
viaggio insieme li porterà ad una nuova separazione, ma anche alla consapevolezza che,
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rinunciano al loro statuto di puro spirito, per approdare alla materiale concretezza di un
corpo umano compromesso con la storia, la morte, la limitatezza del sapere degli uomini.
Alle spalle di questa decisione una serie di elementi significativi: innanzitutto la nostalgia di
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grado di raccontare storie che nascono dalla coscienza stessa di chi ascolta, il solo
capace di comprendere la Storia più di coloro che partecipano ad essa.
Ma Omero è anche il simbolo della funzione immortale della scrittura. In Fino alla fine del
mondo (1991) Wenders costruisce uno scenario avveniristico, in cui la presenza
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cinema stesso, quindi, sul banco degli imputati, forse lo stesso cinema di Wenders con
tutti i suoi caratteri Il viaggio, ad esempio, è ancora presente, ma viene seguito, piuttosto
che lungo il tragitto del divenire, attraverso le singole tappe di spostamento, mete sempre
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necessari di una comunicazione da riscoprire.
Wim Wenders, addio America
Wim Wenders dice addio all'America. Dall'inizio degli anni Ottanta, da quando realizzò il
suo primo film in Usa, il regista tedesco alterna opere in puro spirito americano (Paris
Texas) ad altre profondamente europee, come Il cielo sopra Berlino. Oggi, Wenders
scrive la sua lettera di commiato alla terra dell'abbondanza, il suo penultimo atto d'amore.
L'ultimo, ci ha detto, arriverà il prossimo anno.
Con La terra dell'abbondanza, in concorso a Venezia e nei cinema da domani, il regista
tedesco affronta le paure e le ossessioni degli americani dopo l'11 settembre. Lana è una
giovane volontaria che ha passato la vita tra l'Africa e il Medio Oriente. Torna negli Stati
Uniti dove è nata per incontrare lo zio che non ha mai conosciuto. Paul è un ex veterano
del Vietnam che il crollo delle due Torri ha trasformato in un paranoico ossessionato da
possibili attacchi terroristici. Su un furgoncino attrezzato per la sorveglianza, Paul vaga per
Los Angeles alla ricerca di islamici integralisti da stanare. Nel suo girovagare si imbatte in
Lana. Abbiamo incontrato Wim Wenders, al Lido accompagnato dalla moglie, la fotografa
Donata Wenders, sulla terrazza dell'hotel Des Bains.
Esiste ancora il sogno americano? Gli Stati Uniti dell'amministrazione Bush sono ancora
una terra dell'abbondanza?
George W. Bush ha trasformato gli Stati Uniti da una terra dell'abbondanza ad una
terra della povertà economica, politica e culturale. Ha preso ai poveri per dare ai
ricchi. Non mi sembra da buon cristiano.
Come è cambiata la sua visione degli Stati Uniti dopo l'11 settembre?
Il mondo è cambiato dopo l'11 settembre, ma l'America è quella che è cambiata di
più. L'11 settembre ha segnato l'inizio di un nuovo periodo storico per gli Stati Uniti,
ma questo non vuol dire che gli ideali di democrazia e libertà debbano cambiare.
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Ciò che è accaduto negli ultimi tre anni è che l'amministrazione Bush ha stravolto le
idee che erano alla base del paese.
La protagonista del film, Lana, è una giovane volontaria che ha scelto di vivere in paesi a
rischio come la Palestina e l'Africa. Un personaggio che ricorda le due ragazze italiane
rapite in Iraq. Cosa spinge, secondo lei, persone così a questa scelta?
Ho un profondo rispetto per le persone che fanno un passo così coraggioso. Ho
rispetto per chi riesce a trasformare il proprio amore in azione e fa ancora più male
quando queste persone diventano vittime. Ma questo non deve cambiare le loro
convinzioni. Non dobbiamo permettere al terrorismo di sconfiggere le nostre idee di
democrazia e libertà. Anzi, con queste idee e con l'amore dobbiamo opporci al
fondamentalismo di questi terroristi.
In un momento in cui gli Stati Uniti sono attaccati e criticati aspramente, lei ha realizzato
un film che è anche e soprattutto una dichiarazione d'amore. Perché?
Volevo guardare l'America non come ad un nemico. Mi piace troppo per farlo. Sono
veramente dispiaciuto per la situazione attuale che sta vivendo. Considero gli
americani delle vittime di questa situazione. Come europeo mi rendo conto che c'è
una mancanza di informazione pazzesca. Ho cercato di fare un film che fosse uno
sguardo positivo sull'America. Sarebbe stato troppo facile fare un film per affossare
gli Stati Uniti ma sarebbe stato contro le mie convinzioni.
La musica è sempre un elemento importante dei suoi lavori. Qui, addirittura, una canzone
dà il titolo al film. Come ha realizzato la colonna sonora per The land of plenty?
Ovviamente il titolo del film è una canzone di Leonard Cohen. Mentre giravo
ascoltavo molta sua musica e facendo caso alle parole di questa canzone mi sono
reso conto che riprendeva esattamente il contenuto del mio film. Sono molto grato a
Leonard che mi ha permesso di usarla per il titolo. All'inizio avrei voluto che i
Radiohead facessero la colonna sonora del mio film ma, alla fine, per colpa dei loro
impegni, hanno rinunciato. Sono rimasto molto deluso ma dalla delusione è nata
anche una cosa positiva perché ho incontrato un ragazzo, Thom Nackt, che ha lo
stesso approccio sinfonico dei Radiohead ma anche elementi suoi originali. Ai suoi
brani ho aggiunto altre canzoni di musicisti che amo come i Travis e i Toten Hosen,
che sono un gruppo tedesco che mi piace molto.
Ha appena terminato di girare un altro film americano Don't Come Knocking. Poi tornerà
a lavorare in Europa?
Questo è il mio ultimo film americano per un bel po'. Sento il bisogno di girare di
nuovo nella mia lingua e nel mio paese. Ho finito di girare solo dieci giorni fa e ogni
notte sogno le riprese, non ho ancora una distanza sufficiente dal film per poterne
parlarne. Posso solo dire che si tratta di un road movie, un film postwestern, la
storia tragicomica di una famiglia americana. Ci vorranno ancora sei, otto mesi per
finire. Non ho ancora iniziato il montaggio.
Chiara Ugolini - www.kataweb.it
Wenders: la mia America, terra di povertà
Amo gli Usa ma denuncio i danni fatti da Bush. In questo film la tragedia di vivere
Wim Wenders torna favorito alla Mostra, dove ieri ha già vinto il cattolico Premio Bresson
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Invasi dalla continua propaganda, ma privi di vera informazione, se non nel labirinto
di Internet. Gli americani si sentono persi, credono sempre di essere al centro del
mondo invece sono emarginati da almeno un decennio: isolati, ciechi e incapaci
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con una nipotina missionaria indaga su un fatto di sangue.
Ce ne sono molti di tipi così in America, li abbiamo visti con i nostri occhi. I veterani
hanno visto decurtata la pensione, vivono malissimo eppure continuano a credere.
La gente pensa alla terra promessa e la politica diventa una nuova miscela
esplosiva di guerra santa e fondamentalismo
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Fahrenheit 9/11 mi ha dato il background, è vero. Ma quello è un film polemico, un
pamphlet, il mio è sul
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evento che si può rappresentare solo tacendo su uno schermo nero
La ragazza della missione (Michelle Williams) è la Bontà?
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Film polemico?
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non credo possa risolvere nulla ma spero possa essere utile e far scoprire agli
americani la propria insicurezza. Quando il mio Paul, cui voglio un gran bene,
comincia a capire, spero che lo stesso accada anche agli americani: è un
personaggio che mi è diventato molto caro, con tutta la sua confusione. Provo una
gran compassione per lui e per quelli come lui
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più accada, non lo chiedono i morti.
Non è un lieto fine, definisce solo la posizione morale entro cui si può agire. Dovevo
girare lì, punto di non ritorno della storia, luogo emblematico
Intanto ha finito un altro film Usa. Diverso?
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Sam Shepard, che lo recita con Jessica Lange, Tim Roth ed Eve Marie Saint. È una
western tragic comedy
Recupero del vecchio West?
Si svolge in Nevada e Montana, parla del microcosmo di una famiglia che però è
dislessica moralmente, particolare
Non ridiventerà autore europeo?
Sì, presto giro in Germania un fim di matrice storica
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Non lo prendo così sul serio, ma adoro Venezia, è sempre un sogno, anche se in
questo momento non mi sento proprio competitivo
Maurizio Porro –Corriere della Sera
Wim Wenders: THE URBAN LANDSCAPE
un estratto da "Wim Wenders - L'atto di vedere, 1992 Ubulibri, Milano".
Wenders si rivolge a un pubblico di architetti riuniti in convegno a Tokyo il 12 ottobre 1991
Non sono né un architetto né un urbanista, e posso parlarvi' solo nella mia qualità di
cineasta che ha vissuto e lavorato in diverse città, puntando la cinepresa davanti a tanti
paesaggi - soprattutto paesaggi urbani, ma anche regíoni di campagna, zone di confine,
nodi austostradali o distese desertiche.
Il cinema è una cultura urbana, nata sul finire del secolo scorso e cresciuta parallelamente
all'espansione delle metropoli. Il cinema e le città sono cresciute e diventate adulte
insieme, e i film sono testimonianze dei grandi mutamenti che hanno trasformato le
eleganti città del fine secolo nelle difficili e nevrotiche megalopoli odierne. Il cinema è stato
anche testimone delle distruzioni di due guerre mondiali; ha visto crescere i grattacieli e i
ghetti, ha visto i ricchi diventare sempre più ricchi e i poveri più poveri, è insomma lo
specchio adeguato delle città del Novecento e degli uomini che le abitano. In misura
[email protected]
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maggiore delle altre arti, i film sono documenti storici del nostro tempo. La settima arte è
stata in grado più di ogni altra di catturare l'essenza, il clima e le tendenze del suo tempo,
anche le speranze, le paure e i sogni, articolandoli in un linguaggio universalmente
comprensibile. Ma è anche divertimento, e il divertimento è l'esigenza urbana per
eccellenza: la città doveva inventare il cinema per non annoiarsi a morte.
Diventato parte integrante e attiva del nostro ambiente, il cinema ci mostra il paesaggio
urbano dalla prospettiva delle immagini; e vorrei che vi soffermaste un momento su questo
temine: 'immagine' non è certo un concetto chiaro e univoco, perché può indicare di tutto,
sia entità totalmente astratte che fatti molto concreti. E l'immagine di paesaggi urbani che il
cinema ha tracciato nel corso della sua storia sono molto diverse dall'aspetto reale che
hanno assunto oggi; i film ci suggeriscono movimento e dinamismo, una realtà in completa
trasformazione.
Voi tutti sapete quanto si siano modificate le città, quanto sia cambiata ad esempio Tokyo
negli ultimi cento, o cinquanta, addirittura negli ultimi dieci anni. Si tratta di un processo
che sembra subire una continua accelerazione, e noi siamo ormai abituati sia ai
cambiamenti che alla rapidità con cui si verificano. Ma contemporaneamente all'ambiente
urbano cambiano appunto anche le immagini. Forse si può addirittura affermare che le
immagini e le città si evolvono in maniera analoga, probabilmente parallela.
Gli uomini preistorici tracciavano disegni alle pareti delle loro caverne, incidevano forme
sulla pietra o facevano segni sulla sabbia. Poi impararono a dipingere su altre superfici,
nelle cupole delle chiese o su tele, e per secoli la verità poteva essere raffigurata solo
tramite la pittura. Ogni immagine era un unicum: chi voleva osservare un'opera era
costretto a guardare la tela o a visitare la chiesa che la conservava. Poi, con l'invenzione
della stampa, le immagini vennero riprodotte e cominciarono a circolare, sotto forma di
incisioni e riproduzioni.
Nell'Ottocento ci fu un grande balzo in avanti. Con l'invenzione della fotografia nacque un
rapporto totalmente nuovo tra realtà e rappresentazione, che produsse una sorta di realtà
di seconda mano. Il passo successivo non tardò a venire: le immagini fotografiche si
misero in movimento. A quel punto, bastava entrare in un cinema della propria città per
vedere il mondo intero. Passarono trenta o quarant'anni e arrivò un altro concorrente,
l'immagine elettronica, che si dimostrò più rapida del cinema, capace inoltre di mostrare gli
eventi dal vivo. Fu chiamata televisione, ovvero 'vedere lontano', e creò al contempo
vicinanza e distanza. Le sue immagini erano più fredde, meno cariche di emozioni; e si
allontanavano ancor più dall'idea che ogni raffigurazione dovesse contenere in sé la realtà.
Non esisteva più un originale ben idenfificabile, come il negativo del processo fotografico,
ed era necessario un maggiore apparato tecnico per colmare la distanza tra la realtà e lo
spettatore seduto a casa davanti al piccolo schermo. Inoltre, la televisione isolava
l'osservatore: non bisognava più uscire di casa, mettersi in fila e poi sedersi tra estranei
per fare un'esperienza collettiva, quindi sociale.
Ma anche la televisione si vide presto esposta alle trasformazioni. Nacquero sempre
nuove emittenti, si aggiunsero le televisioni via cavo, la ricezione via satellite e soprattutto i
video (cioè 'io vedo' in latino). Con l'arrivo dei videotape, il pubblico non era più dipendente
dalla programmazione delle emittenti, perché era in grado di decidere liberamente il
proprio programma. Né era costretto ad acquistare videotape già realizzati, giacché
poteva realizzare da sé immagini elettroniche. La tecnologia necessaria divenne sempre
più semplice, più'economica, più maneggevole. Oggi chiunque può portare nella tasca
della giacca la sua handycam, ogni bambino può realizzare la sua realtà di 'seconda
mano'. Ma anche questo non è l'ultimo cambiamento: ci troviamo infatti alle porte della
rivoluzione digitale, e dell'immagine video ad alta risoluzione, della 'high vision'. Le
immagini elettroniche ne usciranno più mature, più belle, più cariche di dettagli e di
fascino. E cancelleranno definitivamente ogni idea di 'originale', perché ciascuna copia
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sarà perfettamente identica al primo supporto registrato; ogni immagine elettronica sarà
disponibile ovunque e ovunque riproducibile.
Ma tutti i progressi dell'alta definizione non renderanno certo le immagini più affidabili e
credibili, tutt'altro: saranno infatti manipolabili a qualsiasi livello, e quindi anche alterabili a
piacere. Ogni singolo pixel, ogni minima unità, ogni atomo puntínato potrà essere
manipolato. E non esistendo più alcun originale, non ci sarà più nessuna prova di
autenticità. L'immagine digitale non farà quindi che spalancare ancor più il solco esistente
tra la realtà in quanto tale e la rappresentazione, rendendolo forse ínsuperabile.
Nel corso della loro storia, le immagini hanno interamente cambiato natura, passando
dall'unicura del dipinto fino al clone digitale. L'evoluzione è stata estremamente rapida, e
con altrettanta rapidità si sono moltiplicate di numero. Noi oggi ne veniamo bombardati
come non è mai successo nella storia dell'umanità. Bombardamento che non diminuirà
certo perché nessuna autorità pubblica, nessuna istituzione, nessun governo potrà
impedire l'espansione del regno delle immagini. 1 computer, i giochi elettronici, i
videocitofoní, la 'realtà virtuale' sono solo gli ingredienti di questa inflazione. E gli uomini
hanno imparato a adeguarsi a questo sviluppo frenetico, afferrando con maggiore rapidità i
nessi visivi, vedendo più rapidamente, mentre gli altri sensi si atrofizzano. Se venisse
proiettato uno dei nostri film d'azione a un pubblico degli anni trenta, la gente
abbandonerebbe le sale disorientata o furiosa. E se una famiglia degli anni cinquanta o
sessanta dovesse passare col telecomando su cinquanta diversi canali di una televisione
di oggi, tutti cadrebbero in una crisi isterica o nell'apatia, a seconda delle disposizioni dei
singoli.
Le immagini si moltiplicano, si impongono ovunque e prendono sempre più possesso della
nostra esistenza; e diventano non solo sempre più belle, ma soprattutto sempre più
seducenti. La fotografia e il cinema avevano sfruttato proprio l'innata forza seduttiva delle
immagini sviluppando un nuovo linguaggio e anche una nuova morale. Nell'Unione
sovietica degli anni venti e nella Germania degli anni trenta, alla grammatica filmica s'era
poi aggiunta la propaganda. E sarà soprattutto l'industria della pubblicità ad appropriarsi
delle nuove tecniche di persuasione e seduzione.
In breve tempo, il cinema aveva messo a punto un nuovo linguaggio visuale passando
anche dal muto al sonoro. Ma già negli anni cinquanta e sessanta, il nuovo linguaggio
elettronico della televisione ha ribaltato e svuotato la grammatica filmica per poi venire a
sua volta assalita dalle leggi della pubblícità e dall'estetica dello spot. Come la televisione
ha cambiato il cinema, così la pubblicità ha trasformato la televisione, e oggi dobbiamo
senz'altro tenere presente che lo spirito pubblicitario si è ormai insinuato in ogni forma di
comunicazione visiva. Le immagini sono universalmente diventate più commerciali,
cercano di catturare la nostra attenzione, stanno in perpetua concorrenza tra loro, e
ciascuna cerca di superare la precedente.
Se un tempo, il compito prioritario e più illustre delle immagini era quello di mostrare le
cose, oggi sembra che il suo obiettivo sia sempre più quello di vendere. Credo che le
immagini abbiano vissuto un processo analogo e parallelo a quello delle nostre città,
anch'esse cresciute a dismisura. Anche le nostre città sono diventate sempre più fredde,
più inaccessibili; estranee e stranianti; anch'esse ci offrono sempre più esperienze di
seconda mano; anch'esse sono sempre più dominate da un'indole commerciale. Gli
abitanti devono trasferirsi nelle periferie, i centri storici sono troppo costosi, e vengono
occupati dalle banche, dagli alberghi, dall'industria del consumo e del divertimento.
Ciò che è piccolo scompare; nel nostro tempo sopravvive soltanto ciò che è grande. Le
piccole cose semplici spariscono, come le piccole immagini semplici, o i piccoli, semplici
film. Nell'Industria cinematografica, la scomparsa di tutto ciò che è piccolo e semplice è un
triste processo che ci vede oggi testimoni. Per le città, questa perdita è forse più evidente
e probabilmente ancora più grave.
[email protected]
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Così come le immagini che ci circondano sono sempre più stridenti, disarmoniche,
strillanti, poliformi e sfacciate, allo stesso modo le città diventano più complesse, più
assordanti, dissonanti, inafferrabili e opprimenti: le città e le immagini stanno proprio bene
assieme. Prendiamo in considerazione soltanto l'immensa quantità di immagini urbane
rappresentata dai segnali stradali, le immense insegne al neon sui tetti, le pubblicità sui
muri, le vetrine, le pareti video, le edicole, le macchinette automatiche, i messaggi
trasportati dalle automobili, dai camion, dagli autobus; le scritte sui taxi o nella
metropolitana; ogni sacchetto di plastica porta un'immagine stampata...
Noi ci siamo abituati. Quando mi recai per la prima volta in una città dell'ex blocco
sovietico (si trattava di Budapest), provai un autentico choc: non c'era nulla di tutto questo.
Pochi segnali stradali, qualche orribile bandiera, un paio di slogan appassiti; per il resto
una città senza immagini, senza pubblicità.
In quel momento capii quanto noi eravamo abituati, e dipendenti, dal profluviu di messaggi
visivi. La pubblicità si è ormai resa indispensabile; le immagini stanno diventando una
droga, e le città non lo sono già? Con le droghe, è noto che c'è il rischio dell'overdose.
Cosa possiamo fare per difenderci?
Come cineasta sono arrivato alla conclusione che le mie immagini hanno un'unica
possibilità per non essere travolte da questo immenso flusso visivo di concorrenzialità e
commercializzazione: devono narrare una storia.
Nel mestiere del regista si cela il pericolo di produrre immagini fini a se stesse, e dai miei
stessi errori ho imparato che una 'bella immagine' non ha alcun valore in sé, al contrario:
una bella immagine può distruggere l'effetto e 9 funzionamento dell'intera struttura
drammatica. Quando iniziai a fare cinema, se il pubblico lodava le mie immagini mi
ritenevo estremamente lusingato, come se fosse il miglior plauso. Oggi, se qualcuno le
loda penso piuttosto di avere sbagliato qualcosa nel film. E dai miei sbagli ho imparato che
l'unico antidoto contro le immagíni autocelebrative è credere ferma mente alla priorità della
storia. Ogni immagine trae infatti una sua legittimità solo in rapporto a un personaggio
della storia che narra; e dandole troppa importanza finisce per indebolire il personaggio. E
una storia con personaggi deboli non ha alcuna forza. Solo la storia, l'insieme dei
personaggi conferisce credibilità a ogni singolo fotogramma, 'fonda una morale', per
esprimermi nel gergo di un artista.
Queste mie esperienze di cineasta possono essere tradotte in quelle degli architetti e degli
urbanisti? Esiste nel paesaggio urbano un corrispondente di ciò che è la storia per un film?
Non lo so. Per avvicinarmi alla risposta devo fare qualche passo indietro. Mentre dicevo
che la storia protegge i personaggi dalle immagini autocelebrative, quindi superflue o
addirittura inermi, pensavo anche che un paesaggio rappresenta per me una sorta di
figura supplementare.
Una strada, una fila di case, una montagna, un ponte, un fiume sono per me qualcosa di
più di un semplice sfondo. Possiedono infatti una storia, una personalità, un'identità che
deve essere presa sul serio; e influenzano il carattere degli uomini che vivono in
quell'ambiente, evocano un'atmosfera, un sentimento del tempo, una particolare
emozione. Possono essere brutti, belli, giovani o vecchi; ma sono comunque elementi
presenti, e per un attore è proprio l'unica cosa che conti. Quindi meritano di essere presi
sul serio.
Nel corso degli ultimi anni ho lavorato in Australia e ho avuto la fortuna di conoscere gli
aborigeni. E mi ha sorpreso che per loro ogni singola conformazione del paesaggio incarni
una figura del loro passato mitico. Ogni collina, ogni roccia porta in sé una storia
intimamente legata alla loro epoca mitica.
E mi è tornato in mente come anch'ío, da bambino, nutrissi simili convínzíoni. Un albero
non era semplicemente un albero, ma anche uno spettro; e i profili delle case avevano
tratti umani. C'erano case serie, case truci e case amichevoli. Un fiume poteva mettere
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paura, ma anche dare pace. Le strade avevano una personalità; alcune le evitavo, in altre
mi sentivo al sicuro. Le montagne e i profili dell'orizzonte erano i riflessi di certe nostalgie e
desiderí, e ricordo ancora la mia paura di fronte a una grande roccia in un bosco, che
chiamavamo Ia donna seduta'.
I paesaggi e le immagini delle città evocano nei bambini emozioni, associazioni, idee,
storie. Diventando adulti tendiamo a dimenticarle, perché impariamo a difenderci dal
nostro sapere infantile, che si affidava molto più ai nostri occhi: ciò che vedevamo
determinava la coscienza di noi stessi e dei nostri luoghi.
A New York abitai per un periodo in un appartamento con vista sul Central Park. Tutte le
volte che uscivo dal palazzo vedevo davanti a me un grande macigno di roccia, ai margini
del parco, che a seconda del tempo cambiava colore. Era un frammento dello strato di
granito su cui è costruita l'intera città. Ogni volta che gettavo uno sguardo sul masso ne
traevo una sensazione di equilibrio: era molto più antico della città intorno a me, era
robusto e mi dava sicurezza perché stranamente mi sentivo legato a lui. Ricordo una volta
di avergli rivolto un sorriso, come a un amico: irradiava su di me una sorta di quiete, mi
rendeva più calmo. La città in cui ora vivo poggia su un vastissimo strato di sabbía, dal
colore molto chiaro; e di tanto in tanto la si vede, sia pur in un cantiere. Anche questa
sabbia risveglia in me un senso di comunanza, addirittura di sicurezza, perché mi indica il
luogo in cui mi trovo. Ovviamente anche gli edifici lo fanno, ma in maniera diversa. Berlino
è una città particolare, perché durante la guerra ha subito lacerazioni devastanti, che la
successiva divisione della città non ha certo guarito.
Berlino ha molte superfici libere. Si vedono case con pareti interamente vuote perché la
casa a fianco non è stata ricostruita dopo il bombardamento. Gli sconfortanti muri laterali
di questi palazzi sono chiamati pareti frangifuoco, e non esistono altrove. Sono come
ferite, e a me la città piace per le sue ferite, che mi raccontano la sua storia molto meglio
di qualsiasi libro o documento. Durante le riprese del Cielo sopra Berlino, mi accorsi che
andavo sempre alla ricerca di queste superfici vuote, di queste terre di nessuno, perché
avevo l'impressione che questa città potesse essere rappresentata molto meglio dalle
zone vuote che da quelle occupate.
Quando c'è troppo da vedere, quando un'immagine è troppo piena o quando le immagini
sono troppe non si vede più niente. Dal troppo si passa molto presto al nulla, come certo
sapete. E conoscete anche un altro effetto: quando un'immagine è spoglia, povera, può
risultare talmente espressiva da soddisfare interamente l'osservatore, e così dal vuoto si
passa alla pienezza. Un cíneasta è continuamente alle prese con questi problemi nella
preparazíone di ogni ripresa. E deve fare in modo di non lasciare nell'ímmagine ciò che
intende catturare e mostrare al pubblico, perché tutto ciò che deve essere mostrato, e che
l'immagine deve contenere, trova spiegazione in ciò che ne resta aldifuori.
A Berlino, dove io vivo, sono proprio gli spazi vuoti a consentire agli uomíni di farsi
un'immagine della città. Non solo perché permettono di abbracciare con lo sguardo intere
superfici (a volte anche fino all'orizzonte, cosa di per sé piacevole in una città); bensì
perché attraverso queste falle si può vedere il tempo che, in termini generali, è l'elemento
che scandisce la storia.
Quanto al cinema si possono fare considerazioni analoghe. Esistono film che sono come
spazi chiusi: non lasciano il minimo spazio vuoto tra le singole immagini, non permettono
di vedere ciò che è rimasto 'fuori' dal film, non consentono agli occhi e ai pensieri di
muoversi liberamente. In questo genere di choc visivi lo spettatore non può riversare nulla
di proprio, nessun sentírnento, nessuna esperienza. E si esce dal cinema con un senso di
delusione. Solo i film che lasciano spazi vuoti tra le immagini raccontano una storia, ne
sono convinto, perché una storia si produce anzitutto nella testa dello spettatore o
dell'ascoltatore. E gli altri film, quelli a sistema chiuso, fingono soltanto di raccontare una
vicenda. Seguono la ricetta della narrazione, ma usando ingredienti senza gusto.
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Le città non raccontano storie, ma possono comunicarci qualcosa sulla Storia; possono
conservare e mostrare la loro storia, renderla visibile oppure nasconderla. Possono aprire
gli occhi, come succede nei film, o chiuderli. Possono divorare o nutrire la fantasia.
Tokyo, contrariamente a ciò che sostengono molti, è a mio avviso una città aperta; che
offre qualcosa, non ruba soltanto. Ammetto che abbia una spiccata tendenza a frastornare
e ad assalire i suoi cittadini. Ma stranamente, dietro ogni angolo di strada si può scoprire
uno spazio verde; dalla giungla roboante si passa a zone calme, delicate, pacifiche. Dietro
ogni grattacielo si nascondono viali alberati con file di case basse, giardini, uccelli, gatti,
insomma pace. Oppure si scopre un cimitero che, diversamente da quelli europei o
americani, è un luogo abitato, vivo. 0 un tempio che, contrariamente alle chiese che
conosciamo noi, è molto accogliente e non ti fa sentire un intruso se non sei credente.
Tokyo è un sistema di isole. Ovviamente, queste isole dovrebbero essere conservate, e
stanno via via scomparendo. Come ho già detto, tutto ciò che è piccolo scompare.
Ma se perderemo tutto ciò che è piccolo smarriremo anche la nostra capacità di orientarci,
cadremo vittima delle grandi dimensioni, di ciò che è inafferrabile, onnipotente.
Dobbiamo batterci per conservare tutto ciò che è di piccole dimensioni, che conferisce alle
grandi cose una visuale, una prospettiva. Nella storia del cinema, i piccoli film sono stati la
culla della creatività, hanno prodotto idee nuove, contenuti inusuali, storie più umane, più
vere. I piccoli film sono sempre stati i serbatoi del sapere. In una città, tutto ciò che è
piccolo, vuoto, aperto è una sorta di batteria che ci permette di ricaricarci contro lo
strapotere dei grandi complessi.
Io non sono un avversario dei grandi edifici, al contrario, mi piacciono. Adoro i monoliti, i
grattacielí. Ma al contempo li trovo sopportabili, e abitabili, a condizione che siano
circondati da viali alberati con negozietti, caffè, insomma che si possa incontrare
un'alternativa. Nessun'altra città offre i due elementi come fa Tokyo.
Quando a Parigi abbatterono le Halles, seguii quello spettacolo con rabbia e dolore. Per
anni non rimase che un immenso buco, rimpiazzato poi da un immenso sistema
sotterraneo con negozi e boutique che aveva comunque i tratti della precedente voragine.
Quando a Tokyo verrà abbattuto il Golden Gai per fare spazio a una costruzione più
grande, piangerò di nuovo, perché la città ne uscirà impoverita.
Non vorrei essere frainteso. lo non sono ostile alla costruzione di nuovi edifici, alla
modifica dell'aspetto urbano. Ad esempio, se come regista affermassi che ogni nuovo film
contribuisce soltanto all'inflazione di immagini, parlerei contro me stesso. No, la rinuncia
non può essere una soluzione. Ogni nuovo edificio può porsi come esempio di chiarezza
costruttiva, può esprimere un nuovo standard di funzionalità e rigore estetico.
Ma voi che siete architetti dovete tener conto anche del fatto che il frutto del vostro lavoro
può essere inficiato dall'ambiente che lo circonda, così come io devo tener presente che i
miei film possono essere proiettati in un cinema che mostra immagini di violenza o
pellicole porno. Un mio film in televisione rischia di essere martoriato da un continuo
cambio di programmi col telecomando. Non mi resta quindi che sperare nella capacità di
ogni inquadratura, o per lo meno di ogni scena, di emanare quella calma e quella
leggerezza che differenzia il film dai prodotti puramente commerciali.
Non dobbiamo lasciarci contagiare dalla spietata concorrenza che oggi regna tra le
immagini, né cercare di catturare a ogni costo l'attenzione dello spettatore. Credo piuttosto
che bisogna distanziarsi da questo genere di concorrenzialità. Si può dare il buon esempio
solo rimanendo fedeli a se stessi, non inseguendo a ogni costo il trend.
Voi architetti siete creatori di edifici, e dovete seguirne la crescita dal primo schizzo fino
alla consegna, così come un cineasta deve controllare e dare la propria impronta al film
dal primo teatment, alla scelta dei luoghi di ripresa e del cast, al momento delle riprese,
del montaggio, fino al punto in cui viene mostrato al pubblico. Un edificio e un film hanno
molti aspetti in comune. Devono entrambi essere progettati, preparati e finanziati. Un
[email protected]
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edificio deve avere una solida struttura portante, così come un film possiede l'elemento
portante di una storia. E deve mostrare uno stile plausíbile allo stesso modo di un film, che
necessita di un suo complesso linguaggio. Voi dovete progettare un edificio abitabíle,
accogliente; ma anche un film deve avere queste qualità.
Io amo le città, ma a volte è necessario lasciarle, osservarle da lontano per capirne i pregi.
Il deserto offre il migliore distacco per osservare la vita urbana; conosco i deserti
americani e australiani, dove ogni tanto ci si imbatte in qualche resto della civiltà: una
casa, una strada in rovina, una linea ferroviaría dísmessa, anche un distributore di benzina
abbandonato o un motel. In un certo senso si tratta di esperienze opposte a quelle che si
fanno quando in città si penetra in uno spazio aperto. Una terra di nessuno all'intemo di
una metropoli ha come prerogativa la presenza del paesaggio urbano tutt'intorno, e ce lo
mostra in una prospettiva diversa, in un'altra luce. Mentre la comparsa nel deserto dei resti
della civiltà rende il paesaggio ancora più vuoto.
Una volta, nel deserto del Mojave in California, vidi un cartello arrugginito, una sorta di
reclame, molto lontano dalla strada. Era piantato nel nulla, e le sue grandi lettere sbiadite
annunciavano: Western World Development: slots 410-460. Qualcuno doveva aver
progettato proprio in quel lembo di deserto una città. Il paesaggio circostante era
completamente arido, si vede va solo qualche sparuto cactus. Provai a immaginare lì una
città: osservando quella distesa avevo quasi l'impressione che fosse effettivamente
esistita, e soltanto scomparsa. Una cosa però non potevo ignorare: la regione era molto
più antica di qualsiasi insediamento, quindi era anche inessenziale sapere se fosse o
meno esistito un agglomerato urbano.
Alcuni anni dopo, in Australia, incontrai uomini che da quarantamila anni vivevano nel
deserto come nomadi. Erano gli aborigeni, e credevano in qualcosa di essenziale:
credevano di appartenere a quella regione, e si sentivano responsabili dei luoghi, ciascuno
per una precisa zona. Erano effettivamente una parte del territorio. Il pensiero opposto,
ovvero che qualcuno potesse possedere un pezzo di terra, era per loro inimmaginabile. Ai
loro occhi, la terra era la proprietaria degli uomini, mai viceversa. La terra possedeva
autorità. Forse tutti gli uomini del mondo, non solo gli aborigení, nascono con questa
convinzione. Ma la nostra civiltà ha completamente estinto o rimosso l'idea
dell'appartenenza alla terra, e le immagini urbane ne sono la riprova. Le città hanno reso
invisibile la terra, quasi per nascondere i loro sensi di colpa.
La roccia di New York o la sabbia di Berlino sono dei moníti. In molte città non è più
possibile toccare la terra, sentire la durezza della pietra. Se un aborigeno dovesse vivere
in una città simile morirebbe. Le città sono così piene di ogni genere di cose che hanno
cancellato l'essenziale, vale a dire che sono vuote. Il deserto al contrario è così vuoto che
è straboccante di essenziale.
E per concludere il mio discorso vorrei pregarvi di considerare il vostro lavoro anche come
creazione di luoghi futuri per i bambini. Le città e i paesaggi andranno a forgiare il loro
mondo di immagini e desideri. E vorrei anche che provaste a considerare ciò che per
definizione è l'esatto contrario del vostro lavoro: voi infatti non dovete solo costruire edifici,
bensì creare spazi liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza non ci
accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro.
©copyright Ubulibri
non solo cinema: Wim Wenders."Immagini della superficie della terra"
Presentazione della mostra di fotografie organizzata presso il Museo Guggenheim di Bilbao
L'avventura fotografica di Wim Wender incominciò nel 1983, quando fece un lungo viaggio
[email protected]
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in automobile, durato alcuni mesi, lungo le strade del West americano, attraverso il Texas,
l'Arizona, il New Messico e la California alla ricerca di paesaggi in cui ambientare il film
Paris-Texas, lasciandosi affascinare dalla vastità infinita di quello spazio, saturo di luce e
colore, che riprese con la sua macchina fotografica, una Makina-Plaubel 6x7, per avere
una memoria visiva di quei luoghi.
Successivamente al film, si rese conto che il lavoro fotografico di documentazione aveva
una forza suggestiva del tutto autonoma, da qui la nascita di un libro dal titolo "Scritto nel
West", edito in Italia dalla Jaka Book nel 1988, che fece proprio il progetto editoriale della
Punto e Virgola, casa editrice che annoverava tra i fondatori il compianto grande fotografo
Luigi Ghirri e di una mostra itinerante che fu presentata in molte città, suscitando sempre
grande interesse. In una intervista di Alain Bergala pubblicata nei Les Cahiers du Cinema,
in occasione di una delle sue prime mostre fotografiche, al Centro George Pompidou,
Wenders giustificava il suo interesse per la fotografia per la capacità intriseca di questo
strumento di saper cogliere l'aspetto contingente delle cose, la sua temporalità, la scoperta
degli aspetti nascosti; ciò che Paul Virilio ha definito "l'estetica della scomparsa". Nelle foto
di Wim Wenders vi è spesso qualcosa che pur essendo palpabile a livello intuitivo, non
compare, è assente, e la sua presenza transitoria è sospesa nell'atmosfera delle foto.
Anche nella selezione di fotografie presentata adesso nelle sale del Guggenheim di
Bilbao, ingrandimenti giganteschi che coinvolgono lo spettatore e quasi lo inglobano nella
visione panoramica, Wenders prosegue questa sua ricerca dell'assenza, dello spirito del
luogo, delle tracce quotidiane che si perdono nello spazio sospeso in un tempo quasi
surreale. La cifra stilistica di Wenders si inserisce appieno nel solco del paesaggismo
moderno, che può sintetizzarsi nella ricerca della desacralizzazione dell'idea del
paesaggio romantico, del territorio vergine, dell'eternità della natura e della sua
sublimazione, per dar luogo ad una realistica e appassionata ricerca di ciò che viene
abbandonato dall'uomo o che viene trasformato in un continuo processo di elaborazione
dall'agire umano; non si tratta più, perciò, di una natura eterna, ma di saper cogliere quei
processi di cambiamento attraverso i segni perituri che l'uomo nel suo cammino lascia
dietro di sé e che abbandona al proprio destino.
Diversamente dalla colonizzazione spagnola di Cortez e Pizarro durante la conquista della
terra maya e azteca fino a quella inca, di fronte alla straordinaria terra che senza una fine
apparente si apriva ad occidente della costa nord-americana dove nessun uomo aveva
ancora innalzato le mura di una città, tracciato il confine di una nazione e fondato il destino
di un impero con la visibile e non più eludibile testimonianza che ogni monumento della
storia da all'ambiguità e al male che abitano il cuore della natura e dell'uomo, un sogno
straordinario ha guidato fin dall'inizio la colonizzazione degli uomini bianchi che
provenivano dalle lotte religiose dell'Inghilterra riformata: la folle utopia, scambiata per
possibile realtà, di poter vivere il rapporto con Dio e con il mondo in un'assoluta purezza,
radicale bontà, totale libertà. Una conquista della terra avvenuta contro la memoria che la
coscienza storica irriducibilmente ha delle profondità oscure e misteriose della realtà, una
conquista della terra avvenuta senza la forma obbligante al di fuori di sé di una città
straniera da conquistare e di un impero sconosciuto da assoggettare ed assimilare e
senza la forma obbligante dentro di sé di una città da fondare in obbedienza al disegno
sapiente ed antico dettato dalla viva figura del re lontano.(
…)
Le immagini scattate da Wenders ai segni ed alle tracce lasciate dall'uomo nel mitico West
della nostra infanzia fotografano quindi l'impossibile sogno dell'intero Occidente di poter
abitare la terra senza portare su di sé il peso della memoria, il dramma della coscienza
che testimoniano della reale consistenza del mondo, formato non solo dalla luce
trasparente della verità, del bene, della bellezza, ma anche dall'ombra ambigua e tragica
della menzogna, del male, della morte. E in questa consapevolezza ridonata alla nostra
[email protected]
16
memoria ed alla nostra coscienza risiede l'importanza di queste fotografie che, proprio nel
metterci di fronte al dissolversi del sogno di un nuovo mondo, ridanno concretezza e
consistenza al mondo reale che ci è stato dato per vivere e per abitare.
Giovanni Chiaramente-Brano tratto dalla presentazione del libro di Wim Wenders,
"Scritto nel West", a cura di Giovanni Chiaramonte, Jaka Book editore, Milano, 1988
L'idea della degenerazione delle case e dei cartelli indicatori, quella patina di "fine del
mondo", ha a che fare con gli uomini e le loro costruzioni. Ma che ne è degli alberi, dei
paesaggi, della natura, delle cose che sono in procinto di scomparire, rispetto a quest'idea
che tu vorresti fissare nella foto
Tra queste foto ce ne sono poche dove non si trovino tracce umane. Nella maggior
parte di esse c'è sempre qualcosa che un giorno non ci sarà più e che forse, nel
momento in cui stiamo parlando, già è scomparso. Oppure fra dieci, cento anni.
Come Houston, per esempio: là tutto è talmente nuovo, artefatto, quasi delle case
giocattolo - un'architettura fatta per divertimento, quasi una città di Lego - che se ne
cava per forza la sensazione che non potrà durare. Il West americano per me è il
luogo dove qualcosa tramonta. Quand'ero piccolo, conobbi il West per mezzo dei
film, i Western appunto, e i libri di Karl May, e quando cercavo di immaginare il
West, vedevo sempre davanti a me questo paesaggio incredibile la cui scoperta
risaliva a un passato non così remoto, al 19° secolo. Quando ci andai, avendo per
così dire partecipato alla sua scoperta, ritenevo che ormai dovesse esservi giunta la
civilizzazione. Ma non era affatto così, la civilizzazione l'aveva attraversata, una
prima volta il secolo scorso con il treno, poi in questo secolo con l'automobile,
quando negli anni venti e trenta si costruirono le strade, le pompe di benzina, i
motel. Ma adesso, quando ci si va, tutta questa cultura della strada, con le sue
scritte pubblicitarie e le sue luci al neon, sono in decadimento, non si usano più, per
niente. Per spostarsi da New York a Los Angeles, la gente non usa più l'automobile.
Il treno non lo si prende più già da vent'anni. Gli americani abitano soprattutto sulle
coste o nella zona centrale del West, il grande nocciolo agricolo del territorio. Sono
solo passati, dal West; hanno tentato di farne qualcosa, hanno costruito strade,
motel, aree di servizio e hanno messo su dei cartelloni, hanno perfino pensato di
costruire delle città - talvolta si trova, nel mezzo del deserto, un'insegna stradale:
375a strada - ma non è successo niente: e oggi ci sono solo i camion che
sfrecciano con grande rumore, e ogni tanto un'auto solitària. La civilizzazione è
arrivata, ha fatto sosta qui qualche tempo, poi è ripartita, e ora sta nuovamente
scomparendo. Solo poche persone sono rimaste, e anche loro se ne vanno,
abbandonano le pompe di benzina e le automobili che arrugginiscono un po' da
tutte le parti. Questa scomparsa procede con rapidità nella grande calura, con il
sole o la pioggia. Dopo un anno un'area di servizio abbandonata è già ricoperta
dalla vegetazione. Osservando queste foto si potrebbe pensare che io abbia
deliberatamente cercato di tener lontano con la forza gli uomini o qualsiasi cosa
dotata di vita propria. Ma, viceversa, ho sempre aspettato che arrivasse qualcuno.
Ci si accorge che in fondo questo paesaggio non si è lasciato influenzare
dall'asfalto, dalle auto e dalle réclame al neon, nonostante proprio queste ultime si
adattino molto bene ai colori e alla luce serale del West. Si ha la sensazione che di
tutto questo fra cent'anni non vi sarà più nulla. Il paesaggio tornerà ad avere la
meglio. Già adesso si passa a fatica con il treno, e si può supporre che nel giro di
vent'anni anche con l'auto sarà molto difficile riuscirvi. Si dovrà prendere l'aereo.
Proprio in questo paesaggio mitico del West, ho sempre trovato questa corteccia,
questo qualcosa che si decompone e dà alla fotografia una patina di magìa.
Brano tratto dall'intervista a Wim Wenders di Alain Bergala
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17
Recensioni
Bruno Fornaia –Film tv
Buona notizia. Il Wenders di La terra dell'abbondanza non è quello dei suoi lontani tempi migliori
ma non è neppure quello noioso degli ultimi tempi, guru e predicatore. È un Wenders inaspettato,
con una visione particolare e personale dell'America: che non è la biblica terra della pienezza dove
scorrono latte e miele. Il titolo del film è figura retorica di inversione e antitesi. Nell'America di
Downtown Los Angeles, con i poveracci senza casa che dormono sotto i cartoni sui marciapiedi, si
incontrano l'invasato e paranoico Paufe l'idealista e umanitaria Lena. Il film sta in questo triangolo:
una città abitata dagli ultimi degli umiliati, un veterano del Vietnam che continua a condurre la sua
guerra contro nemici che stanno dappertutto e complottano contro la libertà del suo paese, una
giovane donna che ha vis suto in Africa e in Medio Oriente e che adesso, tornata in patria, vuole
dedicarsi ai dannati della sua terra. I due sono zio e nipote, non si conoscono, cominciano a
sfiorarsi, si trovano insieme a scoprire cosa c'è dietro l'omicidio di un povero pakistano. E dietro
non c'è il complotto mondiale che Paul sospetta. C'è soltanto il naufragio casuale di una vita
oscura e sfortunata come tante. Wenders si ritrae, lavora su personaggi e luoghi , stringe il quadro,
fa dell'America del dopo 11 settembre il paese dell'angosciante attesa di una nuova catastrofe,
terra di povertà, di isolamento paranoico e di slanci ideali. Di città spettrali con una Missione come
ancoraggio provvisorio e di: un deserto con un'altrettanto fantomatica cittadina, quattro baracche,
dove le storie finiscono per dissolversi, dove Paul e Lena cominciano a ritrovarsi prima di partire in
pellegrinaggio. verso Ground Zero. Dice Paul che quel buco nero nel cuore dell'America se lo
immaginava più grande. Lena gli chiede di ascoltare il silenzio. E Leonard Cohen, canta la title
song. Niente prediche. Ripartire dal poco. Affezionarsi a un'immagine vibrante, come quella di un
colibrì magicamente sospeso nell'aria.
Bruno Ugolini –l
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proprio per questo è ancora più efficace. Perché si mette nei panni di quelli che vagano nella New
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Italia compresa. A quelli che magari pensano che sia meglio un Paese occupato dalle truppe
americane, sia pure con il loro carico di vessazioni, rispetto ad un Paese occupato da bande
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Un film che aiuta a pensare. Certo non è una mera opera di propaganda, non è un comizio.
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sorriso, la stessa fanciullezza, lo stesso coraggio delle due Simone italiane. Gente a cui non basta
manifestare in piazza, come è pur doveroso fare. Vuole aggiungere qualcosa di concreto,
contenere il disastro.
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Roberto Silvestri –il Manifesto
Il secondo film in gara ieri ha un titolo ironico, basta leggersi le statistiche sulla povertà,
sull'assistenza sociale e sulla violenza ai minori (e agli aliens) che riguardano gli Stati uniti
d'America. La terra dell'abbondanza è una riflessione lucida e accorata, in forma di ballata, sul
dopo 11 settembre. Infatti proprio oggi esce in tutta Italia. È diretto da Wim Wenders, il cineasta di
Dusseldorf «salvato dal rock'n'roll e dal blues», che arriva fino al non luogo di Trona, California, per
ambientare un specie di remake di Paris, Texas, un duetto zio/nipote che si ritrovano a fatica, dopo
essersi abbandonati nel nulla, come quello era stato uno sguardo sulla famiglia lacerata e
irricomponibile, microcosmo di un intero «paese non più di dio» o «di un dio impazzito».
L'ex marine Paul (John Dhiel), veterano sciovinista, ferito a Long Thanh e per trent'anni esposto
agli effetti dell'agente rosa (la diossina) che gli ha spappolato il cervello, peggio che a Bush jr. la
perdita di un pozzo di petrolio, con un altro partner balordo si è autoproclamato protettore
dell'America «terra degli uomini liberi». Le sue paranoie post-Twin Towers vengono sfogate nel
passaggio alla clandestinità armata reazionaria (rompe tutti i ponti con la famiglia) e dalla caccia
grossa all'arabo sospetto, stanato tramite camper tecnologicamente attrezzato e un buon uso
suprematista di internet. Sterminator di fanatici islamici ritroverà qualcosa di grottescamente
familiare nell'idealismo cattolico altrettanto individualista e «celibe» della appena maggiorenne
nipote Lana (Michelle Williams), che si è già rimboccata le maniche in Africa e ora se la ritrova nel
cuore dell'Impero, facendo volontariato tra gli affamati e i derelitti (quanto sono!) della Missione
Dowtown di Los Angeles, la megalopoli dell'immensa ricchezza e dell'immensa povertà. La morte
apparentemente non casuale di un barbone medio-orientale, cui sono entrambi testimoni, fa
incontrare e scontrare quelle loro opposte radicalità che cercheranno di rispondere al quesito: «che
ne è stato del sogno americano?».
Andranno correttamente, eroicamente, a caccia di prove e indizi su quel che è successo davvero e
che nessun agente del Lapd («il dipartimento di polizia più corrotto del mondo», parola di Aldrich)
avrebbe la minima voglia di scoprire. A cominciare dai dintorni del The Million Dollar Hotel, nel
«centro» di Los Angeles e uscendo poi in pieno deserto, fino a Venti miglia da Trona (così si
intitola anche un cortometraggio che Wenders ha girato nel 2002 sul set) perché solo nei pressi di
una frontiera l'americano vero si riappropria delle sue qualità e identità e capacità libertarie. E il
paese proprio davanti alla sua più difficile frontiera, il 7 novembre, le elezioni che possono
affondare o salvare il mondo, si trova oggi. Il cuore di questo film diretto da uno zombie sugli
zombies ribelli è invece, come sempre nei film di Wenders, fuori quadro, nel soundtrack. Leonard
Cohen, Beangrowers, David Bowie, Thom, Die Toten Hosen, Travis, Hub Moore, Tv Smith.
Tullio Kezich –Corriere della Sera
A chi legge i giornali francesi si raccomanda di non prendere atto delle stroncature che hanno
salutato La terra dell'abbondanza, accolto invece molto bene a Venezia. Nel film, il migliore di
Wenders negli ultimi anni, assistiamo al confronto fra l'America di Bush e l'altra America, quella
che vorrebbe tornare a essere la patria della libertà. Impersonano le due culture John Diehl,
veterano del Vietnam convinto di lottare in buonafede contro il terrorismo, e sua nipote Michelle
Williams, da lui rifiutata per anni per dissensi con la sorella "liberal". Vediamo la strana coppia
riunita in un'inchiesta per l'uccisione di un immigrato pakistano che sembra (ma non è) frutto di una
congiura razzista.Dalla periferia di Los Angeles a un borgo sperduto nel deserto, emerge
l'immagine di un Paese definito ironicamente "land of plenty" e, invece, sopraffatto dalla miseria.
Un film vitale e problematico, ricco di immagini vere colte al volo da un cineasta di razza.
Mattia Pasquini –35mm.it
Dopo l'esplosione di "Buena Vista Social Club", il controverso "Million Dollar Hotel" e il tanto
decantato, e fuori dalle righe, "The Blues" forse può sembrare strano, ma il Wim Wenders che
continua a riempirci gli occhi è quello visto da poco (in occasione della 'gran riedizione'...) di "Fino
[email protected]
19
alla fine del mondo", ma soprattutto quello di "Lisbon Story". E' colpa sua però. Le riprese poco
pulite, le visioni in digitale, la telecamera cme specchio in cui vedere un mondo mediato, riflesso,
...e riflettervi, sono quelle già viste in altre opere del grande regista tedesco e spesso usate per
trasmettere tematiche ormai divenute quasi un marchio di fabbrica dello stesso.
Come si vede, non è solo Moore a fare le pulci a una America del Nord poco incline all'autocritica,
all'osservazione delle proprie miserie e tanto desiderosa di credere alle bugie che si racconta da
crearsi una realtà paranoide in cui vivere... meglio? Vogliamo considerare indicativa la splendida
immagine della bandiera americana, ostentata e idolatrata dal Paul 'agente', che gradatamente si
consuma, acquista anima, vive l'incontro con un mondo da cui prima era - volontariamente e
presuntuosamente - eslcusa.
Chissà che presto non diventi evidente la necessità di fare un passo avanti, per tutti; che scoprire
se stessi, il proprio paese, il mondo, bisogna uscire... da sé e da tutto, guardarsi e vivere
attraverso gli occhi degli altri.
Valerio Salvi –FilmUp
Per questa sua personale ode all'America, Wenders (Fino alla fine del mondo) sceglie delle "facce
da telefilm" che allo stesso tempo sono anche tipiche "facce da Wenders": Lana (Michelle Williams
/ Dawson's creek) e Paul (John Diehl / Miami Vice) sono uniti da un legame di sangue, ma allo
stesso tempo sono due facce della stessa medaglia: a cosa hanno diritto gli americani?
Lana attivista da sempre è tornata a Los Angeles convinta che bisogna prima risolvere i problemi
interni (senza tetto, miseria, alfabetizzazione, ecc.), perché è inutile chiudere gli occhi di fronte
all'evidenza e sperare che evitando di passare in un certo quartiere si possa annullarne l'esistenza.
Paul, reduce dal Vietnam con la mente affollata da visioni provocate dall'avvelenamento da
diossina, è un convinto assertore della self-security. Bisogna stare uniti contro il nemico e restare
sempre vigili. Passa il tempo guidando il suo pulmino per le strade di L.A. e monitorando presunte
attività sospette. Il caso li unirà alla ricerca della verità sulla morte di un barbone di origine
islamica, una verità che per ognuno dei due ha un colore diverso della bandiera, il bianco della
tolleranza e della fede per Lana, che vorrebbe solo restituire il corpo ai familiari, ed il rosso del
sangue e della intolleranza per Paul che cerca una cellula terroristica. Sarà proprio attraverso lo
scontro di questi due mondi che Wenders cercherà di riconciliare queste due anime dilaniate di
un'America che non si riconosce più nella sua stessa Amministrazione. In solo un mese di riprese
Wenders confeziona questo suo personale omaggio all'America che non è altro che una fotografia
super partes, almeno nelle sue intenzioni. Emblematica la frase finale che Lana dirà a Paul: "Io
l'undici settembre ero in mezzo a gente che festeggiava il crollo delle torri..." "Eri con i
terroristi?""No, ero in mezzo alla popolazione, ma loro ci odiano!"
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Il cinema ha raccontato e continua a raccontare il 'dopo 11 settembre'. Al documentario politico
anti-Bush di Michael Moore, Fahrenheit 9/11, accolto con un'ovazione di quindici minuti al festival
di Cannes, risponde infatti Wim Wenders con The Land of plenty, un film 'militante' a basso costo,
girato in digitale e ambientato nella periferia di Los Angeles.
Wenders lo definisce il più politico dei film da lui diretti, una storia drammatica che trae spunto dal
difficile clima politico che attualmente vivono gli Stati Uniti. Il regista, nato Düsseldorf in Germania
ma che da tempo si è trasferito e lavora in America, nel film dà una testimonianza diretta di
quest'atmosfera sostenendo che negli Usa aleggia la sensazione di "patriottismo frainteso".
Sentimento alimentato dai media che diffondono un'informazione poco libera, non per mancanza di
libertà effettiva ma per assenza di qualcuno che l'informazione la faccia seriamente, assenza che
di fatto favorisce una propaganda filogovernativa.
Da artista sensibile, Wenders si è sentito chiamato in causa e ha deciso di illustrare il suo diverso
punto di vista sulla situazione puntando il dito in particolare sulla povertà, vera emergenza
americana della quale, come avverte il regista stesso, quasi nessuno parla. Il titolo provvisorio del
lungometraggio inizialmente era ancora più esplicito: Angst and Alienation in America (Rabbia e
Alienazione in America), poi modificato in The land of plenty (La terra dell'abbondanza), che evoca
la canzone di Leonard Cohen oltre che anche i disagi della controversa realtà americana del dopo
11 settembre.
L'11 settembre è infatti la data che ha cambiato la vita di Lana (Michelle Williams), giovane liberal
[email protected]
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protagonista del film che dopo aver a lungo viaggiato, seguendo perfino in Palestina un padre
missionario, decide di ritornare negli Stati Uniti per riprendere gli studi. Salvo poi dedicarsi alla lotta
antiterrorismo condivisa con suo zio Paul (John Diehl), fratello unico della madre morta anni prima
e veterano della guerra del Vietnam che vive nei bassifondi di Los Angeles.
The land of plenty è un film più schierato politicamente rispetto ai precedenti, più politico anche
rispetto al nuovo lavoro di Wenders, ancora in fase di lavorazione, Don't come knocking, con Sam
Shepard, Jean Reno e Jessica Lange. La tendenza a far film contro il presidente Bush è stata,
secondo lo stesso Wenders, inaugurata da Sean Penn che ha per primo avuto il coraggio di
prendere posizione contro di lui sopportando non poche ritorsioni dai media americani. E a
Cannes, durante la presentazione del film L'assassinio di Richard Nixon, in cui interpreta
l'attentatore del presidente Sam Bicke, l'attore non ha esitato e ha detto: "Non avrei mai pensato di
dover rimpiangere Nixon".
Federico Chiacchieri –Sentieri Selvaggi
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sfuggire a questa centralità del presente, quel mondo post 11/9 che sembra proprio impossibile
ignorare.
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settembre gli hanno come rilanciato il trauma dalle guerra, e Paul va in giro con un furgone
attrezzatissimo alla ricerca di possibili attentatori, in una personalissima guerra al terrorismo.
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se, che a tratti sembra uscito da 1941 allarme a Hollywood di Spielberg/Zemeckis, e il film lo segue
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sulla morte di uno di loro di cui è stato testimone diretto. E a un certo punto davvero sembra che
Wenders si perda, come il suo protagonista, sembra vaneggiare un cinema che racconta
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abbia voluto approfondire il personaggio che amava e si è invece ricacciato nella palude del
reduce del Vietnam di cui non aveva così tanta voglia di raccontarci poi molto. Colpa di Michael
Meredith, lo sceneggiatore, forse. E peccato che non abbia ritrovato Sam Shepard, nelle cui mani
un copione del genere sarebbe diventato esplosivo.
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