Numero 55 - Ricreatorio San Michele
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Numero 55 - Ricreatorio San Michele
ALTA UOTA Anno 12 Numero 55 edizione Maggio-Novembre 2016 Periodico bimestrale gratuito - Tiratura 1.000 copie - Registrazione Tribunale di Udine n. 15 del 15 marzo 2005 Il Ricreatorio San Michele è iscritto nel Registro Regionale delle Associazioni di Promozione Sociale al n. 121 www. fvgsolidale.regione.fvg.it Segreteria telefonica e fax: 0431 35233 Sito internet: www.ricre.org /AltaQuota2.0 [email protected] Direttore responsabile: Andrea Doncovio Direttore editoriale: Filippo Medeot Redattori: Giuseppe Ancona, don Moris Tonso, Vanni Veronesi, Giulia Bonifacio, Francesco Perusin, Federica Ermacora, Francesco Pavoni, Carolina Stabile, Luca Maggio Zanon, Paolo Bearzot, Luca Visentin. Responsabile web: Riccardo Rigonat Responsabile marketing: Alex Zanetti Stampa: Goliardica Editrice, Bagnaria Arsa Centro Giovanile di Cultura e Ricreazione “Ricreatorio San Michele” via Mercato, 1 – 33052 Cervignano del Friuli (UD) www.ricre.org (RI)SCOSSA. A 40 ANNI DAL SISMA CHE SCONVOLSE IL FRIULI I CARLA MARCATO p. 9 CRISTIANO TESSARI p. 5 GIORGIO GODINA p. 4 ALCIDE GRATTON p. 4 ANTONIO SACCHETTO p. 3 nnanzitutto vorrei cogliere l’occasione per presentarmi: mi chiamo Filippo Medeot e sono il nuovo direttore di Alta Quota. Quando ho deciso di assumere l’incarico il primo pensiero è andato alla grande responsabilità di portare avanti il giornale, mantenendone alta la qualità e la lucidità. Per fortuna ad accompagnarmi c’è una redazione giovane e volenterosa; insieme cercheremo da una parte di rinnovare Alta Quota, stando al passo con il mondo, e dall’altra conservare lo spirito che da sempre anima questo periodico: osservare ed analizzare la realtà che è intorno a noi, con un occhio di riguardo a Cervignano ma anche al resto del globo, in maniera puntuale, seria, attenta ed intelligente. Ringrazio inoltre Vanni Veronesi, sia per aver magistralmente diretto Alta Quota negli ultimi tempi sia per avermi dato più di una mano a comprendere come si porta avanti un giornale. Dunque quello che avete tra le mani è il nuovo numero di Alta Quota. È un numero diverso dagli altri: è diviso in due parti. Nella prima troverete testimonianze e racconti sul terremoto che nel 1976 colpì la nostra regione, esattamente quarant’anni fa. Nella seconda si parlerà di linguaggio e comunicazione e del rapporto di questi con la società: un argomento a mio avviso estremamente interessante e ricco di spunti. Purtroppo, dopo i due devastanti terremoti che hanno scosso il Centro Italia, il tema della ricostruzione è divenuto più attuale che mai: in questo senso l’esperienza friulana può costituire un modello virtuoso a cui guardare. L’anniversario dell’Orcolat – che causò quasi mille morti – è stato occasione di numerose celebrazioni, dagli speciali televisivi alle mostre, fino alla visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai comuni di Gemona e Venzone. Al di là di cerimonie e commemorazioni, Alta Quota vuole riportare un ricordo vivo di ciò che avvenne la sera del 6 maggio 1976, attraverso le parole di chi il terremoto e la conseguente emergenza li visse in primo piano, soprattutto per i più giovani, molti dei quali non hanno un’idea precisa di quello che accadde. Il numero si occuperà di tutti gli aspetti del sisma: dagli attimi della scossa al soccorso dei sopravvissuti fino alla successiva ricostruzione. Un evento drammatico che portò alla luce la straordinaria forza di volontà di uomini e donne e la capacità intrinseca all’uomo di reagire di fronte alle calamità. Vi auguro una piacevole lettura lasciandovi in compagnia delle parole dolci ma al contempo malinconiche che lo scrittore Mauro Corona pronunciò ricordando il terremoto del Friuli. «Il friulano che c’era non è più quello, non può ricostruirsi, perché quello aveva un andamento fluido, di anni, prima ancora di secoli, la memoria ereditata nei racconti. Invece adesso c’è stata questa troncatura e il friulano ancora barcolla, è preso dalla malinconia, dalla nostalgia di una cosa che non c’è più, perché il vero friulano non è il ‘fasìn di bessôi’, ma è l’avere ancora entusiasmo da rinascere da queste ceneri e quindi raccoglierle di nuovo e ripartire. È questa la forza del friulano: è la capacità di non farsi abbattere. Non piange tanto il friulano, sa tenere le lacrime e gli circolano dentro come una linfa nuova, terrificante ma anche creativa, è una testimonianza di tenacia, di volontà, di forza. […] Bisogna ripartire ed è difficile alzare una pietra per fare un muro quando dentro hai il dolore dei morti, della disfatta della memoria, usi e costumi, tradizioni, la cultura; non c’è più niente e quindi dobbiamo mettere una pietra e se quella pietra pesa un chilo, con il dolore dell’anima pesa dieci chili, cento chili, eppure il friulano la alza e la piazza lì: “e intanto abbiamo messo questa”, dice». ◆◆ FILIPPO MEDEOT 6 MAGGIO 1976 Il 6 maggio 1976 l’Orcolat, l’essere mostruoso indicato dalla tradizione popolare come la causa dei terremoti, diventando successivamente l’appellativo di quella che è considerata una delle scosse sismiche più devastanti della seconda metà del Novecento in Italia, si svegliò. Alle ore 21.00 la terra tremò per circa un minuto, generando un sisma di magnitudo 6.4 della scala Richter che colpì in particolar modo la zona a nord di Udine con epicentro nei comuni di Artegna e Gemona, causando però effetti distruttivi in ben quarantacinque paesi completamente rasi al suolo tra i quali oltre ai due sopracitati ricordiamo anche Osoppo, Venzone, Fogaria, Buia, Moggio Udinese, Trasaghis e Majano. Più moderate scosse si verificarono a Udine e Pordenone, leggere invece a Trieste, Gorizia e nelle regioni Veneto e Trentino Alto-Adige. Sicuramente i danni furono maggiori a causa della posizione dei comuni su alture e dell’età avanzata degli edifici, ma il colpo di grazia avvenne nei giorni 11 e 15 settembre del medesimo anno, quando quattro scosse di simile potenza alla prima di quella terribile serie distrusse anche quel poco che era rimasto in piedi. L’8 maggio il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia mise a disposizione 10 miliardi di lire per avviare immediatamente la ricostruzione delle aree colpite e il 15 settembre invece fu designato Giuseppe Zamberletti al ruolo di commissario straordinario del Governo e coordinatore dei soccorsi. Aiuti giunsero da ogni parte d’Italia e persino dagli Stati Uniti che contribuirono sia con denaro sia con l’installazione di tende da campo, mezzi e attrezzature necessarie. La ricostruzione si concluse dopo dieci anni di duro lavoro che diedero importante impulso alla formazione della Protezione Civile, ma sarà ricordata in seguito come esempio di grande efficienza e serietà, tanto che si parlerà addirittura di ‘modello Friuli’: tramite il metodo di anastilosi ogni pezzo infatti sarà riposto esattamente dove si trovava in precedenza. Alla fine dei conti dunque questa tragedia, che in termini di vite umane e danni è costata 989 morti, 3.000 feriti, circa 100.000 sfollati, quasi 17.000 case distrutte e 18.5 miliardi di euro secondo i dati dell’ufficio studi della Camera, possiamo dire che è giunta a un ‘felice’ epilogo. ◆◆ CAROLINA STABILE le fotografie in questa pagina rappresentano Gemona del Friuli e dintorni. AREA COLPITA: 5.500 chilometri quadrati POPOLAZIONE COLPITA: 600mila abitanti MORTI: 990 SFOLLATI: più di 100.000 CASE DISTRUTTE: 18.000 CASE DANNEGGIATE: 75.000 DANNI AL TERRITORIO: 4.500 miliardi di lire (oltre 18,5 miliardi di euro del 2010) COMUNI COINVOLTI: 45 comuni “rasi al suolo” come Gemona, Venzone, Buia, Pinzano al Tagliamento, Monteaperta (frazione di Taipana) e Osoppo, 40 “gravemente danneggiati” e 52 “danneggiati” ALTA UOTA in uotattualità 2 I DATI credifriuli.pdf 15/02/2010 13.46.47 arteottica.pdf 1 08/04/2016 13.09.56 LE TESTIMONIANZE VENZONE: UN CASO PARTICOLARE 3 Antonio Sacchetto, classe 1940, ricoprì la carica di sindaco di Venzone dal 1975 al 1982 ritrovandosi a dover fare i conti con l’Orcolat. Ci troviamo nel meraviglioso agriturismo che ha pian piano costruito assieme al figlio e tra un ricordo e l’altro comincia la sua storia. –– Cominciamo, se non le dispiace, da prima del terremoto: com’era Venzone nel 1975? «Era una città tranquilla, normale come tante altre in Friuli, aveva circa 2.500 abitanti. Io salii in carica nel 1975, precisamente otto mesi prima del sisma, diciamo che non fui molto fortunato… (poi continua sorridendo). Sa, fui il primo sindaco socialista di Venzone dopo quarantanni di democrazia cristiana, eravamo nel pieno di un periodo di transito ma mai ci saremmo aspettati un evento come quello che ci colpì, in quel tempo non si parlava di terremoto, non si parlava di zone sismiche, ci ha travolto e basta». –– Può condividere con noi i suoi ricordi di quella sera? in «Abitavo a trecento metri dal centro storico, sotto la montagna, quella sera stavo montando una libreria assieme a mio figlio quindi ero disteso sulla schiena, sentii la scossa, fortissima, un frastuono irreplicabile, presi la mia famiglia e uscii di casa e andammo in una radura al sicuro. La casa nella quale vivevo l’avevo costruita nel 1964 io stesso, resistette bene e non riportò particolari danni, potei perciò rientrare velocemente e prendere i materassi e portarli nella radura. Ciò che mi colpì più di ogni altra cosa fu la montagna, in quel momento si trasformò in un mostro gigantesco, le frane e le scintille provocate dall’oscillazione erano uno spettacolo terribile e poi il rumore e l’aria irrespirabile. Mi resi subito conto che era successo qualcosa di catastrofico, così corsi in paese». –Cosa – vide là? –Chi – venne a darvi il primo aiuto? «Fummo fortunati perché a Venzone era attiva la caserma degli alpini e la sorte volle che quella sera fossero di libera uscita quindi molti erano in paese, ci dettero un aiuto importantissimo sopratutto nella fase di emergenza più critica quando cercavamo tra le macerie eventuali sopravvissuti. Anche i militari di istanza a Venzone si misero immediatamente a disposizione, nella catastrofe del terremoto fummo veramente fortunati ad avere persone qualificate pronte a dare una mano». –Come – vi organizzaste ? «Per prima cosa andammo nel camping lungo il Tagliamento, là avevamo i bagni e l’acqua corrente, poi creammo vari accampamenti, ogni frazione e borgo aveva la propria tendopoli. Successivamente costruimmo i prefabbricati che ci erano stati forniti, perché si sa, per i friulani la casa è una cosa importante, per cui cercammo di ricreare un luogo nel quale sentirsi al sicuro. Arrivarono anche prefabbricati dal Canada: rifiutai più volte l’aiuto, dato che eravamo già sufficientemente forniti, ma loro ce li inviarono lo stesso. Tutt’oggi in alcune case sotto la muratura di rivestimento in mattoni c’è la casetta canadese interamente in legno». uotattualità «Fu difficile il solo arrivare al centro del paese, le strade non si può dire che fossero inagibili: semplicemente non esistevano più. Qua e là si vedevano i corpi di chi non era riuscito a mettersi in salvo ma in quel momento si pensava ai vivi; non c’era tempo, i morti li si sarebbe pianti dopo. I miei concittadini erano tutti in mezzo alla piazza di Venzone, notammo subito che non c’erano gli anziani che erano ospitati nella casa di riposo ‘Pio Istituto Elemosiniere’, così ci dirigemmo là ma le strade erano crollate e non si riusciva ad entrare. Di lì a poco trovammo tutti gli ospiti dell’istituto nei pressi della porta di San Giovanni: erano riusciti ad uscire prima che le scale venissero giù». –La – ricostruzione fu particolarmente veloce a Venzone, come mai? –Chi – ricostruì le case e le infrastrutture? «Per il centro storico vennero fondate molte cooperative, dunque venivano pubblicati i bandi e di conseguenza gli appalti che venivano affidati a queste ultime, composte sopratutto di manodopera locale. Per la periferia della città invece i privati facevano un po’ da sé, nel senso che la casa se la ricostruivano da soli, la maggior parte delle persone erano abili muratori e poi ci siamo aiutati a vicenda». –Come – funzionò la solidarietà? «Vennero persone da ogni parte d’Italia, la solidarietà fu molta e vanno ricordati anche i Fogolârs furlans di ogni parte del mondo che sia ci inviarono sia risorse di prima necessità sia ci dettero un aiuto economico non indifferente». ◆ FILIPPO MEDEOT E FRANCESCO PERUSIN le fotografie a fianco rappresentano Venzone e dintorni. ALTA UOTA «Sì, Venzone è stato un caso particolare tra tutti i comuni colpiti dal sisma per vari motivi. Per prima cosa fu fondamentale il controllo delle discariche, riuscimmo a classificare tutto il materiale crollato casa per casa in modo da poterlo riutilizzare; le ruspe a Venzone non entrarono mai. Un’ altra fortuna fu il fatto che il centro storico di Venzone era vincolato: nel 1965 era stato proclamato monumento di interesse nazionale, per cui il nostro referente era al tempo il ministro per i beni culturali ed ambientali e non la legge regionale numero 63. Grazie a ciò riuscimmo ad avere velocemente i fondi per le espropriazioni del centro storico e quindi per la successiva ricostruzione. Avemmo poi l’intuizione di costruire prima di tutto le strade e le infrastrutture con le fognature e tutta la rete dei servizi e questo ci permise di essere molto veloci nel ricostruire il tutto; appena una casa veniva riedificata con i materiali di recupero era subito abitabile. Un grande problema era rappresentato dal fatto che non sapevamo bene come fosse fatto l’impianto a terra del centro storico, ma anche qui fummo molto fortunati: l’Università di Vienna aveva eseguito, a scopo di ricerca, il rilievo di tutto il centro, quindi la perfetta collocazione delle singole case». 4 LE TESTIMONIANZE «LA FIAMMA DELLA SOLIDARIETÀ NON SI È SPENTA» Un protagonista della politica cervignanese negli anni della cosiddetta ‘Prima Repubblica’, sindaco della città alla fine degli anni Ottanta, ma soprattutto un uomo ancora oggi attivissimo nella nostra comunità: è ALCIDE GRATTON. Chiacchierare con lui è sempre un piacere, anche quanto i temi sono molto seri, come questa volta: il suo ricordo relativo ai giorni del terremoto. in uotattualità –– Partiamo da quella sera: 6 maggio 1976. «Quella sera dovevo andare in commissione edilizia in Municipio, ma mia moglie era rimasta in panne con l’auto a Cisis; la andai a recuperare e parcheggiai lei e mia figlia di neanche tre anni a casa dei miei, in Capoia, al primo piano. Arrivato in Municipio, iniziammo la seduta alle 21.00. Sei minuti dopo sentimmo un rumore assordante: pensammo subito al passaggio dei carri armati che allora erano di stanza alla Monte Pasubio». –– Erano così rumorosi? «Scherzi?! Quando passavano per Cervignano tremavano i muri, esattamente come accadde quella sera: per questo pensammo ai carri armati. Fu il mio amico Maurizio Briga a dirci, affacciandosi alla finestra, che si trattava del terremoto. Corsi in Capoia per recuperare moglie e figlia: erano incolumi perché, per l’appunto, stavano al primo piano. Noi all’epoca abitavamo al sesto piano del condominio Ausa: mi resi conto che l’edificio aveva oscillato di oltre un metro». –– E per fortuna qui non ci furono particolari danni… «Grazie alla particolarità del terreno. Ma già a Villa Vicentina, a causa del fondo ghiaioso, ci furono delle lesioni molto gravi. Comunque so che in Capoia la centralina –– Però sembrava che la cosa fosse finita lì, vero? «Vero, perché le zone colpite dal sisma erano senza corrente, isolate, senza possibilità di comunicare immediatamente con il resto della regione. Rincasammo subito dopo le 22 e andammo a dormire. Poi, all’1.15 ricevetti una telefonata dal bar Dante: “Il Friuli è disastrato, c’è bisogno di sangue”. Mi precipitai alla locale sede dell’AFDS e intanto le scosse ripresero, fortissime: mia moglie era a casa con la bambina, ricordo che per averla lasciata sola me ne disse tante…» –– Cosa accadde il giorno dopo? «Quella notte il Friuli si attivò immediatamente e la mattina dopo la mobilitazione era già enorme. A Cervignano l’amministrazione organizzò un centro di raccolta: c’era bisogno di tutto, dal cibo ai materassi, dalle coperte ai vestiti. E voglio ricordare la grande attività di coordinazione dell’allora sindaco Francovich, che di lì a poco avrebbe passato dei mesi d’inferno». –– Come mai? «Francovich era ingegnere e qualche tempo prima del terremoto aveva diretto i lavori per la costruzione di un condominio a Majano. Quel palazzo crollò e ci furono 40 morti. Fu un incubo: dopo una lunga serie di telefonate con minacce di morte, si trovò costretto a scomparire. Solo a posteriori abbiamo saputo la verità: il precedente sindaco di Cervignano, Mariuz, lo aveva ospitato a casa sua per tre mesi, nel più assoluto riserbo. Fu un gesto di grande umanità: Francovich era comunista, Mariuz democristiano, ma la loro amicizia era più forte della lotta politica». –– Come finì quella vicenda? «Tieni conto che un mese dopo erano previste le elezioni e Francovich era il candidato di punta del PCI provinciale: era praticamente certo di arrivare in Parlamento. La storia del condominio, però, fu la sua condanna: il partito chiese la sua testa, imponendogli le dimissioni da sindaco e dalla corsa alla Camera. Un anno dopo, il processo avrebbe comunque stabilito la sua totale innocenza; si scoprì, infatti, che Majano era stata dichiarata zona non sismica, perciò i lavori erano stati condotti in modo del tutto regolare». –– Qual è la tua personale esperienza del ‘dopo’? «In quelle settimane andai spesso nell’alto Friuli, poiché avevo una procura di mio fratello, che viveva in America, per riconvertire un vecchio casale di sua proprietà a Piano d’Arta. L’edificio era rimasto in piedi, ma c’erano crepe ovunque e gli abitanti della zona mi dissero di aver visto, quel 6 maggio, il tetto sollevarsi di un metro e poi tornare al suo posto. Anche raggiungerlo, comunque, era una impresa: non c’era ancora l’autostrada e la Pontebbana era ingombra di macerie. Ricordo deviazioni lunghissime, strade disastrate, interi paesi rasi al suolo. Vidi Gemona, Venzone, Trasaghis, Portis e mi resi conto della tragedia; pensai che fosse davvero finita per il Friuli, specie dopo la terribile nuova scossa del 15 settembre». –– Che viene sempre dimenticata, ma in realtà fu il vero colpo di grazia. «Tanto che buttò giù le prime costruzioni appena riedificate, poiché le malte erano ancora troppo fresche!». –– Poi però si mise in moto una ricostruzione incredibile. «…e ancora mi chiedo come sia stato possibile un simile miracolo. Ci fu una felice unione di vari aspetti: il volontariato, la partecipazione di tutte le forze politiche, l’impegno concreto della Chiesa, la solidarietà degli abitanti di Grado e Lignano che ospitarono i terremotati nelle loro case e nei loro alberghi (anche sacrificando intere stagione turistiche), nonché l’orgogliosa tenacia tipica dei friulani. Fu poi decisivo l’enorme contributo economico che arrivò dai nostri corregionali sparsi in America, Australia, Nord Europa, anche grazie all’azione meritoria di Mario Toros, presidente dell’Ente Friuli nel Mondo: l’emigrazione, storica piaga di queste terre, si trasformò in una risorsa, perché dai fogolârs sparsi in tutto il pianeta arrivarono soldi a palate. Così tanti che la Regione potè investirli anche in settori slegati dalla ricostruzione post-terremoto». –– Una simile convergenza di forze sarebbe ancora possibile nel Friuli di oggi? «Il benessere distrae e provoca una quota fisiologica di individualismo: anni fa c’era abbondanza di volontari in tutti i settori, mentre oggi si fa più fatica a trovarli. Tuttavia l’aiuto reciproco emerge nelle situazioni di difficoltà: in questo senso, credo che la fiammella di quella solidarietà non si sia spenta». ◆◆ VANNI VERONESI IL TERREMOTO IN FRIULI: I VIGILI DEL FUOCO E I PRIMI SOCCORSI Ho incontrato, GIORGIO GODINA, dal 1975 ufficiale superiore nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco ed in seguito Vice Comandante provinciale di Udine per diversi anni. Siamo in un locale del centro di Udine e lo ascolto come un nipotino ascolterebbe il nonno: con l’ammirato incanto che solo chi racconta se stesso e la propria passione riesce a suscitare. Quel 6 maggio del 1976 alle ore 21.00 era di servizio al comando di Udine ed allora la prima domanda è: –– Quali i ricordi di quei primi momenti? «Terminata la scossa (IX grado Mercalli, durata quasi un minuto), il primo pensiero fu quello di mettere al sicuro i mezzi di soccorso trasferendoli nel cortile esterno. Le squadre erano pronte ad intervenire, ma il tempo passava e non arrivava nessuna richiesta di soccorso. Realizzai subito che era iniziata una lotta contro il tempo, ma anche che nessuno sarebbe rientrato in casa per fare una telefonata ai pompieri. Che gli impianti elettrici, quelli telefonici e quant’altro di essenziale potevano essere fuori servizio. Decisi che se il soccorso non veniva verso i Vigili del Fuoco, sarebbero stati questi ultimi a cercarlo. Con l’autista ed un mezzo di servizio mi diressi verso nord per individuare l’estensione e la gravità del terremoto ». ALTA UOTA dell’Enel scintillò a lungo perché i cavi dell’alta tensione si toccavano». –– Cosa vide cosa la colpì maggiormente? «Mi colpì subito il buio profondo. Tutto era avvolto da una spessa e sconfinata nube di polvere creata dai tanti crolli di edifici. La presenza a terra di ruderi e grosse porzioni di case ingombravano le strade. Cominciai a segnalare via radio quello che vedevo dando le prime indicazioni per mobilitare i diversi Comandi Provinciali che iniziarono i preparativi di quello che sarebbe stato un tempestivo, massiccio, prolungato intervento in Friuli. Il terremoto è un evento catastrofico, che in un attimo sconvolge tutto; impone un immediato ed imponente spiegamento di risorse umane e mezzi. Noi eravamo solo due pompieri, in mezzo ad un mondo martoriato, senza attrezzature specifiche ed avevamo solo due paia di guanti da lavoro, ci sentivamo impotenti e vulnerabili di fronte a tanta devastazione». –– L’incontro con la gente, le è rimasto nella memoria qualche caso particolare? «Giunti a Gemona, notai che il disastro andava moltiplicato per cento. L’aiuto arrivò dalla stessa gente friulana, persone meravigliose che ci invitavano, molto spesso, a proseguire per non perdere tempo. Andate avanti. Fermatevi dove sentite i lamenti. Qui, ormai, non risponde più nessuno. Niente panico o scene di disperazione. Grande dignità umana ed ammirevole compostezza. Alto rispetto e piena rassegnazione per la sorte sfortunata dei propri cari o dei semplici conoscenti. Che splendida ed indimenticabile lezione di vita! Il terremoto del Friuli che provocò quasi mille vittime, tanto dolore e strazio, mise anche in evidenza il carattere della gente friulana, forte e determinata che, nonostante tutto, seppe risollevarsi rapidamente e ricominciare trasformando una sciagura in opportunità ». –– Un ricordo particolare in seguito? «Ci recammo anche presso le case popolari, un edificio multipiano era completamente crollato, letteralmente su se stesso. Il tetto si era appoggiato su una quantità indescrivibile di rottami e si univa direttamente con il piazzale esterno. Risalimmo lungo il cumulo delle macerie ed entrammo nel fabbricato attraverso il lucernaio del tetto. Raggiunto il piano sottostante notammo, all’ormai debole luce delle lampade portatili, la presenza dei componenti di una famiglia. Gli adulti necessitavano di un pietoso recupero, mentre un bambino piccolo era ancora vivo ma trattenuto dal peso del corpo della mamma che, a sua volta, era schiacciato da una grossa trave di cemento armato che sopportava i tetto. Sezionata la trave e rimosso il troncone, il corpo della madre venne separato dal piccolo corpicino che, proprio in quel momento smise di piangere e spirò. Stavamo andando via rattristati e delusi dall’insuccesso dopo tanto lavoro rischioso. Prima di abbandonare l’abitazione, con la difficoltà di muoversi e la scarsa visibilità volli assicurarmi che ci fossero altre persone. Alla fioca luce della lampada portatile notai, schiacciata da una grossa trave di cemento armato, una bambina dal volto polveroso, con due occhi spalancati e lo sguardo fisso che piangeva in assoluto silenzio e che rimase sempre muta alle tante domande per sostenerla. Come avevamo fatto per la madre, la pesante struttura venne rimossa e la bambina trasportata all’esterno attraverso il solito lucernaio e consegnata ai sanitari presenti poco distante. Era il nostro primo soccorso con esito pienamente favorevole. Questo episodio segnò per sempre la mia vita, anche professionale. Nei momenti di maggiore difficoltà, l’immagine di quell’angioletto rimasto sconosciuto, mi dava la forza di continuare. All’alba apprendemmo che già da molto tempo i Vigili del Fuoco dei Comandi Regionali e quelli del Triveneto operavano in zona. Ci sentivamo rassicurati: l’enorme macchina dei soccorsi era partita rapidamente ». ◆◆ GIUSEPPE ANCONA UN PO’ DI STORIA DELL’ARCHITETTURA PRIMA E DOPO IL 1976: LA PAROLA ALLO STORICO CRISTIANO TESSARI, professore associato di Storia dell’Architettura dal 1998, insegna dal 2002 all’Università degli Studi di Udine. Laureatosi in architettura allo IUAV di Venezia nell’A.A. 1982-83 con una tesi diretta da Manfredo Tafuri dedicata all’architettura spagnola del XVI secolo, tema sul quale ha redatto saggi e voci enciclopediche in pubblicazioni nazionali e internazionali, ha successivamente frequentato un corso di dottorato in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica. Ricercatore presso lo IUAV dal 1993; dal 1996 al 2000 è stato titolare dei corsi istituzionali di Storia dell’Architettura Antica, Medievale, Moderna. Fra il 2008 e il 2010 è stato responsabile dell’Unità di Ricerca della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Udine nell’ambito del Programma di Ricerca Scientifica di Rilevante Interesse Nazionale (P.R.I.N.) bandito nel 2007 dal titolo ‘L’invenzione del passato e la memoria dell’antico nell’architettura italiana (XIX-XXI sec.)’ promosso dall’Università IUAV di Venezia. «No, non oso dire questo perché sarei presuntuoso avendo appena confermato la mia non natura di specialista sulla vicenda terremoto, dico semplicemente che, nel modo di tramandarla e raccontarla, sono emerse tutta una serie di convenzioni che, dal punto di vista sto- –Il – costruito del prima terremoto non poteva di certo essere pronto ad un sisma così forte e vigoroso, per quale motivo, considerando la zona sismica così a rischio? Le abitazioni distrutte e ricostruite a causa della guerra come mai non erano minimamente pronte a sollecitazioni tali «Però attenzione, mentre per voi giovani viene naturale mettere insieme fenomeni di natura diversa e considerarli come momenti di un orizzonte appartenente al passato comune, nella realtà della percezione delle cose nel corso del tempo, il tutto non funziona così… La guerra è un trauma, un orrore… Il rischio sismico è un’altra cosa, è un evento che per secoli anzi per millenni è stato considerato espressione del destino, della rabbia del Padre Eterno o che so io, rispetto al quale non si potevano avere atteggiamenti preventivi, di conseguenza ricostruire dopo la guerra significava ridare corpo e senso ad una comunità all’insegna della memoria, della cultura civica ecc… Ricostruire dopo il terremoto, e non il primo vissuto nella Penisola, significava fare i conti con istanze che sono fra loro antitetiche». –Per – quanto riguarda i materiali invece? Venivano numerati e riutilizzati? «In questo caso l’informazione generale trasversale può indurre in sede di trasmissione e in sede di ricezione delle conclusioni del tutto equivoche, mi spiego, quando si fa o si faceva la presunta accuratezza per la quale “Nel duomo di Venzone è talmente forte la voglia del ricostruire dov’era e com’era squilli di trombe e rulli di tamburi”, numerando le pietre non si sta facendo nient’altro che creare enfasi suggerendo che si tratti di un caso eccezionale mentre invece è un tipo di prassi che precedentemente era stata seguita, vedi il tempio malatestiano a Rimini e non solo, nel caso di distruzioni belliche. Il problema, casomai, attiene a che tipo di scrupoli sono stati attivati in base alla natura dell’oggetto, chiarisco, le pietre numerate funzionano per il Tempio Malatestiano, funzionano per Palazzo Rucellai a Firenze perché il tipo di attenzione che si riserva a quegli oggetti, che già prima della guerra erano presenti nei libri di storia dell’arte, impone questo ma non è che tutto il ciclo della ricostruzione del patrimonio storico architettonico italiano, dal ‘44 a seconda delle zone liberate alla fine degli anni ‘50, abbia avuto questi scrupoli, ci sono stati restauri eccellenti e restauri a essere molto indulgenti a dir poco imprecabili». –Come – cambia l’aspetto della città durante e dopo la ricostruzione? «Cambiano come cambia l’aspetto di qualsiasi città… Nel caso di Udine basta vedere i circuiti delle mura, basta «Perché c’è differenza tra memoria e consuetudini… Forse proprio perché dalla ricostruzione del Friuli, o meglio, alla ricostruzione del Friuli si fa riferire l’inizio di quel fenomeno che ha avuto l’apice negli anni ‘80 ma che oggi vive ahimè da tempo la sua decadenza che è stato chiamato mediaticamente “la rinascita o il miracolo del nord-est”. Solo per quello». –– Ci furono esempi di ‘New Town’: queste ‘nuove città’ dove alla parte più o meno stratificata storicamente dell’abitato viene affiancata quasi senza scrupoli e continuità una parte nuova? «Considerando la macro area nord-est è da far notare l’enorme diversità di atteggiamento davanti a due catastrofi: una naturale e l’altra indotta. Nel caso di quella naturale, quella del terremoto friulano, prevalgono logiche di rispetto degli utenti e dei sopravvissuti, potremmo dire in certi casi fino all’eccesso a beneficio degli utenti del ‘com’era, dov’era’, abbiamo il caso di Venzone, il caso Gemona che a distanza di quasi mezzo secolo possiamo riportare in circuito al di là del giudizio. Nel caso dell’altra clamorosa catastrofe di quest’area geografica, il Vajont, lì non ci fu alcuna forma di rispetto. Chiunque sia un normale frequentatore dei media e delle figure culturali emerse da queste aree nell’ultimo ventennio, sa bene attraverso gli scritti in certi casi severi fino alla spietatezza di Corona e di altri che, nel caso del Vajont, si è avuta non solo una vera e propria espropriazione ma persino la persecuzione nei confronti di qualsiasi tentativo di riappropriazione dei propri spazi e proprietà con la schifezza della Nuova Erto con la pseudo Nuova Longarone, e mi lasci dire dolorosamente da storico che è proprio la memoria, il ricordo e la consapevolezza di quella indecenza che oggi mi fa tremare davanti ad un caso che si presenta perfettamente analogo di espropriazione nel caso dell’Aquila». –Con – che logica si ricostruisce? Si leggono numerosi articoli che riportano la sintesi ‘prima le fabbriche, poi le case e alla fine le chiese…’ «Ma guardi questo tipo di giudizi sono stati dati dall’esterno e dall’interno ogni qual volta che, e per noi il caso emblematico evidentemente sono le distruzioni della seconda guerra mondiale, si è dovuto ricostruire. Separiamo, come è ovvio, i paradigmi. Qual è la sostanziale differenza nella casistica che lei ha sintetizzato fra quella vicenda più estesa e questa più ristretta? Potremmo quasi dire l’inversione dei valori. Non è un caso che la ricostruzione del patrimonio storico-architettonico italiano abbia privilegiato inizialmente, dal pronto intervento in poi, le opere storiche, se pensa che chi spiega questa apparente stranezza (ovvero la ricostruzione dei monumenti e non delle abitazioni per coloro che sono rimasti senza casa) in termini pubblici con un suo scritto è Benedetto Croce. Si è restati e si resta tuttora meravigliati, ma il punto è che partire dal patrimonio storico architettonico significa partire dal segno positivo della civiltà e della cultura: ciò che crea identità e senso della comunità. Nel terremoto del Friuli, o meglio, nella ricostruzione seguita al terremoto del Friuli chi non sta in posizioni precostituite o dal punto di vista ideologico o dal punto di vista, diciamo così, della scelta privilegiata data per scontato, consideriamola come fenomeno, lei dice si è cominciato dalle industrie, l’osservazione basta a se stessa, non dimentichiamo per cortesia che il Friuli pre-terremoto era considerata area depressa, depressa al punto tale che era considerata dai politici di allora conflittuale e da poter essere utilizzata positivamente come fenomeno di riequilibrio rispetto alle PROSEGUE A PAG. 6 ALTA UOTA –Per – cui non ci sono documenti utili per poter definire se vi fossero dei modelli modelli urbanistici o di organizzazione del territorio e delle città? rico, non posso considerare del tutto fondate. Poiché la categoria urbanistica, anche se molti colleghi e presunti esperti la usano male, andrebbe per correttezza riferita ad una disciplina di indagine documentale e conoscitiva sulla base della quale fondare previsioni e progetti, per sua stessa natura essa riguarda sopratutto le città, ma la tragedia del Friuli non è stata limitata a queste ultime ma al contrario ha investito tutto il territorio, nel momento in cui osservazioni del tutto impressionistiche dichiarate precedentemente, mi danno la misura che quello che è risorto non è stato strettamente e univocamente legato ai luoghi distrutti ma magari è stato ricostruito con dislocazioni e spostamenti. L’idea largamente trasmessa in sede di celebrazioni di una sorta di corale e collettivo ‘com’era e dov’era’ faccio fatica a considerarlo come corrispondente al vero, proprio perché l’immagine del Friuli che ha subito quel trauma e l’immagine del Friuli risorto da quel trauma non sono due immagini che possono essere perfettamente sovrapponibili». –Perché – si ricorda il Friuli al di fuori del mondo della cultura, della storia, del culto della memoria che sicuramente al nordest è più forte che nel resto della penisola italica? uotattualità «Dunque per essere più sintetico possibile, il problema riguarda più la domanda che la risposta. Mi spiego. Il paradigma analitico e narrativo dei modelli è più frutto di convenzioni culturali che nascono in ambito storiografico che riflesso di realtà storiche, tutta una serie di categorie, ci tengo a dirlo, non esclusa quella della così detta città ideale, sono sopratutto invenzioni storiografiche connesse al modo di raccontare la storia. La dolorosa realtà per lo storico in questo caso è essenzialmente questa: l’interesse per il Friuli scatta nel panorama nazionale proprio nel momento in cui ci si interroga fondatamente o meno sul che cosa fare vista l’entità e la misura della catastrofe. Questo è un dato di fatto al punto tale che, e con questo forse anticipo una sua domanda, potrà notare che mentre sono stati prodotti opuscoli operativi in funzione della ricostruzione con le tipiche figurazioni a cui affidarsi per la ricostruzione ex novo, lo stesso tipo di documentazione non esiste relativamente alle preesistenze, vale a dire che quelle indicazioni erano di per sé prodotto di sintesi di cui non erano state dichiarate le fonti, il ché, e questo temo valga come anticipazione, vale anche come strumento su cui fondare la valutazione, dire giudizio sarebbe troppo arrogante, del dopo. Sarei pronto a scommettere, se fossi uno scommettitore, e non lo sono, che molte sorprese verrebbero fuori nel momento in cui si confrontassero immagini del prima terremoto, partendo da una scala territoriale di grandi aree e scendendo poi nel dettaglio del perduto, con le corrispondenti immagini del dopo costruito e non essendo friulano e non essendo presente in quell’area in quel momento a che cosa affido e baso questa mia convinzione? Per il fatto che avendo percorso in lungo ed in largo nel corso degli ultimi venti/trent’anni, per essere precisi, questa regione, quello che non ho potuto evitare di notare è la fioritura delle cose ex novo con caratteristiche formali figurative ben diverse dai ‘resti’ ancora perfettamente visibili. Il caso più emblematico? Si prende via Tricesimo a Udine e si va verso via Treppo, che cosa si nota? E io non so in base a quali paradigmi questa scelta sia stata fatta, da un lato c’è una finta chiesa gotica in calcestruzzo ricostruita alla fine del vialone e dall’altro c’era una vera chiesetta tardo cinquecentesca che dieci anni fa era ancora allo stato di rovina. Allora se il paradigma diventa come spesso si è sentito nelle commemorazioni radiofoniche di quest’anno e dell’anno scorso un presunto esito della scelta: “stiamo a sentire gli utenti, teniamo lontano gli specialisti” allora bisogna dire che questa parola degli utenti è stata accolta non solo nelle sue istanze di necessità, che sono tutte ragionevoli, ma anche nelle istanze di gusto che sono molto meno ragionevoli, perché il gusto è basato sulla consuetudine e non sulla conoscenza. Personalmente come storico d’architettura tra l’intervento di ricostruzione di un falso gotico otto/novecentesco e il lasciare in rovina un certo cinquecentesco, seppur minore, è una scelta dissennata». vedere i piani urbanistici tra fine ottocento e novecento, si coglie immediatamente lo scarto tra una volontà di contenere, di programmare, di creare direzioni e assi di collegamento e la ‘rinuncia’ a tutto ciò. Diciamo che se da un lato, di questa volontà di attenzione, di controllo e di programmazione, sono esito le città grandi e medie del Friuli pre-terremoto, dall’altro si registra, nel risultato finale, la caduta di questa attenzione in sede di ricostruzione; ma questo non vale solo per la vicenda Friuli, vale in generale. Non ci dobbiamo dimenticare che se noi semplicemente prendiamo un calendario del ‘900 quello che vediamo è una costellazione di eventi sismici che lega insieme, percorrendo un percorso che si snoda per tutta la penisola e che va da Messina passando per Tuscania Verbania, Castelgiorgio ecc. che risale per poi riscendere che passa per il centro Italia e arriva entro i limiti del 1976 a Gemona». in –Mi – sono rivolto a lei per fare un inciso mediamente approfondito sul terremoto del 1976 dal punto di vista architettonico, che cosa è stato e cosa ha significato per la nostra regione. Partirei quindi da prima del terremoto cercando di inquadrare le differenti tipologie edilizie presenti all’epoca in Friuli Venezia Giulia. 5 6 CONTINUA DA PAG. 5 immigrazioni interne. Dunque la situazione economica periferica al Friuli stesso non attingeva alla manodopera friulana ma a quella dall’immigrazione interna. Si comincia dalle fabbriche perché in questo modo si possono mettere in moto due componenti: la necessità della ripresa di una attività ma anche la possibilità di un intreccio, non sempre dichiarato e non sempre trasparente visto che l’Italia del ’75 e ’76 è ben diversa da quella degli anni ’50 e del post bellico, quello che vedeva frenare il divaricarsi delle realtà nord-sud e il mettere insieme l’utenza locale della ricostruzione in funzione delle abitazioni come sacca di approvvigionamento estesa anche al di fuori del nord est per le stesse attività produttive». –Perché – si è detto più volte che è stato fondamentale aver tenuto lontano i tecnici? «Mi ha molto colpito il notare in questo periodi di ricordi e celebrazioni una strana discrepanza: da un lato penso ai media audiovisivi che danno un notevole ruolo alla memoria intesa come autobiografia, i ricordi di Tizio, quelli di Caio, i ricordi di Sempronio, figura più o meno pubblica e via di questo passo. Dall’altro il ricorso a considerazioni di natura tecnica che hanno visto esporsi più esponenti di una leva di tecnici che si è formata ben lontana da quelle vicende quando il ciclo della ricostruzione era compiuto che non quei quattro gatti ancora superstiti che potevano raccontare da tecnici attivi sul territorio come ci si è mossi e questo è significativo. In alcune trasmissioni ed interviste sembrava che il dato fondamentale fosse: ‘se è potuto risorgere com’era dov’era è perché abbiamo tenuto lontano un certo tipo di tecnici a favore degli utenti’, il che è un modo di presentare le cose ma non è la realtà delle cose, è solamente un aspetto che evidentemente serve a far passare un altro tipo di indicazioni, non quella relativa al fatto apparentemente derivabile delle interviste stesse ‘i tecnici non tengono conto della memoria e degli individui’. Talvolta ciò è vero, talvolta non lo è. ‘il tecnico ostacola la libera iniziativa’ ma mi permetto di dire che non è che per quello che riguarda l’agire sul territorio il sostegno alla libera iniziativa sia qualcosa da favorire senza controllo perché altrove e non solo altrove quel libero credito alla libera iniziativa ha significato solo una cosa speculazione». ◆◆ FRANCESCO PERUSIN IN COLLABORAZIONE CON GIULIA BONIFACIO CAMBIO AL VERTICE. CHRISTIAN FRANETOVICH: Lo scorso 5 ottobre si è dimesso Andrea Doncovio dalla carica di Presidente del nostro Ricreatorio San Michele. La decisione, motivata essenzialmente dal crescente impegno nel percorso professionale, chiude un tempo ricco e fecondo che ci rende tutti orgogliosi. Ad Andrea dobbiamo, fra l’altro, l’esistenza stessa delle pagine da cui scriviamo ed a lui rivolgiamo la nostra gratitudine ed il nostro augurio per un futuro di soddisfazioni. Il successivo 12 ottobre, il Consiglio direttivo ha eletto il nuovo Presidente nella persona di Christian Franetovich, al quale abbiamo rivolto qualche domanda: –Qual – è lo spirito con il quale affronti questa nuova responsabilità? «Innanzi tutto ci tengo a sottolineare che la mia elezione avviene al di fuori della naturale scadenza del direttivo che resta in carica fino al 2018. Considero perciò questa mia carica, un servizio all’insegna della continuità ed alla prosecuzione dei programmi in corso. Ho chiesto ed ottenuto la conferma delle altre cariche in essere, nella persona del Vice Presidente Elisa Biancotto e del segretario Federico Forcieri. Mi piace a questo punto citare un esempio di tipo “nautico”: Il nostro Ricre, in questo momento è come una barca in navigazione. E una barca solida, che naviga in mari tranquilli, la cui rotta conduce a porti sicuri. E’ ben organizzata ed ha un ottimo equipaggio, composto da persone capaci, responsabili con ruoli sono ben definiti». –Quali – i programmi allora? «Il programma è quello di confermare ogni attività in corso ed in agenda secondo quanto già previsto dalle diverse commissioni che si sono fatte carico del progetto deliberato dal Consiglio Direttivo. Il Ricre poi è di per sè una fabbrica di idee e sono certo, che nel solco delle esperienze passate, non tarderanno ad arrivare nuove iniziative che di volta in volta porterò all’attenzione del Consiglio per le giuste valutazioni. Per le dimensioni delle nostre iniziative, per il numero di persone coinvolte ed anche per il ruolo svolto all’interno della nostra comunità, il Ricre, nella sua gestione, assomiglia molto ad una piccola azienda, con tutte le responsabilità che ciò impone. Ma torno ancora una volta sull’esempio precedente: una barca che naviga sicura e con successo, non ha certo bisogno di manovre improvvise. Quindi barra a dritta e “alla via così”». ◆◆ GIUSEPPE ANCONA in uotattualità RICRE, AVANTI TUTTA! ALTA UOTA UNA GENEROSA DONAZIONE PER LA SCUOLA MATERNA PARROCCHIALE “MARIA IMMACOLATA” DI CERVIGNANO DEL FRIULI La Fondazione CRUP di Udine ha stanziato la somma di € 10.000,00 quale contributo per la spesa sostenuta per il rifacimento del tetto della Scuola per l’Infanzia Maria Immacolata della nostra Parrocchia. Nella seconda metà dell’anno 2015 si è provveduto ad eseguire l’impermeabilizzazione del tetto e la controsoffittatura in gesso onde garantire l’eliminazione dell’infiltrazione di acqua piovana all’interno dell’edificio, la coibentazione e l’isolamento termico dello stesso riducendo così la dispersione termica con conseguente risparmio energetico e, infine, l’ancoraggio di alcune pareti rendendo maggiormente stabile e sicuro tutto l’edificio. L’attività di ristrutturazione era quanto mai necessaria per rendere sempre più confortevole e sicura una struttura che accoglie giornalmente oltre 130 bambini di cui 15 della Sezione Primavera, che è frequentata dai loro genitori e dove vi prestano la loro attività lavorativa un discreto numero di operatori. Un ringraziamento particolare quindi alla Fondazione CRUP sempre attenta al nostro territorio e alla attività educativa e sociale della nostra comunità. Anche in questa occasione ha manifestato la propria sensibilità rendendo possibile la realizzazione dell’opera. Sulla missione educativa della scuola per l’infanzia parrocchiale “Maria Immacolata” il periodico bimestrale del nostro Ricreatorio San Michele Alta Quota si è ampliamente soffermato dedicando a questa istituzione un numero speciale. ◆◆ PAOLO BEARZOT 7 in LA VITA DELLA NOSTRA LINGUA S alimbene de Adam da Parma, scrittore e religioso parmigiano del XIII secolo, nella sua Cronica narra di un macabro esperimento voluto dall’imperatore Federico II di Svevia, suo contemporaneo, per soddisfare la sua proverbiale sete di sapere: «La sua […] folle idea [di Federico II, ndr] era quella di scoprire che tipo di linguaggio e che modi di parlare avrebbero avuto i bambini se fossero cresciuti senza che nessuno parlasse mai con loro. Allora ordinò alle nutrici e alle balie di allattare i bambini, di far loro il bagno e di nutrirli, ma di non proferire sillaba né di parlare con loro perché voleva sapere se avrebbero parlato ebraico, cioè la lingua più antica, oppure greco o latino o arabo, o forse la lingua dei genitori che li avevano procreati. Ma si affannò invano, perché tutti i bambini morirono. Non riuscirono a vivere senza carezze, i visi lieti e le parole amorevoli delle loro nutrici». Che si tratti di una leggenda o no, poco importa. Emerge chiaramente come il nostro ingenito bisogno di comunicare e socializzare sia una delle grandi tematiche su cui l’uomo si interroga da sempre. Ed altrettanto chiaramen- te Salimbene ci dà la sua risposta: non si può vivere senza socialità. Comunicare è un bisogno fisiologico, necessario alla vita, come respirare, come nutrirsi. Del resto già Aristotele, nel I libro della Politica, definiva l’uomo «φύσει πολιτικὸν ζῷο», ovvero «essere socialepolitico per natura». Fin da bambini intrecciamo un sistema di relazioni con nostri simili e dopo soli pochi anni la comunicazione verbale – più semanticamente articolata ed efficace - diviene il nostro principale veicolo di socializzazione. Dalla nascita, dunque, viene a profilarsi una struttura relazionale organizzata su più piani: ci sono i genitori, i parenti, gli amici, i conoscenti, gli insegnanti, gli sconosciuti e così via. A seconda del grado di intimità e di confidenza il nostro modo di comunicare varia: il tono diventa più o meno formale, il lessico più aulico, oppure al contrario più gergale, può cambiare addirittura la lingua con cui ci esprimiamo. Parallelamente entrano in gioco altri fattori, quali l’anzianità (ci approcciamo in maniera più informale con i nostri coetanei o con le persone più giovani di noi, rispetto che con quelle più anziane) o il contesto (un colloquio di lavoro o un esame universitario esigono un registro linguistico diverso da un incontro al bar). Capiamo quindi come linguaggio e relazioni sociali siano strettamente intrecciati l’uno con le altre, e come questo evolve all’evolversi delle altre e viceversa. Ogni mutamento all’interno della società si riflette nel modo in cui ci esprimiamo, in cui discorriamo con le altre persone, in cui ci rapportiamo con l’altro. È in questi meandri ancestrali dell’uomo che il presente numero di Alta Quota si vuole addentrare. Come mai il linguaggio cambia a seconda di chi abbiamo di fronte e del contesto in cui siamo? In che modo linguaggio e relazioni interpersonali si sono evoluti nel corso del tempo? Da questo punto di vista, che differenze si possono intravedere tra vecchie e nuove generazioni? L’ultima rivoluzione tecnologica e l’arrivo dei social network come hanno influenzato il nostro modo di comunicare? E all’interno dei mutamenti avvenuti nella società come si è evoluto l’uso del friulano? Queste le domande cardine che ci siamo posti in redazione. Buona lettura. ◆◆ FILIPPO MEDEOT uotattualità CEMÛT ISE? FINE, THANKS. IL NOSTRO ARCHIVIO… PER LA TUA CURIOSITÀ! ✓ Ti sei perso alcuni numeri di Alta Quota? ✓ L’hai conosciuto di recente e vorresti scoprire i numeri più vecchi? ✓ Non trovi più le edizioni che avevi messo da parte? ✓ Oppure hai solo la curiosità di ripercorrere in un unico luogo la storia della nostra testata? Troverai tutti i numeri, dall’1 a quello che stai leggendo, compresi gli speciali, da leggere e scaricare gratis! Si ringraziano Franco Nannetti e Matteo Comuzzi per le scansioni. crogiolo.pdf 15/02/2010 13.47.03 alessiopaolo.pdf 20/04/2010 7.53.31 ALTA UOTA Visita il sito www.ricre.org nella sezione Alta Quota e scopri il nostro Archivio giornali! 8 DAL FRIULANO A WHATSAPP E TU, FEVELITU FURLAN? Facebook, Twitter, Snapchat, Jodel, Whatsapp, Telegram, Instagram, Youtube, Google+, Skype, Tinder… Oggi abbiamo la possibilità di comunicare in molteplici modi, con messaggi senza vedere quindi il nostro interlocutore né sentire la sua voce oppure al contrario vederlo e sentirlo anche se è dall’altra parte del mondo. Molti di voi non avranno mai sentito parlare delle sopracitate applicazioni e dei social network molti altri invece li usano quotidianamente in maniera disinvolta. Come è cambiato quindi il modo di comunicare e relazionarci agli altri? FRL Conosci il friulano? Se sì, lo utilizzi per comunicare? Con chi? Hai mai scritto e spedito una lettera? Oggi per comunicare con le persone utilizzi solamente le tecnologie e social network o preferisci incontrarle di persona? ALTA UOTA le persone che usano regolarmente il Friulano sono circa 430.000 e rappresentano il 57,2% della popolazione; un ulteriore 20,3% lo conosce e lo usa occasionalmente. Confrontando questi dati con i risultati di ricerche precedenti, è emerso che la percentuale di coloro i quali parlano quotidianamente il friulano stia regredendo dell’1% ogni anno e che venga usato sempre meno di generazione in generazione. Ciò è palesemente riconducibile all’evoluzione socio-culturale che dal secolo scorso fino al giorno d’oggi ha cambiato numerosi aspetti della vita quotidiana: l’universalità delle possibilità d’istruzione, la maggiore alfabetizzazione, l’ampliamento e il potenziamento delle reti di comunicazione hanno condotto la popolazione italiana ad affacciarsi a una realtà sempre più ampia, sempre più influenzata da culture e formæ mentis straniere, e sempre meno circoscritta unicamente allo scenario regionale. Di conseguenza, rappresentando il fattore linguistico una componente essenziale della società, l’uso del friulano, dei dialetti e delle altre lingue minoritarie è scemato e ha lasciato il proprio posto al predominio della lingua italia- na. Questo allontanamento, però, non ne ha comportato una svalutazione: in Friuli molteplici associazioni, tra le quali la nota Società Filologica Friulana, si occupano della tutela e della diffusione del nostro patrimonio linguistico, promuovendolo tramite lezioni aperte a tutti gli interessati. Anche alcuni intellettuali nativi della nostra regione si sono dedicati o si dedicano tuttora alla produzione letteraria in marilenghe, declinata secondo le sfumature caratteristiche della loro zona. Tra questi spicca il nome di Pier Paolo Pasolini, eclettico e brillante intellettuale di origini casarsesi, che nel 1942 pubblicò il suo primo libro di versi, ‘Poesie di Casarsa’, scritto in friulano e definito dal celebre critico Gianfranco Contini «l’apparizione della prima poesia dialettale moderna al di fuori degli schemi vernacolari». Nel 1945, inoltre, lo stesso artista fondò l’Academiuta di lenga furlana, istituto volto alla valorizzazione della lingua friulana e basato su principi teorici quali «friulanità assoluta, tradizione romanza, influenza delle letterature contemporanee, libertà, fantasia». ◆◆ FEDERICA ERMACORA IL SONDAGGIO in uotattualità Idioma di derivazione romanza, il friulano è stato arricchito nel corso dei secoli dal patrimonio lessicale ereditato dalle molteplici popolazioni, in primis i Celti, che hanno invaso il territorio del Friuli e ne hanno contaminato cultura e società. Nonostante il dibattito tra chi sostiene che sia una lingua e chi invece lo ritiene un dialetto sembri imperituro, diciassette anni fa, nel 1999, la Legge 482 ha fornito una risposta definitiva alla questione: grazie all’applicazione dell’articolo 6 della Costituzione Italiana, secondo il quale “La Repubblica tutela con norme apposite le minoranze linguistiche”, il friulano è stato riconosciuto ufficialmente come lingua minoritaria. Ma oggigiorno quante persone lo parlano abitualmente? La più recente inchiesta dell’Istat circa l’uso dell’italiano, dei dialetti e delle lingue secondarie in Italia testimonia il fatto che, posta come base del sondaggio la popolazione dai 18 ai 74 anni (23 milioni 351mila individui), il 53,1% parla Italiano in famiglia, il 56,4% con gli amici e l’84,8% con persone estranee. Nel caso specifico della nostra regione, secondo l’indagine sociolinguistica di Linda Picco (2001), ! Cosa fai quando devi comunicare qualcosa di importante a qualcuno? Da quanti anni utilizzi tecnologie per comunicare? Il nostro inviato Paolo Bearzot l’ha chiesto direttamente a voi. N.B. La cosa che ci ha colpito di più e sulla quale vi invitiamo a riflettere è ancora il vivo affetto verso la forma cartacea anche tra i più giovani i quali però tendono ad usare sempre meno rispetto alle generazioni precedenti il friulano. ◆◆ PAOLO BEARZOT 15–30 30–65 65+ Sì, lo conosco e lo utilizzo per comunicare con i miei amici e i miei nonni Sì, con tutti Sì, con tutti No Lo conosco ma non lo parlo Con tutti Sì, lo utilizzo per comunicare sempre con i miei genitori e parenti e spesso con i miei amici Lo utilizzo in famiglia Sì Lo conosco ma non lo parlo Lo conosco ma non lo utilizzo Sì, con gli amici Lo conosco ma non lo parlo Lo conosco e lo uso con le persone più anziane Sì, con tutti No Sì Sì Sì Sì Sì No Sì Sì Sì Sì Sì No Sì Sì Preferisco incontrarle di persona Entrambi Di persona Entrambi Entrambi Di persona Per comodità uso le tecnologie ma preferisco incontrarle Uso le tecnologie per praticità ma preferisco sempre incontrarle Entrambi Di persona Preferisco incontrarle di persona Preferiso incontrarle di persona Uso le tecnologie Entrambi Le incontro di persona Uso Whatsapp Di persona Telefono Se non posso incontrarlo, lo chiamo al telefono Le incontro Di persona Le incontro Se c’è la possibilità preferisco incontrarci Lo incontro di persona Telefono Le telefono Di persona oppure per iscritto Telefono 8 anni 18 anni 20 anni 5 anni 14 anni 10 anni poco meno di 4 anni 15 anni 10 anni 3 anni 15 anni 12 anni 6 anni 20 anni 5 anni IL PARERE DELL’ESPERTO UNA LINGUA IN EVOLUZIONE CARLA MARCATO, cervignanese, professore ordinario di “Linguistica italiana” nell’Università di Udine; dal 2004 è direttore del Master in “Italiano lingua seconda e interculturalità” presidente del “Centro per la lingua e la cultura italiana per stranieri”; dal 1996 al 2008 ha tenuto i corsi di dialettologia italiana nell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Autrice di numerosi libri, tra cui “Dialetto, dialetti e italiano”,” Il lessico friulano”, “Nomi di persona, nomi di luogo: introduzione all’onomastica italiana”. –Professoressa, – la lingua vive con la società e ne registra i cambiamenti nel tempo: i forestierismi, parole o espressioni introdotte in italiano da una lingua straniera, possono essere una buona base per cominciare la riflessione? «L’afflusso di anglicismi nella lingua italiana, soprattutto nel Novecento, è stato notevole e continua ancora oggi, talvolta ciò può avvenire in modo non costante, si parla spesso quindi di “ondate di anglicismi”. Le parole di una lingua non sono sempre legate ad un delimitato e preciso bacino geografico, ma possono emigrare in territori extranazionali, e ciò è quello che è avvenuto con le parole inglesi». –A – che cosa è dovuto il fenomeno? –L’italiano – ha attinto spesso anche da altre lingue straniere, una su tutte il francese, lingua di cultura soprattutto nel Settecento… –Nelle – parole comunemente usate ci sono altri esempi di prestiti che all’apparenza non sembrano inglesi? «Certamente. Parole come ‘treno’ e ‘bistecca’, che hanno una frequenza altissima nel lessico della lingua italiana, tecnicamente si dice che sono acclimatate, non denunciano immediatamente l’origine inglese, ma la loro origine è britannica. ‘Treno’ e ‘bistecca’ sono due adattamenti italiani dei termini inglese train e beefsteak. Anche la parola ‘bar’ comune tanto quanto le parole appena prese in considerazione». –Spesso – ci si chiede se sia possibile sostituire la parola inglese entrata nel lessico italiano con una parola patrimoniale, che cosa ne pensa della parola selfie? «L’anglicismo selfie, registrato ufficialmente nel lessico italiano a partire dall’autunno del 2014, non può essere sostituito né col composto patrimoniale ‘autoscatto’, né col composto patrimoniale ‘autoritratto’ perché il concetto di selfie presuppone il fatto che chi fa la fotografia abbia in mano l’oggetto digitale (macchina fotografica digitale, cellulare…) col quale andrà a fare la foto. Inoltre vi è un legame inscindibile tra l’ingresso della parola selfie e l’ambito dei social network, la componente e la tematica della condivisione dell’immagine è fondamentale per comprendere l’utilizzo del termine». –Come – vengono accolti solitamente gli anglicismi nella società italiana e soprattutto che cosa ne pensano i linguisti? «La Francia ha storicamente la fama di essere un Paese che esercita un controllo molto severo sulla lingua, controllo che nel tempo si è esplicitato anche in editti, leggi e decreti legislativi miranti a stabilire le norme ortografiche della lingua francese. Per quanto riguarda l’uso dei forestierismi le politiche francesi sono categoriche e protezionistiche, basti ricordare che in Francia il computer (parola che si definisce anglolatinismo) viene chiamato ordinateur». –Un – altro tema che interessa in modo particolare la società attuale è quello che concerne la declinazione al femminile dei nomi che designano le cariche, soprattutto quelle istituzionali, che cosa ne pensa di parole come sindaca o ministra? «Il tema del linguaggio di genere venne affrontato da Alma Sabatini a partire dagli anni Ottanta del Novecento e la questione è riemersa negli ultimi anni grazie anche al ruolo dell’Accademia della Crusca. La lingua italiana offre la possibilità di declinare al femminile molti ruoli, ivi compresi quelli di ministro, sindaco e assessore che diventano rispettivamente ministra, sindaca e assessora. Non si tratta di una questione di femminismo, ma di una scelta che può essere effettuata a discrezione del parlante in conformità alle regole della lingua italiana. Come sempre accade, il ruolo dei mass-media è decisivo per far sì che la parola si diffonda nell’uso. Talvolta capita che le donne stesse non vogliano usare il femminile perché la parola declinata al maschile indica il ruolo e non il genere di chi lo esercita: in ambito accademico e istituzionale spesso le donne preferiscono farsi chiamare direttore e non direttrice, facendo riferimento in questo caso alla carica». –Chi – si oppone all’uso delle parole come sindaca o ministra spesso dice che sono parole brutte foneticamente. «Ogni nuova parola che viene inserita nel lessico italiano ha bisogno di un periodo nel quale il parlante si deve abituare al suo utilizzo, ancora una volta l’uso gioca un ruolo fondamentale, se la parola non viene diffusa, non può essere acclimatata, la sensibilità dei parlanti gioca un ruolo altrettanto importante». –Per – rimanere in ambito politico-istituzionale, si può affermare che negli ultimi decenni, rispetto agli anni della Prima Repubblica, ci sia stato un avvicinamento del linguaggio della politica alla gente? «Sì. Il cambiamento è percepibile in modo abbastanza netto, anche perché l’ambito della politica è uno dei campi che quotidianamente entra in contatto con le persone, e ancora una volta i media sono fondamentali, in particolare il settore televisivo. I talk-show, che vengono mandati in onda anche più volte al giorno, sono il medium più rapido col quale avviene il contatto tra la società e la politica. Il linguaggio della politica è un linguaggio che spesso conia termini che entrano nel lessico della lingua italiana come l’anglicismo endorsement; spesso ci si chiezanon.pdf 1 08/04/2016 de se siano davvero necessari nuovi termini, ma come nel caso del discorso precedente su voucher e ticket è difficile sostituire endorsement con una parola italiana: ‘investitura’, per esempio, non è adeguato». –Un – personaggio politico del passato usava spesso una locuzione come “mi consenta” che cosa si può dire a riguardo? «L’uso di particolari espressioni associate un personaggio politico diventano spesso un tormentone (termine che designa generalmente un particolare successo canoro estivo) che trova il proprio canale di diffusione in televisione e sui giornali, in particolare quando il personaggio politico fa delle dichiarazioni pubbliche. Negli ultimi anni è emersa una nuova formula dal linguaggio della politica ‘stai sereno’ diffuso via Twitter da un noto personaggio politico». –Per – quanto riguarda il caso di petaloso, di cui si è parlato per molto tempo nella primavera e in parte dell’estate del 2016. Il termine è stato inventato da un bambino di otto anni della provincia di Ferrara. Che cosa si può affermare a riguardo? «La parola petaloso non ha attecchito nel lessico della lingua italiana, certamente il termine è molto interessante per quanto riguarda la produttività del suffisso ‘–oso’, il quale ha una storia molto antica ed è stato spesso utilizzato nelle lingue gergali, dove talvolta le scarpe venivano definite ‘le fangose’. In realtà la parola petaloso comprare già in un testo del Seicento, redatto da un farmacista, botanico ed entomologo inglese». –A – proposito della produttività del suffisso –oso, talvolta declinato al femminile, è stato oggetto di uso anche per il settore pubblicitario. «In uno spot degli Anni Ottanta una nota casa automobilistica coniò i neologismi ‘comodosa’, ‘risparmiosa’, ‘scattosa’ e ‘sciccosa’ riferita ad una popolare automobile: è un buon esempio di intersezione culturale e sociale tra la propaganda commerciale e la linguistica. Nel termine ‘sciccosa’, si può notare tra l’altro, l’adattamento italiano della parola francese chic, per ricollegarsi alla prima parte nella quale si parlava dei forestierismi». –Per – quanto riguarda la geografia linguistica, si possono registrare alcuni cambiamenti dei centri di irradiazione linguistica per quanto riguarda l’italiano. «Firenze ha storicamente ricoperto per la lingua italiana il ruolo di centro di emanazione linguistica, basti pensare alla notissima formula di manzoniana memoria ‘sciacquare i panni in Arno’, in Italia si è avuta quindi una sorta di anomalia per la quale il centro linguistico non coincideva con la capitale dello Stato, cosa che non avviene in altri paesi europei come la Francia e la Gran Bretagna, dove rispettivamente Parigi e Londra coincidono coi centri di propulsione linguistica. Con il secondo dopoguerra, grazie al fondamentale ruolo svolto dal servizio radiotelevisivo pubblico, Roma ha fatto sentire sempre di più la propria influenza, soprattutto nella lingua parlata. Con l’avvento della televisione commerciale si è avuta l’addizione di un’ulteriore città che esercita un importante influsso: Milano. Milano è un luogo molto 13.23.11 PROSEGUE A PAG. 10 ALTA UOTA «In Italia vi è una propensione particolare da parte della società all’accettazione degli anglicismi, anche perché molte novità tecnologiche arrivano dagli Stati Uniti, paese anglosassone. Un libro fondamentale per capire l’apimpianti.pdf 1 08/04/2016 13.18.33 proccio degli studiosi nei confronti della materia è il vo- –Ci – sono paesi europei che hanno un approccio drastico per quanto concerne il tema degli anglicismi o più in generale dei forestierismi? uotattualità «La lingua francese ha esercitato un’influenza molto forte sull’italiano, soprattutto nel campo della moda, della cucina, senza contare il frequentissimo toilette che rimane vivo nel linguaggio a qualsiasi livello geografico e sociale. Talvolta vi è una sorta di compresenza nei prestiti di inglese e francese, è il caso dei prestiti mediati come la parola ‘budino’, derivante dall’inglese pudding, passata in francese come boudin e successivamente arrivata in italiano come ‘budino’. In questa sede sono da ricordare quelli che un grande poeta della nostra letteratura, Giacomo Leopardi, chiamava ‘europeismi’, espressioni comuni a molte lingue d’Europa soprattutto in ambito musicale, filosofico e scientifico». lume di Arrigo Castellani Morbus anglicus del 1987. Nella propria pubblicazione Castellani denuncia l’invasione degli anglicismi in italiano e, pur inserendosi nella tradizione del purismo linguistico, propone un adattamento grafico degli anglicismi già presenti in italiano, facendo terminare i forestierismi con la vocale». Gli anglicismi giungono e si diffondono spesso tramite il lessico delle istituzioni o degli enti pubblici. «Il lessico della politica e quello burocratico hanno irradiato degli anglicismi che trovano una certa fortuna nella lingua scritta e parlata, è il caso di ticket, welfare o voucher. Le sostituzioni italiane per questi termini, benché siano state proposte in diverse occasioni, non sono completamente accettabili perché non coprono in modo semanticamente completo la parola inglese: non è concepibile voler sostituire ticket con biglietto oppure voucher con buono, poiché in questi due casi gli anglicismi dicono qualcosa in più rispetto al concetto designato dalla parola italiana». in «Tali migrazioni lessicali sono spesso causate dall’influenza culturale, dagli scambi commerciali e dalla pubblicità, anche se non è da escludere la funzione suppletiva che gli anglicismi svolgono quando vanno a coprire una carenza semantica, oppure cominciano a designare un concetto del tutto nuovo nella lingua che li accoglie». 9 10 DIALETTI E LINGUA LINGUE E DIALETTI ITALIANI Tralasciando la distinzione fra lingua e dialetto, che non pertiene alla scienza bensì alla sfera dell’amministrazione e della politica, gli idiomi italiani si distinguono in otto gruppi fondamentali: zese, molisano, pugliese, campano, lucano, calabrese settentrionale) •Dialetti meriodionali estremi (salentino, calabrese centrale e meridionale, siciliano) •Gruppo sardo •Dialetti gallo-italici (piemontese, ligure, lombardo, emiliano, romagnolo, gallomarchigiano) •Dialetti veneti •Gruppo reto-romanzo (ladino e friulano) •Gruppo toscano-corso (che comprende anche alcune parlate del nord della Sardegna) •Dialetti centro-italici (umbro, marchigiano centrale, laziale) •Dialetti meridionali (marchigiano meridionale, abruz- lombardo occidentale (Western Lombard) uotattualità franco provenzale lombardo orientale ladino (German dialect) (Ladin) PARLIAMO ITALIANO? Molte volte si parla dell’italiano come se la lingua fosse rimasta invariata fin dal principio, fin dall’origine della sua diffusione. Ma non è così, perché ogni lingua risente dei contesti storici che attraversa, degli uomini che li vivono. Una lingua può essere influenzata da eventi rivoluzionari, basti pensare al ruolo della televisione, ma anche da vocaboli, dialetti e modi di dire stranieri. Alla domanda iniziale risponde il professore di Linguistica generale del Corso di Laurea in Lettere dell’Università di Udine, Vincenzo Orioles. friulano (Furlan) (Easthern Lombard) sloveno (Franco-Provençal) (Slovenian) veneto (Venetian) piemontese emiliano romagnolo ligure (Ligurian) provenzale centrale marchigiano toscano (Provençal) (Tuscan) marchigiano meridionale - abruzzese umbro e laziale croato (Croatian) molisano gallurese romanesco (Northeastern Sardinian) sassarese sabino (Northwestern Sardinian) algherese in sudtirolese Non mancano le cosiddette ‘isole linguistiche’, ovvero le località in cui, per motivi storici, si parla un idioma completamente diverso da quello dei paesi circostanti: sono eredità di un passato fatto di migrazioni e conflitti, ma anche fondazioni coloniali di potenze ‘straniere’ (l’Italia è unita solo dal 1861…) a scopo strategico. Si parla occitano (particolare variante del francese meridionale) in varie cittadine di Calabria, Basilicata e Sicilia; nel Nord del Molise resiste logudurese (Catalan Valencian Balear) (Nuorese, Northern Logudorese, Barbaricino, Southwestern Logudorese) foggiano (dauno and garganico) ciociaro barese salentino campano (Neapolitan and others) gallo-italico di Basilicata (Gallo-Italic of Basilicata) arbëreshë (Arbëreshë) calabrese del nord tabarchino (Lucano - Northern Calabrese) arbëreshë calabrese (Southern Calabrese) (Arbëreshë) campidanese (South Sardinian) grecìa salentina (Salento's Greek) siciliano (Sicilian) gallo-italico di Sicilia greco calabro (Calabrian Greek) (Gallo-Italic of Sicily) ALTA UOTA il croato; l’albanese è registrato da secoli in tutte le regioni meridionali; sopravvive il greco (in una forma non molto distante da quello antico) in Salento e in Calabria; a Carloforte, in Sardegna, la republica marinara di Genova creò un avamposto e ancora oggi si parla ligure, mentre ad Alghero rimane vivo il catalano dei barceloneti arrivati in loco alla fine del Trecento. Non si può invece parlare di ‘isole’ laddove intere fasce territoriali parlano lingue diverse dal ceppo italico: è il tipico caso del tedesco in Alto Adige e dello sloveno nella fascia orientale del Friuli Venezia Giulia. Per scoprire la straordinaria varietà linguistica dell’Italia, presentiamo una rielaborazione di una cartina realizzata da Antonio Ciccolella (https://commons.wikimedia.org). ◆◆ VANNI VERONESI CONTINUA DA PAG. 9 importante per studiare i nuovi linguaggi e soprattutto i gerghi giovanili, è opportuno ricordare in questa sede il paninarese, gergo dei cosiddetti ‘paninari’, categoria sociologica che ebbe una certa importanza negli anni Ottanta del Novecento. La diffusione del termine ‘tamarro’, che ha avuto una certa fortuna linguistica, è cominciata in quell’epoca e a partire proprio da quegli ambienti». –Sempre – a proposito dei gerghi giovanili, un capitolo interessante meritano i vari modi di dire diffusi tra i ragazzi quando decidono di non andare a scuola, a cominciare dal più diffuso “marinare la scuola”. «’Marinare la scuola’ è solo una della tante varianti che la nostra lingua conosce per designare il concetto di assenza deliberata da scuola senza un giustificato motivo. Le varianti sono legate a quella che in linguistica tecnicamente si chiama variazione diatopica, cioè la modificazioni della lingua che si hanno sulla base del cambiamento del luogo. Nel Friuli-Venezia Giulia è diffusissima anche la locuzione ‘fare lippa’ che rimanda al campo semantico ludico, nell’Italia mediana ‘fare sega’, mentre nel Nordovest predominano le forme ‘bigiare’ (molto conosciuto anche fuori dall’originaria Lombardia) il piemontese ‘tagliare’». –L’italiano – è una lingua romanza che deriva dal latino. Quali sono gli ambiti nei quali il latino ancora vive nel lessico? «L’ambito del diritto e dell’amministrazione sono i due campi dove il latino rimane vivo con alcune espressioni fissate in quei linguaggi settoriali, per esempio le locu- –Concretamente, – come cambia la lingua? «Il cambiamento che la lingua subisce altro non è che il risultato del cambiamento della società. A partire dagli anni ‘80, con la liberalizzazione delle emittenti radiotelevisive e con la scomparsa del monopolio Rai, l’italiano affronta una trasformazione evidente. Ci si rende conto che la lingua ha cambiato “velocità”: telecronache sportive, telegiornali comportano un’alterazione nella lingua e la necessità di stare al passo con il costante mutamento. Ciò è dovuto anche ad un secondo scossone dovuto alla diffusione del computer a metà degli anni ‘90». –– In tutto questo, che ruolo ricopre la lingua scritta? «Con la diffusione del computer e della telefonia mobile, assistiamo ad una rivalutazione della scrittura. Gli scritti sono rapidi, veloci, istantanei. Seppur in forma frammentaria, lo scritto è in qualche modo rinato, e l’obiettivo ultimo è quello di riuscire a rimpossessarsi della lingua scritta in tutte le pratiche comunicative». –Ciò – che lei auspica, è possibile? «Per impadronirsi nuovamente della lingua scritta, a mio parere, c’è bisogno di un cambio nella classe dei docenti. Da attardata, sulla difensiva, dove nessuno si mette in gioco, i docenti dovrebbero diversificare, governare, i nuovi media, basti vedere l’e-book: è l’esempio lampante di come sarebbe possibile unire l’amore per la lettura con il progresso tecnologico». ◆◆ FRANCESCO PAVONI zioni ad personam, ius soli, modus operandi, sui generis, e gli attualissimi referendum e quorum. In linguistica i latinismi, categoria lessicale conosciuta spesso dagli studenti tramite lo studio delle poesie, soprattutto quelle di autori neoclassici come Foscolo, costituiscono un oggetto di studio molto interessante e fecondo che s’intreccia 83x26.pdf 15/02/2010 13.45.19 col tema luilei delle cosiddette locuzioni cristallizzate». ◆◆ LUCA VISENTIN IL CASO UN NOBEL, UNA PENNA, UNA CHITARRA sterile e inutile, oltre che sciocca). Leggere Baudelaire e ascoltare De André – per riprendere il paragone di prima – ha lo stesso valore. E nemmeno fissare una separazione tra le due espressioni artistiche, differenti in metodo di fruizione e assimilazione. Probabilmente da oggi il significato di “Letteratura” all’interno dell’espressione “Nobel per la Letteratura” abbraccerà un campo più ampio, nulla di eclatante. Probabilmente è anche un giusto riconoscimento all’importanza che il cantautorato ha assunto nella cultura contemporanea. O magari è da leggere come un premio al solo Bob Dylan e non alla canzone autoriale in toto. Il vero punto di riflessione che secondo me questo Nobel apre è la definitiva constatazione di come la canzone d’autore abbia occupato appieno quello spazio che nasce dal bisogno intrinseco all’uomo di esprimere il mistero della realtà in parole. Fatto non confermato tanto dall’assegnazione del Nobel a Bob Dylan quanto dalle conseguenti reazioni. ◆◆ FILIPPO MEDEOT uotattualità stesso modo Alberto Grandi su Wired sostiene che l’arte in cui Bob Dylan eccelle è diversa da quella in cui sono eccelsi Montale e Hemingway. “In letteratura, il silenzio è una componente altrettanto valida delle parole che lo rompono, scritte sulla pagina ed evocate nella mente di chi legge. Non avrebbe senso accompagnare Ossi di seppia di Montale con della musica in sottofondo, o meglio, non aggiungerebbe nulla a quei versi, perché possiedono già una musicalità, una melodia. Ed è una melodia che per essere evocata al meglio dalle parole trasformate in strumenti musicali, necessita silenzio. […] La musica è insita nella parola quando la parola è emozione, arte. Nel caso di Dylan, le sue parole sono musica senza la musica che effettivamente le accompagna? Non credo.” Di sicuro, a partire dagli anni Sessanta il cantautorato ha conquistato piano piano un posto sempre più importante nel nostro panorama culturale. Basti pensare ad autori come De Andrè, Guccini, Mogol, De Gregori, Battiato o Vecchioni, spesso paragonati a veri e propri poeti e presi dai più giovani come punti di riferimento letterari. È innegabile che dietro la scrittura di canzoni dei grandi autori ci sia studio e profonda riflessione, ricca di riferimenti culturali importanti. La ballata degli impiccati di De Andrè si ispira all’omonimo componimento di François Villon; Battiato in Bandiera bianca riprende il saggio Minima Moralia del filosofo tedesco Theodor Adorno; Vecchioni ha riversato nelle sue opere la sua professione di professore liceale di italiano, greco e latino e ha tenuto vari corsi universitari su poesia e musica. A Hard Rain’s A-Gonna Fall di Bob Dylan riprende nella struttura la tradizionale ballata scozzese Lord Randal, risalente al XIII secolo. Negli Anni ‘60 Dylan iniziò a frequentare abitualmente i più grandi esponenti della Beat Generation: Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac, Gregory Corso e soprattutto Allen Ginsberg - di cui divenne grande amico -, i quali consideravano il giovane musicista figlio diretto del movimento di cui erano stati protagonisti negli anni ‘40 e ‘50. Ginsberg comparve persino nel videoclip di Subterranean Homesick Blues, canzone di Dylan del 1965 nel cui testo si può scorgere l’influenza sia del romanzo di Kerouac I sotterranei sia di Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, autore particolarmente amato dagli scrittori beat. Ma davvero le canzoni sono subentrate alle poesie? Davvero l’esperienza di un ragazzo che cento anni fa leggeva Bohémiens en voyage di Baudelaire è assimilabile ad un ragazzo che oggi ascolta Sally di De André? Vero è che i lettori di poesia sono sempre meno e pure la produzione poetica contemporanea è a dir poco modesta; pubblicare un libro di poesia per una casa editrice è sempre più un’operazione controproducente. Il mercato musicale invece è in grande espansione ed è sempre più pervasivo all’interno società. Musicisti e cantautori vengono ormai visti come paradigmi culturali, tanto che ultimamente sempre più professori e manuali scolastici propongono analisi letterarie di canzoni d’autore. È indubbia la grande influenza che Bob Dylan ha avuto sul panorama culturale americano successivo, grandi scrittori inclusi, da David Foster Wallace ai nominati al Nobel Haruki Murakami e Don DeLillo. Il punto non è una presunta superiorità della poesia sul cantautorato o viceversa (discussione in Quando Sara Danius, segretaria dell’Accademia svedese, ha annunciato il vincitore del Premio Nobel per la letteratura 2016 per la sala si è sollevato un boato. Di giubilo o di sorpresa. Di sicuro l’assegnazione del prestigioso riconoscimento a Bob Dylan – all’anagrafe Robert Allen Zimmerman – sancisce un evento eccezionale, ovvero l’entrata a pieno diritto del cantautorato nell’albo della Letteratura con la L maiuscola. Erano vent’anni ormai che Dylan gravitava attorno alla lista dei papabili: da quando nel 1996 il professore Gordon Ball, docente di letteratura all’Università della Virginia, lo indicò all’Accademia Reale Svedese come meritevole del premio. Eppure l’annuncio ha preso tutti in contropiede, dividendo i commentatori tra favorevoli e contrari. Il mondo della musica ha da subito accolto la notizia con entusiasmo: da Guccini a De Gregori, da Mogol a Leonard Cohen fino a Bruce Springsteen, in molti hanno letto l’annuncio come una definitiva consacrazione della scrittura di canzoni quale attività pienamente letteraria. Ma apprezzamenti sono giunti anche da figure di spicco quali Salman Rushdie, Joyce Carol Oates, Tullio De Mauro e perfino dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama - “Congratulazioni a uno dei miei poeti preferiti, Bob Dylan, per un Nobel ben meritato”, ha scritto su Twitter -. Lawrence Ferlinghetti, editore e scrittore, tra i maggiori esponenti della Beat Generation, in un’ intervista a Repubblica non ha esitato a comparare il menestrello di Duluth ai grandi della letteratura beat: “Bob Dylan è un poeta, prima di ogni cosa. Lo è sempre stato. Ha scritto i migliori poemi surrealisti della nostra generazione. E, grazie alla musica, è riuscito a far arrivare la poesia dove non era mai arrivata, neanche con Ginsberg. L’Accademia di Svezia ha avuto grande coraggio per una scelta giusta e doverosa.” Non tutti però concordano di fronte questa parificazione tra canzone e letteratura, a partire da Alessandro Baricco, per il quale “che un drammaturgo vinca un premio alla letteratura ci sta, anche se in modo un po’ sghembo. Ma premiare Bob Dylan con il Nobel per la Letteratura è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa, allora anche gli architetti possono essere considerati poeti”. Critico anche Valerio Magrelli, poeta, scrittore e accademico:“molti applaudono, ma a Stoccolma, per me, è avvenuto uno scandalo che riapre la spinosa questione dei rapporti fra cantautori e autori di poesie, romanzi e teatro. Ingannare i lettori dando a un cantante la palma di scrittore è a mio parere imperdonabile”; mentre Irvin Welsh, autore scozzese di Trainspotting, è lapidario: “sono un fan di Dylan, ma questo è un premio nostalgia mal concepito strappato dalla prostata rancida di vecchi hippies balbettanti”. Una delle argomentazioni sostenute dai più perplessi è l’inscindibilità dei testi di Dylan dalla musica e dalla propria voce. Anna North, editorialista del New York Times scrive “Dylan è un paroliere brillante. Ha scritto un libro di poesia in prosa e un’autobiografia. Ed è possibile analizzare i suoi testi come una vera poesia. Ma la scrittura di Mr. Dylan è inseparabile dalla sua musica. Lui è grande perché è un grande musicista, e quando il comitato per il Nobel dà il premio letterario a un musicista, manca nell’onorare uno scrittore.” Allo 11 Come facciamo a renderci conto dei cambiamenti della lingua? Un metodo molto semplice, veloce nonché divertente è consultare i termini che ogni anno vengono inseriti nelle riedizioni dei dizionari, ecco qui una breve lista delle parole introdotte nello Zingarelli del 2016 della casa editrice Zanichelli… disposofobia: paura ossessiva di eliminare ogget- che entrano giornalmente nel parlato. acquaponica: per acquaponica si intende una tipologia di agricoltura mista ad allevamento sostenibile basata su una combinazione di acquacoltura ecoltivazione idroponica, ossia facendo crescere piante con le radici in acqua anziché nella terra. italofobia: atteggiamento di avversione, di odio nei confronti dell’Italia e degli italiani. Attenzione, si parla di un comportamento di cui si possono rendere protagonisti anche gli stessi italiani. supercazzola: parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l’interlocutore. bordocampista: diversi sono poi i termini emersi dal racconto televisivo dello sport. Primo tra questi il bordocampista. Il giornalista che, in genere nel calcio, tra le due panchine, commenta alcune fasi clou della partita come reazione degli allenatori ai gol, sostituzioni, collaborando con i telecronisti per il racconto del match. tiki-taka: nel calcio, tipo di gioco consistente in un insistito possesso palla basato su una serie di pas- saggi ripetuti. Gli appassionati di calcio sapranno che si tratta di un termine nato in relazione a Guardiola e al gioco espresso dal Barcellona, di cui l’ex giocatore è stato allenatore. sciarpata: coreografia dei tifosi di una squadra, che ondeggiano stendendo tra le mani la sciarpa del proprio team del cuore. Un esempio? Sintonizzatovi su una partita con grande affluenza, in alcuni settori potrete vedere una sciarpata durante l’inno della squadra o in alcuni momenti della partita. pentastellato: membro del Movimento 5 Stelle. Un partito politico italiano fondato a Genova il 4 ottobre 2009 dal comico e attivista politico Beppe Grillo e dall’imprenditore del web Gianroberto Casaleggio. I membri del partito hanno ufficialmente un termine in cui identificarsi. jihadista: utilizzato per chi stostiene la Jihad. Quasi superfluo ricordare il perché questo termine sia entrato nell’immaginario comune. Il racconto del terrore, da parte di notiziari e programmi televisivi, non può farne a meno. ◆◆ FRANCESCO PERUSIN ALTA UOTA ti, abiti ecc. e conseguente tendenza patologica ad accumularli. Molte donne scopriranno forse di esserne affette, vi capita mai di non voler mai buttare un vestito o un paio di scarpe vecchie continuando ad accumulare nuovi capi d’abbigliamento? svapare: fumare una sigaretta elettronica, emettendo il caratteristico vapore simile al fumo. Non si è ancora capito se le sigarette elettroniche facciano meno male, intanto il termine è entrato nella lingua parlata tanto da essere impressa nel vocabolario. bartender: colui che all’interno di un bar prepara e serve i cocktail. Un nuovo termine per un lavoro sempre più specifico che tende alla spettacolarizzazione. poltronismo: in politica, la preoccupazione di occupare poltrone, di ricoprire incarichi. Atteggiamento che diventa quasi un’ossessione. coding: programmazione di software per computer e web. In una società sempre più digitale, diversi sono i termini legati all’utilizzo dei computer Altrit em pi 12 A L T R I T E M P I Il Ricre a San Martino CERVIGNANO NOVEMBRE 2016 ~ PIAZZALE DEL DUOMO ~ ORE 16.00: apertura chiosco e pesca di beneficenza Musica dal vivo con “IMODIUM” e “PISSING BAD” ORE 18.00: apertura stand gastronomico ORE 20.30: musica dal vivo con i “THE CONCEPTUALS” e “MATTEO PELOI” SABATO 12 DOMENICA 13 ORE 10.00: apertura chiosco, stand gastronomico e pesca di beneficenza ORE 11.00: apertura stand delle associazioni parrocchiali ORE 15.00: spettacolo teatrale a cura della “Compagnia dei Genitori dei bimbi dell’Asilo Parrocchiale” ORE 17.00: KARAOKE di gruppo (chi desidera può portare la propria chitarra o altro strumento musicale per suonare in gruppo) ORE 20.30: musica dal vivo con gli “HARD RAIN” LUNEDÌ 14 a ent Pol inata !! cuc aiolo! p nel ORE 10.00: apertura chiosco, stand gastronomico e pesca di beneficenza ORE 19.30: musica dal vivo con i “RAM-RANDOM ACUSTIC MUSIC” STAND GASTRONOMICO con le nostre specialità Baccalà - trippe - gulasch - frico gnocchi di patate e di zucca - salsiccia con polenta piatto baby (wurstel, hamburger e patatine) dolci fatti in casa - castagne e ribolla e ancora la superba grigliata mista - panini caldi - patatine ANCHE PER ASPORTO !!! Birra er an Paul Baccalà trippe e gulasch AMPIA SALA AL COPERTO RISCALDATA con numerosi posti a sedere; all’interno puoi giocare alla PESCA DI BENEFICENZA Vi aspettiamo!!! ri rreatorio o Il ricavato della festa sarà interamente devoluto a favore delle attività del Ricreatorio San Michele. Gita-pellegrinaggio della parrocchia di Cervignano a Castelmonte, 1º maggio 1961. Archivio fotografico di Alcide Gratton. IMPARIAMO AD IMPARARE IL DOPOSCUOLA DEL RICRE (a partire dal 17 ottobre) PER I RAGAZZI DELLA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO LUNEDÌ e MERCOLEDÌ dalle 15.00 alle 17.30 attività in piccolo gruppo (1 educatore ogni 2/3 ragazzi) e/o individualizzate per lo svolgimento dei compiti, l’approfondimento e il ripasso PER I RAGAZZI DELLA SCUOLA PRIMARIA MARTEDÌ e VENERDÌ dalle 15.00 alle 17.30 svolgimento dei compiti in piccoli gruppi (1 educatore ogni 5 bambini) ALTA UOTA PER MAGGIORI INFO: Ufficio del Ricreatorio, vicino ai campi da gioco (dal lunedì al sabato dalle 15.00 alle 19.00) 0431 35233 (solo i pomeriggi) [email protected] www.ricre.org capocasale.pdf 15/02/2010 19.42.54 comelli.pdf 15/02/2010 13.46.30