La risoluzione europea sulle “SFIDE DEMOGRAFICHE E

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La risoluzione europea sulle “SFIDE DEMOGRAFICHE E
Lancio il mio sasso (e non nascondo la mano)
LA SFIDA DEMOGRAFICA CHIAMA UNA DONNA NUOVA
La risoluzione europea sulle “SFIDE DEMOGRAFICHE E SOLIDARIETÀ TRA LE
GENERAZIONI” affronta le questioni del decremento demografico, dell’invecchiamento della
popolazione europea e le strategie per affrontarle, come “sfida”, più che “problema”, ma in fondo si
tratta solo di una giravolta linguistica.
Il problema demografico comunque è finalmente entrato nelle preoccupazioni dei nostri politici. Si
cercano soluzioni, ci si interroga sulle ragioni.
Certo, si ha la netta sensazione di assistere all’affannosa chiusura della stalla quando i buoi sono già
scappati, ma dalle indicazioni dei pensatori europei si posso trarre interessanti considerazioni su cosa
significhi per loro la “questione demografica” (pardon, sfida) e sulla mentalità che ne è stata la causa.
L’Europa invecchia, si fanno meno figli. Perché? Perché ci sono problemi economici, manca stabilità
economica, donne e uomini non riescono a conciliare orari di lavoro e vita familiare, manca una
politica abitativa, non c’è abbastanza occupazione femminile, perché mancano servizi di assistenza
accessibili per le coppie che lavorano e i loro figli.
L’assemblea di Lisbona aveva posto come obbiettivo UE un’occupazione femminile al 70%. Per
questo fine si investe, si pianificano nidi, si argomenta che i paesi scandinavi , quelli con maggiore
occupazione femminile, sono anche i paesi con i tassi di natalità più alti.
E, d’altra parte, appare essenziale oggi, davanti al generale invecchiamento, l’ingresso in massa delle
donne nel mondo del lavoro: più produzione, più reddito, più consumi, più produzione…
L’equazione, la ricetta sembrano semplici.
Ma ci siano permessi alcuni “ma”, molti MA, e non poche obiezioni.
Innanzitutto ci sembra piuttosto riduttivo condurre la riflessione sul decremento della natalità su un
piano unicamente economico.
Le donne fanno meno figli oggi in una UE dove il tenore di vita e il livello dei servizi (salutealimentazione- trasporti- scuola…) è enormemente migliore rispetto a 50 anni fa, nei tempi neri della
guerra, ma nettamente migliore anche rispetto ai paesi africani dove i figli sono in media 7 per donna.
Non è certo un discorso meramente economico: le classi medie del nostro Paese spendono per un
figlio quanto basterebbe per tre.
Si tratta piuttosto di una reazione negativa a una percezione negativa del futuro. Un tempo si
pensava di offrire ai figli un mondo, condizioni migliori: oggi si teme, facendoli nascere, di
<<condannarli a morte>>.
Ma ancora, non si tratta solo di questo: c’è qualcosa di più. Nei paesi sub-sahariani una donna
diventa davvero tale quando diventa madre. Allora si prepara un corona di fango e sterco di vacca e
la sistema sulla testa, perché tutti sappiano e ne riconoscano il valore.
La donna madre è la donna pienamente realizzata.
Non bisogna essere sociologi per rendersi conto che nella nostra civiltà occidentale la donna-madre
non è più un valore.
Non si considera <<socialmente rewarding (gratificante?)>> l’essere madri in sé.
Essere lavoratrici, donne in carriera, persino baby-sitter, “produrre”, questo sì ha un valore per la
nostra società. Nessuno vi ha mai chiesto: <<ma tu non lavori?>> per poi commentare con un certo
disprezzo <<ah,beh, non lavori…>>?
Il lavoro domestico è entrato nell’immaginario collettivo come il più alienante, il meno gratificante, il
meno “utile”. Il meno socialmente riconosciuto. Una mia amica si è sentita dare della mantenuta.
L’essere madre di due bambini (nel suo caso), vestire, nutrire, educare, consolare, accudire, curare,
accompagnare a scuola, presenziare non è ritenuto lavoro degno. Quasi che l’unica possibilità per
una donna di realizzarsi sia un lavoro - un qualsiasi lavoro - esterno.
Chi “resta in casa tutto il giorno” può fare da se, non esiste, non ha diritti, non ha pensioni. Se si
ammala si arrangia, se aspetta un bambino pure, non ha nemmeno diritto al famoso nido, esiste solo
se “lavora”. Il lavoro non è più solo esigenza economica, ma garanzia di visibilità sociale.
Il problema alla radice, è chiaro, è una distorta, sbagliata considerazione del valore e della dignità
della donna. “Il lavoro rende liberi”, scrivevano i nazisti sui campi di concentramento.
Noi donne occidentali siamo vittime di grossi, enormi inganni. Ci hanno fatto credere che
rinunciando alla maternità (espressione ultima della femminilità) avremmo raggiunto la parità con
l’uomo, quella parità che secoli e secoli di storia ci avrebbero negato.
E così ci hanno portato via la nostra regalità, il nostro scettro, il nostro potere. La scienza sta
cercando di “eliminarci”, di fare a meno di noi. Ci illudono che persino il dolore sia evitabile, quel
dolore- del dare la vita- che ci dimostra la nostra forza. Saremo ridotte a corpi vuoti, completamente
inutili ma estremamente seducenti e produttivi nel ciclo del lavoro. Facciamo fantascienza, è chiaro.
Ma dobbiamo avere ben chiaro questo punto e insegnarlo alle nostre figlie. La parità è nei diritti
dell’anima, nella dignità umana che non ha sesso, ma l’uguaglianza, quella no: ci penalizza.
E penalizza ancora di più le donne latine che hanno uomini latini con educazione ben diverse da
quelli scandinavi. Può darsi che con il tempo anche presso i nostri uomini la cura della casa e della
figliolanza divenga sempre più condivisa, ma ci vorranno generazioni e impegno.
E intanto noi donne dovremo essere perfette nel lavoro, dove dobbiamo far carriera come gli uomini
(“stronze come uomini” cantava Vecchioni), in casa (perché volenti o nolenti la casa continua ad
essere su di noi), belle (femmine-tacco a spillo e giarrettiera) e palestrate perché non vorrai mica
lasciarti andare - amanti da copertina e… e madri? Beh, chi ce lo fa fare?
L’inganno dell’uguaglianza ci ha condotto verso una mascolinizzazione degli atteggiamenti, sul
lavoro e nei rapporti. Salvo poi ritrovarsi alle soglie dei 40 con un istintivo richiamo alla natura, alla
maternità, magari vissuto con grandi sensi di colpa, quasi fosse, anche questo, l’appagamento di uno
dei tanti desideri.
E’ il momento di dare una frenata a tutto ciò e rivedere profondamente il nostro modo di pensare.
Anni di femminismo esasperato non hanno reso migliore la donna, non ne hanno messo in luce la
reale dignità e l’autentico valore.
In questi anni solo la Chiesa ha cercato di contrastare l’opera di distruzione della figura femminile,
finendo così involontariamente a relegare l’argomento tra le “robe da chiesa”.
Ma ora sentiamo che sempre più donne hanno capito e vogliono dare voce a un diverso punto di
vista.
All’Unione Europea chiediamo di rivedere il discorso delle sfide demografiche in una chiave più
completa, culturale.
La questione demografica è un problema culturale, di una mentalità da ricostruire intorno alla dignità
della donna e della donna-madre. Una donna deve sentirsi libera anche da pressioni culturali di
formarsi una famiglia e crescerla personalmente, senza affidare a terzi, allo Stato, l’educazione e la
crescita dei propri figli, così come vuole la natura.
Bisogna riconoscere alle donne la valenza sociale del suo essere madre: i suoi figli saranno i cittadini
del domani, i suoi produttori, i suoi consumatori. Senza di loro la nostra società si inceppa e si ferma.
Una volta riconosciutone il valore - e badate bene, NON a discapito di chi non può, non vuole, non
riesce o semplicemente non si sente di procreare, ma CON loro e anche PER loro, nel pieno,
reciproco rispetto, potremo affrontare una politica economica che “premia” la lavoratrice con
maternità retribuite, pensionamenti, forme assicurative, congedi parentali. E, a chi sceglie di dedicarsi
totalmente alla famiglia, il rispetto, la considerazione e il supporto, anche economico, integrativo,
facilitando nel contempo forme di creatività e autoimprenditorialità che ci sono consone.
Certo, ci rendiamo conto che è molto più facile e immediato aprire 100, 1000 asili nido, ma è solo
affrontando il problema alla radice che potremo sperare di risolverlo.