Numero 55 - Ricreatorio San Michele

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Numero 55 - Ricreatorio San Michele
ALTA UOTA
Anno 12 Numero 55 edizione Maggio-Novembre 2016
Periodico bimestrale gratuito - Tiratura 1.000 copie - Registrazione Tribunale di Udine n. 15 del 15 marzo 2005
Il Ricreatorio San Michele è iscritto nel Registro
Regionale delle Associazioni di Promozione Sociale al n. 121
www. fvgsolidale.regione.fvg.it
Segreteria telefonica e fax: 0431 35233 Sito internet: www.ricre.org /AltaQuota2.0 [email protected]
Direttore responsabile: Andrea Doncovio Direttore editoriale: Filippo Medeot Redattori: Giuseppe Ancona, don Moris
Tonso, Vanni Veronesi, Giulia Bonifacio, Francesco Perusin, Federica Ermacora, Francesco Pavoni, Carolina Stabile, Luca Maggio Zanon, Paolo Bearzot, Luca Visentin.
Responsabile web: Riccardo Rigonat Responsabile marketing: Alex Zanetti Stampa: Goliardica Editrice, Bagnaria Arsa
Centro Giovanile di Cultura e Ricreazione “Ricreatorio San Michele” via Mercato, 1 – 33052 Cervignano del Friuli (UD) www.ricre.org
(RI)SCOSSA.
A 40 ANNI DAL SISMA CHE SCONVOLSE IL FRIULI
I
CARLA MARCATO p. 9
CRISTIANO TESSARI p. 5
GIORGIO GODINA p. 4
ALCIDE GRATTON p. 4
ANTONIO SACCHETTO p. 3
nnanzitutto vorrei cogliere l’occasione per presentarmi: mi
chiamo Filippo Medeot e sono il nuovo direttore di Alta Quota. Quando ho deciso di assumere l’incarico il primo pensiero
è andato alla grande responsabilità di portare avanti il giornale,
mantenendone alta la qualità e la lucidità. Per fortuna ad accompagnarmi c’è una redazione giovane e volenterosa; insieme cercheremo da una parte di rinnovare Alta Quota, stando al passo
con il mondo, e dall’altra conservare lo spirito che da sempre anima questo periodico: osservare ed analizzare la realtà che è intorno a noi, con un occhio di riguardo a Cervignano ma anche al
resto del globo, in maniera puntuale, seria, attenta ed intelligente.
Ringrazio inoltre Vanni Veronesi, sia per aver magistralmente diretto Alta Quota negli ultimi tempi sia per avermi dato più di una
mano a comprendere come si porta avanti un giornale.
Dunque quello che avete tra le mani è il nuovo numero di Alta
Quota. È un numero diverso dagli altri: è diviso in due parti. Nella prima troverete testimonianze e racconti sul terremoto che nel
1976 colpì la nostra regione, esattamente quarant’anni fa. Nella
seconda si parlerà di linguaggio e comunicazione e del rapporto
di questi con la società: un argomento a mio avviso estremamente
interessante e ricco di spunti.
Purtroppo, dopo i due devastanti terremoti che hanno scosso il
Centro Italia, il tema della ricostruzione è divenuto più attuale
che mai: in questo senso l’esperienza friulana può costituire un
modello virtuoso a cui guardare.
L’anniversario dell’Orcolat – che causò quasi mille morti – è stato occasione di numerose celebrazioni, dagli speciali televisivi
alle mostre, fino alla visita del Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella ai comuni di Gemona e Venzone. Al di là di cerimonie
e commemorazioni, Alta Quota vuole riportare un ricordo vivo
di ciò che avvenne la sera del 6 maggio 1976, attraverso le parole
di chi il terremoto e la conseguente emergenza li visse in primo
piano, soprattutto per i più giovani, molti dei quali non hanno
un’idea precisa di quello che accadde. Il numero si occuperà di
tutti gli aspetti del sisma: dagli attimi della scossa al soccorso dei
sopravvissuti fino alla successiva ricostruzione. Un evento drammatico che portò alla luce la straordinaria forza di volontà di uomini e donne e la capacità intrinseca all’uomo di reagire di fronte
alle calamità.
Vi auguro una piacevole lettura lasciandovi in compagnia delle
parole dolci ma al contempo malinconiche che lo scrittore Mauro
Corona pronunciò ricordando il terremoto del Friuli.
«Il friulano che c’era non è più quello, non può ricostruirsi, perché
quello aveva un andamento fluido, di anni, prima ancora di secoli,
la memoria ereditata nei racconti. Invece adesso c’è stata questa
troncatura e il friulano ancora barcolla, è preso dalla malinconia,
dalla nostalgia di una cosa che non c’è più, perché il vero friulano
non è il ‘fasìn di bessôi’, ma è l’avere ancora entusiasmo da rinascere da queste ceneri e quindi raccoglierle di nuovo e ripartire.
È questa la forza del friulano: è la capacità di non farsi abbattere.
Non piange tanto il friulano, sa tenere le lacrime e gli circolano
dentro come una linfa nuova, terrificante ma anche creativa, è una
testimonianza di tenacia, di volontà, di forza. […] Bisogna ripartire ed è difficile alzare una pietra per fare un muro quando dentro
hai il dolore dei morti, della disfatta della memoria, usi e costumi, tradizioni, la cultura; non c’è più niente e quindi dobbiamo
mettere una pietra e se quella pietra pesa un chilo, con il dolore
dell’anima pesa dieci chili, cento chili, eppure il friulano la alza e
la piazza lì: “e intanto abbiamo messo questa”, dice».
◆◆ FILIPPO MEDEOT
6 MAGGIO 1976
Il 6 maggio 1976 l’Orcolat, l’essere mostruoso indicato dalla tradizione popolare
come la causa dei terremoti, diventando successivamente l’appellativo di quella
che è considerata una delle scosse sismiche più devastanti della seconda metà del
Novecento in Italia, si svegliò.
Alle ore 21.00 la terra tremò per circa un minuto, generando un sisma di magnitudo 6.4 della scala Richter che colpì in particolar modo la zona a nord di Udine
con epicentro nei comuni di Artegna e Gemona, causando però effetti distruttivi
in ben quarantacinque paesi completamente rasi al suolo tra i quali oltre ai due
sopracitati ricordiamo anche Osoppo, Venzone, Fogaria, Buia, Moggio Udinese,
Trasaghis e Majano. Più moderate scosse si verificarono a Udine e Pordenone,
leggere invece a Trieste, Gorizia e nelle regioni Veneto e Trentino Alto-Adige.
Sicuramente i danni furono maggiori a causa della posizione dei comuni su alture e dell’età avanzata degli edifici, ma il colpo di grazia avvenne nei giorni 11
e 15 settembre del medesimo anno, quando quattro scosse di simile potenza alla
prima di quella terribile serie distrusse anche quel poco che era rimasto in piedi.
L’8 maggio il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia mise a disposizione 10
miliardi di lire per avviare immediatamente la ricostruzione delle aree colpite e il
15 settembre invece fu designato Giuseppe Zamberletti al ruolo di commissario
straordinario del Governo e coordinatore dei soccorsi.
Aiuti giunsero da ogni parte d’Italia e persino dagli Stati Uniti che contribuirono
sia con denaro sia con l’installazione di tende da campo, mezzi e attrezzature necessarie. La ricostruzione si concluse dopo dieci anni di duro lavoro che diedero
importante impulso alla formazione della Protezione Civile, ma sarà ricordata
in seguito come esempio di grande efficienza e serietà, tanto che si parlerà addirittura di ‘modello Friuli’: tramite il metodo di anastilosi ogni pezzo infatti sarà
riposto esattamente dove si trovava in precedenza. Alla fine dei conti dunque
questa tragedia, che in termini di vite umane e danni è costata 989 morti, 3.000
feriti, circa 100.000 sfollati, quasi 17.000 case distrutte e 18.5 miliardi di euro
secondo i dati dell’ufficio studi della Camera, possiamo dire che è giunta a un
‘felice’ epilogo.
◆◆ CAROLINA STABILE
 le fotografie in questa pagina rappresentano Gemona del Friuli e dintorni.
AREA COLPITA: 5.500 chilometri quadrati
POPOLAZIONE COLPITA: 600mila abitanti
MORTI: 990
SFOLLATI: più di 100.000
CASE DISTRUTTE: 18.000
CASE DANNEGGIATE: 75.000
DANNI AL TERRITORIO: 4.500 miliardi di lire (oltre 18,5 miliardi di euro del 2010)
COMUNI COINVOLTI: 45 comuni “rasi al suolo” come Gemona, Venzone, Buia,
Pinzano al Tagliamento, Monteaperta (frazione di Taipana) e Osoppo, 40
“gravemente danneggiati” e 52 “danneggiati”
ALTA UOTA
in
uotattualità
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I DATI
credifriuli.pdf 15/02/2010 13.46.47
arteottica.pdf 1 08/04/2016 13.09.56
LE TESTIMONIANZE
VENZONE: UN CASO PARTICOLARE
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Antonio Sacchetto, classe 1940, ricoprì la carica di sindaco di Venzone dal 1975 al 1982 ritrovandosi a dover fare i conti con l’Orcolat. Ci troviamo nel meraviglioso agriturismo che ha
pian piano costruito assieme al figlio e tra un ricordo e l’altro comincia la sua storia.
––
Cominciamo, se non le dispiace, da prima
del terremoto: com’era Venzone nel 1975?
«Era una città tranquilla, normale come
tante altre in Friuli, aveva circa 2.500 abitanti. Io salii in carica nel 1975, precisamente otto mesi prima del sisma, diciamo
che non fui molto fortunato… (poi continua sorridendo). Sa, fui il primo sindaco
socialista di Venzone dopo quarantanni di
democrazia cristiana, eravamo nel pieno di
un periodo di transito ma mai ci saremmo aspettati un evento come quello che ci
colpì, in quel tempo non si parlava di terremoto, non si parlava di zone sismiche, ci
ha travolto e basta».
–– Può condividere con noi i suoi ricordi di
quella sera?
in
«Abitavo a trecento metri dal centro storico, sotto la montagna, quella sera stavo montando una libreria assieme a mio figlio quindi
ero disteso sulla schiena, sentii la scossa, fortissima, un frastuono irreplicabile, presi la mia
famiglia e uscii di casa e andammo in una radura al sicuro. La casa nella quale vivevo l’avevo costruita nel 1964 io stesso, resistette bene e non riportò particolari danni, potei perciò
rientrare velocemente e prendere i materassi e portarli nella radura. Ciò che mi colpì più di
ogni altra cosa fu la montagna, in quel momento si trasformò in un mostro gigantesco, le
frane e le scintille provocate dall’oscillazione erano uno spettacolo terribile e poi il rumore
e l’aria irrespirabile. Mi resi subito conto che era successo qualcosa di catastrofico, così corsi
in paese».
–Cosa
–
vide là?
–Chi
– venne a darvi il primo aiuto?
«Fummo fortunati perché a Venzone era attiva la caserma degli alpini e la sorte volle che
quella sera fossero di libera uscita quindi molti erano in paese, ci dettero un aiuto importantissimo sopratutto nella fase di emergenza più critica quando cercavamo tra le macerie
eventuali sopravvissuti. Anche i militari di istanza a Venzone si misero immediatamente a
disposizione, nella catastrofe del terremoto fummo veramente fortunati ad avere persone
qualificate pronte a dare una mano».
–Come
–
vi organizzaste ?
«Per prima cosa andammo nel camping lungo il Tagliamento, là avevamo i bagni e l’acqua
corrente, poi creammo vari accampamenti, ogni frazione e borgo aveva la propria tendopoli.
Successivamente costruimmo i prefabbricati che ci erano stati forniti, perché si sa, per i friulani la casa è una cosa importante, per cui cercammo di ricreare un luogo nel quale sentirsi
al sicuro. Arrivarono anche prefabbricati dal Canada: rifiutai più volte l’aiuto, dato che eravamo già sufficientemente forniti, ma loro ce li inviarono lo stesso. Tutt’oggi in alcune case
sotto la muratura di rivestimento in mattoni c’è la casetta canadese interamente in legno».
uotattualità
«Fu difficile il solo arrivare al centro del paese, le strade non si può dire che fossero inagibili: semplicemente non esistevano più. Qua e là si vedevano i corpi di chi non era riuscito a
mettersi in salvo ma in quel momento si pensava ai vivi; non c’era tempo, i morti li si sarebbe
pianti dopo. I miei concittadini erano tutti in mezzo alla piazza di Venzone, notammo subito che non c’erano gli anziani che erano ospitati nella casa di riposo ‘Pio Istituto Elemosiniere’, così ci dirigemmo là ma le strade erano crollate e non si riusciva ad entrare. Di lì a poco
trovammo tutti gli ospiti dell’istituto nei pressi della porta di San Giovanni: erano riusciti
ad uscire prima che le scale venissero giù».
–La
– ricostruzione fu particolarmente veloce a Venzone, come mai?
–Chi
– ricostruì le case e le infrastrutture?
«Per il centro storico vennero fondate molte cooperative, dunque venivano pubblicati i bandi e di conseguenza gli appalti che venivano affidati a queste ultime, composte sopratutto di
manodopera locale. Per la periferia della città invece i privati facevano un po’ da sé, nel senso che la casa se la ricostruivano da soli, la maggior parte delle persone erano abili muratori
e poi ci siamo aiutati a vicenda».
–Come
–
funzionò la solidarietà?
«Vennero persone da ogni parte d’Italia, la solidarietà fu molta e vanno ricordati anche i
Fogolârs furlans di ogni parte del mondo che sia ci inviarono sia risorse di prima necessità
sia ci dettero un aiuto economico non indifferente».
◆ FILIPPO MEDEOT E FRANCESCO PERUSIN
 le fotografie a fianco rappresentano Venzone e dintorni.
ALTA UOTA
«Sì, Venzone è stato un caso particolare tra tutti i comuni colpiti dal sisma per vari motivi.
Per prima cosa fu fondamentale il controllo delle discariche, riuscimmo a classificare tutto
il materiale crollato casa per casa in modo da poterlo riutilizzare; le ruspe a Venzone non
entrarono mai. Un’ altra fortuna fu il fatto che il centro storico di Venzone era vincolato: nel
1965 era stato proclamato monumento di interesse nazionale, per cui il nostro referente era
al tempo il ministro per i beni culturali ed ambientali e non la legge regionale numero 63.
Grazie a ciò riuscimmo ad avere velocemente i fondi per le espropriazioni del centro storico
e quindi per la successiva ricostruzione. Avemmo poi l’intuizione di costruire prima di tutto
le strade e le infrastrutture con le fognature e tutta la rete dei servizi e questo ci permise di
essere molto veloci nel ricostruire il tutto; appena una casa veniva riedificata con i materiali
di recupero era subito abitabile. Un grande problema era rappresentato dal fatto che non
sapevamo bene come fosse fatto l’impianto a terra del centro storico, ma anche qui fummo
molto fortunati: l’Università di Vienna aveva eseguito, a scopo di ricerca, il rilievo di tutto il
centro, quindi la perfetta collocazione delle singole case».
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LE TESTIMONIANZE
«LA FIAMMA DELLA SOLIDARIETÀ NON SI È SPENTA»
Un protagonista della politica cervignanese negli anni della cosiddetta ‘Prima Repubblica’, sindaco della città alla
fine degli anni Ottanta, ma soprattutto un uomo ancora
oggi attivissimo nella nostra comunità: è ALCIDE GRATTON. Chiacchierare con lui è sempre un piacere, anche
quanto i temi sono molto seri, come questa volta: il suo
ricordo relativo ai giorni del terremoto.
in
uotattualità
––
Partiamo da
quella sera: 6 maggio 1976.
«Quella sera dovevo andare in
commissione
edilizia in Municipio, ma mia
moglie era rimasta in panne con
l’auto a Cisis; la
andai a recuperare e parcheggiai
lei e mia figlia di
neanche tre anni
a casa dei miei, in
Capoia, al primo piano. Arrivato in Municipio, iniziammo la seduta alle 21.00. Sei minuti dopo sentimmo un rumore assordante: pensammo subito al passaggio dei carri
armati che allora erano di stanza alla Monte Pasubio».
–– Erano così rumorosi?
«Scherzi?! Quando passavano per Cervignano tremavano
i muri, esattamente come accadde quella sera: per questo
pensammo ai carri armati. Fu il mio amico Maurizio Briga a dirci, affacciandosi alla finestra, che si trattava del
terremoto. Corsi in Capoia per recuperare moglie e figlia:
erano incolumi perché, per l’appunto, stavano al primo
piano. Noi all’epoca abitavamo al sesto piano del condominio Ausa: mi resi conto che l’edificio aveva oscillato di
oltre un metro».
–– E per fortuna qui non ci furono particolari danni…
«Grazie alla particolarità del terreno. Ma già a Villa Vicentina, a causa del fondo ghiaioso, ci furono delle lesioni
molto gravi. Comunque so che in Capoia la centralina
–– Però sembrava che la cosa fosse finita lì, vero?
«Vero, perché le zone colpite dal sisma erano senza corrente, isolate, senza possibilità di comunicare immediatamente con il resto della regione. Rincasammo subito
dopo le 22 e andammo a dormire. Poi, all’1.15 ricevetti
una telefonata dal bar Dante: “Il Friuli è disastrato, c’è bisogno di sangue”. Mi precipitai alla locale sede dell’AFDS
e intanto le scosse ripresero, fortissime: mia moglie era a
casa con la bambina, ricordo che per averla lasciata sola
me ne disse tante…»
–– Cosa accadde il giorno dopo?
«Quella notte il Friuli si attivò immediatamente e la mattina dopo la mobilitazione era già enorme. A Cervignano
l’amministrazione organizzò un centro di raccolta: c’era
bisogno di tutto, dal cibo ai materassi, dalle coperte ai vestiti. E voglio ricordare la grande attività di coordinazione dell’allora sindaco Francovich, che di lì a poco avrebbe
passato dei mesi d’inferno».
–– Come mai?
«Francovich era ingegnere e qualche tempo prima del
terremoto aveva diretto i lavori per la costruzione di un
condominio a Majano. Quel palazzo crollò e ci furono 40
morti. Fu un incubo: dopo una lunga serie di telefonate
con minacce di morte, si trovò costretto a scomparire. Solo
a posteriori abbiamo saputo la verità: il precedente sindaco
di Cervignano, Mariuz, lo aveva ospitato a casa sua per tre
mesi, nel più assoluto riserbo. Fu un gesto di grande umanità: Francovich era comunista, Mariuz democristiano,
ma la loro amicizia era più forte della lotta politica».
–– Come finì quella vicenda?
«Tieni conto che un mese dopo erano previste le elezioni
e Francovich era il candidato di punta del PCI provinciale: era praticamente certo di arrivare in Parlamento.
La storia del condominio, però, fu la sua condanna: il
partito chiese la sua testa, imponendogli le dimissioni da
sindaco e dalla corsa alla Camera. Un anno dopo, il processo avrebbe comunque stabilito la sua totale innocenza; si scoprì, infatti, che Majano era stata dichiarata zona
non sismica, perciò i lavori erano stati condotti in modo
del tutto regolare».
–– Qual è la tua personale esperienza del ‘dopo’?
«In quelle settimane andai spesso nell’alto Friuli, poiché
avevo una procura di mio fratello, che viveva in America, per riconvertire un vecchio casale di sua proprietà a
Piano d’Arta. L’edificio era rimasto in piedi, ma c’erano
crepe ovunque e gli abitanti della zona mi dissero di aver
visto, quel 6 maggio, il tetto sollevarsi di un metro e poi
tornare al suo posto. Anche raggiungerlo, comunque, era
una impresa: non c’era ancora l’autostrada e la Pontebbana era ingombra di macerie. Ricordo deviazioni lunghissime, strade disastrate, interi paesi rasi al suolo. Vidi
Gemona, Venzone, Trasaghis, Portis e mi resi conto della
tragedia; pensai che fosse davvero finita per il Friuli, specie dopo la terribile nuova scossa del 15 settembre».
–– Che viene sempre dimenticata, ma in realtà fu il vero colpo di
grazia.
«Tanto che buttò giù le prime costruzioni appena riedificate, poiché le malte erano ancora troppo fresche!».
–– Poi però si mise in moto una ricostruzione incredibile.
«…e ancora mi chiedo come sia stato possibile un simile
miracolo. Ci fu una felice unione di vari aspetti: il volontariato, la partecipazione di tutte le forze politiche, l’impegno concreto della Chiesa, la solidarietà degli abitanti
di Grado e Lignano che ospitarono i terremotati nelle loro
case e nei loro alberghi (anche sacrificando intere stagione
turistiche), nonché l’orgogliosa tenacia tipica dei friulani.
Fu poi decisivo l’enorme contributo economico che arrivò
dai nostri corregionali sparsi in America, Australia, Nord
Europa, anche grazie all’azione meritoria di Mario Toros,
presidente dell’Ente Friuli nel Mondo: l’emigrazione, storica piaga di queste terre, si trasformò in una risorsa, perché dai fogolârs sparsi in tutto il pianeta arrivarono soldi
a palate. Così tanti che la Regione potè investirli anche in
settori slegati dalla ricostruzione post-terremoto».
–– Una simile convergenza di forze sarebbe ancora possibile nel
Friuli di oggi?
«Il benessere distrae e provoca una quota fisiologica di
individualismo: anni fa c’era abbondanza di volontari in
tutti i settori, mentre oggi si fa più fatica a trovarli. Tuttavia l’aiuto reciproco emerge nelle situazioni di difficoltà:
in questo senso, credo che la fiammella di quella solidarietà non si sia spenta».
◆◆ VANNI VERONESI
IL TERREMOTO IN FRIULI: I VIGILI DEL FUOCO E I PRIMI SOCCORSI
Ho incontrato, GIORGIO GODINA, dal 1975 ufficiale superiore nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco ed in seguito
Vice Comandante provinciale di Udine per diversi anni.
Siamo in un locale del centro di Udine e lo ascolto come un
nipotino ascolterebbe il nonno: con l’ammirato incanto che
solo chi racconta se stesso e la propria passione riesce a suscitare. Quel 6 maggio del 1976 alle ore 21.00 era di servizio
al comando di Udine ed allora la prima domanda è:
–– Quali i ricordi di quei primi momenti?
«Terminata la scossa (IX grado Mercalli, durata quasi un
minuto), il primo pensiero fu quello di mettere al sicuro
i mezzi di soccorso trasferendoli nel cortile esterno. Le
squadre erano pronte ad intervenire, ma il tempo passava e non arrivava nessuna richiesta di soccorso. Realizzai
subito che era iniziata una lotta contro il tempo, ma anche che nessuno sarebbe rientrato in casa per fare una telefonata ai pompieri. Che gli impianti elettrici, quelli telefonici e quant’altro di essenziale potevano essere fuori
servizio. Decisi che se il soccorso non veniva verso i Vigili del Fuoco, sarebbero stati questi ultimi a cercarlo. Con
l’autista ed un mezzo di servizio mi diressi verso nord per
individuare l’estensione e la gravità del terremoto ».
ALTA UOTA
dell’Enel scintillò a lungo perché i cavi dell’alta tensione
si toccavano».
–– Cosa vide cosa la colpì maggiormente?
«Mi colpì subito il buio profondo. Tutto era avvolto da
una spessa e sconfinata nube di polvere creata dai tanti crolli di edifici. La presenza a terra di ruderi e grosse porzioni di case ingombravano le strade. Cominciai
a segnalare via radio quello che vedevo dando le prime
indicazioni per mobilitare i diversi Comandi Provinciali
che iniziarono i preparativi di quello che sarebbe stato
un tempestivo, massiccio, prolungato intervento in Friuli. Il terremoto è un evento catastrofico, che in un attimo
sconvolge tutto; impone un immediato ed imponente
spiegamento di risorse umane e mezzi. Noi eravamo solo
due pompieri, in mezzo ad un mondo martoriato, senza
attrezzature specifiche ed avevamo solo due paia di guanti da lavoro, ci sentivamo impotenti e vulnerabili di fronte a tanta devastazione».
–– L’incontro con la gente, le è rimasto nella memoria qualche
caso particolare?
«Giunti a Gemona, notai che il disastro andava moltiplicato per cento. L’aiuto arrivò dalla stessa gente friulana,
persone meravigliose che ci invitavano, molto spesso, a
proseguire per non perdere tempo. Andate avanti. Fermatevi dove sentite i lamenti. Qui, ormai, non risponde più nessuno. Niente panico o scene di disperazione.
Grande dignità umana ed ammirevole compostezza. Alto
rispetto e piena rassegnazione per la sorte sfortunata dei
propri cari o dei semplici conoscenti. Che splendida ed
indimenticabile lezione di vita! Il terremoto del Friuli che
provocò quasi mille vittime, tanto dolore e strazio, mise
anche in evidenza il carattere della gente friulana, forte e
determinata che, nonostante tutto, seppe risollevarsi rapidamente e ricominciare trasformando una sciagura in
opportunità ».
–– Un ricordo particolare in seguito?
«Ci recammo anche presso le case popolari, un edificio
multipiano era completamente crollato, letteralmente su
se stesso. Il tetto si era appoggiato su una quantità indescrivibile di rottami e si univa direttamente con il piazzale esterno. Risalimmo lungo il cumulo delle macerie
ed entrammo nel fabbricato attraverso il lucernaio del
tetto. Raggiunto il piano sottostante notammo, all’ormai
debole luce delle lampade portatili, la presenza dei componenti di una famiglia. Gli adulti necessitavano di un
pietoso recupero, mentre un bambino piccolo era ancora
vivo ma trattenuto dal peso del corpo della mamma che,
a sua volta, era schiacciato da una grossa trave di cemento armato che sopportava i tetto. Sezionata la trave e rimosso il troncone, il corpo della madre venne separato
dal piccolo corpicino che, proprio in quel momento smise di piangere e spirò. Stavamo andando via rattristati e
delusi dall’insuccesso dopo tanto lavoro rischioso. Prima
di abbandonare l’abitazione, con la difficoltà di muoversi
e la scarsa visibilità volli assicurarmi che ci fossero altre persone. Alla fioca luce della lampada portatile notai,
schiacciata da una grossa trave di cemento armato, una
bambina dal volto polveroso, con due occhi spalancati e
lo sguardo fisso che piangeva in assoluto silenzio e che
rimase sempre muta alle tante domande per sostenerla.
Come avevamo fatto per la madre, la pesante struttura
venne rimossa e la bambina trasportata all’esterno attraverso il solito lucernaio e consegnata ai sanitari presenti
poco distante. Era il nostro primo soccorso con esito pienamente favorevole.
Questo episodio segnò per sempre la mia vita, anche professionale. Nei momenti di maggiore difficoltà, l’immagine di quell’angioletto rimasto sconosciuto, mi dava la
forza di continuare.
All’alba apprendemmo che già da molto tempo i Vigili
del Fuoco dei Comandi Regionali e quelli del Triveneto
operavano in zona. Ci sentivamo rassicurati: l’enorme
macchina dei soccorsi era partita rapidamente ».
◆◆ GIUSEPPE ANCONA
UN PO’ DI STORIA DELL’ARCHITETTURA
PRIMA E DOPO IL 1976: LA PAROLA ALLO STORICO
CRISTIANO TESSARI, professore associato di Storia
dell’Architettura dal 1998, insegna dal 2002 all’Università
degli Studi di Udine. Laureatosi in architettura allo IUAV
di Venezia nell’A.A. 1982-83 con una tesi diretta da Manfredo Tafuri dedicata all’architettura spagnola del XVI
secolo, tema sul quale ha redatto saggi e voci enciclopediche in pubblicazioni nazionali e internazionali, ha successivamente frequentato un corso di dottorato in Storia
dell’Architettura e dell’Urbanistica. Ricercatore presso lo
IUAV dal 1993; dal 1996 al 2000 è stato titolare dei corsi
istituzionali di Storia dell’Architettura Antica, Medievale,
Moderna. Fra il 2008 e il 2010 è stato responsabile dell’Unità di Ricerca della Facoltà di Ingegneria dell’Università
degli Studi di Udine nell’ambito del Programma di Ricerca Scientifica di Rilevante Interesse Nazionale (P.R.I.N.)
bandito nel 2007 dal titolo ‘L’invenzione del passato e la
memoria dell’antico nell’architettura italiana (XIX-XXI
sec.)’ promosso dall’Università IUAV di Venezia.
«No, non oso dire questo perché sarei presuntuoso avendo appena confermato la mia non natura di specialista
sulla vicenda terremoto, dico semplicemente che, nel
modo di tramandarla e raccontarla, sono emerse tutta una serie di convenzioni che, dal punto di vista sto-
–Il
– costruito del prima terremoto non poteva di certo essere
pronto ad un sisma così forte e vigoroso, per quale motivo, considerando la zona sismica così a rischio? Le abitazioni distrutte e
ricostruite a causa della guerra come mai non erano minimamente pronte a sollecitazioni tali
«Però attenzione, mentre per voi giovani viene naturale
mettere insieme fenomeni di natura diversa e considerarli come momenti di un orizzonte appartenente al passato
comune, nella realtà della percezione delle cose nel corso
del tempo, il tutto non funziona così… La guerra è un
trauma, un orrore… Il rischio sismico è un’altra cosa, è
un evento che per secoli anzi per millenni è stato considerato espressione del destino, della rabbia del Padre
Eterno o che so io, rispetto al quale non si potevano avere atteggiamenti preventivi, di conseguenza ricostruire
dopo la guerra significava ridare corpo e senso ad una
comunità all’insegna della memoria, della cultura civica
ecc… Ricostruire dopo il terremoto, e non il primo vissuto nella Penisola, significava fare i conti con istanze che
sono fra loro antitetiche».
–Per
– quanto riguarda i materiali invece? Venivano numerati e riutilizzati?
«In questo caso l’informazione generale trasversale può
indurre in sede di trasmissione e in sede di ricezione delle
conclusioni del tutto equivoche, mi spiego, quando si fa
o si faceva la presunta accuratezza per la quale “Nel duomo di Venzone è talmente forte la voglia del ricostruire
dov’era e com’era squilli di trombe e rulli di tamburi”,
numerando le pietre non si sta facendo nient’altro che
creare enfasi suggerendo che si tratti di un caso eccezionale mentre invece è un tipo di prassi che precedentemente era stata seguita, vedi il tempio malatestiano
a Rimini e non solo, nel caso di distruzioni belliche. Il
problema, casomai, attiene a che tipo di scrupoli sono
stati attivati in base alla natura dell’oggetto, chiarisco, le
pietre numerate funzionano per il Tempio Malatestiano,
funzionano per Palazzo Rucellai a Firenze perché il tipo
di attenzione che si riserva a quegli oggetti, che già prima
della guerra erano presenti nei libri di storia dell’arte, impone questo ma non è che tutto il ciclo della ricostruzione del patrimonio storico architettonico italiano, dal ‘44
a seconda delle zone liberate alla fine degli anni ‘50, abbia
avuto questi scrupoli, ci sono stati restauri eccellenti e restauri a essere molto indulgenti a dir poco imprecabili».
–Come
–
cambia l’aspetto della città durante e dopo la ricostruzione?
«Cambiano come cambia l’aspetto di qualsiasi città…
Nel caso di Udine basta vedere i circuiti delle mura, basta
«Perché c’è differenza tra memoria e consuetudini…
Forse proprio perché dalla ricostruzione del Friuli, o meglio, alla ricostruzione del Friuli si fa riferire l’inizio di
quel fenomeno che ha avuto l’apice negli anni ‘80 ma che
oggi vive ahimè da tempo la sua decadenza che è stato
chiamato mediaticamente “la rinascita o il miracolo del
nord-est”. Solo per quello».
–– Ci furono esempi di ‘New Town’: queste ‘nuove città’ dove alla
parte più o meno stratificata storicamente dell’abitato viene affiancata quasi senza scrupoli e continuità una parte nuova?
«Considerando la macro area nord-est è da far notare l’enorme diversità di atteggiamento davanti a due catastrofi:
una naturale e l’altra indotta. Nel caso di quella naturale,
quella del terremoto friulano, prevalgono logiche di rispetto degli utenti e dei sopravvissuti, potremmo dire in
certi casi fino all’eccesso a beneficio degli utenti del ‘com’era, dov’era’, abbiamo il caso di Venzone, il caso Gemona
che a distanza di quasi mezzo secolo possiamo riportare
in circuito al di là del giudizio. Nel caso dell’altra clamorosa catastrofe di quest’area geografica, il Vajont, lì non
ci fu alcuna forma di rispetto. Chiunque sia un normale
frequentatore dei media e delle figure culturali emerse da
queste aree nell’ultimo ventennio, sa bene attraverso gli
scritti in certi casi severi fino alla spietatezza di Corona
e di altri che, nel caso del Vajont, si è avuta non solo una
vera e propria espropriazione ma persino la persecuzione
nei confronti di qualsiasi tentativo di riappropriazione dei
propri spazi e proprietà con la schifezza della Nuova Erto
con la pseudo Nuova Longarone, e mi lasci dire dolorosamente da storico che è proprio la memoria, il ricordo
e la consapevolezza di quella indecenza che oggi mi fa
tremare davanti ad un caso che si presenta perfettamente
analogo di espropriazione nel caso dell’Aquila».
–Con
–
che logica si ricostruisce? Si leggono numerosi articoli che
riportano la sintesi ‘prima le fabbriche, poi le case e alla fine le
chiese…’
«Ma guardi questo tipo di giudizi sono stati dati dall’esterno e dall’interno ogni qual volta che, e per noi il caso
emblematico evidentemente sono le distruzioni della
seconda guerra mondiale, si è dovuto ricostruire. Separiamo, come è ovvio, i paradigmi. Qual è la sostanziale
differenza nella casistica che lei ha sintetizzato fra quella
vicenda più estesa e questa più ristretta? Potremmo quasi
dire l’inversione dei valori. Non è un caso che la ricostruzione del patrimonio storico-architettonico italiano abbia
privilegiato inizialmente, dal pronto intervento in poi, le
opere storiche, se pensa che chi spiega questa apparente
stranezza (ovvero la ricostruzione dei monumenti e non
delle abitazioni per coloro che sono rimasti senza casa)
in termini pubblici con un suo scritto è Benedetto Croce.
Si è restati e si resta tuttora meravigliati, ma il punto è
che partire dal patrimonio storico architettonico significa
partire dal segno positivo della civiltà e della cultura: ciò
che crea identità e senso della comunità. Nel terremoto del
Friuli, o meglio, nella ricostruzione seguita al terremoto
del Friuli chi non sta in posizioni precostituite o dal punto di vista ideologico o dal punto di vista, diciamo così,
della scelta privilegiata data per scontato, consideriamola
come fenomeno, lei dice si è cominciato dalle industrie,
l’osservazione basta a se stessa, non dimentichiamo per
cortesia che il Friuli pre-terremoto era considerata area
depressa, depressa al punto tale che era considerata dai
politici di allora conflittuale e da poter essere utilizzata
positivamente come fenomeno di riequilibrio rispetto alle
 PROSEGUE A PAG. 6
ALTA UOTA
–Per
– cui non ci sono documenti utili per poter definire se vi fossero dei modelli modelli urbanistici o di organizzazione del territorio e delle città?
rico, non posso considerare del tutto fondate. Poiché la
categoria urbanistica, anche se molti colleghi e presunti
esperti la usano male, andrebbe per correttezza riferita
ad una disciplina di indagine documentale e conoscitiva
sulla base della quale fondare previsioni e progetti, per
sua stessa natura essa riguarda sopratutto le città, ma la
tragedia del Friuli non è stata limitata a queste ultime ma
al contrario ha investito tutto il territorio, nel momento
in cui osservazioni del tutto impressionistiche dichiarate precedentemente, mi danno la misura che quello che
è risorto non è stato strettamente e univocamente legato ai luoghi distrutti ma magari è stato ricostruito con
dislocazioni e spostamenti. L’idea largamente trasmessa
in sede di celebrazioni di una sorta di corale e collettivo
‘com’era e dov’era’ faccio fatica a considerarlo come corrispondente al vero, proprio perché l’immagine del Friuli
che ha subito quel trauma e l’immagine del Friuli risorto
da quel trauma non sono due immagini che possono essere perfettamente sovrapponibili».
–Perché
–
si ricorda il Friuli al di fuori del mondo della cultura,
della storia, del culto della memoria che sicuramente al nordest è
più forte che nel resto della penisola italica?
uotattualità
«Dunque per essere più sintetico possibile, il problema
riguarda più la domanda che la risposta. Mi spiego. Il paradigma analitico e narrativo dei modelli è più frutto di
convenzioni culturali che nascono in ambito storiografico
che riflesso di realtà storiche, tutta una serie di categorie,
ci tengo a dirlo, non esclusa quella della così detta città
ideale, sono sopratutto invenzioni storiografiche connesse al modo di raccontare la storia. La dolorosa realtà per
lo storico in questo caso è essenzialmente questa: l’interesse per il Friuli scatta nel panorama nazionale proprio
nel momento in cui ci si interroga fondatamente o meno
sul che cosa fare vista l’entità e la misura della catastrofe.
Questo è un dato di fatto al punto tale che, e con questo
forse anticipo una sua domanda, potrà notare che mentre
sono stati prodotti opuscoli operativi in funzione della ricostruzione con le tipiche figurazioni a cui affidarsi per la
ricostruzione ex novo, lo stesso tipo di documentazione
non esiste relativamente alle preesistenze, vale a dire che
quelle indicazioni erano di per sé prodotto di sintesi di cui
non erano state dichiarate le fonti, il ché, e questo temo
valga come anticipazione, vale anche come strumento su
cui fondare la valutazione, dire giudizio sarebbe troppo
arrogante, del dopo. Sarei pronto a scommettere, se fossi uno scommettitore, e non lo sono, che molte sorprese
verrebbero fuori nel momento in cui si confrontassero
immagini del prima terremoto, partendo da una scala
territoriale di grandi aree e scendendo poi nel dettaglio
del perduto, con le corrispondenti immagini del dopo costruito e non essendo friulano e non essendo presente in
quell’area in quel momento a che cosa affido e baso questa
mia convinzione? Per il fatto che avendo percorso in lungo ed in largo nel corso degli ultimi venti/trent’anni, per
essere precisi, questa regione, quello che non ho potuto
evitare di notare è la fioritura delle cose ex novo con caratteristiche formali figurative ben diverse dai ‘resti’ ancora
perfettamente visibili. Il caso più emblematico? Si prende
via Tricesimo a Udine e si va verso via Treppo, che cosa si
nota? E io non so in base a quali paradigmi questa scelta
sia stata fatta, da un lato c’è una finta chiesa gotica in calcestruzzo ricostruita alla fine del vialone e dall’altro c’era
una vera chiesetta tardo cinquecentesca che dieci anni
fa era ancora allo stato di rovina. Allora se il paradigma
diventa come spesso si è sentito nelle commemorazioni
radiofoniche di quest’anno e dell’anno scorso un presunto
esito della scelta: “stiamo a sentire gli utenti, teniamo lontano gli specialisti” allora bisogna dire che questa parola
degli utenti è stata accolta non solo nelle sue istanze di necessità, che sono tutte ragionevoli, ma anche nelle istanze
di gusto che sono molto meno ragionevoli, perché il gusto
è basato sulla consuetudine e non sulla conoscenza. Personalmente come storico d’architettura tra l’intervento di
ricostruzione di un falso gotico otto/novecentesco e il lasciare in rovina un certo cinquecentesco, seppur minore,
è una scelta dissennata».
vedere i piani urbanistici tra fine ottocento e novecento, si coglie immediatamente lo scarto tra una volontà di
contenere, di programmare, di creare direzioni e assi di
collegamento e la ‘rinuncia’ a tutto ciò. Diciamo che se
da un lato, di questa volontà di attenzione, di controllo
e di programmazione, sono esito le città grandi e medie
del Friuli pre-terremoto, dall’altro si registra, nel risultato finale, la caduta di questa attenzione in sede di ricostruzione; ma questo non vale solo per la vicenda Friuli,
vale in generale. Non ci dobbiamo dimenticare che se noi
semplicemente prendiamo un calendario del ‘900 quello
che vediamo è una costellazione di eventi sismici che lega
insieme, percorrendo un percorso che si snoda per tutta
la penisola e che va da Messina passando per Tuscania
Verbania, Castelgiorgio ecc. che risale per poi riscendere
che passa per il centro Italia e arriva entro i limiti del
1976 a Gemona».
in
–Mi
– sono rivolto a lei per fare un inciso mediamente approfondito
sul terremoto del 1976 dal punto di vista architettonico, che cosa
è stato e cosa ha significato per la nostra regione. Partirei quindi
da prima del terremoto cercando di inquadrare le differenti tipologie edilizie presenti all’epoca in Friuli Venezia Giulia.
5
6
 CONTINUA DA PAG. 5
immigrazioni interne. Dunque la situazione economica
periferica al Friuli stesso non attingeva alla manodopera friulana ma a quella dall’immigrazione interna. Si comincia dalle fabbriche perché in questo modo si possono
mettere in moto due componenti: la necessità della ripresa
di una attività ma anche la possibilità di un intreccio, non
sempre dichiarato e non sempre trasparente visto che l’Italia del ’75 e ’76 è ben diversa da quella degli anni ’50 e
del post bellico, quello che vedeva frenare il divaricarsi
delle realtà nord-sud e il mettere insieme l’utenza locale della ricostruzione in funzione delle abitazioni come
sacca di approvvigionamento estesa anche al di fuori del
nord est per le stesse attività produttive».
–Perché
–
si è detto più volte che è stato fondamentale aver tenuto
lontano i tecnici?
«Mi ha molto colpito il notare in questo periodi di ricordi
e celebrazioni una strana discrepanza: da un lato penso
ai media audiovisivi che danno un notevole ruolo alla
memoria intesa come autobiografia, i ricordi di Tizio,
quelli di Caio, i ricordi di Sempronio, figura più o meno
pubblica e via di questo passo. Dall’altro il ricorso a considerazioni di natura tecnica che hanno visto esporsi più
esponenti di una leva di tecnici che si è formata ben lontana da quelle vicende quando il ciclo della ricostruzione
era compiuto che non quei quattro gatti ancora superstiti
che potevano raccontare da tecnici attivi sul territorio
come ci si è mossi e questo è significativo. In alcune trasmissioni ed interviste sembrava che il dato fondamentale fosse: ‘se è potuto risorgere com’era dov’era è perché
abbiamo tenuto lontano un certo tipo di tecnici a favore
degli utenti’, il che è un modo di presentare le cose ma
non è la realtà delle cose, è solamente un aspetto che evidentemente serve a far passare un altro tipo di indicazioni, non quella relativa al fatto apparentemente derivabile
delle interviste stesse ‘i tecnici non tengono conto della
memoria e degli individui’. Talvolta ciò è vero, talvolta
non lo è. ‘il tecnico ostacola la libera iniziativa’ ma mi
permetto di dire che non è che per quello che riguarda
l’agire sul territorio il sostegno alla libera iniziativa sia
qualcosa da favorire senza controllo perché altrove e non
solo altrove quel libero credito alla libera iniziativa ha significato solo una cosa speculazione».
◆◆ FRANCESCO PERUSIN
IN COLLABORAZIONE CON
GIULIA BONIFACIO
CAMBIO AL VERTICE. CHRISTIAN FRANETOVICH:
Lo scorso 5 ottobre si è dimesso Andrea Doncovio dalla carica di Presidente del nostro Ricreatorio San Michele. La
decisione, motivata essenzialmente dal crescente impegno
nel percorso professionale, chiude un tempo ricco e fecondo che ci rende tutti orgogliosi. Ad Andrea dobbiamo, fra
l’altro, l’esistenza stessa delle pagine da cui scriviamo ed
a lui rivolgiamo la nostra gratitudine ed il nostro augurio
per un futuro di soddisfazioni. Il successivo 12 ottobre, il
Consiglio direttivo ha eletto il nuovo Presidente nella persona di Christian Franetovich, al quale abbiamo rivolto
qualche domanda:
–Qual
–
è lo spirito con il quale affronti questa nuova responsabilità?
«Innanzi tutto ci tengo a sottolineare che la mia elezione
avviene al di fuori della naturale scadenza del direttivo
che resta in carica fino al 2018. Considero perciò questa
mia carica, un servizio all’insegna della continuità ed
alla prosecuzione dei programmi in corso. Ho chiesto ed
ottenuto la conferma delle altre cariche in essere, nella
persona del Vice Presidente Elisa Biancotto e del segretario Federico Forcieri. Mi piace a questo punto citare
un esempio di tipo “nautico”: Il nostro Ricre, in questo
momento è come una barca in navigazione. E una barca
solida, che naviga in mari tranquilli, la cui rotta conduce
a porti sicuri. E’ ben organizzata ed ha un ottimo equipaggio, composto da persone capaci, responsabili con
ruoli sono ben definiti».
–Quali
–
i programmi allora?
«Il programma è quello di confermare ogni attività in
corso ed in agenda secondo quanto già previsto dalle diverse commissioni che si sono fatte carico del progetto
deliberato dal Consiglio Direttivo. Il Ricre poi è di per
sè una fabbrica di idee e sono certo, che nel solco delle esperienze passate, non tarderanno ad arrivare nuove
iniziative che di volta in volta porterò all’attenzione del
Consiglio per le giuste valutazioni. Per le dimensioni delle nostre iniziative, per il numero di persone coinvolte ed
anche per il ruolo svolto all’interno della nostra comunità, il Ricre, nella sua gestione, assomiglia molto ad una
piccola azienda, con tutte le responsabilità che ciò impone. Ma torno ancora una volta sull’esempio precedente:
una barca che naviga sicura e con successo, non ha certo
bisogno di manovre improvvise. Quindi barra a dritta e
“alla via così”».
◆◆ GIUSEPPE ANCONA
in
uotattualità
RICRE, AVANTI TUTTA!
ALTA UOTA
UNA GENEROSA DONAZIONE PER LA SCUOLA MATERNA PARROCCHIALE
“MARIA IMMACOLATA” DI CERVIGNANO DEL FRIULI
La Fondazione CRUP di Udine ha stanziato la
somma di € 10.000,00 quale contributo per la
spesa sostenuta per il rifacimento del tetto della
Scuola per l’Infanzia Maria Immacolata della nostra Parrocchia.
Nella seconda metà dell’anno 2015 si è provveduto
ad eseguire l’impermeabilizzazione del tetto e la
controsoffittatura in gesso onde garantire l’eliminazione dell’infiltrazione di acqua piovana all’interno dell’edificio, la coibentazione e l’isolamento
termico dello stesso riducendo così la dispersione
termica con conseguente risparmio energetico
e, infine, l’ancoraggio di alcune pareti rendendo
maggiormente stabile e sicuro tutto l’edificio.
L’attività di ristrutturazione era quanto mai necessaria per rendere sempre più confortevole e
sicura una struttura che accoglie giornalmente
oltre 130 bambini di cui 15 della Sezione Primavera, che è frequentata dai loro genitori e dove vi
prestano la loro attività lavorativa un discreto numero di operatori.
Un ringraziamento particolare quindi alla Fondazione CRUP sempre attenta al nostro territorio
e alla attività educativa e sociale della nostra comunità. Anche in
questa occasione ha manifestato la propria sensibilità rendendo
possibile la realizzazione dell’opera.
Sulla missione educativa della scuola per l’infanzia parrocchiale
“Maria Immacolata” il periodico bimestrale del nostro Ricreatorio San Michele Alta Quota si è ampliamente soffermato dedicando a questa istituzione un numero speciale.
◆◆ PAOLO BEARZOT
7
in
LA VITA DELLA NOSTRA LINGUA
S
alimbene de Adam da Parma, scrittore e religioso
parmigiano del XIII secolo, nella sua Cronica narra
di un macabro esperimento voluto dall’imperatore
Federico II di Svevia, suo contemporaneo, per soddisfare
la sua proverbiale sete di sapere:
«La sua […] folle idea [di Federico II, ndr] era quella di scoprire che tipo di linguaggio e che modi di parlare avrebbero avuto i bambini se fossero cresciuti senza che nessuno
parlasse mai con loro. Allora ordinò alle nutrici e alle balie
di allattare i bambini, di far loro il bagno e di nutrirli, ma
di non proferire sillaba né di parlare con loro perché voleva sapere se avrebbero parlato ebraico, cioè la lingua più
antica, oppure greco o latino o arabo, o forse la lingua dei
genitori che li avevano procreati.
Ma si affannò invano, perché tutti i bambini morirono.
Non riuscirono a vivere senza carezze, i visi lieti e le parole amorevoli delle loro nutrici».
Che si tratti di una leggenda o no, poco importa. Emerge
chiaramente come il nostro ingenito bisogno di comunicare e socializzare sia una delle grandi tematiche su cui
l’uomo si interroga da sempre. Ed altrettanto chiaramen-
te Salimbene ci dà la sua risposta: non si può vivere senza
socialità. Comunicare è un bisogno fisiologico, necessario alla vita, come respirare, come nutrirsi.
Del resto già Aristotele, nel I libro della Politica, definiva
l’uomo «φύσει πολιτικὸν ζῷο», ovvero «essere socialepolitico per natura».
Fin da bambini intrecciamo un sistema di relazioni con
nostri simili e dopo soli pochi anni la comunicazione verbale – più semanticamente articolata ed efficace - diviene
il nostro principale veicolo di socializzazione. Dalla nascita, dunque, viene a profilarsi una struttura relazionale organizzata su più piani: ci sono i genitori, i parenti, gli amici, i conoscenti, gli insegnanti, gli sconosciuti e così via.
A seconda del grado di intimità e di confidenza il nostro
modo di comunicare varia: il tono diventa più o meno formale, il lessico più aulico, oppure al contrario più gergale,
può cambiare addirittura la lingua con cui ci esprimiamo.
Parallelamente entrano in gioco altri fattori, quali l’anzianità (ci approcciamo in maniera più informale con i nostri coetanei o con le persone più giovani di noi, rispetto
che con quelle più anziane) o il contesto (un colloquio di
lavoro o un esame universitario esigono un registro linguistico diverso da un incontro al bar). Capiamo quindi
come linguaggio e relazioni sociali siano strettamente intrecciati l’uno con le altre, e come questo evolve all’evolversi delle altre e viceversa. Ogni mutamento all’interno
della società si riflette nel modo in cui ci esprimiamo, in
cui discorriamo con le altre persone, in cui ci rapportiamo con l’altro. È in questi meandri ancestrali dell’uomo
che il presente numero di Alta Quota si vuole addentrare.
Come mai il linguaggio cambia a seconda di chi abbiamo
di fronte e del contesto in cui siamo? In che modo linguaggio e relazioni interpersonali si sono evoluti nel corso del tempo? Da questo punto di vista, che differenze si
possono intravedere tra vecchie e nuove generazioni? L’ultima rivoluzione tecnologica e l’arrivo dei social network
come hanno influenzato il nostro modo di comunicare? E
all’interno dei mutamenti avvenuti nella società come si è
evoluto l’uso del friulano? Queste le domande cardine che
ci siamo posti in redazione.
Buona lettura.
◆◆ FILIPPO MEDEOT
uotattualità
CEMÛT ISE? FINE, THANKS.
IL NOSTRO ARCHIVIO… PER LA TUA CURIOSITÀ!
✓ Ti sei perso alcuni numeri di Alta Quota? ✓ L’hai conosciuto di recente e vorresti scoprire i numeri più vecchi?
✓ Non trovi più le edizioni che avevi messo da parte? ✓ Oppure hai solo la curiosità di ripercorrere in un unico luogo la storia della nostra testata?
Troverai tutti i numeri, dall’1 a quello che stai leggendo, compresi gli speciali, da leggere e scaricare gratis!
Si ringraziano Franco Nannetti e Matteo Comuzzi per le scansioni.
crogiolo.pdf 15/02/2010 13.47.03
alessiopaolo.pdf 20/04/2010 7.53.31
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8
DAL FRIULANO A WHATSAPP
E TU, FEVELITU FURLAN?
Facebook, Twitter, Snapchat, Jodel, Whatsapp, Telegram, Instagram, Youtube, Google+, Skype, Tinder… Oggi abbiamo la possibilità di comunicare in molteplici modi,
con messaggi senza vedere quindi il nostro interlocutore né sentire la sua voce oppure
al contrario vederlo e sentirlo anche se è dall’altra parte del mondo. Molti di voi non
avranno mai sentito parlare delle sopracitate applicazioni e dei social network molti
altri invece li usano quotidianamente in maniera disinvolta. Come è cambiato quindi il
modo di comunicare e relazionarci agli altri?
FRL
Conosci il friulano? Se sì, lo utilizzi per comunicare? Con chi?
Hai mai scritto e spedito una
lettera?
Oggi per comunicare con le persone utilizzi solamente le tecnologie e social network o preferisci incontrarle di persona?
ALTA UOTA
le persone che usano regolarmente il Friulano sono circa 430.000 e rappresentano il 57,2% della popolazione;
un ulteriore 20,3% lo conosce e lo usa occasionalmente.
Confrontando questi dati con i risultati di ricerche precedenti, è emerso che la percentuale di coloro i quali parlano
quotidianamente il friulano stia regredendo dell’1% ogni
anno e che venga usato sempre meno di generazione in generazione. Ciò è palesemente riconducibile all’evoluzione
socio-culturale che dal secolo scorso fino al giorno d’oggi
ha cambiato numerosi aspetti della vita quotidiana: l’universalità delle possibilità d’istruzione, la maggiore alfabetizzazione, l’ampliamento e il potenziamento delle reti
di comunicazione hanno condotto la popolazione italiana
ad affacciarsi a una realtà sempre più ampia, sempre più
influenzata da culture e formæ mentis straniere, e sempre
meno circoscritta unicamente allo scenario regionale. Di
conseguenza, rappresentando il fattore linguistico una
componente essenziale della società, l’uso del friulano,
dei dialetti e delle altre lingue minoritarie è scemato e ha
lasciato il proprio posto al predominio della lingua italia-
na. Questo allontanamento, però, non ne ha comportato
una svalutazione: in Friuli molteplici associazioni, tra le
quali la nota Società Filologica Friulana, si occupano della
tutela e della diffusione del nostro patrimonio linguistico,
promuovendolo tramite lezioni aperte a tutti gli interessati. Anche alcuni intellettuali nativi della nostra regione si sono dedicati o si dedicano tuttora alla produzione
letteraria in marilenghe, declinata secondo le sfumature
caratteristiche della loro zona. Tra questi spicca il nome
di Pier Paolo Pasolini, eclettico e brillante intellettuale di
origini casarsesi, che nel 1942 pubblicò il suo primo libro
di versi, ‘Poesie di Casarsa’, scritto in friulano e definito
dal celebre critico Gianfranco Contini «l’apparizione della prima poesia dialettale moderna al di fuori degli schemi vernacolari». Nel 1945, inoltre, lo stesso artista fondò
l’Academiuta di lenga furlana, istituto volto alla valorizzazione della lingua friulana e basato su principi teorici
quali «friulanità assoluta, tradizione romanza, influenza
delle letterature contemporanee, libertà, fantasia».
◆◆ FEDERICA ERMACORA
IL SONDAGGIO
in
uotattualità
Idioma di derivazione romanza, il friulano è stato arricchito nel corso dei secoli dal patrimonio lessicale ereditato dalle molteplici popolazioni, in primis i Celti, che
hanno invaso il territorio del Friuli e ne hanno contaminato cultura e società. Nonostante il dibattito tra chi sostiene che sia una lingua e chi invece lo ritiene un dialetto
sembri imperituro, diciassette anni fa, nel 1999, la Legge 482 ha fornito una risposta definitiva alla questione:
grazie all’applicazione dell’articolo 6 della Costituzione
Italiana, secondo il quale “La Repubblica tutela con norme apposite le minoranze linguistiche”, il friulano è stato
riconosciuto ufficialmente come lingua minoritaria. Ma
oggigiorno quante persone lo parlano abitualmente? La
più recente inchiesta dell’Istat circa l’uso dell’italiano, dei
dialetti e delle lingue secondarie in Italia testimonia il fatto che, posta come base del sondaggio la popolazione dai
18 ai 74 anni (23 milioni 351mila individui), il 53,1% parla
Italiano in famiglia, il 56,4% con gli amici e l’84,8% con
persone estranee. Nel caso specifico della nostra regione,
secondo l’indagine sociolinguistica di Linda Picco (2001),
!
Cosa fai quando devi comunicare qualcosa di importante a
qualcuno?
Da quanti anni utilizzi tecnologie per comunicare?
Il nostro inviato Paolo Bearzot l’ha chiesto direttamente a voi.
N.B.
La cosa che ci ha colpito di più e sulla quale vi invitiamo a riflettere è ancora il vivo affetto verso la forma cartacea anche tra i più giovani i quali però tendono ad usare sempre
meno rispetto alle generazioni precedenti il friulano.
◆◆ PAOLO BEARZOT
15–30
30–65
65+
Sì, lo conosco e lo utilizzo per
comunicare con i miei amici e i
miei nonni
Sì, con tutti
Sì, con tutti
No
Lo conosco ma non lo parlo
Con tutti
Sì, lo utilizzo per comunicare
sempre con i miei genitori e parenti e spesso con i miei amici
Lo utilizzo in famiglia
Sì
Lo conosco ma non lo parlo
Lo conosco ma non lo utilizzo
Sì, con gli amici
Lo conosco ma non lo parlo
Lo conosco e lo uso con le
persone più anziane
Sì, con tutti
No
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Preferisco incontrarle di persona
Entrambi
Di persona
Entrambi
Entrambi
Di persona
Per comodità uso le tecnologie
ma preferisco incontrarle
Uso le tecnologie per praticità
ma preferisco sempre
incontrarle
Entrambi
Di persona
Preferisco incontrarle di persona
Preferiso incontrarle di persona
Uso le tecnologie
Entrambi
Le incontro di persona
Uso Whatsapp
Di persona
Telefono
Se non posso incontrarlo, lo
chiamo al telefono
Le incontro
Di persona
Le incontro
Se c’è la possibilità preferisco
incontrarci
Lo incontro di persona
Telefono
Le telefono
Di persona oppure per iscritto
Telefono
8 anni
18 anni
20 anni
5 anni
14 anni
10 anni
poco meno di 4 anni
15 anni
10 anni
3 anni
15 anni
12 anni
6 anni
20 anni
5 anni
IL PARERE DELL’ESPERTO
UNA LINGUA IN EVOLUZIONE
CARLA MARCATO, cervignanese, professore ordinario di “Linguistica italiana” nell’Università di Udine; dal
2004 è direttore del Master in “Italiano lingua seconda e
interculturalità” presidente del “Centro per la lingua e la
cultura italiana per stranieri”; dal 1996 al 2008 ha tenuto
i corsi di dialettologia italiana nell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Autrice di numerosi libri, tra cui “Dialetto,
dialetti e italiano”,” Il lessico friulano”, “Nomi di persona,
nomi di luogo: introduzione all’onomastica italiana”.
–Professoressa,
–
la lingua vive con la società e ne registra i cambiamenti nel tempo: i forestierismi, parole o espressioni introdotte in italiano da una lingua straniera, possono essere una buona
base per cominciare la riflessione?
«L’afflusso di anglicismi nella lingua italiana, soprattutto
nel Novecento, è stato notevole e continua ancora oggi,
talvolta ciò può avvenire in modo non costante, si parla
spesso quindi di “ondate di anglicismi”. Le parole di una
lingua non sono sempre legate ad un delimitato e preciso
bacino geografico, ma possono emigrare in territori extranazionali, e ciò è quello che è avvenuto con le parole
inglesi».
–A
– che cosa è dovuto il fenomeno?
–L’italiano
–
ha attinto spesso anche da altre lingue straniere, una
su tutte il francese, lingua di cultura soprattutto nel Settecento…
–Nelle
–
parole comunemente usate ci sono altri esempi di prestiti
che all’apparenza non sembrano inglesi?
«Certamente. Parole come ‘treno’ e ‘bistecca’, che hanno
una frequenza altissima nel lessico della lingua italiana,
tecnicamente si dice che sono acclimatate, non denunciano immediatamente l’origine inglese, ma la loro origine
è britannica. ‘Treno’ e ‘bistecca’ sono due adattamenti
italiani dei termini inglese train e beefsteak. Anche la parola ‘bar’ comune tanto quanto le parole appena prese in
considerazione».
–Spesso
–
ci si chiede se sia possibile sostituire la parola inglese
entrata nel lessico italiano con una parola patrimoniale, che cosa
ne pensa della parola selfie?
«L’anglicismo selfie, registrato ufficialmente nel lessico
italiano a partire dall’autunno del 2014, non può essere
sostituito né col composto patrimoniale ‘autoscatto’, né
col composto patrimoniale ‘autoritratto’ perché il concetto di selfie presuppone il fatto che chi fa la fotografia
abbia in mano l’oggetto digitale (macchina fotografica
digitale, cellulare…) col quale andrà a fare la foto. Inoltre vi è un legame inscindibile tra l’ingresso della parola
selfie e l’ambito dei social network, la componente e la tematica della condivisione dell’immagine è fondamentale
per comprendere l’utilizzo del termine».
–Come
–
vengono accolti solitamente gli anglicismi nella società
italiana e soprattutto che cosa ne pensano i linguisti?
«La Francia ha storicamente la fama di essere un Paese
che esercita un controllo molto severo sulla lingua, controllo che nel tempo si è esplicitato anche in editti, leggi
e decreti legislativi miranti a stabilire le norme ortografiche della lingua francese. Per quanto riguarda l’uso dei
forestierismi le politiche francesi sono categoriche e protezionistiche, basti ricordare che in Francia il computer
(parola che si definisce anglolatinismo) viene chiamato
ordinateur».
–Un
– altro tema che interessa in modo particolare la società attuale è quello che concerne la declinazione al femminile dei nomi
che designano le cariche, soprattutto quelle istituzionali, che
cosa ne pensa di parole come sindaca o ministra?
«Il tema del linguaggio di genere venne affrontato da
Alma Sabatini a partire dagli anni Ottanta del Novecento
e la questione è riemersa negli ultimi anni grazie anche
al ruolo dell’Accademia della Crusca. La lingua italiana
offre la possibilità di declinare al femminile molti ruoli,
ivi compresi quelli di ministro, sindaco e assessore che
diventano rispettivamente ministra, sindaca e assessora.
Non si tratta di una questione di femminismo, ma di una
scelta che può essere effettuata a discrezione del parlante in conformità alle regole della lingua italiana. Come
sempre accade, il ruolo dei mass-media è decisivo per far
sì che la parola si diffonda nell’uso. Talvolta capita che le
donne stesse non vogliano usare il femminile perché la
parola declinata al maschile indica il ruolo e non il genere
di chi lo esercita: in ambito accademico e istituzionale
spesso le donne preferiscono farsi chiamare direttore e
non direttrice, facendo riferimento in questo caso alla
carica».
–Chi
– si oppone all’uso delle parole come sindaca o ministra spesso dice che sono parole brutte foneticamente.
«Ogni nuova parola che viene inserita nel lessico italiano ha bisogno di un periodo nel quale il parlante si deve
abituare al suo utilizzo, ancora una volta l’uso gioca un
ruolo fondamentale, se la parola non viene diffusa, non
può essere acclimatata, la sensibilità dei parlanti gioca un
ruolo altrettanto importante».
–Per
–
rimanere in ambito politico-istituzionale, si può affermare
che negli ultimi decenni, rispetto agli anni della Prima Repubblica, ci sia stato un avvicinamento del linguaggio della politica
alla gente?
«Sì. Il cambiamento è percepibile in modo abbastanza
netto, anche perché l’ambito della politica è uno dei campi che quotidianamente entra in contatto con le persone,
e ancora una volta i media sono fondamentali, in particolare il settore televisivo. I talk-show, che vengono mandati in onda anche più volte al giorno, sono il medium
più rapido col quale avviene il contatto tra la società e la
politica. Il linguaggio della politica è un linguaggio che
spesso conia termini che entrano nel lessico della lingua
italiana come l’anglicismo endorsement; spesso ci si chiezanon.pdf 1 08/04/2016
de se siano davvero necessari nuovi termini, ma come nel
caso del discorso precedente su voucher e ticket è difficile
sostituire endorsement con una parola italiana: ‘investitura’, per esempio, non è adeguato».
–Un
– personaggio politico del passato usava spesso una locuzione come “mi consenta” che cosa si può dire a riguardo?
«L’uso di particolari espressioni associate un personaggio politico diventano spesso un tormentone (termine
che designa generalmente un particolare successo canoro
estivo) che trova il proprio canale di diffusione in televisione e sui giornali, in particolare quando il personaggio politico fa delle dichiarazioni pubbliche. Negli ultimi
anni è emersa una nuova formula dal linguaggio della
politica ‘stai sereno’ diffuso via Twitter da un noto personaggio politico».
–Per
–
quanto riguarda il caso di petaloso, di cui si è parlato per
molto tempo nella primavera e in parte dell’estate del 2016. Il termine è stato inventato da un bambino di otto anni della provincia
di Ferrara. Che cosa si può affermare a riguardo?
«La parola petaloso non ha attecchito nel lessico della lingua italiana, certamente il termine è molto interessante
per quanto riguarda la produttività del suffisso ‘–oso’, il
quale ha una storia molto antica ed è stato spesso utilizzato nelle lingue gergali, dove talvolta le scarpe venivano
definite ‘le fangose’. In realtà la parola petaloso comprare
già in un testo del Seicento, redatto da un farmacista, botanico ed entomologo inglese».
–A
– proposito della produttività del suffisso –oso, talvolta declinato al femminile, è stato oggetto di uso anche per il settore
pubblicitario.
«In uno spot degli Anni Ottanta una nota casa automobilistica coniò i neologismi ‘comodosa’, ‘risparmiosa’,
‘scattosa’ e ‘sciccosa’ riferita ad una popolare automobile:
è un buon esempio di intersezione culturale e sociale tra
la propaganda commerciale e la linguistica. Nel termine
‘sciccosa’, si può notare tra l’altro, l’adattamento italiano
della parola francese chic, per ricollegarsi alla prima parte nella quale si parlava dei forestierismi».
–Per
–
quanto riguarda la geografia linguistica, si possono registrare alcuni cambiamenti dei centri di irradiazione linguistica
per quanto riguarda l’italiano.
«Firenze ha storicamente ricoperto per la lingua italiana
il ruolo di centro di emanazione linguistica, basti pensare alla notissima formula di manzoniana memoria
‘sciacquare i panni in Arno’, in Italia si è avuta quindi
una sorta di anomalia per la quale il centro linguistico
non coincideva con la capitale dello Stato, cosa che non
avviene in altri paesi europei come la Francia e la Gran
Bretagna, dove rispettivamente Parigi e Londra coincidono coi centri di propulsione linguistica. Con il secondo dopoguerra, grazie al fondamentale ruolo svolto dal
servizio radiotelevisivo pubblico, Roma ha fatto sentire
sempre di più la propria influenza, soprattutto nella lingua parlata. Con l’avvento della televisione commerciale
si è avuta l’addizione di un’ulteriore città che esercita un
importante influsso: Milano. Milano è un luogo molto
13.23.11
 PROSEGUE A PAG. 10
ALTA UOTA
«In Italia vi è una propensione particolare da parte della società all’accettazione degli anglicismi, anche perché
molte novità tecnologiche arrivano dagli Stati Uniti, paese anglosassone. Un libro fondamentale per capire l’apimpianti.pdf 1 08/04/2016 13.18.33
proccio degli studiosi nei confronti della materia è il vo-
–Ci
– sono paesi europei che hanno un approccio drastico per
quanto concerne il tema degli anglicismi o più in generale dei
forestierismi?
uotattualità
«La lingua francese ha esercitato un’influenza molto forte sull’italiano, soprattutto nel campo della moda, della
cucina, senza contare il frequentissimo toilette che rimane vivo nel linguaggio a qualsiasi livello geografico e sociale. Talvolta vi è una sorta di compresenza nei prestiti
di inglese e francese, è il caso dei prestiti mediati come
la parola ‘budino’, derivante dall’inglese pudding, passata in francese come boudin e successivamente arrivata
in italiano come ‘budino’. In questa sede sono da ricordare quelli che un grande poeta della nostra letteratura,
Giacomo Leopardi, chiamava ‘europeismi’, espressioni
comuni a molte lingue d’Europa soprattutto in ambito
musicale, filosofico e scientifico».
lume di Arrigo Castellani Morbus anglicus del 1987. Nella
propria pubblicazione Castellani denuncia l’invasione
degli anglicismi in italiano e, pur inserendosi nella tradizione del purismo linguistico, propone un adattamento
grafico degli anglicismi già presenti in italiano, facendo
terminare i forestierismi con la vocale». Gli anglicismi
giungono e si diffondono spesso tramite il lessico delle
istituzioni o degli enti pubblici. «Il lessico della politica e
quello burocratico hanno irradiato degli anglicismi che
trovano una certa fortuna nella lingua scritta e parlata,
è il caso di ticket, welfare o voucher. Le sostituzioni italiane per questi termini, benché siano state proposte in
diverse occasioni, non sono completamente accettabili
perché non coprono in modo semanticamente completo
la parola inglese: non è concepibile voler sostituire ticket
con biglietto oppure voucher con buono, poiché in questi
due casi gli anglicismi dicono qualcosa in più rispetto al
concetto designato dalla parola italiana».
in
«Tali migrazioni lessicali sono spesso causate dall’influenza culturale, dagli scambi commerciali e dalla pubblicità, anche se non è da escludere la funzione suppletiva
che gli anglicismi svolgono quando vanno a coprire una
carenza semantica, oppure cominciano a designare un
concetto del tutto nuovo nella lingua che li accoglie».
9
10
DIALETTI E LINGUA
LINGUE E DIALETTI ITALIANI
Tralasciando la distinzione fra lingua e dialetto, che non
pertiene alla scienza bensì alla sfera dell’amministrazione e della politica, gli idiomi italiani si distinguono in
otto gruppi fondamentali:
zese, molisano, pugliese, campano, lucano, calabrese
settentrionale)
•Dialetti meriodionali estremi (salentino, calabrese centrale e meridionale, siciliano)
•Gruppo sardo
•Dialetti gallo-italici (piemontese, ligure, lombardo,
emiliano, romagnolo, gallomarchigiano)
•Dialetti veneti
•Gruppo reto-romanzo (ladino e friulano)
•Gruppo toscano-corso (che comprende anche alcune
parlate del nord della Sardegna)
•Dialetti centro-italici (umbro, marchigiano centrale,
laziale)
•Dialetti meridionali (marchigiano meridionale, abruz-
lombardo
occidentale
(Western Lombard)
uotattualità
franco
provenzale
lombardo
orientale
ladino
(German dialect)
(Ladin)
PARLIAMO ITALIANO?
Molte volte si parla dell’italiano come se la lingua fosse rimasta invariata fin dal principio, fin dall’origine della sua
diffusione. Ma non è così, perché ogni lingua risente dei
contesti storici che attraversa, degli uomini che li vivono.
Una lingua può essere influenzata da eventi rivoluzionari, basti pensare al ruolo della televisione, ma anche da
vocaboli, dialetti e modi di dire stranieri. Alla domanda
iniziale risponde il professore di Linguistica generale del
Corso di Laurea in Lettere dell’Università di Udine, Vincenzo Orioles.
friulano
(Furlan)
(Easthern Lombard)
sloveno
(Franco-Provençal)
(Slovenian)
veneto
(Venetian)
piemontese
emiliano
romagnolo
ligure
(Ligurian)
provenzale
centrale
marchigiano
toscano
(Provençal)
(Tuscan)
marchigiano meridionale - abruzzese
umbro e
laziale
croato
(Croatian)
molisano
gallurese romanesco
(Northeastern
Sardinian)
sassarese
sabino
(Northwestern
Sardinian)
algherese
in
sudtirolese
Non mancano le cosiddette ‘isole linguistiche’, ovvero le
località in cui, per motivi storici, si parla un idioma completamente diverso da quello dei paesi circostanti: sono eredità di un passato fatto di migrazioni e conflitti, ma anche
fondazioni coloniali di potenze ‘straniere’ (l’Italia è unita
solo dal 1861…) a scopo strategico. Si parla occitano (particolare variante del francese meridionale) in varie cittadine
di Calabria, Basilicata e Sicilia; nel Nord del Molise resiste
logudurese
(Catalan Valencian Balear)
(Nuorese,
Northern Logudorese,
Barbaricino,
Southwestern Logudorese)
foggiano
(dauno and garganico)
ciociaro
barese
salentino
campano
(Neapolitan and others)
gallo-italico di Basilicata
(Gallo-Italic of Basilicata)
arbëreshë
(Arbëreshë)
calabrese del nord
tabarchino
(Lucano - Northern Calabrese)
arbëreshë
calabrese
(Southern Calabrese)
(Arbëreshë)
campidanese
(South Sardinian)
grecìa salentina
(Salento's Greek)
siciliano
(Sicilian)
gallo-italico di Sicilia
greco calabro
(Calabrian Greek)
(Gallo-Italic of Sicily)
ALTA UOTA
il croato; l’albanese è registrato da secoli in tutte le regioni
meridionali; sopravvive il greco (in una forma non molto
distante da quello antico) in Salento e in Calabria; a Carloforte, in Sardegna, la republica marinara di Genova creò un
avamposto e ancora oggi si parla ligure, mentre ad Alghero
rimane vivo il catalano dei barceloneti arrivati in loco alla
fine del Trecento. Non si può invece parlare di ‘isole’ laddove intere fasce territoriali parlano lingue diverse dal ceppo
italico: è il tipico caso del tedesco in Alto Adige e dello sloveno nella fascia orientale del Friuli Venezia Giulia.
Per scoprire la straordinaria varietà linguistica dell’Italia,
presentiamo una rielaborazione di una cartina realizzata
da Antonio Ciccolella (https://commons.wikimedia.org).
◆◆ VANNI VERONESI
 CONTINUA DA PAG. 9
importante per studiare i nuovi linguaggi e soprattutto i
gerghi giovanili, è opportuno ricordare in questa sede il
paninarese, gergo dei cosiddetti ‘paninari’, categoria sociologica che ebbe una certa importanza negli anni Ottanta del Novecento. La diffusione del termine ‘tamarro’,
che ha avuto una certa fortuna linguistica, è cominciata
in quell’epoca e a partire proprio da quegli ambienti».
–Sempre
–
a proposito dei gerghi giovanili, un capitolo interessante meritano i vari modi di dire diffusi tra i ragazzi quando decidono di non andare a scuola, a cominciare dal più diffuso “marinare
la scuola”.
«’Marinare la scuola’ è solo una della tante varianti che
la nostra lingua conosce per designare il concetto di assenza deliberata da scuola senza un giustificato motivo.
Le varianti sono legate a quella che in linguistica tecnicamente si chiama variazione diatopica, cioè la modificazioni della lingua che si hanno sulla base del cambiamento del luogo. Nel Friuli-Venezia Giulia è diffusissima
anche la locuzione ‘fare lippa’ che rimanda al campo semantico ludico, nell’Italia mediana ‘fare sega’, mentre nel
Nordovest predominano le forme ‘bigiare’ (molto conosciuto anche fuori dall’originaria Lombardia) il piemontese ‘tagliare’».
–L’italiano
–
è una lingua romanza che deriva dal latino. Quali sono
gli ambiti nei quali il latino ancora vive nel lessico?
«L’ambito del diritto e dell’amministrazione sono i due
campi dove il latino rimane vivo con alcune espressioni
fissate in quei linguaggi settoriali, per esempio le locu-
–Concretamente,
–
come cambia la lingua?
«Il cambiamento che la lingua subisce altro non è che il
risultato del cambiamento della società. A partire dagli
anni ‘80, con la liberalizzazione delle emittenti radiotelevisive e con la scomparsa del monopolio Rai, l’italiano
affronta una trasformazione evidente. Ci si rende conto
che la lingua ha cambiato “velocità”: telecronache sportive, telegiornali comportano un’alterazione nella lingua e
la necessità di stare al passo con il costante mutamento.
Ciò è dovuto anche ad un secondo scossone dovuto alla
diffusione del computer a metà degli anni ‘90».
–– In tutto questo, che ruolo ricopre la lingua scritta?
«Con la diffusione del computer e della telefonia mobile,
assistiamo ad una rivalutazione della scrittura. Gli scritti sono rapidi, veloci, istantanei. Seppur in forma frammentaria, lo scritto è in qualche modo rinato, e l’obiettivo
ultimo è quello di riuscire a rimpossessarsi della lingua
scritta in tutte le pratiche comunicative».
–Ciò
– che lei auspica, è possibile?
«Per impadronirsi nuovamente della lingua scritta, a mio
parere, c’è bisogno di un cambio nella classe dei docenti. Da attardata, sulla difensiva, dove nessuno si mette
in gioco, i docenti dovrebbero diversificare, governare, i
nuovi media, basti vedere l’e-book: è l’esempio lampante
di come sarebbe possibile unire l’amore per la lettura con
il progresso tecnologico».
◆◆ FRANCESCO PAVONI
zioni ad personam, ius soli, modus operandi, sui generis,
e gli attualissimi referendum e quorum. In linguistica i
latinismi, categoria lessicale conosciuta spesso dagli studenti tramite lo studio delle poesie, soprattutto quelle di
autori neoclassici come Foscolo, costituiscono un oggetto di studio molto interessante e fecondo che s’intreccia
83x26.pdf
15/02/2010
13.45.19
col tema luilei
delle
cosiddette
locuzioni
cristallizzate».
◆◆ LUCA VISENTIN
IL CASO
UN NOBEL, UNA PENNA, UNA CHITARRA
sterile e inutile, oltre che sciocca). Leggere Baudelaire e
ascoltare De André – per riprendere il paragone di prima
– ha lo stesso valore. E nemmeno fissare una separazione
tra le due espressioni artistiche, differenti in metodo di
fruizione e assimilazione. Probabilmente da oggi il significato di “Letteratura” all’interno dell’espressione “Nobel
per la Letteratura” abbraccerà un campo più ampio, nulla
di eclatante. Probabilmente è anche un giusto riconoscimento all’importanza che il cantautorato ha assunto nella cultura contemporanea. O magari è da leggere come
un premio al solo Bob Dylan e non alla canzone autoriale in toto. Il vero punto di riflessione che secondo me
questo Nobel apre è la definitiva constatazione di come la
canzone d’autore abbia occupato appieno quello spazio
che nasce dal bisogno intrinseco all’uomo di esprimere il
mistero della realtà in parole. Fatto non confermato tanto dall’assegnazione del Nobel a Bob Dylan quanto dalle
conseguenti reazioni.
◆◆ FILIPPO MEDEOT
uotattualità
stesso modo Alberto Grandi su Wired sostiene che l’arte
in cui Bob Dylan eccelle è diversa da quella in cui sono
eccelsi Montale e Hemingway. “In letteratura, il silenzio
è una componente altrettanto valida delle parole che lo
rompono, scritte sulla pagina ed evocate nella mente di
chi legge. Non avrebbe senso accompagnare Ossi di seppia di Montale con della musica in sottofondo, o meglio,
non aggiungerebbe nulla a quei versi, perché possiedono
già una musicalità, una melodia. Ed è una melodia che
per essere evocata al meglio dalle parole trasformate in
strumenti musicali, necessita silenzio. […] La musica è
insita nella parola quando la parola è emozione, arte. Nel
caso di Dylan, le sue parole sono musica senza la musica
che effettivamente le accompagna? Non credo.” Di sicuro, a partire dagli anni Sessanta il cantautorato ha conquistato piano piano un posto sempre più importante nel
nostro panorama culturale. Basti pensare ad autori come
De Andrè, Guccini, Mogol, De Gregori, Battiato o Vecchioni, spesso paragonati a veri e propri poeti e presi dai
più giovani come punti di riferimento letterari. È innegabile che dietro la scrittura di canzoni dei grandi autori ci
sia studio e profonda riflessione, ricca di riferimenti culturali importanti. La ballata degli impiccati di De Andrè
si ispira all’omonimo componimento di François Villon;
Battiato in Bandiera bianca riprende il saggio Minima
Moralia del filosofo tedesco Theodor Adorno; Vecchioni
ha riversato nelle sue opere la sua professione di professore liceale di italiano, greco e latino e ha tenuto vari corsi
universitari su poesia e musica. A Hard Rain’s A-Gonna
Fall di Bob Dylan riprende nella struttura la tradizionale ballata scozzese Lord Randal, risalente al XIII secolo.
Negli Anni ‘60 Dylan iniziò a frequentare abitualmente
i più grandi esponenti della Beat Generation: Lawrence
Ferlinghetti, Jack Kerouac, Gregory Corso e soprattutto
Allen Ginsberg - di cui divenne grande amico -, i quali
consideravano il giovane musicista figlio diretto del movimento di cui erano stati protagonisti negli anni ‘40 e
‘50. Ginsberg comparve persino nel videoclip di Subterranean Homesick Blues, canzone di Dylan del 1965 nel
cui testo si può scorgere l’influenza sia del romanzo di
Kerouac I sotterranei sia di Memorie dal sottosuolo di
Dostoevskij, autore particolarmente amato dagli scrittori
beat. Ma davvero le canzoni sono subentrate alle poesie?
Davvero l’esperienza di un ragazzo che cento anni fa leggeva Bohémiens en voyage di Baudelaire è assimilabile ad
un ragazzo che oggi ascolta Sally di De André? Vero è che
i lettori di poesia sono sempre meno e pure la produzione
poetica contemporanea è a dir poco modesta; pubblicare
un libro di poesia per una casa editrice è sempre più un’operazione controproducente. Il mercato musicale invece
è in grande espansione ed è sempre più pervasivo all’interno società. Musicisti e cantautori vengono ormai visti
come paradigmi culturali, tanto che ultimamente sempre più professori e manuali scolastici propongono analisi letterarie di canzoni d’autore. È indubbia la grande influenza che Bob Dylan ha avuto sul panorama culturale
americano successivo, grandi scrittori inclusi, da David
Foster Wallace ai nominati al Nobel Haruki Murakami
e Don DeLillo. Il punto non è una presunta superiorità della poesia sul cantautorato o viceversa (discussione
in
Quando Sara Danius, segretaria dell’Accademia svedese,
ha annunciato il vincitore del Premio Nobel per la letteratura 2016 per la sala si è sollevato un boato. Di giubilo
o di sorpresa. Di sicuro l’assegnazione del prestigioso riconoscimento a Bob Dylan – all’anagrafe Robert Allen
Zimmerman – sancisce un evento eccezionale, ovvero
l’entrata a pieno diritto del cantautorato nell’albo della
Letteratura con la L maiuscola. Erano vent’anni ormai
che Dylan gravitava attorno alla lista dei papabili: da
quando nel 1996 il professore Gordon Ball, docente di
letteratura all’Università della Virginia, lo indicò all’Accademia Reale Svedese come meritevole del premio. Eppure l’annuncio ha preso tutti in contropiede, dividendo
i commentatori tra favorevoli e contrari. Il mondo della
musica ha da subito accolto la notizia con entusiasmo: da
Guccini a De Gregori, da Mogol a Leonard Cohen fino a
Bruce Springsteen, in molti hanno letto l’annuncio come
una definitiva consacrazione della scrittura di canzoni
quale attività pienamente letteraria. Ma apprezzamenti
sono giunti anche da figure di spicco quali Salman Rushdie, Joyce Carol Oates, Tullio De Mauro e perfino dal
presidente degli Stati Uniti Barack Obama - “Congratulazioni a uno dei miei poeti preferiti, Bob Dylan, per un
Nobel ben meritato”, ha scritto su Twitter -. Lawrence
Ferlinghetti, editore e scrittore, tra i maggiori esponenti
della Beat Generation, in un’ intervista a Repubblica non
ha esitato a comparare il menestrello di Duluth ai grandi
della letteratura beat: “Bob Dylan è un poeta, prima di
ogni cosa. Lo è sempre stato. Ha scritto i migliori poemi
surrealisti della nostra generazione. E, grazie alla musica,
è riuscito a far arrivare la poesia dove non era mai arrivata, neanche con Ginsberg. L’Accademia di Svezia ha
avuto grande coraggio per una scelta giusta e doverosa.”
Non tutti però concordano di fronte questa parificazione
tra canzone e letteratura, a partire da Alessandro Baricco, per il quale “che un drammaturgo vinca un premio
alla letteratura ci sta, anche se in modo un po’ sghembo.
Ma premiare Bob Dylan con il Nobel per la Letteratura
è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias
perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa, allora anche gli architetti possono essere considerati poeti”. Critico anche Valerio Magrelli, poeta, scrittore e
accademico:“molti applaudono, ma a Stoccolma, per me,
è avvenuto uno scandalo che riapre la spinosa questione
dei rapporti fra cantautori e autori di poesie, romanzi e
teatro. Ingannare i lettori dando a un cantante la palma
di scrittore è a mio parere imperdonabile”; mentre Irvin Welsh, autore scozzese di Trainspotting, è lapidario:
“sono un fan di Dylan, ma questo è un premio nostalgia
mal concepito strappato dalla prostata rancida di vecchi
hippies balbettanti”. Una delle argomentazioni sostenute
dai più perplessi è l’inscindibilità dei testi di Dylan dalla musica e dalla propria voce. Anna North, editorialista
del New York Times scrive “Dylan è un paroliere brillante. Ha scritto un libro di poesia in prosa e un’autobiografia. Ed è possibile analizzare i suoi testi come una vera
poesia. Ma la scrittura di Mr. Dylan è inseparabile dalla
sua musica. Lui è grande perché è un grande musicista,
e quando il comitato per il Nobel dà il premio letterario
a un musicista, manca nell’onorare uno scrittore.” Allo
11
Come facciamo a renderci conto dei cambiamenti della lingua? Un metodo molto semplice, veloce nonché divertente è consultare i termini che ogni anno vengono inseriti nelle
riedizioni dei dizionari, ecco qui una breve lista delle parole introdotte nello Zingarelli del 2016 della casa editrice Zanichelli…
disposofobia: paura ossessiva di eliminare ogget-
che entrano giornalmente nel parlato.
acquaponica: per acquaponica si intende una tipologia di agricoltura mista ad allevamento sostenibile
basata su una combinazione di acquacoltura ecoltivazione idroponica, ossia facendo crescere piante
con le radici in acqua anziché nella terra.
italofobia: atteggiamento di avversione, di odio nei
confronti dell’Italia e degli italiani. Attenzione, si
parla di un comportamento di cui si possono rendere protagonisti anche gli stessi italiani.
supercazzola: parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l’interlocutore.
bordocampista: diversi sono poi i termini emersi
dal racconto televisivo dello sport. Primo tra questi
il bordocampista. Il giornalista che, in genere nel
calcio, tra le due panchine, commenta alcune fasi
clou della partita come reazione degli allenatori ai
gol, sostituzioni, collaborando con i telecronisti per
il racconto del match.
tiki-taka: nel calcio, tipo di gioco consistente in un
insistito possesso palla basato su una serie di pas-
saggi ripetuti. Gli appassionati di calcio sapranno che si tratta di un termine nato in relazione a
Guardiola e al gioco espresso dal Barcellona, di
cui l’ex giocatore è stato allenatore.
sciarpata: coreografia dei tifosi di una squadra,
che ondeggiano stendendo tra le mani la sciarpa
del proprio team del cuore. Un esempio? Sintonizzatovi su una partita con grande affluenza, in alcuni settori potrete vedere una sciarpata durante l’inno della squadra o in alcuni momenti della partita.
pentastellato: membro del Movimento 5 Stelle.
Un partito politico italiano fondato a Genova il 4
ottobre 2009 dal comico e attivista politico Beppe Grillo e dall’imprenditore del web Gianroberto
Casaleggio. I membri del partito hanno ufficialmente un termine in cui identificarsi.
jihadista: utilizzato per chi stostiene la Jihad.
Quasi superfluo ricordare il perché questo termine sia entrato nell’immaginario comune. Il racconto del terrore, da parte di notiziari e programmi
televisivi, non può farne a meno.
◆◆ FRANCESCO PERUSIN
ALTA UOTA
ti, abiti ecc. e conseguente tendenza patologica ad
accumularli. Molte donne scopriranno forse di esserne affette, vi capita mai di non voler mai buttare
un vestito o un paio di scarpe vecchie continuando
ad accumulare nuovi capi d’abbigliamento?
svapare: fumare una sigaretta elettronica, emettendo il caratteristico vapore simile al fumo. Non
si è ancora capito se le sigarette elettroniche facciano meno male, intanto il termine è entrato nella
lingua parlata tanto da essere impressa nel vocabolario.
bartender: colui che all’interno di un bar prepara
e serve i cocktail. Un nuovo termine per un lavoro
sempre più specifico che tende alla spettacolarizzazione.
poltronismo: in politica, la preoccupazione di
occupare poltrone, di ricoprire incarichi. Atteggiamento che diventa quasi un’ossessione.
coding: programmazione di software per computer e web. In una società sempre più digitale, diversi sono i termini legati all’utilizzo dei computer
Altrit
em
pi
12
A L T R I T E M P I
Il Ricre a San Martino
CERVIGNANO
NOVEMBRE 2016
~ PIAZZALE DEL DUOMO ~
ORE 16.00: apertura chiosco e pesca di beneficenza
Musica dal vivo con “IMODIUM” e “PISSING BAD”
ORE 18.00: apertura stand gastronomico
ORE 20.30: musica dal vivo con i
“THE CONCEPTUALS” e “MATTEO PELOI”
SABATO
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DOMENICA
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ORE 10.00: apertura chiosco, stand gastronomico
e pesca di beneficenza
ORE 11.00: apertura stand delle associazioni parrocchiali
ORE 15.00: spettacolo teatrale a cura della “Compagnia dei
Genitori dei bimbi dell’Asilo Parrocchiale”
ORE 17.00: KARAOKE di gruppo (chi desidera può portare la propria
chitarra o altro strumento musicale per suonare in gruppo)
ORE 20.30: musica dal vivo con gli “HARD RAIN”
LUNEDÌ
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Pol inata !!
cuc aiolo!
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nel
ORE 10.00: apertura chiosco, stand gastronomico
e pesca di beneficenza
ORE 19.30: musica dal vivo con i
“RAM-RANDOM ACUSTIC MUSIC”
STAND GASTRONOMICO
con le nostre specialità
Baccalà - trippe - gulasch - frico
gnocchi di patate e di zucca - salsiccia con polenta
piatto baby (wurstel, hamburger e patatine)
dolci fatti in casa - castagne e ribolla
e ancora
la superba grigliata mista - panini caldi - patatine
ANCHE PER ASPORTO !!!
Birra er
an
Paul
Baccalà
trippe
e gulasch
AMPIA SALA AL COPERTO RISCALDATA
con numerosi posti a sedere; all’interno puoi giocare alla
PESCA DI BENEFICENZA
Vi aspettiamo!!!
ri rreatorio
o
Il ricavato della festa sarà interamente devoluto a favore delle attività del Ricreatorio San Michele.
 Gita-pellegrinaggio della parrocchia di Cervignano a Castelmonte, 1º maggio 1961.
Archivio fotografico di Alcide Gratton.
IMPARIAMO AD IMPARARE
IL DOPOSCUOLA DEL RICRE
(a partire dal 17 ottobre)
PER I RAGAZZI DELLA SCUOLA SECONDARIA
DI PRIMO GRADO
LUNEDÌ e MERCOLEDÌ dalle 15.00 alle 17.30
attività in piccolo gruppo (1 educatore ogni 2/3 ragazzi)
e/o individualizzate per lo svolgimento dei compiti,
l’approfondimento e il ripasso
PER I RAGAZZI DELLA SCUOLA PRIMARIA
MARTEDÌ e VENERDÌ dalle 15.00 alle 17.30
svolgimento dei compiti in piccoli gruppi
(1 educatore ogni 5 bambini)
ALTA UOTA
PER MAGGIORI INFO:
Ufficio del Ricreatorio, vicino ai campi da gioco
(dal lunedì al sabato dalle 15.00 alle 19.00)
0431 35233 (solo i pomeriggi)
[email protected]
www.ricre.org
capocasale.pdf 15/02/2010 19.42.54
comelli.pdf 15/02/2010 13.46.30