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[email protected] 1 scheda tecnica titolo originale: LAND OF PLENTY durata: 114 minuti nazionalità: STATI UNITI anno: 2004 regia: WIM WENDERS soggetto: WIM WENDERS, SCOTT DERRICKSON sceneggiatura: WIM WENDERS, MICHAEL MEREDITH produzione: JAKE ABRAHAM, IN-AH LEE, SAMSON MUCKE E GARY WINICK PER EMOTION PICTURES, INDIGENT, REVERSE ANGLE INTERNATIONAL distribuzione: MIKADO fotografia: FRANZ LUSTIG montaggio: MORITZ LAUBE scenografia: NATHAN AMONDSON costumi: ALEXIS SCOTT musiche: THOM & NACKT interpreti: MICHELLE WILLIAMS JOHN DIEHL SHAUN TOUB WENDELL PIERCE RICHARD EDSON BURT YOUNG JERIS POINDEXTER RHONDA STUBBINS WHITE BERNARD WHITE YURI ELVIN LANA PAUL HASSAN HENRY JIMMY SHERMAN CHARLES DEE DEE YOUSSEF AGENTE ELVIN WIM WENDERS pseud. di ERNST WILHEM WENDERS Biografia Nasce il 14/8/1945 a DUSSELDORF (Germania). Per seguire le orme del padre medico, dopo il diploma si iscrive a medicina ma alla fine del 1966 si trasferisce a Parigi dove cerca di iscriversi alla scuola di cinematografia IDHEC. Tornato in Germania, dal 1967 al 1970 frequenta la Academy of Film and Television di Monaco e comincia a collaborare dal 1968 come critico cinematografico per 'Filmkritk' e 'Suddeutsche Zeitung'. Già dal 1967 fa i primi esperimenti dietro alla macchina da presa iniziando a realizzare il primo corto Scenari, cui seguono nel 1968 Stesso giocatore spara di nuovo, Klappenfilm, Victor I e nel 1969 Città d'argento, Film sulla polizia, Alabama 2000 anni luce. Intanto, mette a punto un suo linguaggio particolare, che combina immagini e musica, realizzando per la tv Tre LP americani con cui inizia la collaborazione con Peter Handke. Nel 1970 realizza il primo lungometraggio, Summer in the City, cui seguono nel 1971 Prima del calcio di rigore e La lettera scarlatta l'anno successivo. Il primo film in cui affronta la tematica del viaggio, una delle sue caratteristiche, è Alice nelle città, (1973), che costituisce la cosiddetta Trilogia della strada insieme a Falso movimento (1974) e Nel corso del tempo (1975). Ed è con quest'ultimo film che Wim riceve i primi riconoscimenti internazionali, il Premio per il miglior film al Chicago Film Festival e il Premio della critica [email protected] 2 internazionale Fipresci a Cannes. Nel 1977 con L'amico americano fa una lucida riflessione sui rapporti tra la cultura europea e quella americana rivelandosi al grande pubblico. Nel 1980 Nick's Movie - Lampi sull'acqua, mostra gli ultimi giorni di vita del regista Nick Ray, suo amico e maestro, minato da un tumore. Nel 1982 con Lo stato delle cose, ancora una riflessione sul cinema, ottiene il Leone d'oro a Venezia. Nel 1983 negli Stati Uniti esce Hammet: indagine a Chinatown, iniziato nel 1978 ma più volte interrotto per contrasti con il produttore Francis Ford Coppola, e un altro road-movie Paris, Texas con il quale conquista la Palma d'oro a Cannes nel 1974. Nel 1985 dirige Tokyo-Ga, un documentario sulla città di Tokyo e sul grande regista giapponese Yasujiri Ozu, ma è Il cielo sopra Berlino che nel 1987 gli regala il Premio per la miglior regia a Cannes. Nel 1991 invece Fino alla fine del mondo divide la critica e i suoi estimatori mentre Così lontano così vicino!, séguito - ricco di citazioni cinefile - di Il cielo sopra Berlino, ottiene nel 1993 il Gran Premio della Giuria a Cannes. Due anni dopo Wim accetta di dirigere insieme a Michelangelo Antonioni Al di là delle nuvole che ottiene il Premio della Critica internazionale a Venezia. Nello stesso anno dirige anche il suo film più ironico Lisbon Story e nel 1997 il thriller Crimini invisibili. L'anno successivo la sua passione per la musica torna in Buena Vista Social Club, diario emozionante dell'incontro con l'anziano musicista Ry Cooder e i grandi rappresentanti della musica cubana. Nel 2000 firma l'originale giallo The Million Dollar Hotel e ottiene l'Orso d'argento al festival di Berlino. Nel 2002 gira uno dei sette episodi di Ten Minutes Older - The Trumpet in cui ogni regista - gli altri sono Chen Kaige, Victor Erice, Werner Herzog, Jim Jarmusch, Aki Kaurismaki, Spike Lee - nel tempo di dieci minuti porta sullo schermo la sua personale interpretazione del "tempo". Il film utilizza la tecnologia cinematografica in maniera innovativa e provocatoria per mostrare tutte le esperienze umane: nascita, morte, amore, sesso, il quotidiano, la storia e il mito. Nel 2002 per la miniserie della tv americana The Blues - cui lavorano, ciascuno ad un episodio, Charles Burnett, Clint Eastwood, Mike Figgis, Marc Levin, Richard Pearce e Martin Scorsese - è autore di un pregevole documentario musicale, L'anima di un uomo che viene anche presentato a Cannes nella sezione 'Un certain regard'. Si tratta di un mix fra fiction, rare immagini di repertorio e spezzoni di documentari, che illustra le vicende personali e professionali, la musica e la vita, di tre esponenti di primo piano del mondo del blues: Skip James, Blind Willie Johnson e J.B. Lenoir, mentre famosi musicisti contemporanei interpretano i loro brani migliori. Nel 2004 presenta in concorso alla 61ma Mostra del Cinema di Venezia La terra dell'abbondanza, il suo primo film dichiaratamente politico. Dal 1993 insegna in qualità di professore onorario all'Academy of Film and Television di Monaco ed è presidente dell'European Film Academy. Filmografia AL DI LA' DELLE NUVOLE ARISHA REGIA E SCENEGGIATURA - 1995 ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGIATURA 1992 ALABAMA 2000 LIGHT YEARS REGIA, SOGGETTO, MONTAGGIO - 1968 SCENEGGIATURA E ALICE NELLE CITTA' ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1973 BUENA VISTA SOCIAL CLUB REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1998 CHAMBRE 666 ATTORE E REGIA - 1982 APPUNTI DI VIAGGIO SU MODA E CITTA' CITY OF ANGELS - LA CITTA' DEGLI ANGELI ATTORE, REGIA E FOTOGRAFIA - 1989 SOGGETTO - 1998 [email protected] 3 COSI' LONTANO, COSI' VICINO REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1993 LO STESSO NUOVO GIOCATORE CRIMINI INVISIBILI REGIA, SCENEGGIATURA, FOTOGRAFIA - 1967 SPARA DI MONTAGGIO E REGIA E SCENEGGIATURA - 1997 LONG SHOT DALLA FAMIGLIA DEGLI IDROSAURI ATTORE - 1978 REGIA - 1974 FALSO MOVIMENTO NAPOLI-BERLINO UN TAXI NELLA NOTTE ATTORI - 1987 REGIA E SCENEGGIATURA - 1974 NEL CORSO DEL TEMPO REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1991 ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1976 HAMMETT INDAGINE A CHINATOWN NICK'S MOVIE - LAMPI SULL'ACQUA FINO ALLA FINE DEL MONDO REGIA E SCENEGGIATURA - 1982 I FRATELLI SKLADANOWSKY ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1980 ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1996 PARIS, TEXAS IL CIELO SOPRA BERLINO POLIZEIFILM REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1987 KING KONGS FAUST ATTORE - 1985 KLAPPENFILM REGIA - 1967 LA LETTERA SCARLATTA REGIA E SCENEGGIATURA - 1972 LA TERRA DELL'ABBONDANZA REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 2004 L'AMICO AMERICANO REGIA - 1984 REGIA, SCENEGGIATURA, FOTOGRAFIA - 1969 MONTAGGIO E PRIMA DEL CALCIO DI RIGORE ATTORE, REGIA E SCENEGGIATURA - 1971 SCHNEEWEISSROSENROT ATTORE - 1991 SUMMER IN THE CITY ATTORE, REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA 1970 TAUSEND AUGEN ATTORE - 1984 ATTORE, REGIA E SCENEGGIATURA - 1977 TEN MINUTES OLDER - THE TRUMPET L'ANIMA DI UN UOMO REGIA - 2002 REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 2002 THE MILLION DOLLAR HOTEL LISBON STORY - STORIA DI LISBONA REGIA - 1999 REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1994 TOKYO-GA LO STATO DELLE COSE REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 1982 ATTORE, REGIA, SOGGETTO, SCENEGGIATURA E MONTAGGIO - 1985 VIEL PASSIERT - DER BAP FILM REGIA, SOGGETTO E SCENEGGIATURA - 2002 Not esul l ’ aut or e Ci sono almeno due dati biografici di Wenders che permettono di comprendere appieno la sua opera. Nasce nel 1945, un anno abbastanza simbolico: la fine della Seconda guerra mondiale, ma anche il momento in cui la Germania distrutta si pone di fronte agli errori compiuti e alla ricostruzione. La sua formazione, invece, avviene alla fine degli anni Sessanta, in un clima politico in cui acquisisce la capacità di parlare un linguaggio molto [email protected] 4 v i ci no a quel l a gener azi one che,dopo l e sconf i t t e del’ 68,r i f l ui r à nel l ’ i nt r os pezi one e nel l ’ anal i sideir appor t ii nt er per sonal i . Due, conseguenti, sono anche le fonti culturali di Wenders: da un lato, l’ i nsegnament o t r asmessodaimaest r idel l aNouv el l eVague;dal l ’ al t r oi lci nemael asoci et àamer i cana, che entrano nei suoi film con omaggi a registi quali Ford, Hitchcock, Ray, Sirk, Pechinpah, e attraverso simboli tipici della civiltà statunitense, come flipper, juke-box, lattine di CocaCola, la musica rock o anche la semplice inquadratura di un foglio di giornale che annuncia la morte di John Ford (Alice nelle città, 1973). Oggetti e citazioni che testimoniano la dipendenza della società tedesca da quell a d’ ol t r eoc eano e l e contraddizioni che essa determina: «Gli americani ci hanno colonizzato il subconscio» afferma uno dei protagonisti di Nel corso del tempo (1975). Wenders infatti appartiene a una generazione che, oppressa dalla memoria storica del nazismo, preferisce affidare la propria formazione a modelli stranieri. E questo genera conflitti interiori e contraddizioni sanabili, secondo il regista tedesco, solo con la ricerca di una propria identità, soggettiva e personale. É in questa direzione che muovono tutti i personaggi wendersiani i quali, persa la capacità di identificarsi in un ruolo preciso e di percepire staticamente la realtà, sono c os t r et t iad un c ont i nuo mov i ment o,ad un cont i nuo v agar e.Siar r i v a cosìad un’ al t r a costante del cinema di Wender s:i lv i aggi o,cher appr esent al ’ i mpossi bi l i t àdelr adi cament o edi v i eneper ci òs i mbol odiunaper di t ad’ i dent i t à,del l ' esser e,sost i t ui t aper òdaundi v eni r e c apacedicol mar el adi st anzat r al ' i oei lmondoediof f r i r eun’ esper i enz adi r et t adel l a realtà. É si gni f i cat i v ocheal l ’ or i gi nedel“ mov i ment o”cisi asempr eunar ot t ur a,undi st acco.I n Estate in città (1970), il vagabondaggio urbano del protagonista inizia con la sua uscita dal c ar cer e.I lgi r ov agar edel l ’ ex -portiere di Prima del calcio di rigore (1971), inizia dopo la sua espulsione dal campo di gioco. Il viaggio delle due donne in La lettera scarlatta (1972), inizia quando decidono di farla finita con la comunità puritana in cui sono emarginate. É come se alla comprensione del mondo si giunga attraverso uno stacco dal passato, che permetta di guardare le cose solo attraverso il loro freddo apparire. Stilisticamente questo concetto induce a ricorrere al bianco e nero, che secondo Wenders rende in maniera più r i gor osal af or mael ’ essenzadel le cose, al di là dei colori della realtà. Tematicamente, invece, i primi film appaiono un cammino coerente verso una compromissione con il reale, le cose, le persone che, se non porta a un traguardo definitivo, conferma però, in ogni manifestazione, la sua necessità e il suo dover essere. Tre esempi emblematici. In Nel corso del tempo,i due protagonisti che vagabondano lungo la frontiera tra le due Germanie hanno alle spalle, oltre le loro vicende personali, una speranza generazionale, fallita e ancora dolorosa, di rifondare i rapporti umani e politici. Il viaggio insieme li porterà ad una nuova separazione, ma anche alla consapevolezza che, perpot er“ cambi ar et ut t o” ,bi sognacomunqueagi r e.I lpr ot agoni st adeL’ ami coamer i cano (1977) passa da una condizione di sicurezza, relativa alla propria salute, ad una di paura s ucuii ncombel ’ ombr adel l amor t ei mmi nent e,c heper ògl idàl af or zadicompi er eazi oni di cui prima non si sarebbe immaginato capace. In Paris Texas (1984) il personaggio principale è alla r i cer cadiper sonec heunt empoer anost at el ’ espr essi onedi unaf el i c i t à. Mai nquest of i l m c’ èanchequal cosadipi ù:perl apr i mav ol t al ar i cer cahaperogget t o una donna, simbolo della possibilità di uscire da una situazione di incomunicabilità attrav er so l ’ aspi r azi one al l ’ amor e,sent i ment oi nedi t o periper sonaggiwender si ani .É l ’ ant i c i pazi onedeI lci el osopr aBer l i no( 1987) .I nquest of i l m ipr ot agoni st isonoangel iche rinunciano al loro statuto di puro spirito, per approdare alla materiale concretezza di un corpo umano compromesso con la storia, la morte, la limitatezza del sapere degli uomini. Alle spalle di questa decisione una serie di elementi significativi: innanzitutto la nostalgia di unt empoper dut o,un’ epocapr ecedent eal l aguer r ahi t l er iana con la quale gli angeli sono stati relegati a vagare per biblioteche, i luoghi cioè dove rimangono i residui di una [email protected] 5 s pi r i t ual i t àsv ani t a.Mal a mot i v azi oneul t i madiquest o“ s al t osul l at er r a”è l ascoper t a del l ’ amor e,sent i ment ocapacedidonar eesi stenza reale alle cose (non è un caso che l ’ appr occi oamor oso,cont r ar i ament eal l os guar dodegl iangel i ,v i enef ot ogr af at oacol or i ) , e che Wenders indica come unica possibilità di salvezza da un passato di dolore. Il fatto c hel ’ azi onesisv ol gaaBer l i noi nf at t ist aasi gni f i car el ’ ac cet t azi onediunast or i aconcuiè impossibile non fare i conti e che proprio per questo viene richiamata attraverso inserti document ar i st i ci .É si gni f i cat i vo i nf i ne l ’ i nser i ment o diuna f i gur a dinar r at or e sot t ol e spoglie di un v ecchi ochi amat oOmer o:comel ’ ant i coc ant or egr eco,quest ièi lsol oi n grado di raccontare storie che nascono dalla coscienza stessa di chi ascolta, il solo capace di comprendere la Storia più di coloro che partecipano ad essa. Ma Omero è anche il simbolo della funzione immortale della scrittura. In Fino alla fine del mondo (1991) Wenders costruisce uno scenario avveniristico, in cui la presenza del l ’ i mmagi ne el et t r oni ca cont r ol l a qual si asiespr essi one umana,sognicompr esi .É i l cinema stesso, quindi, sul banco degli imputati, forse lo stesso cinema di Wenders con tutti i suoi caratteri Il viaggio, ad esempio, è ancora presente, ma viene seguito, piuttosto che lungo il tragitto del divenire, attraverso le singole tappe di spostamento, mete sempre ugual icomev or r ebbel al ogi cadel“ v i l l aggi ogl obal e” .Quest ocambi odir appr esent azi one èsi nt omat i coanchediun mut at osi gni f i cat o:al l ’ i nt er nodiun si st emadicomuni cazi oni planetario, il viaggio non serve più per trovare un'identità perduta, ma per raggiungere un' aus pi cat af asedinonr i t or no,una“ f i nedelmondo”chev edr àcomepossi bi l esuper st i t e vitale uno scrittore, il blocchetto di appunti, la vecchia macchina per scrivere. Gli strumenti necessari di una comunicazione da riscoprire. Wim Wenders, addio America Wim Wenders dice addio all'America. Dall'inizio degli anni Ottanta, da quando realizzò il suo primo film in Usa, il regista tedesco alterna opere in puro spirito americano (Paris Texas) ad altre profondamente europee, come Il cielo sopra Berlino. Oggi, Wenders scrive la sua lettera di commiato alla terra dell'abbondanza, il suo penultimo atto d'amore. L'ultimo, ci ha detto, arriverà il prossimo anno. Con La terra dell'abbondanza, in concorso a Venezia e nei cinema da domani, il regista tedesco affronta le paure e le ossessioni degli americani dopo l'11 settembre. Lana è una giovane volontaria che ha passato la vita tra l'Africa e il Medio Oriente. Torna negli Stati Uniti dove è nata per incontrare lo zio che non ha mai conosciuto. Paul è un ex veterano del Vietnam che il crollo delle due Torri ha trasformato in un paranoico ossessionato da possibili attacchi terroristici. Su un furgoncino attrezzato per la sorveglianza, Paul vaga per Los Angeles alla ricerca di islamici integralisti da stanare. Nel suo girovagare si imbatte in Lana. Abbiamo incontrato Wim Wenders, al Lido accompagnato dalla moglie, la fotografa Donata Wenders, sulla terrazza dell'hotel Des Bains. Esiste ancora il sogno americano? Gli Stati Uniti dell'amministrazione Bush sono ancora una terra dell'abbondanza? George W. Bush ha trasformato gli Stati Uniti da una terra dell'abbondanza ad una terra della povertà economica, politica e culturale. Ha preso ai poveri per dare ai ricchi. Non mi sembra da buon cristiano. Come è cambiata la sua visione degli Stati Uniti dopo l'11 settembre? Il mondo è cambiato dopo l'11 settembre, ma l'America è quella che è cambiata di più. L'11 settembre ha segnato l'inizio di un nuovo periodo storico per gli Stati Uniti, ma questo non vuol dire che gli ideali di democrazia e libertà debbano cambiare. [email protected] 6 Ciò che è accaduto negli ultimi tre anni è che l'amministrazione Bush ha stravolto le idee che erano alla base del paese. La protagonista del film, Lana, è una giovane volontaria che ha scelto di vivere in paesi a rischio come la Palestina e l'Africa. Un personaggio che ricorda le due ragazze italiane rapite in Iraq. Cosa spinge, secondo lei, persone così a questa scelta? Ho un profondo rispetto per le persone che fanno un passo così coraggioso. Ho rispetto per chi riesce a trasformare il proprio amore in azione e fa ancora più male quando queste persone diventano vittime. Ma questo non deve cambiare le loro convinzioni. Non dobbiamo permettere al terrorismo di sconfiggere le nostre idee di democrazia e libertà. Anzi, con queste idee e con l'amore dobbiamo opporci al fondamentalismo di questi terroristi. In un momento in cui gli Stati Uniti sono attaccati e criticati aspramente, lei ha realizzato un film che è anche e soprattutto una dichiarazione d'amore. Perché? Volevo guardare l'America non come ad un nemico. Mi piace troppo per farlo. Sono veramente dispiaciuto per la situazione attuale che sta vivendo. Considero gli americani delle vittime di questa situazione. Come europeo mi rendo conto che c'è una mancanza di informazione pazzesca. Ho cercato di fare un film che fosse uno sguardo positivo sull'America. Sarebbe stato troppo facile fare un film per affossare gli Stati Uniti ma sarebbe stato contro le mie convinzioni. La musica è sempre un elemento importante dei suoi lavori. Qui, addirittura, una canzone dà il titolo al film. Come ha realizzato la colonna sonora per The land of plenty? Ovviamente il titolo del film è una canzone di Leonard Cohen. Mentre giravo ascoltavo molta sua musica e facendo caso alle parole di questa canzone mi sono reso conto che riprendeva esattamente il contenuto del mio film. Sono molto grato a Leonard che mi ha permesso di usarla per il titolo. All'inizio avrei voluto che i Radiohead facessero la colonna sonora del mio film ma, alla fine, per colpa dei loro impegni, hanno rinunciato. Sono rimasto molto deluso ma dalla delusione è nata anche una cosa positiva perché ho incontrato un ragazzo, Thom Nackt, che ha lo stesso approccio sinfonico dei Radiohead ma anche elementi suoi originali. Ai suoi brani ho aggiunto altre canzoni di musicisti che amo come i Travis e i Toten Hosen, che sono un gruppo tedesco che mi piace molto. Ha appena terminato di girare un altro film americano Don't Come Knocking. Poi tornerà a lavorare in Europa? Questo è il mio ultimo film americano per un bel po'. Sento il bisogno di girare di nuovo nella mia lingua e nel mio paese. Ho finito di girare solo dieci giorni fa e ogni notte sogno le riprese, non ho ancora una distanza sufficiente dal film per poterne parlarne. Posso solo dire che si tratta di un road movie, un film postwestern, la storia tragicomica di una famiglia americana. Ci vorranno ancora sei, otto mesi per finire. Non ho ancora iniziato il montaggio. Chiara Ugolini - www.kataweb.it Wenders: la mia America, terra di povertà Amo gli Usa ma denuncio i danni fatti da Bush. In questo film la tragedia di vivere Wim Wenders torna favorito alla Mostra, dove ieri ha già vinto il cattolico Premio Bresson del l ’ Ent edel l oSpet t acol o,appl audi to da cinefili e cardinali, con un film intelligente, morale, [email protected] 7 i nci si vo sul l ’ Amer i ca deldopo 11 set t embr e.Far à si cur o di scut er e,sichi ama Land of Pl ent y,«LaTer r adel l ’ abbondanza»,abbondanzadic he? Quella materiale, ma è una ricchezza per pochi che nasconde un buco nero, un vuot o dove pr osper ai nvece l a pover t à,che non è un’ i nvenz i one:t r oppinon possono curarsi né studiare oggi negli States. Unf i l m cont r ol ’ Amer i ca? No, figurarsi, la amo troppo fin dai tempi della mia passione per il rock e della cultura on the road che certo non rinnego. Nessun Paese ha difeso in questi anni la democrazia c omel ’ Amer i ca.Madenunci ol ’ ammi ni st r az i oneBushchehahandi cappat ol al i ber t àef a, dopo il crollo della Russia, una guerra impossibile contro il terrorismo, che non è un nemico, ma qualcosa di cui bisogna rimuovere le cause Che sono? La differenza tra i troppo ricchi e i troppo poveri Comev edei lPaesedopol ’ 11set t embr e? Sta pagando le conseguenze e da due anni è diventato nemico per la facilità con cuispessol ’ Eur opagener al i z za Cosa diranno gli americani di questo film? Mah,cosa vuol e. . .Bush ha convi nt ot ut t iche chinon è d’ accor do con l uiè antiamericano Cosa si aspetta? Che possa essere un film utile Come si vive da americani oggi? Invasi dalla continua propaganda, ma privi di vera informazione, se non nel labirinto di Internet. Gli americani si sentono persi, credono sempre di essere al centro del mondo invece sono emarginati da almeno un decennio: isolati, ciechi e incapaci del l ’ i r onia che abbiamo invece in Europa, specie voi italiani Nella sua inquietante e notturna storia a Los Angeles, un uomo, finto detective, in realtà f uor idit es t a,c hesiscopr epoir educedalVi et nam,hal ’ i nc ubodipr ot egger el as uat er r ae con una nipotina missionaria indaga su un fatto di sangue. Ce ne sono molti di tipi così in America, li abbiamo visti con i nostri occhi. I veterani hanno visto decurtata la pensione, vivono malissimo eppure continuano a credere. La gente pensa alla terra promessa e la politica diventa una nuova miscela esplosiva di guerra santa e fondamentalismo Quel l ’ uomodal eir accont at osembr ausci t odalf i l m diMi c haelMoor e. Fahrenheit 9/11 mi ha dato il background, è vero. Ma quello è un film polemico, un pamphlet, il mio è sul l at r agedi adivi ver econl econseguenzedel l ’ 11s et t embr e, evento che si può rappresentare solo tacendo su uno schermo nero La ragazza della missione (Michelle Williams) è la Bontà? Lacul t ur acat t ol i cal edàmododiaf f r ont ar ei lmondoconl ’ ar madel l ’ amor e:pur a, coraggiosa, paziente [email protected] 8 Vincerà o no? Cr edo che si a, anche nelf i l m, l ’ ar ma f i nal e: se i lnemi co è f anat i co noi radicalizziamo la democrazia Film polemico? No,l ami apel l i col aèun’ i nvenz i onepoet i ca,t ent adiapr i r egl iocchiel eor ecchie, non credo possa risolvere nulla ma spero possa essere utile e far scoprire agli americani la propria insicurezza. Quando il mio Paul, cui voglio un gran bene, comincia a capire, spero che lo stesso accada anche agli americani: è un personaggio che mi è diventato molto caro, con tutta la sua confusione. Provo una gran compassione per lui e per quelli come lui L’ ul t i mascenaèaGr oundZer o,oggi ,el asci aunmessaggi oquasidisper anza:chemai più accada, non lo chiedono i morti. Non è un lieto fine, definisce solo la posizione morale entro cui si può agire. Dovevo girare lì, punto di non ritorno della storia, luogo emblematico Intanto ha finito un altro film Usa. Diverso? Di ver so.Sichi amaDon' tCameKnocki ng," Nonveni r ebussando" ,l ’ hoscr i tto con Sam Shepard, che lo recita con Jessica Lange, Tim Roth ed Eve Marie Saint. È una western tragic comedy Recupero del vecchio West? Si svolge in Nevada e Montana, parla del microcosmo di una famiglia che però è dislessica moralmente, particolare Non ridiventerà autore europeo? Sì, presto giro in Germania un fim di matrice storica Sidi v er t eagi ocar ecolLeoned’ or o? Non lo prendo così sul serio, ma adoro Venezia, è sempre un sogno, anche se in questo momento non mi sento proprio competitivo Maurizio Porro –Corriere della Sera Wim Wenders: THE URBAN LANDSCAPE un estratto da "Wim Wenders - L'atto di vedere, 1992 Ubulibri, Milano". Wenders si rivolge a un pubblico di architetti riuniti in convegno a Tokyo il 12 ottobre 1991 Non sono né un architetto né un urbanista, e posso parlarvi' solo nella mia qualità di cineasta che ha vissuto e lavorato in diverse città, puntando la cinepresa davanti a tanti paesaggi - soprattutto paesaggi urbani, ma anche regíoni di campagna, zone di confine, nodi austostradali o distese desertiche. Il cinema è una cultura urbana, nata sul finire del secolo scorso e cresciuta parallelamente all'espansione delle metropoli. Il cinema e le città sono cresciute e diventate adulte insieme, e i film sono testimonianze dei grandi mutamenti che hanno trasformato le eleganti città del fine secolo nelle difficili e nevrotiche megalopoli odierne. Il cinema è stato anche testimone delle distruzioni di due guerre mondiali; ha visto crescere i grattacieli e i ghetti, ha visto i ricchi diventare sempre più ricchi e i poveri più poveri, è insomma lo specchio adeguato delle città del Novecento e degli uomini che le abitano. In misura [email protected] 9 maggiore delle altre arti, i film sono documenti storici del nostro tempo. La settima arte è stata in grado più di ogni altra di catturare l'essenza, il clima e le tendenze del suo tempo, anche le speranze, le paure e i sogni, articolandoli in un linguaggio universalmente comprensibile. Ma è anche divertimento, e il divertimento è l'esigenza urbana per eccellenza: la città doveva inventare il cinema per non annoiarsi a morte. Diventato parte integrante e attiva del nostro ambiente, il cinema ci mostra il paesaggio urbano dalla prospettiva delle immagini; e vorrei che vi soffermaste un momento su questo temine: 'immagine' non è certo un concetto chiaro e univoco, perché può indicare di tutto, sia entità totalmente astratte che fatti molto concreti. E l'immagine di paesaggi urbani che il cinema ha tracciato nel corso della sua storia sono molto diverse dall'aspetto reale che hanno assunto oggi; i film ci suggeriscono movimento e dinamismo, una realtà in completa trasformazione. Voi tutti sapete quanto si siano modificate le città, quanto sia cambiata ad esempio Tokyo negli ultimi cento, o cinquanta, addirittura negli ultimi dieci anni. Si tratta di un processo che sembra subire una continua accelerazione, e noi siamo ormai abituati sia ai cambiamenti che alla rapidità con cui si verificano. Ma contemporaneamente all'ambiente urbano cambiano appunto anche le immagini. Forse si può addirittura affermare che le immagini e le città si evolvono in maniera analoga, probabilmente parallela. Gli uomini preistorici tracciavano disegni alle pareti delle loro caverne, incidevano forme sulla pietra o facevano segni sulla sabbia. Poi impararono a dipingere su altre superfici, nelle cupole delle chiese o su tele, e per secoli la verità poteva essere raffigurata solo tramite la pittura. Ogni immagine era un unicum: chi voleva osservare un'opera era costretto a guardare la tela o a visitare la chiesa che la conservava. Poi, con l'invenzione della stampa, le immagini vennero riprodotte e cominciarono a circolare, sotto forma di incisioni e riproduzioni. Nell'Ottocento ci fu un grande balzo in avanti. Con l'invenzione della fotografia nacque un rapporto totalmente nuovo tra realtà e rappresentazione, che produsse una sorta di realtà di seconda mano. Il passo successivo non tardò a venire: le immagini fotografiche si misero in movimento. A quel punto, bastava entrare in un cinema della propria città per vedere il mondo intero. Passarono trenta o quarant'anni e arrivò un altro concorrente, l'immagine elettronica, che si dimostrò più rapida del cinema, capace inoltre di mostrare gli eventi dal vivo. Fu chiamata televisione, ovvero 'vedere lontano', e creò al contempo vicinanza e distanza. Le sue immagini erano più fredde, meno cariche di emozioni; e si allontanavano ancor più dall'idea che ogni raffigurazione dovesse contenere in sé la realtà. Non esisteva più un originale ben idenfificabile, come il negativo del processo fotografico, ed era necessario un maggiore apparato tecnico per colmare la distanza tra la realtà e lo spettatore seduto a casa davanti al piccolo schermo. Inoltre, la televisione isolava l'osservatore: non bisognava più uscire di casa, mettersi in fila e poi sedersi tra estranei per fare un'esperienza collettiva, quindi sociale. Ma anche la televisione si vide presto esposta alle trasformazioni. Nacquero sempre nuove emittenti, si aggiunsero le televisioni via cavo, la ricezione via satellite e soprattutto i video (cioè 'io vedo' in latino). Con l'arrivo dei videotape, il pubblico non era più dipendente dalla programmazione delle emittenti, perché era in grado di decidere liberamente il proprio programma. Né era costretto ad acquistare videotape già realizzati, giacché poteva realizzare da sé immagini elettroniche. La tecnologia necessaria divenne sempre più semplice, più'economica, più maneggevole. Oggi chiunque può portare nella tasca della giacca la sua handycam, ogni bambino può realizzare la sua realtà di 'seconda mano'. Ma anche questo non è l'ultimo cambiamento: ci troviamo infatti alle porte della rivoluzione digitale, e dell'immagine video ad alta risoluzione, della 'high vision'. Le immagini elettroniche ne usciranno più mature, più belle, più cariche di dettagli e di fascino. E cancelleranno definitivamente ogni idea di 'originale', perché ciascuna copia [email protected] 10 sarà perfettamente identica al primo supporto registrato; ogni immagine elettronica sarà disponibile ovunque e ovunque riproducibile. Ma tutti i progressi dell'alta definizione non renderanno certo le immagini più affidabili e credibili, tutt'altro: saranno infatti manipolabili a qualsiasi livello, e quindi anche alterabili a piacere. Ogni singolo pixel, ogni minima unità, ogni atomo puntínato potrà essere manipolato. E non esistendo più alcun originale, non ci sarà più nessuna prova di autenticità. L'immagine digitale non farà quindi che spalancare ancor più il solco esistente tra la realtà in quanto tale e la rappresentazione, rendendolo forse ínsuperabile. Nel corso della loro storia, le immagini hanno interamente cambiato natura, passando dall'unicura del dipinto fino al clone digitale. L'evoluzione è stata estremamente rapida, e con altrettanta rapidità si sono moltiplicate di numero. Noi oggi ne veniamo bombardati come non è mai successo nella storia dell'umanità. Bombardamento che non diminuirà certo perché nessuna autorità pubblica, nessuna istituzione, nessun governo potrà impedire l'espansione del regno delle immagini. 1 computer, i giochi elettronici, i videocitofoní, la 'realtà virtuale' sono solo gli ingredienti di questa inflazione. E gli uomini hanno imparato a adeguarsi a questo sviluppo frenetico, afferrando con maggiore rapidità i nessi visivi, vedendo più rapidamente, mentre gli altri sensi si atrofizzano. Se venisse proiettato uno dei nostri film d'azione a un pubblico degli anni trenta, la gente abbandonerebbe le sale disorientata o furiosa. E se una famiglia degli anni cinquanta o sessanta dovesse passare col telecomando su cinquanta diversi canali di una televisione di oggi, tutti cadrebbero in una crisi isterica o nell'apatia, a seconda delle disposizioni dei singoli. Le immagini si moltiplicano, si impongono ovunque e prendono sempre più possesso della nostra esistenza; e diventano non solo sempre più belle, ma soprattutto sempre più seducenti. La fotografia e il cinema avevano sfruttato proprio l'innata forza seduttiva delle immagini sviluppando un nuovo linguaggio e anche una nuova morale. Nell'Unione sovietica degli anni venti e nella Germania degli anni trenta, alla grammatica filmica s'era poi aggiunta la propaganda. E sarà soprattutto l'industria della pubblicità ad appropriarsi delle nuove tecniche di persuasione e seduzione. In breve tempo, il cinema aveva messo a punto un nuovo linguaggio visuale passando anche dal muto al sonoro. Ma già negli anni cinquanta e sessanta, il nuovo linguaggio elettronico della televisione ha ribaltato e svuotato la grammatica filmica per poi venire a sua volta assalita dalle leggi della pubblícità e dall'estetica dello spot. Come la televisione ha cambiato il cinema, così la pubblicità ha trasformato la televisione, e oggi dobbiamo senz'altro tenere presente che lo spirito pubblicitario si è ormai insinuato in ogni forma di comunicazione visiva. Le immagini sono universalmente diventate più commerciali, cercano di catturare la nostra attenzione, stanno in perpetua concorrenza tra loro, e ciascuna cerca di superare la precedente. Se un tempo, il compito prioritario e più illustre delle immagini era quello di mostrare le cose, oggi sembra che il suo obiettivo sia sempre più quello di vendere. Credo che le immagini abbiano vissuto un processo analogo e parallelo a quello delle nostre città, anch'esse cresciute a dismisura. Anche le nostre città sono diventate sempre più fredde, più inaccessibili; estranee e stranianti; anch'esse ci offrono sempre più esperienze di seconda mano; anch'esse sono sempre più dominate da un'indole commerciale. Gli abitanti devono trasferirsi nelle periferie, i centri storici sono troppo costosi, e vengono occupati dalle banche, dagli alberghi, dall'industria del consumo e del divertimento. Ciò che è piccolo scompare; nel nostro tempo sopravvive soltanto ciò che è grande. Le piccole cose semplici spariscono, come le piccole immagini semplici, o i piccoli, semplici film. Nell'Industria cinematografica, la scomparsa di tutto ciò che è piccolo e semplice è un triste processo che ci vede oggi testimoni. Per le città, questa perdita è forse più evidente e probabilmente ancora più grave. [email protected] 11 Così come le immagini che ci circondano sono sempre più stridenti, disarmoniche, strillanti, poliformi e sfacciate, allo stesso modo le città diventano più complesse, più assordanti, dissonanti, inafferrabili e opprimenti: le città e le immagini stanno proprio bene assieme. Prendiamo in considerazione soltanto l'immensa quantità di immagini urbane rappresentata dai segnali stradali, le immense insegne al neon sui tetti, le pubblicità sui muri, le vetrine, le pareti video, le edicole, le macchinette automatiche, i messaggi trasportati dalle automobili, dai camion, dagli autobus; le scritte sui taxi o nella metropolitana; ogni sacchetto di plastica porta un'immagine stampata... Noi ci siamo abituati. Quando mi recai per la prima volta in una città dell'ex blocco sovietico (si trattava di Budapest), provai un autentico choc: non c'era nulla di tutto questo. Pochi segnali stradali, qualche orribile bandiera, un paio di slogan appassiti; per il resto una città senza immagini, senza pubblicità. In quel momento capii quanto noi eravamo abituati, e dipendenti, dal profluviu di messaggi visivi. La pubblicità si è ormai resa indispensabile; le immagini stanno diventando una droga, e le città non lo sono già? Con le droghe, è noto che c'è il rischio dell'overdose. Cosa possiamo fare per difenderci? Come cineasta sono arrivato alla conclusione che le mie immagini hanno un'unica possibilità per non essere travolte da questo immenso flusso visivo di concorrenzialità e commercializzazione: devono narrare una storia. Nel mestiere del regista si cela il pericolo di produrre immagini fini a se stesse, e dai miei stessi errori ho imparato che una 'bella immagine' non ha alcun valore in sé, al contrario: una bella immagine può distruggere l'effetto e 9 funzionamento dell'intera struttura drammatica. Quando iniziai a fare cinema, se il pubblico lodava le mie immagini mi ritenevo estremamente lusingato, come se fosse il miglior plauso. Oggi, se qualcuno le loda penso piuttosto di avere sbagliato qualcosa nel film. E dai miei sbagli ho imparato che l'unico antidoto contro le immagíni autocelebrative è credere ferma mente alla priorità della storia. Ogni immagine trae infatti una sua legittimità solo in rapporto a un personaggio della storia che narra; e dandole troppa importanza finisce per indebolire il personaggio. E una storia con personaggi deboli non ha alcuna forza. Solo la storia, l'insieme dei personaggi conferisce credibilità a ogni singolo fotogramma, 'fonda una morale', per esprimermi nel gergo di un artista. Queste mie esperienze di cineasta possono essere tradotte in quelle degli architetti e degli urbanisti? Esiste nel paesaggio urbano un corrispondente di ciò che è la storia per un film? Non lo so. Per avvicinarmi alla risposta devo fare qualche passo indietro. Mentre dicevo che la storia protegge i personaggi dalle immagini autocelebrative, quindi superflue o addirittura inermi, pensavo anche che un paesaggio rappresenta per me una sorta di figura supplementare. Una strada, una fila di case, una montagna, un ponte, un fiume sono per me qualcosa di più di un semplice sfondo. Possiedono infatti una storia, una personalità, un'identità che deve essere presa sul serio; e influenzano il carattere degli uomini che vivono in quell'ambiente, evocano un'atmosfera, un sentimento del tempo, una particolare emozione. Possono essere brutti, belli, giovani o vecchi; ma sono comunque elementi presenti, e per un attore è proprio l'unica cosa che conti. Quindi meritano di essere presi sul serio. Nel corso degli ultimi anni ho lavorato in Australia e ho avuto la fortuna di conoscere gli aborigeni. E mi ha sorpreso che per loro ogni singola conformazione del paesaggio incarni una figura del loro passato mitico. Ogni collina, ogni roccia porta in sé una storia intimamente legata alla loro epoca mitica. E mi è tornato in mente come anch'ío, da bambino, nutrissi simili convínzíoni. Un albero non era semplicemente un albero, ma anche uno spettro; e i profili delle case avevano tratti umani. C'erano case serie, case truci e case amichevoli. Un fiume poteva mettere [email protected] 12 paura, ma anche dare pace. Le strade avevano una personalità; alcune le evitavo, in altre mi sentivo al sicuro. Le montagne e i profili dell'orizzonte erano i riflessi di certe nostalgie e desiderí, e ricordo ancora la mia paura di fronte a una grande roccia in un bosco, che chiamavamo Ia donna seduta'. I paesaggi e le immagini delle città evocano nei bambini emozioni, associazioni, idee, storie. Diventando adulti tendiamo a dimenticarle, perché impariamo a difenderci dal nostro sapere infantile, che si affidava molto più ai nostri occhi: ciò che vedevamo determinava la coscienza di noi stessi e dei nostri luoghi. A New York abitai per un periodo in un appartamento con vista sul Central Park. Tutte le volte che uscivo dal palazzo vedevo davanti a me un grande macigno di roccia, ai margini del parco, che a seconda del tempo cambiava colore. Era un frammento dello strato di granito su cui è costruita l'intera città. Ogni volta che gettavo uno sguardo sul masso ne traevo una sensazione di equilibrio: era molto più antico della città intorno a me, era robusto e mi dava sicurezza perché stranamente mi sentivo legato a lui. Ricordo una volta di avergli rivolto un sorriso, come a un amico: irradiava su di me una sorta di quiete, mi rendeva più calmo. La città in cui ora vivo poggia su un vastissimo strato di sabbía, dal colore molto chiaro; e di tanto in tanto la si vede, sia pur in un cantiere. Anche questa sabbia risveglia in me un senso di comunanza, addirittura di sicurezza, perché mi indica il luogo in cui mi trovo. Ovviamente anche gli edifici lo fanno, ma in maniera diversa. Berlino è una città particolare, perché durante la guerra ha subito lacerazioni devastanti, che la successiva divisione della città non ha certo guarito. Berlino ha molte superfici libere. Si vedono case con pareti interamente vuote perché la casa a fianco non è stata ricostruita dopo il bombardamento. Gli sconfortanti muri laterali di questi palazzi sono chiamati pareti frangifuoco, e non esistono altrove. Sono come ferite, e a me la città piace per le sue ferite, che mi raccontano la sua storia molto meglio di qualsiasi libro o documento. Durante le riprese del Cielo sopra Berlino, mi accorsi che andavo sempre alla ricerca di queste superfici vuote, di queste terre di nessuno, perché avevo l'impressione che questa città potesse essere rappresentata molto meglio dalle zone vuote che da quelle occupate. Quando c'è troppo da vedere, quando un'immagine è troppo piena o quando le immagini sono troppe non si vede più niente. Dal troppo si passa molto presto al nulla, come certo sapete. E conoscete anche un altro effetto: quando un'immagine è spoglia, povera, può risultare talmente espressiva da soddisfare interamente l'osservatore, e così dal vuoto si passa alla pienezza. Un cíneasta è continuamente alle prese con questi problemi nella preparazíone di ogni ripresa. E deve fare in modo di non lasciare nell'ímmagine ciò che intende catturare e mostrare al pubblico, perché tutto ciò che deve essere mostrato, e che l'immagine deve contenere, trova spiegazione in ciò che ne resta aldifuori. A Berlino, dove io vivo, sono proprio gli spazi vuoti a consentire agli uomíni di farsi un'immagine della città. Non solo perché permettono di abbracciare con lo sguardo intere superfici (a volte anche fino all'orizzonte, cosa di per sé piacevole in una città); bensì perché attraverso queste falle si può vedere il tempo che, in termini generali, è l'elemento che scandisce la storia. Quanto al cinema si possono fare considerazioni analoghe. Esistono film che sono come spazi chiusi: non lasciano il minimo spazio vuoto tra le singole immagini, non permettono di vedere ciò che è rimasto 'fuori' dal film, non consentono agli occhi e ai pensieri di muoversi liberamente. In questo genere di choc visivi lo spettatore non può riversare nulla di proprio, nessun sentírnento, nessuna esperienza. E si esce dal cinema con un senso di delusione. Solo i film che lasciano spazi vuoti tra le immagini raccontano una storia, ne sono convinto, perché una storia si produce anzitutto nella testa dello spettatore o dell'ascoltatore. E gli altri film, quelli a sistema chiuso, fingono soltanto di raccontare una vicenda. Seguono la ricetta della narrazione, ma usando ingredienti senza gusto. [email protected] 13 Le città non raccontano storie, ma possono comunicarci qualcosa sulla Storia; possono conservare e mostrare la loro storia, renderla visibile oppure nasconderla. Possono aprire gli occhi, come succede nei film, o chiuderli. Possono divorare o nutrire la fantasia. Tokyo, contrariamente a ciò che sostengono molti, è a mio avviso una città aperta; che offre qualcosa, non ruba soltanto. Ammetto che abbia una spiccata tendenza a frastornare e ad assalire i suoi cittadini. Ma stranamente, dietro ogni angolo di strada si può scoprire uno spazio verde; dalla giungla roboante si passa a zone calme, delicate, pacifiche. Dietro ogni grattacielo si nascondono viali alberati con file di case basse, giardini, uccelli, gatti, insomma pace. Oppure si scopre un cimitero che, diversamente da quelli europei o americani, è un luogo abitato, vivo. 0 un tempio che, contrariamente alle chiese che conosciamo noi, è molto accogliente e non ti fa sentire un intruso se non sei credente. Tokyo è un sistema di isole. Ovviamente, queste isole dovrebbero essere conservate, e stanno via via scomparendo. Come ho già detto, tutto ciò che è piccolo scompare. Ma se perderemo tutto ciò che è piccolo smarriremo anche la nostra capacità di orientarci, cadremo vittima delle grandi dimensioni, di ciò che è inafferrabile, onnipotente. Dobbiamo batterci per conservare tutto ciò che è di piccole dimensioni, che conferisce alle grandi cose una visuale, una prospettiva. Nella storia del cinema, i piccoli film sono stati la culla della creatività, hanno prodotto idee nuove, contenuti inusuali, storie più umane, più vere. I piccoli film sono sempre stati i serbatoi del sapere. In una città, tutto ciò che è piccolo, vuoto, aperto è una sorta di batteria che ci permette di ricaricarci contro lo strapotere dei grandi complessi. Io non sono un avversario dei grandi edifici, al contrario, mi piacciono. Adoro i monoliti, i grattacielí. Ma al contempo li trovo sopportabili, e abitabili, a condizione che siano circondati da viali alberati con negozietti, caffè, insomma che si possa incontrare un'alternativa. Nessun'altra città offre i due elementi come fa Tokyo. Quando a Parigi abbatterono le Halles, seguii quello spettacolo con rabbia e dolore. Per anni non rimase che un immenso buco, rimpiazzato poi da un immenso sistema sotterraneo con negozi e boutique che aveva comunque i tratti della precedente voragine. Quando a Tokyo verrà abbattuto il Golden Gai per fare spazio a una costruzione più grande, piangerò di nuovo, perché la città ne uscirà impoverita. Non vorrei essere frainteso. lo non sono ostile alla costruzione di nuovi edifici, alla modifica dell'aspetto urbano. Ad esempio, se come regista affermassi che ogni nuovo film contribuisce soltanto all'inflazione di immagini, parlerei contro me stesso. No, la rinuncia non può essere una soluzione. Ogni nuovo edificio può porsi come esempio di chiarezza costruttiva, può esprimere un nuovo standard di funzionalità e rigore estetico. Ma voi che siete architetti dovete tener conto anche del fatto che il frutto del vostro lavoro può essere inficiato dall'ambiente che lo circonda, così come io devo tener presente che i miei film possono essere proiettati in un cinema che mostra immagini di violenza o pellicole porno. Un mio film in televisione rischia di essere martoriato da un continuo cambio di programmi col telecomando. Non mi resta quindi che sperare nella capacità di ogni inquadratura, o per lo meno di ogni scena, di emanare quella calma e quella leggerezza che differenzia il film dai prodotti puramente commerciali. Non dobbiamo lasciarci contagiare dalla spietata concorrenza che oggi regna tra le immagini, né cercare di catturare a ogni costo l'attenzione dello spettatore. Credo piuttosto che bisogna distanziarsi da questo genere di concorrenzialità. Si può dare il buon esempio solo rimanendo fedeli a se stessi, non inseguendo a ogni costo il trend. Voi architetti siete creatori di edifici, e dovete seguirne la crescita dal primo schizzo fino alla consegna, così come un cineasta deve controllare e dare la propria impronta al film dal primo teatment, alla scelta dei luoghi di ripresa e del cast, al momento delle riprese, del montaggio, fino al punto in cui viene mostrato al pubblico. Un edificio e un film hanno molti aspetti in comune. Devono entrambi essere progettati, preparati e finanziati. Un [email protected] 14 edificio deve avere una solida struttura portante, così come un film possiede l'elemento portante di una storia. E deve mostrare uno stile plausíbile allo stesso modo di un film, che necessita di un suo complesso linguaggio. Voi dovete progettare un edificio abitabíle, accogliente; ma anche un film deve avere queste qualità. Io amo le città, ma a volte è necessario lasciarle, osservarle da lontano per capirne i pregi. Il deserto offre il migliore distacco per osservare la vita urbana; conosco i deserti americani e australiani, dove ogni tanto ci si imbatte in qualche resto della civiltà: una casa, una strada in rovina, una linea ferroviaría dísmessa, anche un distributore di benzina abbandonato o un motel. In un certo senso si tratta di esperienze opposte a quelle che si fanno quando in città si penetra in uno spazio aperto. Una terra di nessuno all'intemo di una metropoli ha come prerogativa la presenza del paesaggio urbano tutt'intorno, e ce lo mostra in una prospettiva diversa, in un'altra luce. Mentre la comparsa nel deserto dei resti della civiltà rende il paesaggio ancora più vuoto. Una volta, nel deserto del Mojave in California, vidi un cartello arrugginito, una sorta di reclame, molto lontano dalla strada. Era piantato nel nulla, e le sue grandi lettere sbiadite annunciavano: Western World Development: slots 410-460. Qualcuno doveva aver progettato proprio in quel lembo di deserto una città. Il paesaggio circostante era completamente arido, si vede va solo qualche sparuto cactus. Provai a immaginare lì una città: osservando quella distesa avevo quasi l'impressione che fosse effettivamente esistita, e soltanto scomparsa. Una cosa però non potevo ignorare: la regione era molto più antica di qualsiasi insediamento, quindi era anche inessenziale sapere se fosse o meno esistito un agglomerato urbano. Alcuni anni dopo, in Australia, incontrai uomini che da quarantamila anni vivevano nel deserto come nomadi. Erano gli aborigeni, e credevano in qualcosa di essenziale: credevano di appartenere a quella regione, e si sentivano responsabili dei luoghi, ciascuno per una precisa zona. Erano effettivamente una parte del territorio. Il pensiero opposto, ovvero che qualcuno potesse possedere un pezzo di terra, era per loro inimmaginabile. Ai loro occhi, la terra era la proprietaria degli uomini, mai viceversa. La terra possedeva autorità. Forse tutti gli uomini del mondo, non solo gli aborigení, nascono con questa convinzione. Ma la nostra civiltà ha completamente estinto o rimosso l'idea dell'appartenenza alla terra, e le immagini urbane ne sono la riprova. Le città hanno reso invisibile la terra, quasi per nascondere i loro sensi di colpa. La roccia di New York o la sabbia di Berlino sono dei moníti. In molte città non è più possibile toccare la terra, sentire la durezza della pietra. Se un aborigeno dovesse vivere in una città simile morirebbe. Le città sono così piene di ogni genere di cose che hanno cancellato l'essenziale, vale a dire che sono vuote. Il deserto al contrario è così vuoto che è straboccante di essenziale. E per concludere il mio discorso vorrei pregarvi di considerare il vostro lavoro anche come creazione di luoghi futuri per i bambini. Le città e i paesaggi andranno a forgiare il loro mondo di immagini e desideri. E vorrei anche che provaste a considerare ciò che per definizione è l'esatto contrario del vostro lavoro: voi infatti non dovete solo costruire edifici, bensì creare spazi liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro. ©copyright Ubulibri non solo cinema: Wim Wenders."Immagini della superficie della terra" Presentazione della mostra di fotografie organizzata presso il Museo Guggenheim di Bilbao L'avventura fotografica di Wim Wender incominciò nel 1983, quando fece un lungo viaggio [email protected] 15 in automobile, durato alcuni mesi, lungo le strade del West americano, attraverso il Texas, l'Arizona, il New Messico e la California alla ricerca di paesaggi in cui ambientare il film Paris-Texas, lasciandosi affascinare dalla vastità infinita di quello spazio, saturo di luce e colore, che riprese con la sua macchina fotografica, una Makina-Plaubel 6x7, per avere una memoria visiva di quei luoghi. Successivamente al film, si rese conto che il lavoro fotografico di documentazione aveva una forza suggestiva del tutto autonoma, da qui la nascita di un libro dal titolo "Scritto nel West", edito in Italia dalla Jaka Book nel 1988, che fece proprio il progetto editoriale della Punto e Virgola, casa editrice che annoverava tra i fondatori il compianto grande fotografo Luigi Ghirri e di una mostra itinerante che fu presentata in molte città, suscitando sempre grande interesse. In una intervista di Alain Bergala pubblicata nei Les Cahiers du Cinema, in occasione di una delle sue prime mostre fotografiche, al Centro George Pompidou, Wenders giustificava il suo interesse per la fotografia per la capacità intriseca di questo strumento di saper cogliere l'aspetto contingente delle cose, la sua temporalità, la scoperta degli aspetti nascosti; ciò che Paul Virilio ha definito "l'estetica della scomparsa". Nelle foto di Wim Wenders vi è spesso qualcosa che pur essendo palpabile a livello intuitivo, non compare, è assente, e la sua presenza transitoria è sospesa nell'atmosfera delle foto. Anche nella selezione di fotografie presentata adesso nelle sale del Guggenheim di Bilbao, ingrandimenti giganteschi che coinvolgono lo spettatore e quasi lo inglobano nella visione panoramica, Wenders prosegue questa sua ricerca dell'assenza, dello spirito del luogo, delle tracce quotidiane che si perdono nello spazio sospeso in un tempo quasi surreale. La cifra stilistica di Wenders si inserisce appieno nel solco del paesaggismo moderno, che può sintetizzarsi nella ricerca della desacralizzazione dell'idea del paesaggio romantico, del territorio vergine, dell'eternità della natura e della sua sublimazione, per dar luogo ad una realistica e appassionata ricerca di ciò che viene abbandonato dall'uomo o che viene trasformato in un continuo processo di elaborazione dall'agire umano; non si tratta più, perciò, di una natura eterna, ma di saper cogliere quei processi di cambiamento attraverso i segni perituri che l'uomo nel suo cammino lascia dietro di sé e che abbandona al proprio destino. Diversamente dalla colonizzazione spagnola di Cortez e Pizarro durante la conquista della terra maya e azteca fino a quella inca, di fronte alla straordinaria terra che senza una fine apparente si apriva ad occidente della costa nord-americana dove nessun uomo aveva ancora innalzato le mura di una città, tracciato il confine di una nazione e fondato il destino di un impero con la visibile e non più eludibile testimonianza che ogni monumento della storia da all'ambiguità e al male che abitano il cuore della natura e dell'uomo, un sogno straordinario ha guidato fin dall'inizio la colonizzazione degli uomini bianchi che provenivano dalle lotte religiose dell'Inghilterra riformata: la folle utopia, scambiata per possibile realtà, di poter vivere il rapporto con Dio e con il mondo in un'assoluta purezza, radicale bontà, totale libertà. Una conquista della terra avvenuta contro la memoria che la coscienza storica irriducibilmente ha delle profondità oscure e misteriose della realtà, una conquista della terra avvenuta senza la forma obbligante al di fuori di sé di una città straniera da conquistare e di un impero sconosciuto da assoggettare ed assimilare e senza la forma obbligante dentro di sé di una città da fondare in obbedienza al disegno sapiente ed antico dettato dalla viva figura del re lontano.( …) Le immagini scattate da Wenders ai segni ed alle tracce lasciate dall'uomo nel mitico West della nostra infanzia fotografano quindi l'impossibile sogno dell'intero Occidente di poter abitare la terra senza portare su di sé il peso della memoria, il dramma della coscienza che testimoniano della reale consistenza del mondo, formato non solo dalla luce trasparente della verità, del bene, della bellezza, ma anche dall'ombra ambigua e tragica della menzogna, del male, della morte. E in questa consapevolezza ridonata alla nostra [email protected] 16 memoria ed alla nostra coscienza risiede l'importanza di queste fotografie che, proprio nel metterci di fronte al dissolversi del sogno di un nuovo mondo, ridanno concretezza e consistenza al mondo reale che ci è stato dato per vivere e per abitare. Giovanni Chiaramente-Brano tratto dalla presentazione del libro di Wim Wenders, "Scritto nel West", a cura di Giovanni Chiaramonte, Jaka Book editore, Milano, 1988 L'idea della degenerazione delle case e dei cartelli indicatori, quella patina di "fine del mondo", ha a che fare con gli uomini e le loro costruzioni. Ma che ne è degli alberi, dei paesaggi, della natura, delle cose che sono in procinto di scomparire, rispetto a quest'idea che tu vorresti fissare nella foto Tra queste foto ce ne sono poche dove non si trovino tracce umane. Nella maggior parte di esse c'è sempre qualcosa che un giorno non ci sarà più e che forse, nel momento in cui stiamo parlando, già è scomparso. Oppure fra dieci, cento anni. Come Houston, per esempio: là tutto è talmente nuovo, artefatto, quasi delle case giocattolo - un'architettura fatta per divertimento, quasi una città di Lego - che se ne cava per forza la sensazione che non potrà durare. Il West americano per me è il luogo dove qualcosa tramonta. Quand'ero piccolo, conobbi il West per mezzo dei film, i Western appunto, e i libri di Karl May, e quando cercavo di immaginare il West, vedevo sempre davanti a me questo paesaggio incredibile la cui scoperta risaliva a un passato non così remoto, al 19° secolo. Quando ci andai, avendo per così dire partecipato alla sua scoperta, ritenevo che ormai dovesse esservi giunta la civilizzazione. Ma non era affatto così, la civilizzazione l'aveva attraversata, una prima volta il secolo scorso con il treno, poi in questo secolo con l'automobile, quando negli anni venti e trenta si costruirono le strade, le pompe di benzina, i motel. Ma adesso, quando ci si va, tutta questa cultura della strada, con le sue scritte pubblicitarie e le sue luci al neon, sono in decadimento, non si usano più, per niente. Per spostarsi da New York a Los Angeles, la gente non usa più l'automobile. Il treno non lo si prende più già da vent'anni. Gli americani abitano soprattutto sulle coste o nella zona centrale del West, il grande nocciolo agricolo del territorio. Sono solo passati, dal West; hanno tentato di farne qualcosa, hanno costruito strade, motel, aree di servizio e hanno messo su dei cartelloni, hanno perfino pensato di costruire delle città - talvolta si trova, nel mezzo del deserto, un'insegna stradale: 375a strada - ma non è successo niente: e oggi ci sono solo i camion che sfrecciano con grande rumore, e ogni tanto un'auto solitària. La civilizzazione è arrivata, ha fatto sosta qui qualche tempo, poi è ripartita, e ora sta nuovamente scomparendo. Solo poche persone sono rimaste, e anche loro se ne vanno, abbandonano le pompe di benzina e le automobili che arrugginiscono un po' da tutte le parti. Questa scomparsa procede con rapidità nella grande calura, con il sole o la pioggia. Dopo un anno un'area di servizio abbandonata è già ricoperta dalla vegetazione. Osservando queste foto si potrebbe pensare che io abbia deliberatamente cercato di tener lontano con la forza gli uomini o qualsiasi cosa dotata di vita propria. Ma, viceversa, ho sempre aspettato che arrivasse qualcuno. Ci si accorge che in fondo questo paesaggio non si è lasciato influenzare dall'asfalto, dalle auto e dalle réclame al neon, nonostante proprio queste ultime si adattino molto bene ai colori e alla luce serale del West. Si ha la sensazione che di tutto questo fra cent'anni non vi sarà più nulla. Il paesaggio tornerà ad avere la meglio. Già adesso si passa a fatica con il treno, e si può supporre che nel giro di vent'anni anche con l'auto sarà molto difficile riuscirvi. Si dovrà prendere l'aereo. Proprio in questo paesaggio mitico del West, ho sempre trovato questa corteccia, questo qualcosa che si decompone e dà alla fotografia una patina di magìa. Brano tratto dall'intervista a Wim Wenders di Alain Bergala [email protected] 17 Recensioni Bruno Fornaia –Film tv Buona notizia. Il Wenders di La terra dell'abbondanza non è quello dei suoi lontani tempi migliori ma non è neppure quello noioso degli ultimi tempi, guru e predicatore. È un Wenders inaspettato, con una visione particolare e personale dell'America: che non è la biblica terra della pienezza dove scorrono latte e miele. Il titolo del film è figura retorica di inversione e antitesi. Nell'America di Downtown Los Angeles, con i poveracci senza casa che dormono sotto i cartoni sui marciapiedi, si incontrano l'invasato e paranoico Paufe l'idealista e umanitaria Lena. Il film sta in questo triangolo: una città abitata dagli ultimi degli umiliati, un veterano del Vietnam che continua a condurre la sua guerra contro nemici che stanno dappertutto e complottano contro la libertà del suo paese, una giovane donna che ha vis suto in Africa e in Medio Oriente e che adesso, tornata in patria, vuole dedicarsi ai dannati della sua terra. I due sono zio e nipote, non si conoscono, cominciano a sfiorarsi, si trovano insieme a scoprire cosa c'è dietro l'omicidio di un povero pakistano. E dietro non c'è il complotto mondiale che Paul sospetta. C'è soltanto il naufragio casuale di una vita oscura e sfortunata come tante. Wenders si ritrae, lavora su personaggi e luoghi , stringe il quadro, fa dell'America del dopo 11 settembre il paese dell'angosciante attesa di una nuova catastrofe, terra di povertà, di isolamento paranoico e di slanci ideali. Di città spettrali con una Missione come ancoraggio provvisorio e di: un deserto con un'altrettanto fantomatica cittadina, quattro baracche, dove le storie finiscono per dissolversi, dove Paul e Lena cominciano a ritrovarsi prima di partire in pellegrinaggio. verso Ground Zero. Dice Paul che quel buco nero nel cuore dell'America se lo immaginava più grande. Lena gli chiede di ascoltare il silenzio. E Leonard Cohen, canta la title song. Niente prediche. Ripartire dal poco. Affezionarsi a un'immagine vibrante, come quella di un colibrì magicamente sospeso nell'aria. Bruno Ugolini –l ’ Uni t à Nonèsol ounf i l m,èunevent o.E’l ’ Eur opach epar l aal l ’ Amer i ca,conr i spet t oedol or e.Un’ oper a gr andi osa,bel l a ed emozi onant e.St i amo par l ando di“ Land ofpl ent y”( t r adot t o:“ I lPaese del l ’ abbondan za” ) .I lr egi st aèunt edes co,Wi m Wenders, e forse proprio per questa provenienza traccia un quadro così lucido della tragedia americana. Che è anche l at r agedi a nost r a dif r ont ead unmondo chedal l ’ I r aq,al l aCeceni a,ad I sr ael ePalestina, non sa offrire soluzioni. Non è un film di denuncia dura come quello di Moore, ma proprio per questo è ancora più efficace. Perché si mette nei panni di quelli che vagano nella New Yor k ,dopo l ’ 11set t embr e,i npr eda alt er r or eeal l ’ angosci a,i nat t esa diunBushsal v at or e.I l tedesco parla, con utile efficacia, agli incerti, ai dubbiosi, ai tormentati che vivono in tutto il mondo, Italia compresa. A quelli che magari pensano che sia meglio un Paese occupato dalle truppe americane, sia pure con il loro carico di vessazioni, rispetto ad un Paese occupato da bande d’ or r i pi l ant iei ngest i bi l it agl i at or idit est e. Un film che aiuta a pensare. Certo non è una mera opera di propaganda, non è un comizio. L’ hannoaccusat odiesser ei nt r i sodispi r i t ocat t ol i co,car i t at evol e.Nonvedi amochecosacisi adi male. Anche la figura di padre Zanotelli (o di Gino Strada) è intrisa di cultura cristiana. La pr ot agon i st adiWender s,delr est o,assomi gl i aunpo’al l eduer agazzeappenar api t eaBagdad. Anchel eioper ai nun’ i st i t uzi onedal l ecar at t er i s t i cheassi st enzi al i ,umanitarie, solidali. Ha lo stesso sorriso, la stessa fanciullezza, lo stesso coraggio delle due Simone italiane. Gente a cui non basta manifestare in piazza, come è pur doveroso fare. Vuole aggiungere qualcosa di concreto, contenere il disastro. E poi, nel f i l m,c’ è Paul ,l o zi o,unr educe dalVi et nam,uno deit ant iche sognano l ’ Amer i ca guerriera e liberatrice del mondo e che ora si aggira in preda al terrore. Va a frugare nei cassonetti perveder e se scopr ebombe chi mi che.E’unpr ot ot i po.Quant ineconosciamo, anche tra noi, i ncapacidir agi onar e,diconnet t er e.E c’ è,l ’ al t r o vol t o soci al e del l ’ Amer i ca,pr esunt o“ paese del l ’ opul enza” ,con una Los Angel es che most r al e sue per i f er i ec oper t e da f ar del l iumani stratificati, cenciosi, abbandonati, una disperata povertà. E per fortuna ci sono i cristiani. C’ èchisièchi est oachecos apossaser v i r el ’ oper adiWender scost el l at adal l ecanzonipast osee tristi di Leonard Coen. Serve a farci pensare ed è quello di cui abbiamo bisogno. Magari per [email protected] 18 approdare a quel sempl i ce epi t af f i o che l eggi amo su l l o scher mo al l ’ i ni zi o:“ Megl i o idol or idel l a pacechel ’ agoni adel l aguer r a” . Roberto Silvestri –il Manifesto Il secondo film in gara ieri ha un titolo ironico, basta leggersi le statistiche sulla povertà, sull'assistenza sociale e sulla violenza ai minori (e agli aliens) che riguardano gli Stati uniti d'America. La terra dell'abbondanza è una riflessione lucida e accorata, in forma di ballata, sul dopo 11 settembre. Infatti proprio oggi esce in tutta Italia. È diretto da Wim Wenders, il cineasta di Dusseldorf «salvato dal rock'n'roll e dal blues», che arriva fino al non luogo di Trona, California, per ambientare un specie di remake di Paris, Texas, un duetto zio/nipote che si ritrovano a fatica, dopo essersi abbandonati nel nulla, come quello era stato uno sguardo sulla famiglia lacerata e irricomponibile, microcosmo di un intero «paese non più di dio» o «di un dio impazzito». L'ex marine Paul (John Dhiel), veterano sciovinista, ferito a Long Thanh e per trent'anni esposto agli effetti dell'agente rosa (la diossina) che gli ha spappolato il cervello, peggio che a Bush jr. la perdita di un pozzo di petrolio, con un altro partner balordo si è autoproclamato protettore dell'America «terra degli uomini liberi». Le sue paranoie post-Twin Towers vengono sfogate nel passaggio alla clandestinità armata reazionaria (rompe tutti i ponti con la famiglia) e dalla caccia grossa all'arabo sospetto, stanato tramite camper tecnologicamente attrezzato e un buon uso suprematista di internet. Sterminator di fanatici islamici ritroverà qualcosa di grottescamente familiare nell'idealismo cattolico altrettanto individualista e «celibe» della appena maggiorenne nipote Lana (Michelle Williams), che si è già rimboccata le maniche in Africa e ora se la ritrova nel cuore dell'Impero, facendo volontariato tra gli affamati e i derelitti (quanto sono!) della Missione Dowtown di Los Angeles, la megalopoli dell'immensa ricchezza e dell'immensa povertà. La morte apparentemente non casuale di un barbone medio-orientale, cui sono entrambi testimoni, fa incontrare e scontrare quelle loro opposte radicalità che cercheranno di rispondere al quesito: «che ne è stato del sogno americano?». Andranno correttamente, eroicamente, a caccia di prove e indizi su quel che è successo davvero e che nessun agente del Lapd («il dipartimento di polizia più corrotto del mondo», parola di Aldrich) avrebbe la minima voglia di scoprire. A cominciare dai dintorni del The Million Dollar Hotel, nel «centro» di Los Angeles e uscendo poi in pieno deserto, fino a Venti miglia da Trona (così si intitola anche un cortometraggio che Wenders ha girato nel 2002 sul set) perché solo nei pressi di una frontiera l'americano vero si riappropria delle sue qualità e identità e capacità libertarie. E il paese proprio davanti alla sua più difficile frontiera, il 7 novembre, le elezioni che possono affondare o salvare il mondo, si trova oggi. Il cuore di questo film diretto da uno zombie sugli zombies ribelli è invece, come sempre nei film di Wenders, fuori quadro, nel soundtrack. Leonard Cohen, Beangrowers, David Bowie, Thom, Die Toten Hosen, Travis, Hub Moore, Tv Smith. Tullio Kezich –Corriere della Sera A chi legge i giornali francesi si raccomanda di non prendere atto delle stroncature che hanno salutato La terra dell'abbondanza, accolto invece molto bene a Venezia. Nel film, il migliore di Wenders negli ultimi anni, assistiamo al confronto fra l'America di Bush e l'altra America, quella che vorrebbe tornare a essere la patria della libertà. Impersonano le due culture John Diehl, veterano del Vietnam convinto di lottare in buonafede contro il terrorismo, e sua nipote Michelle Williams, da lui rifiutata per anni per dissensi con la sorella "liberal". Vediamo la strana coppia riunita in un'inchiesta per l'uccisione di un immigrato pakistano che sembra (ma non è) frutto di una congiura razzista.Dalla periferia di Los Angeles a un borgo sperduto nel deserto, emerge l'immagine di un Paese definito ironicamente "land of plenty" e, invece, sopraffatto dalla miseria. Un film vitale e problematico, ricco di immagini vere colte al volo da un cineasta di razza. Mattia Pasquini –35mm.it Dopo l'esplosione di "Buena Vista Social Club", il controverso "Million Dollar Hotel" e il tanto decantato, e fuori dalle righe, "The Blues" forse può sembrare strano, ma il Wim Wenders che continua a riempirci gli occhi è quello visto da poco (in occasione della 'gran riedizione'...) di "Fino [email protected] 19 alla fine del mondo", ma soprattutto quello di "Lisbon Story". E' colpa sua però. Le riprese poco pulite, le visioni in digitale, la telecamera cme specchio in cui vedere un mondo mediato, riflesso, ...e riflettervi, sono quelle già viste in altre opere del grande regista tedesco e spesso usate per trasmettere tematiche ormai divenute quasi un marchio di fabbrica dello stesso. Come si vede, non è solo Moore a fare le pulci a una America del Nord poco incline all'autocritica, all'osservazione delle proprie miserie e tanto desiderosa di credere alle bugie che si racconta da crearsi una realtà paranoide in cui vivere... meglio? Vogliamo considerare indicativa la splendida immagine della bandiera americana, ostentata e idolatrata dal Paul 'agente', che gradatamente si consuma, acquista anima, vive l'incontro con un mondo da cui prima era - volontariamente e presuntuosamente - eslcusa. Chissà che presto non diventi evidente la necessità di fare un passo avanti, per tutti; che scoprire se stessi, il proprio paese, il mondo, bisogna uscire... da sé e da tutto, guardarsi e vivere attraverso gli occhi degli altri. Valerio Salvi –FilmUp Per questa sua personale ode all'America, Wenders (Fino alla fine del mondo) sceglie delle "facce da telefilm" che allo stesso tempo sono anche tipiche "facce da Wenders": Lana (Michelle Williams / Dawson's creek) e Paul (John Diehl / Miami Vice) sono uniti da un legame di sangue, ma allo stesso tempo sono due facce della stessa medaglia: a cosa hanno diritto gli americani? Lana attivista da sempre è tornata a Los Angeles convinta che bisogna prima risolvere i problemi interni (senza tetto, miseria, alfabetizzazione, ecc.), perché è inutile chiudere gli occhi di fronte all'evidenza e sperare che evitando di passare in un certo quartiere si possa annullarne l'esistenza. Paul, reduce dal Vietnam con la mente affollata da visioni provocate dall'avvelenamento da diossina, è un convinto assertore della self-security. Bisogna stare uniti contro il nemico e restare sempre vigili. Passa il tempo guidando il suo pulmino per le strade di L.A. e monitorando presunte attività sospette. Il caso li unirà alla ricerca della verità sulla morte di un barbone di origine islamica, una verità che per ognuno dei due ha un colore diverso della bandiera, il bianco della tolleranza e della fede per Lana, che vorrebbe solo restituire il corpo ai familiari, ed il rosso del sangue e della intolleranza per Paul che cerca una cellula terroristica. Sarà proprio attraverso lo scontro di questi due mondi che Wenders cercherà di riconciliare queste due anime dilaniate di un'America che non si riconosce più nella sua stessa Amministrazione. In solo un mese di riprese Wenders confeziona questo suo personale omaggio all'America che non è altro che una fotografia super partes, almeno nelle sue intenzioni. Emblematica la frase finale che Lana dirà a Paul: "Io l'undici settembre ero in mezzo a gente che festeggiava il crollo delle torri..." "Eri con i terroristi?""No, ero in mezzo alla popolazione, ma loro ci odiano!" Cesare Balbo –l ’ Espr esso Il cinema ha raccontato e continua a raccontare il 'dopo 11 settembre'. Al documentario politico anti-Bush di Michael Moore, Fahrenheit 9/11, accolto con un'ovazione di quindici minuti al festival di Cannes, risponde infatti Wim Wenders con The Land of plenty, un film 'militante' a basso costo, girato in digitale e ambientato nella periferia di Los Angeles. Wenders lo definisce il più politico dei film da lui diretti, una storia drammatica che trae spunto dal difficile clima politico che attualmente vivono gli Stati Uniti. Il regista, nato Düsseldorf in Germania ma che da tempo si è trasferito e lavora in America, nel film dà una testimonianza diretta di quest'atmosfera sostenendo che negli Usa aleggia la sensazione di "patriottismo frainteso". Sentimento alimentato dai media che diffondono un'informazione poco libera, non per mancanza di libertà effettiva ma per assenza di qualcuno che l'informazione la faccia seriamente, assenza che di fatto favorisce una propaganda filogovernativa. Da artista sensibile, Wenders si è sentito chiamato in causa e ha deciso di illustrare il suo diverso punto di vista sulla situazione puntando il dito in particolare sulla povertà, vera emergenza americana della quale, come avverte il regista stesso, quasi nessuno parla. Il titolo provvisorio del lungometraggio inizialmente era ancora più esplicito: Angst and Alienation in America (Rabbia e Alienazione in America), poi modificato in The land of plenty (La terra dell'abbondanza), che evoca la canzone di Leonard Cohen oltre che anche i disagi della controversa realtà americana del dopo 11 settembre. L'11 settembre è infatti la data che ha cambiato la vita di Lana (Michelle Williams), giovane liberal [email protected] 20 protagonista del film che dopo aver a lungo viaggiato, seguendo perfino in Palestina un padre missionario, decide di ritornare negli Stati Uniti per riprendere gli studi. Salvo poi dedicarsi alla lotta antiterrorismo condivisa con suo zio Paul (John Diehl), fratello unico della madre morta anni prima e veterano della guerra del Vietnam che vive nei bassifondi di Los Angeles. The land of plenty è un film più schierato politicamente rispetto ai precedenti, più politico anche rispetto al nuovo lavoro di Wenders, ancora in fase di lavorazione, Don't come knocking, con Sam Shepard, Jean Reno e Jessica Lange. La tendenza a far film contro il presidente Bush è stata, secondo lo stesso Wenders, inaugurata da Sean Penn che ha per primo avuto il coraggio di prendere posizione contro di lui sopportando non poche ritorsioni dai media americani. E a Cannes, durante la presentazione del film L'assassinio di Richard Nixon, in cui interpreta l'attentatore del presidente Sam Bicke, l'attore non ha esitato e ha detto: "Non avrei mai pensato di dover rimpiangere Nixon". Federico Chiacchieri –Sentieri Selvaggi Ancor al ’ Amer i ca,perWi m Wender s.Ter r a-Paese amato/odiato, bramato, luogo dove ogni volta sembra ritrovarsi per poi, di nuovo, rifuggirne. E il non luogo Hollywodiano di Hammett, del duro s cont r oconl ’ i ndust r i a,seppursot t ol ’ egi dacoppol i ana,oppur ei ldeser t osamshepar di anodiPar i s Tex as,ol ’ uni ver soeccent r i codiMi l l i onDol l ar sHot el ,pernonpar l ar ediquelNi ck ’ sMovi e,che ancora si fatica a capire quanto appartenga al regista tedesco e quanto agli ultimi respiri di Ni chol asRay.Mal ’ Amer i caèf or seaddi r i t t ur api ùpr esent eneif i l m“ eur opei ” ,nel l ’ ot t i cadi quella “ col oni zz azi onedel subconsci o”dicuiWender spar l adal l ’ epocadi' Nel cor s odelt empo' . Oggil ’ Amer i caèi lmondo,el eel ezi oniamer i cane,l ar i el ezi on eol asconf i t t adiGor geW.Bush,è qualcosa che appartiene, nostro malgrado, a tutto il mondo,come se f osse un’ el ezi one del pr esi dent epl anet ar i o… dacuidi pendonoidest i niegl ior r or ipos si bi l idigr anpar t edeici t t adi nidel mondo. E Wenders, come del resto Spike Lee nei suoi titoli di testa, non pare proprio voler sfuggire a questa centralità del presente, quel mondo post 11/9 che sembra proprio impossibile ignorare. Unmondo f at t o dior r or eet er r or e,diguer r epr event i veediat t ent at isui ci di .E qu ando l ’ ami ca israeliana di Lara (Michelle Williams), gli manda per e-mail le immagini degl iul t i miat t ent at i ,“ per n onf ar t ir i mpi anger equi ” ,si amodic ol poscar avent at ii nquest o“ medi or i en t egl obal e”chesembr a ormai essere diventato il pianeta. Lara è americana, di nascita, giovane ventenne che ha vissuto unpo’dapper t u t t o alsegui t o del l a madr ei mpegnat a come mi ssi onar i a,t r al ’ Af r i ca e l ’ Eur opa. Tor na nelpaese nat i o dovel ’ uni co par ent er i mast ol eè uno zi o chedaanninonr i spondeal l e lettere della madre, Paul (John Diehl). Un ex berretto verde, in congedo, veterano della guerra del Viet nam dicuian cor a por t a isegnivi st osament e nelsuo compor t ament o.Gl ievent idel l ’ 11 settembre gli hanno come rilanciato il trauma dalle guerra, e Paul va in giro con un furgone attrezzatissimo alla ricerca di possibili attentatori, in una personalissima guerra al terrorismo. Wender sondeggi at r aidueper sonaggi ,l ’ i nnocenzadiLar ael ’ ossessi onediPaul ,sal t adauno al l ’ al t r o nelt ent at i vo dir i compor r e un cur i os o quadr et t of ami l i ar e,con due modioppost iper affrontare il nuovo scenario bellico mondiale. Si capisce che Lara è lo sguardo di Wenders, eppure i lr egi st at edescohaunapr edi l ezi oneperquest osuoper sonaggi ounpo’f ol l e,st r al unat o,f uor idi se, che a tratti sembra uscito da 1941 allarme a Hollywood di Spielberg/Zemeckis, e il film lo segue c omeun’ ombr a,conl ast essaf ol l emal i nconi aconl aqual ePaulpedi nagl iar abisospet t i ,ei ndaga sulla morte di uno di loro di cui è stato testimone diretto. E a un certo punto davvero sembra che Wenders si perda, come il suo protagonista, sembra vaneggiare un cinema che racconta un’ osses si onei ncuinoncr ede,t r oppochi ar oef or t eappar ei lsuopunt odivi s t adi ver sodalsuo per sonaggi o,percuinoigi à sappi amo che l ’ ar abo ucci so er ai nnocen t e,che sono st at idei ragazzacci bianchi a farlo fuori, echeicr i mi nal ivannor i c er cat idaun’ al t r apar t e.E’cur i osaquest a strana passione per un personaggio che non si ama affatto e non si fa nulla per renderlo amabile, n on ost ant el ’ i nt er pr et azi onediJohnDi ehl .E quandoWender sal l af i necir egal ai lsuo magnifico s er monef i nal e,conl epar ol edol cidiuna“ bel l aper sona”comeLar a( noncr edoch eit r emi l amor t i del l ’ 11set t embr eavr ebber ovol ut oveder eal t r imor t ii nl or onome) ,st ent i amoacapi r eper chénon abbia voluto approfondire il personaggio che amava e si è invece ricacciato nella palude del reduce del Vietnam di cui non aveva così tanta voglia di raccontarci poi molto. Colpa di Michael Meredith, lo sceneggiatore, forse. E peccato che non abbia ritrovato Sam Shepard, nelle cui mani un copione del genere sarebbe diventato esplosivo. [email protected] 21