Rassegna stampa 1 aprile 2016
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Rassegna stampa 1 aprile 2016
RASSEGNA STAMPA di venerdì 1 aprile 2016 SOMMARIO Su Avvenire riecheggiano oggi le parole di don Andrea Santoro, il sacerdote ucciso ormai più di dieci anni fa in Turchia nell’antica Trebisonda: “Europa e Medio Oriente (Turchia compresa, anche se è un caso a sé), Cristianesimo e Islam devono parlare di sé stessi, della propria storia passata e recente, del modo di concepire l’uomo e di pensare la donna, della propria fede. Devono confrontarsi sull’immagine che hanno di Dio, della religione, del singolo individuo, della società, su come coniugano il potere di Dio e i poteri dello Stato, i doveri dell’uomo davanti a Dio e i diritti che Dio, per grazia, ha conferito alla coscienza umana. Devono confrontarsi su cosa intendono per 'vita', 'famiglia', 'futuro', 'progresso', 'benessere', 'pace', sul senso che danno al dolore e alla morte, su cosa voglia dire che i popoli sono molti ma l’umanità è una, che la terra è divisa in nazioni territoriali ma tutta intera è una casa comune. Bisogna che accettino di fare a voce alta un esame di coscienza, senza timore di rivedere il proprio passato. Devono aiutarsi anzi a vicenda a purificare il proprio passato e la propria memoria. Solo dall’umiltà davanti alle proprie colpe e dalla misericordia davanti alle colpe dell’altro può nascere una riconciliazione fatta di reciproca 'assoluzione'»... «Io credo che ognuno di noi dentro di sé possa diminuire la lontananza tra questi mondi. È a partire dallo sguardo di Cristo e dall’amore del Padre che lo ha inviato a tutti i suoi figli, che possiamo riscoprire vicini quanti sentiamo lontani. Come Gesù ci portava tutti dentro di sé, sui peccati di tutti versava il suo sangue e tutti ci sentiva pecore dell’unico suo gregge così noi possiamo dilatare il nostro cuore. Questo non ci impedirà di annunciare chiaramente e per intero il vangelo e di agire in totale conformità ad esso. Al contrario, ce lo farà sentire un debito e un dovere. Ma ce lo farà fare col cuore di Gesù sulla croce, spalancato dall’amore e aperto dalla lancia, non con i sentimenti duri di chi ha sempre un 'avversario' davanti. Gesù ha avuto forse avversari? O li ha Dio? E anche chi lo pensa non può essere sentito da noi come un 'avversario'»… «Seguo le vicende più note del Medio Oriente ma anche quelle meno note di paesi dove cristiani e musulmani vivono gomito a gomito. Due cose trovo entrambe riprovevoli: imporre il proprio potere economico, militare e politico e imporre il proprio predominio religioso calpestando libertà di coscienza e di espressione. Sono due pretese che si scontrano. A volte si sommano negli stessi individui. Il risultato è pauroso perché tende a sottomettere o a cancellare l’altro, con ogni mezzo. Dio, anche se invocato, in realtà è vilipeso perché chi schiaccia, soffoca o uccide non può agire in nome di quel Dio che è Dio di tutti gli uomini e che chiama ognuno all’adesione libera del cuore e dell’intelligenza. La Turchia è un po’ un caso a sé, possibile trainer positivo per altri paesi. Ma altri passi l’aspettano ancora da compiere. Spesso pesano paure, sospetti, esitazioni, ambiguità. Che Dio la illumini perché prosegua in avanti. Ci sono mutamenti profondi che Dio chiama tutti noi a compiere e c’è un aiuto grande che ci chiama a dare per aiutare l’uomo e le comunità umane in questo cambiamento. Se l’occidente impone spesso i propri interessi di parte, i paesi musulmani negano spesso, nei fatti, il pieno diritto di essere cristiano o di diventarlo, di cercare liberamente la verità e di manifestarla. Non può chiedere per sé in occidente quello che nega per gli altri in oriente. Imporre o soffocare non è degno né di Dio né dell’uomo. Spesso l’occidente ignora questo diritto in cambio di interessi economici o vantaggi politici. Si tratta di una problematica scottante. Ma la realtà è che spesso il potere, sotto qualunque forma si presenti, politica o religiosa, serve solo se stesso o il bene di alcuni a danno di altri. È la paura di dare all’altro ciò che si reclama per sé. Una strana paura che arma le mani e il cuore. Diceva S. Paolo: 'La carità non cerca il suo interesse'. Gesù parlava di una felicità nel dare più che nel ricevere, nel servire più che nell’essere serviti. È la felicità di amare, che è la felicità di Dio stesso perché, come dice S. Giovanni, 'Dio è Amore'. Questa felicità va praticata, anche se solo a gocce. E va insegnata»… «...credo che mentre sia giusto e doveroso che ci si rallegri dei buoni pensieri, delle buone intenzioni, dei buoni comportamenti e dei passi in avanti, ci si deve altrettanto convincere che nel cuore dell’Islam e nel cuore degli stati e delle nazioni dove abitano prevalentemente musulmani debba essere realizzato un pieno rispetto, una piena stima, una piena parità di cittadinanza e di coscienza. Dialogo e convivenza non è quando si è d’accordo con le idee e le scelte altrui (questo non è chiesto a nessun musulmano, a nessun cristiano, a nessun uomo) ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spirituale, quando a ognuno è dato di poterlo esprimere, testimoniare e immettere nella vita pubblica oltre che privata. Il cammino da fare è lungo e non facile. Due errori credo siano da evitare: pensare che non sia possibile la convivenza tra uomini di religione diversa oppure credere che sia possibile solo sottovalutando o accantonando i reali problemi, lasciando da parte i punti su cui lo stridore è maggiore, riguardino essi la vita pubblica o privata, le libertà individuali o quelle comunitarie, la coscienza singola o l’assetto giuridico degli Stati... In questo cuore nello stesso tempo 'luminoso', 'unico' e 'malato' del Medio Oriente è necessario entrare: in punta di piedi, con umiltà, ma anche con coraggio. La chiarezza va unita all’amorevolezza. Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere 'signori' della casa, a farsi ultimo per risultare primo, in un vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina col potere, è un vantaggio da non perdere. È un 'vantaggio' che può sembrare 'svantaggioso' e perdente e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo»” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Come limone e mirto di Nicola Gori Il cardinale Amato parla della misericordia nella vita dei santi AVVENIRE Pag 3 Nelle lettere dalla Turchia il “sogno” di don Santoro di Maddalena Santoro La sorella propone una rilettura a dieci anni dal martirio. Umiltà e coraggio per entrare nel cuore del Medio Oriente Pag 23 Sinodo, la famiglia è “gioia dell’amore” di Luciano Moia E’ il titolo dell’Esortazione del Papa che sarà resa nota venerdì prossimo CORRIERE DELLA SERA Pag 21 “Non me ne vado, io qui ci lavoro. E 30 cardinali hanno case più grandi” di Gian Guido Vecchi e Virginia Piccolillo Intervista all’arcivescovo. Attico di Bertone, il Vaticano apre un’inchiesta LA REPUBBLICA Pagg 20 – 21 Inchiesta sull’attico di Bertone. “Io inchiodato alla croce” di Corrado Zunino e Paolo Rodari La linea dura del Papa: “Dall’ultimo usciere al segretario di Stato basta con i privilegi” WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT "Francesco ci spaventa enormemente, e non solo noi. Eppur ci piace" di Sandro Magister La sorprendente analisi dell'enigma Francesco fatta dal superiore generale della Fraternità San Pio X, Bernard Fellay. Con il resoconto delle visite di un cardinale e di tre vescovi, inviati segretamente da Roma 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 7 L’eterna lotta ai “cocai” (che ora sono più furbi) di Martina Zambon Venezia vittima dei gabbiani Pag 10 Alla scoperta della Basilica con video e percorsi 3D: “Più costi per il Giubileo” di G.B. Il bilancio della Procuratoria … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’illusione dello Stato trasparente di Ferruccio de Bortoli Una legge imperfetta Pag 1 Una decisione che non aveva alternative di Antonio Polito Guidi si dimette, caso nel governo LA REPUBBLICA Pag 1 L’incendio morale sul referendum di Stefano Folli LA STAMPA La strada dritta per una scelta obbligata di Federico Geremicca Le dimissioni della ministra dimissionaria per lo Sviluppo economico AVVENIRE Pag 1 Oltre le amare sentenze di Andrea Lavazza La Corte dell’Aja e i crimini nei Balcani LA NUOVA Pag 1 Il governo e gli schizzi di petrolio di Roberta Carlini Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Come limone e mirto di Nicola Gori Il cardinale Amato parla della misericordia nella vita dei santi Alla vigilia della festa della divina misericordia, istituita da Giovanni Paolo II nel 2000 e celebrata nella seconda domenica di Pasqua, è quanto mai attuale il ricordo dei santi che l’hanno interpretata nel loro vissuto quotidiano. A cominciare da suor Faustina Kowalska, che ricevette da Cristo i segreti della devozione alla misericordia divina, fino a madre Teresa di Calcutta, che la rese tangibile con i suoi gesti di carità. Ne parla il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, in questa intervista al nostro giornale. La misericordia è solo un atteggiamento filantropico o è una dimensione costitutiva della santità? Nella cultura cristiana la parola misericordia ha molti significati e può indicare carità, bontà, perdono. Essa include anche una molteplicità di gesti, che la tradizione ha concretizzato in quattordici comportamenti pratici, le cosiddette opere di misericordia corporale e spirituale. Si tratta di manifestazioni che sin dall’inizio hanno caratterizzato i seguaci di Gesù, non rare volte in contrasto con una certa cultura del tempo, che riteneva la compassione, la pietà come una debolezza umana. Gli stoici, per esempio, la consideravano una malattia dell’anima, che turberebbe la pace del saggio. Bisogna, tuttavia, aggiungere che questo non impediva a Cicerone di giudicare la misericordia un segno di saggezza «proprio dell’uomo buono» e di condannare come assurda la concezione stoica. La misericordia cristiana, però, non è solo espressione filantropica, ma ha profonde radici teologiche. Misericordioso è la qualifica del nome stesso di Dio, così come fu rivelato a Mosè: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà». Questa traccia preziosa della bontà divina si afferma pienamente nella rivelazione neotestamentaria di Dio come amore. Il Magnificat di Maria è il canto della misericordia divina, che di generazione in generazione si stende su quelli che lo temono. Come i santi hanno interpretato la misericordia divina? Se la misericordia è l’amore appassionato di Dio per le sue creature, essa esprime anche la carità intensa del santo verso il prossimo. Per Tommaso d’Aquino la virtù della misericordia è in armonia con la giustizia, la quale senza misericordia sarebbe crudeltà. In accordo col dato biblico, l’Aquinate afferma che è proprio di Dio avere misericordia. Per cui essere misericordiosi è mostrarsi autentici figli Dio: «Siate misericordiosi come è misericordioso il vostro Padre celeste». I santi hanno profumato la storia con il balsamo della misericordia. Nella festa ebraica di Sukkot - o festa delle Capanne - c’è il seguente rito. Si legano quattro piante: limone, mirto, salice e palma. Strette insieme, la fragranza del limone e del mirto si trasmette anche alle altre due piante non profumate. E così il profumo si quadruplica. La misericordia, come profumo di carità, è cioè effusiva e sovrabbondante. In tal modo la fragranza delle buone opere dei santi contagia beneficamente la debolezza e la fragilità umana. Ci sono santi particolarmente segnati dalla misericordia? Essa tocca trasversalmente tutti i santi e qualifica al meglio il loro eroismo virtuoso. Se vogliamo fare qualche nome, citerei per esempio madre Teresa di Calcutta, che sarà canonizzata il 4 settembre, universalmente conosciuta come la donna della immensa compassione verso i poveri, gli emarginati, gli ammalati, tutti coloro cioè che vengono chiamati gli scarti dell’umanità. Per questo fondò la congregazione delle missionarie della carità, per testimoniare nella concretezza delle opere la presenza della misericordia divina nelle cosiddette periferie del mondo. Madre Teresa rivelò il segreto del suo cuore misericordioso in un colloquio con un giovane sacerdote, Angelo Comastri, oggi cardinale. In un incontro fortuito, la suora gli chiese a bruciapelo: «Quante ore preghi ogni giorno?». Il sacerdote, sorpreso, si aspettava un richiamo alla carità e un invito ad amare di più i poveri. Invece la madre gli chiedeva quante ore pregava. Poi prendendogli le mani tra le sue disse: «Figlio mio, senza Dio siamo troppo poveri per potere aiutare i poveri! Ricordati: io sono soltanto una povera donna che prega. Pregando, Dio mi mette il suo amore nel cuore e così posso amare i poveri. Pregando!». Per lei la misericordia profluiva come pioggia dal cielo dall’unione con Dio nella preghiera. Dopo aver ritirato nel 1979 il premio Nobel, nel suo viaggio di ritorno da Oslo, madre Teresa si fermò a Roma. I giornalisti si precipitarono a intervistarla e lei li accolse pazientemente mettendo nella mano di ciascuno una piccola medaglia dell’Immacolata. A un giornalista che le manifestò la convinzione che dopo la sua morte il mondo sarebbe stato lo stesso come prima, pieno di cattiveria, ella rispose con semplicità: «Vede, io non ho mai pensato di poter cambiare il mondo! Ho cercato soltanto di essere una goccia di acqua pulita, nella quale potesse brillare l’amore di Dio. Le pare poco?». Poi, nel silenzio commosso dei giornalisti continuò: «Cerchi di essere anche lei una goccia pulita e così saremo in due. È sposato?». «Sì, madre». «Lo dica anche a sua moglie, così saremo in tre. Ha dei figli?». «Tre figli, madre». «Lo dica anche ai suoi figli, così saremo in sei...». Insomma invitava al contagio benefico della misericordia. Altri esempi? Si potrebbero citare i santi ospedalieri, come Giovanni di Dio, Camillo de’ Lellis, che hanno fatto della misericordia il programma del loro apostolato a favore degli ammalati; i santi della carità, come Vincenzo de’ Paolis, Massimiliano Kolbe, Faustina Kowalska; i santi educatori della gioventù, come Giovanni Bosco. Qui vorrei ricordare Giovanni Paolo II, il Papa che, a partire dal 2000, celebrò la II domenica di Pasqua come domenica della Divina misericordia. È il Pontefice che, con l’enciclica Dives in misericordia del 30 novembre 1980, ha spalancato la finestra sul paradiso, rivelandoci il volto del Padre, ricco di misericordia verso tutti. Ma la galleria dei santi maestri di misericordia non si ferma ai pochi che abbiamo citato. Tutti i santi sono toccati dalla misericordia divina, diventandone ministri. Tutti sono figli della Madre della misericordia, capolavoro della misericordia divina. Nell’indire l’anno giubilare della misericordia Papa Francesco afferma di Maria: «Ha custodito nel suo cuore la divina misericordia in perfetta sintonia con il suo Figlio Gesù». È lei che, con senso materno, forma i fedeli all’esercizio della misericordia, educandoli a viverla mediante le opere di misericordia corporale e spirituale. Infine, sono molte le congregazioni religiose maschili e femminili segnate dal carisma della misericordia. In quest’anno giubilare esse ne diffondono il profumo nel mondo intero, soprattutto nel cuore dei piccoli e dei tanti bisognosi del mondo. A cosa serve canonizzare i santi? Fin dai primi secoli la Chiesa ha celebrato i martiri e i santi come eroi del Vangelo, che con la loro vita virtuosa e la loro testimonianza martiriale hanno mostrato la bellezza della sequela di Gesù, il primo martire e il tre volte santo. A tale riguardo possiamo ricordare che il numero dei martiri dei primi tre secoli oscilla, nelle testimonianze degli storici, tra diecimila e centomila, anche se non manca chi fa crescere notevolmente quest’ultima cifra. Non è neanche possibile fissare con precisione il numero dei santi canonizzati tra il III e l’VIII secolo in base alla vox populi o al sensus fidelium e alla comune opinio sanctitatis, anche tenuto conto del fatto che, fino al secolo XIII, era in vigore la canonizzazione vescovile. In ogni caso per avere una prima informazione sul nome dei santi, si potrebbero enumerare quelli elencati nell’editio typica del 2001 del Martyrologium romanum. Come si vede, si canonizza un servo di Dio, a motivo sia della santità della sua vita virtuosa sia della testimonianza del suo martirio. Proponendolo alla venerazione dei fedeli, la Chiesa afferma che, in quanto amico di Dio, il santo diventa intercessore di grazie e di favori celesti per i fedeli ancora pellegrini sulla terra. I santi sostengono la Chiesa nella sua continua lotta contro il male e, allo stesso tempo, ossigenano la società con l’aria pura della loro bontà e della loro carità misericordiosa. AVVENIRE Pag 3 Nelle lettere dalla Turchia il “sogno” di don Santoro di Maddalena Santoro La sorella propone una rilettura a dieci anni dal martirio. Umiltà e coraggio per entrare nel cuore del Medio Oriente Alla luce di quanto accade in questi mesi in Europa, e da più tempo in Medio Oriente, molti di noi che conoscono le Lettere dalla Turchia di don Andrea Santoro, per averle ricevute quando era ancora in vita, o averle lette dopo la sua morte, hanno sentito riecheggiare le parole profetiche di quelle pagine... e hanno avvertito il bisogno di 'rileggerle' con attenzione e 'divulgare' i sentimenti di Pastore di don Andrea che possono aiutarci a comprendere questi due mondi così vicini e così distanti... Il 28 ottobre 2005 scrive da Trabzon: «Voi e la Turchia: chi mi avrebbe detto anni fa che avrei unito nel mio cuore amori così distanti? Voi e il Medio Oriente: chi mi avrebbe detto che avrei 'portato in grembo', come si dice di Rebecca, due 'figli' che 'cozzano tra di loro' (Gen. 25,22), pur essendo fratelli nello stesso Abramo? Una madre sa che i suoi figli non si dividono in lei anche se sono divisi tra loro. Così accade anche a me. Avverto in me motivi per amare e gli uni e gli altri, motivi per tenerli serrati nello stesso 'calice' e radunati ai piedi della stessa croce». E proprio perché pastore (padre) don Andrea parlava con amorevolezza e chiarezza agli uni e agli altri... così continua nella sua lettera: «Ma avverto anche delle lontananze tra loro, pur corrette, ma a volte solo camuffate, da dichiarazioni di amicizia, di rispetto e di collaborazione, a volte invece davvero lenite da sforzi sinceri fatti da più parti per capirsi, accettarsi, offrire ognuno il proprio patrimonio e scoprire quello dell’altro... Europa e Medio Oriente (Turchia compresa, anche se è un caso a sé), Cristianesimo e Islam devono parlare di sé stessi, della propria storia passata e recente, del modo di concepire l’uomo e di pensare la donna, della propria fede. Devono confrontarsi sull’immagine che hanno di Dio, della religione, del singolo individuo, della società, su come coniugano il potere di Dio e i poteri dello Stato, i doveri dell’uomo davanti a Dio e i diritti che Dio, per grazia, ha conferito alla coscienza umana. Devono confrontarsi su cosa intendono per 'vita', 'famiglia', 'futuro', 'progresso', 'benessere', 'pace', sul senso che danno al dolore e alla morte, su cosa voglia dire che i popoli sono molti ma l’umanità è una, che la terra è divisa in nazioni territoriali ma tutta intera è una casa comune. Bisogna che accettino di fare a voce alta un esame di coscienza, senza timore di rivedere il proprio passato. Devono aiutarsi anzi a vicenda a purificare il proprio passato e la propria memoria. Solo dall’umiltà davanti alle proprie colpe e dalla misericordia davanti alle colpe dell’altro può nascere una riconciliazione fatta di reciproca 'assoluzione'». ...e pensava a quanto potessimo fare noi... «Io credo che ognuno di noi dentro di sé possa diminuire la lontananza tra questi mondi. È a partire dallo sguardo di Cristo e dall’amore del Padre che lo ha inviato a tutti i suoi figli, che possiamo riscoprire vicini quanti sentiamo lontani. Come Gesù ci portava tutti dentro di sé, sui peccati di tutti versava il suo sangue e tutti ci sentiva pecore dell’unico suo gregge così noi possiamo dilatare il nostro cuore. Questo non ci impedirà di annunciare chiaramente e per intero il vangelo e di agire in totale conformità ad esso. Al contrario, ce lo farà sentire un debito e un dovere. Ma ce lo farà fare col cuore di Gesù sulla croce, spalancato dall’amore e aperto dalla lancia, non con i sentimenti duri di chi ha sempre un 'avversario' davanti. Gesù ha avuto forse avversari? O li ha Dio? E anche chi lo pensa non può essere sentito da noi come un 'avversario'». Nel novembre del 2003 aveva scritto da Trabzon/Urfa-Harran: «Seguo le vicende più note del Medio Oriente ma anche quelle meno note di paesi dove cristiani e musulmani vivono gomito a gomito. Due cose trovo entrambe riprovevoli: imporre il proprio potere economico, militare e politico e imporre il proprio predominio religioso calpestando libertà di coscienza e di espressione. Sono due pretese che si scontrano. A volte si sommano negli stessi individui. Il risultato è pauroso perché tende a sottomettere o a cancellare l’altro, con ogni mezzo. Dio, anche se invocato, in realtà è vilipeso perché chi schiaccia, soffoca o uccide non può agire in nome di quel Dio che è Dio di tutti gli uomini e che chiama ognuno all’adesione libera del cuore e dell’intelligenza. La Turchia è un po’ un caso a sé, possibile trainer positivo per altri paesi. Ma altri passi l’aspettano ancora da compiere. Spesso pesano paure, sospetti, esitazioni, ambiguità. Che Dio la illumini perché prosegua in avanti. Ci sono mutamenti profondi che Dio chiama tutti noi a compiere e c’è un aiuto grande che ci chiama a dare per aiutare l’uomo e le comunità umane in questo cambiamento. Se l’occidente impone spesso i propri interessi di parte, i paesi musulmani negano spesso, nei fatti, il pieno diritto di essere cristiano o di diventarlo, di cercare liberamente la verità e di manifestarla. Non può chiedere per sé in occidente quello che nega per gli altri in oriente. Imporre o soffocare non è degno né di Dio né dell’uomo. Spesso l’occidente ignora questo diritto in cambio di interessi economici o vantaggi politici. Si tratta di una problematica scottante. Ma la realtà è che spesso il potere, sotto qualunque forma si presenti, politica o religiosa, serve solo se stesso o il bene di alcuni a danno di altri. È la paura di dare all’altro ciò che si reclama per sé. Una strana paura che arma le mani e il cuore. Diceva S. Paolo: 'La carità non cerca il suo interesse'. Gesù parlava di una felicità nel dare più che nel ricevere, nel servire più che nell’essere serviti. È la felicità di amare, che è la felicità di Dio stesso perché, come dice S. Giovanni, 'Dio è Amore'. Questa felicità va praticata, anche se solo a gocce. E va insegnata». Il 22 gennaio 2006, pochi giorni prima di essere ucciso nella chiesa di Santa Maria a Trabzon (5 febbraio 2006), scrive: «... credo che mentre sia giusto e doveroso che ci si rallegri dei buoni pensieri, delle buone intenzioni, dei buoni comportamenti e dei passi in avanti, ci si deve altrettanto convincere che nel cuore dell’Islam e nel cuore degli stati e delle nazioni dove abitano prevalentemente musulmani debba essere realizzato un pieno rispetto, una piena stima, una piena parità di cittadinanza e di coscienza. Dialogo e convivenza non è quando si è d’accordo con le idee e le scelte altrui (questo non è chiesto a nessun musulmano, a nessun cristiano, a nessun uomo) ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spirituale, quando a ognuno è dato di poterlo esprimere, testimoniare e immettere nella vita pubblica oltre che privata. Il cammino da fare è lungo e non facile. Due errori credo siano da evitare: pensare che non sia possibile la convivenza tra uomini di religione diversa oppure credere che sia possibile solo sottovalutando o accantonando i reali problemi, lasciando da parte i punti su cui lo stridore è maggiore, riguardino essi la vita pubblica o privata, le libertà individuali o quelle comunitarie, la coscienza singola o l’assetto giuridico degli Stati... In questo cuore nello stesso tempo 'luminoso', 'unico' e 'malato' del Medio Oriente è necessario entrare: in punta di piedi, con umiltà, ma anche con coraggio. La chiarezza va unita all’amorevolezza. Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere 'signori' della casa, a farsi ultimo per risultare primo, in un vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina col potere, è un vantaggio da non perdere. È un 'vantaggio' che può sembrare 'svantaggioso' e perdente e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo». Pag 23 Sinodo, la famiglia è “gioia dell’amore” di Luciano Moia E’ il titolo dell’Esortazione del Papa che sarà resa nota venerdì prossimo Per il titolo della nuova Esortazione postsinodale il Papa aveva pensato ad Amoris gaudium. Poi gli hanno fatto notare che il richiamo all’Evangelii gaudium sarebbe stato troppo diretto e si sarebbe anche rischiato di far confusione. Così il nome del nuovo documento sulla famiglia, che farà sintesi del lungo percorso sinodale e che sarà presentato venerdì prossimo, 8 aprile, sarà Amoris laetitia. Suggerita anche la traduzione italiana, 'La gioia dell’amore', al di là di ogni sottigliezza lessicale, a sottolineare che la 'vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo' – il titolo dell’assemblea dei vescovi – è innanzi tutto fondata sull’amore di coppia aperto alla fecondità e fondato su un impegno indissolubile. E che questo amore, per essere davvero richiamo immediato al mistero trinitario come prospettato dalla teologia nuziale, dev’essere vissuto nell’impegno gioioso che parla di attesa, di misericordia, di speranza, di condivisione. Insomma, la nuova magna charta della famiglia, 35 anni dopo la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, si presenta già nel titolo con uno sguardo che appare più sorridente e meno legalitario. Le sue circa 100 pagine, con 124 paragrafi, appaiono segnate da un più inteso slancio verso la bellezza dell’amore e meno preoccupate di elencare indicazioni normative. Che non vuol dire accantonare il magistero precedente, anzi, ma adeguare saggiamente teologia e pastorale familiare alle esigenze di una realtà che negli ultimi quattro decenni ha conosciuto profonde variazioni culturali, con nuovi modelli antropologici, nuovi stili di vita, nuove concrete esigenze imposte, tra l’altro, dalla crisi economica, dalla globalizzazione, dall’emergenza ambientale, dall’immigrazione e da tanto altro ancora. Pensare che la Chiesa potesse continuare a rivolgersi alle famiglie ignorando la complessità del mondo contemporaneo, significava ignorare la forza propulsiva del Vangelo e l’attenzione pastorale di papa Francesco. I due questionari che hanno preceduto le assemblee sinodali del 2014 e del 2015 hanno cercato proprio di intercettare richieste, necessità, speranze, ma anche lamentele, disagi e domande provenienti dalle comunità di tutto il mondo. Un intreccio robusto di vita concreta e di auspici spirituali, di concretezza e di sguardo fiducioso sulla fede che hanno trovato sintesi efficace nelle due Relazioni finali, quella di due anni fa e quella dell’ottobre scorso. Pensare che il nuovo documento firmato da Francesco nella festa di san Giuseppe possa segnare un distacco netto da quanto emerso nel doppio Sinodo, si- gnifica dimenticare due aspetti decisivi di questa intensa e sorprendente stagione sinodale. Non solo il Papa ha seguito, passo dopo passo, l’intero dibattito in Aula, ha ascoltato le riflessioni, profonde e originali, vivaci e talvolta non proprio pacate, dei padri sinodali. Ma soprattutto è stato Francesco stesso a decidere l’immediata pubblicazione dei due testi. Scelta di trasparenza ma anche di evidente condivisione. Immaginare che l’Esortazione apostolica prenda spunto da quella stessa traccia è fin troppo facile. Come si può altrettanto facilmente ipotizzare che le indicazioni contenute nella Amoris laetitia finiranno per rappresentare una sorta di terzo capitolo, grande, organico e conclusivo dopo i primi due compilati nelle assemblee sinodali 2014-2015. Non ci sarebbe da stupirsi neppure se l’impianto dell’Esortazione seguisse lo stesso schema della Relatio finalis 2015, almeno per quanto riguarda i temi toccati. Il cuore della riflessione – e anche in questo caso la previsione non è difficile – dovrebbe rimanere la centralità dell’amore di Cristo, perno della creazione. La luce del suo amore illumina ogni uomo e ogni donna che danno forma all’amore familiare. E, proprio perché emanazione della gioia che deriva da questo amore, anche quello coniugale non può che risultare colmo di gioia e di letizia. Il compimento di quell’alleanza trova fondamento nel sacramento del matrimonio indissolubile, ma – come già emerso dalla Relazione sinodale – non esclude altre forme, come le convivenze, che devono trovare ancora piena realizzazione. Oppure che devono essere accompagnate lungo una via discretionis di verifica e perdono, come i divorziati risposati. Un percorso che richiede gradualità, pazienza e amore, soprattutto quando si tratta di abbracciare e recuperare le tante fragilità causate da un impoverimento di quell’amore. Ecco perché le parole chiave del nuovo testo di Francesco rimangono accoglienza, misericordia, accompagnamento, integrazione. Uno slogan? Se parlassimo di 'unità dottrinale nella pluralità pastorale' non dovremmo essere troppo lontani dallo spirito autentico del testo. Certo, l’ampliamento della riflessione è stato inevitabile. I punti trattati, come detto, sono stati 124, rispetto ai 94 punti del documento finale dell’ottobre scorso. Più che raddoppiate anche le pagine. Ma questo non vuol dire che dovremo attenderci risposte preconfezionate rispetto alle varie situazioni familiari. Il Papa indicherà piuttosto un nuovo atteggiamento di fondo in uno spirito di riconciliazione allargato che, nell’anno giubilare, non potrà che essere segnato dall’abbraccio della misericordia. Il documento sulla famiglia, che farà il punto sui due Sinodi 2014-2015 sarà presentato venerdì prossimo, 8 aprile, in Vaticano. Lo ha riferito padre Federico Lombardi. Ad illustrare i contenuti del nuovo testo – esce in italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo e portoghese – saranno il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi, il cardinale Cristoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, e i coniugi Giuseppina e Franco Miano. Una presenza quasi doverosa la loro, non solo perché parlando di matrimonio e di famiglia sarebbe stato curioso non offrire il punto di vista di due sposi, ma anche perché i Miano sono stati l’unica coppia di coniugi presenti come 'esperti', sia nell’assemblea straordinaria di due anni fa, sia lo scorso ottobre. Non sorprende neppure la scelta di puntare sul cardinale Schönborn, teologo raffinato, che tra l’altro, durante il Sinodo, all’interno del gruppo linguistico tedesco, ha svolto un ruolo decisivo come mediatore tra i cosiddetti 'innovatori' e i 'tradizionalisti'. Il risultato è stato quello di aver offerto un contributo teologico di grande rilievo, significativo anche nell’economia della Relatio finalis. Proprio un altro cardinale tedesco, Walter Kasper, aveva già definito il nuovo documento «il più importante dell’ultimo millennio» e aveva sottolineato che dal testo, pure se «a piccoli passi», ci sono da attendersi «aperture, nel solco della misericordia». Un documento coerente con il magistero della Chiesa, invece, secondo il prefetto della Casa Pontificia, l’arcivescovo Georg Gänswein che nei giorni scorsi, in un’intervista a Deutsche Welle, aveva detto che, a suo modo di vedere, l’Esortazione postsinodale continuerà sulla strada tracciata dai predecessori di Francesco. CORRIERE DELLA SERA Pag 21 “Non me ne vado, io qui ci lavoro. E 30 cardinali hanno case più grandi” di Gian Guido Vecchi e Virginia Piccolillo Intervista all’arcivescovo. Attico di Bertone, il Vaticano apre un’inchiesta Città del Vaticano. Eminenza, sono anni che la accusano per questo appartamento. Non le è mai venuta voglia di lasciarlo, andarsene altrove e buonanotte? «Guardi, fosse per me potevo pure tornarmene al mio paese, però qui ho ancora del lavoro, del resto sono quarant’anni che presto servizio in Vaticano, e poi sarebbe come dargliela vinta a tutti quelli che mi attaccano, agli avversari che vogliono solo quello...». Il cardinale Tarcisio Bertone, di là dall’«amarezza» per «le calunnie contro di me», non ha intenzione di arretrare d’un millimetro. Tramite il suo avvocato, Michele Gentiloni Silveri, ha subito diffuso un comunicato per spiegare la sua versione. E ora scandisce: «La stessa lettera che pubblica l’Espresso non è contro di me ma a mio favore: conferma la mia versione dei fatti». Dalla lettera che ha scritto a Profiti, si dedurrebbe che lei sapeva che la Fondazione Bambino Gesù si stava muovendo per pagare la ristrutturazione... «No, al contrario si esclude ogni coinvolgimento economico della Fondazione. Lo scrivo esplicitamente: se si trovano contributi di “terzi”, dei benefattori, va bene, ma assolutamente nulla deve essere a carico della Fondazione. Nella lettera è molto chiaro. Io stesso ho cercato benefattori che pagassero la ristrutturazione di un appartamento che, lo ricordo, non è mio ma di proprietà del Governatorato. Poiché non se ne sono trovati, ho pagato di tasca mia, e salato, con i miei risparmi». Lei disse di aver versato 300 mila euro... «Proprio così, secondo le fatture che mi aveva mandato il Governatorato. Solo dopo sono saltati fuori pagamenti ulteriori, si parlava di duecentomila e adesso vedo che sarebbero addirittura 422 mila euro, più del doppio. Di queste manovre, di questa filiera di pagamenti io non sapevo assolutamente nulla. Leggo di fatturazioni fuori dall’Italia, è stranissimo che si combini una manovra simile...». E la donazione di 150 mila euro che ha fatto più tardi, a dicembre, al Bambino Gesù? «Considerato il danno provocato da altri, ho voluto fare una donazione volontaria per sostenere la ricerca sulle malattie rare. È vergognoso che alcuni continuino a parlare di “risarcimento”. Io non ho restituito nulla perché non ho rubato nulla. La presidente dell’ospedale ha riconosciuto la mia estraneità, il cardinale Parolin ha detto che la questione è risolta. Saranno altri se mai a dover rispondere, io non sono sotto indagine». Però questa faccenda finisce per toccare anche lei, no? «Mi pare una manovra evidente per distogliere l’attenzione dal processo VatiLeaks. Che altro motivo ci sarebbe per uscire adesso? Bertone fa sempre notizia». Ha parlato col Papa? «L’ho visto a Pasqua, ma non abbiamo parlato di questo. Mi ha salutato calorosamente». Resta l’appartamento... «Se penso a tutto quello che è stato scritto... L’attico che non è un attico, per dire: io sto sotto, al terzo piano. Il terrazzo è condominiale, ci passeggiano tutti gli inquilini. Mi hanno anche ringraziato per i lavori. Li ho fatti perché era così disastrato che filtrava l’acqua, quando già ci abitavo mi pioveva in camera da letto». Si parlò di 700 metri quadrati e lei disse: no, sono 296. Che sono comunque tanti, no? «Mi fu assegnato d’accordo col Governatorato e col Papa. Non è questione di grande o piccolo: era libero questo. Del resto le metrature degli appartamenti disponibili tendono ad essere ampie, ai tempi li facevano così. Ci sarà una trentina di cardinali che vive in appartamenti anche più grandi. D’altra parte che si può fare, ricavarne monolocali? Si ha idea di quanto costerebbe? E qui non c’è nulla di lussuoso. Abbiamo risanato ambienti abbandonati. Come ho già spiegato, non ci vivo da solo, ma con una comunità di tre suore che mi aiutano, e la segretaria. Ci sono le camere per tutti, la biblioteca, l’archivio...». Che ci sia un’indagine in Vaticano è notevole. «Mi pare logico, più che altro, il Bambino Gesù dipende dal Vaticano». Stanno indagando persone che ha scelto lei, suoi collaboratori da anni... «Lasciamo stare, per me è un grande dispiacere. Ma aspettiamo che le indagini vadano avanti, le spiegazioni che forniranno». Roma. Sette pagamenti, estero su estero, attraverso conti Ior e Apsa, per 422 mila euro, a una holding britannica con sede a Londra, con denaro raccolto per aiutare i bambini malati dell’Ospedale Bambin Gesù. Ecco come è stata pagata la ristrutturazione «d’oro» dell’attico del cardinal Tarciso Bertone, secondo quanto ha ricostruito la magistratura vaticana, che ha aperto un’indagine ipotizzando i reati di peculato, appropriazione indebita e uso illecito di denaro. Indagati Giuseppe Profiti, ex presidente del Bambin Gesù, e l’ex tesoriere Massimo Spina, come anticipa su l’ Espresso , Emiliano Fittipaldi (sotto processo in Vaticano anche per aver rivelato questa vicenda nel libro Avarizia : il dibattimento si riapre il 6 aprile). Ma al vaglio degli inquirenti ci sono anche altre posizioni per capire se quei soldi erano davvero destinati a marmi e stucchi del cardinale o non siano stati fatti sparire con quella scusa. I conti, infatti, sono da capogiro. Il totale versato per i lavori, secondo le versioni del cardinale e della Fondazione, è di 722 mila euro. Vediamo perché. Bertone non è indagato. E non è stato nemmeno interrogato. In quanto ex Segretario di Stato, gode di immunità giurisdizionale e può essere vagliato solo dalla suprema Corte di Cassazione vaticana. Ma dice di aver pagato 300 mila euro, girati dal Governatorato alla ditta Castelli Re, di Bandera. A sua insaputa, secondo il cardinale, la Fondazione Bambin Gesù ha pagato Bandera per altri 422 mila (e non i 200 mila inizialmente ammessi). Un pagamento non dovuto che prefigura dunque il peculato per Profiti e Spina, incaricati di pubblico ufficio. Ma soprattutto dai contorni molto oscuri. Perché fatturarli a una holding britannica con sede a Londra, la LG Concractor Ltd, invece di versarli alla ditta di Bandera (fallita nel 2015)? E chi sapeva di quel pagamento? Per Michele Gentiloni Silveri, difensore di Bertone, non ci sono «desiderata» allegati, come sostenuto, e la lettera dell’8 novembre 2013, inviata da Bertone a Profiti, per rispondere alla sua offerta di pagare la ristrutturazione secondo l’avvocato dimostra l’opposto. «Confermo - scrive il cardinale che sarà mia cura fare in modo che la copertura economica occorrente alla realizzazione degli interventi proposti nella documentazione che allego, venga messa a disposizione della Fondazione a cura di terzi, affinché nulla resti a carico di codesta istituzione». Appena scoppiato lo scandalo Bertone ha dato 150 mila euro alla Fondazione. «Una donazione, non c’entrano», assicura il legale. LA REPUBBLICA Pagg 20 – 21 Inchiesta sull’attico di Bertone. “Io inchiodato alla croce” di Corrado Zunino e Paolo Rodari La linea dura del Papa: “Dall’ultimo usciere al segretario di Stato basta con i privilegi” Roma. L'attico di Tarcisio Bertone, 296 metri quadrati al terzo piano del prestigioso Palazzo San Carlo all'interno della Città del Vaticano, è stato ristrutturato nell'autunno 2013 con il denaro dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù. Ora è certo, come rivelano le carte pubblicate dall'Espresso in edicola oggi. Di più, il costo della ristrutturazione è stato - perlomeno - di 422 mila euro (prima si era detto 200 mila euro, poi 310 mila) e l'ex segretario di Stato, oggi cardinale messo a riposo da Papa Francesco, sapeva della spesa sostenuta direttamente dalla Fondazione Bambino Gesù. Un carteggio tra Tarcisio Bertone e l'allora presidente dell'ospedale e della Fondazione, Giuseppe Profiti, lo certifica. Lo stesso Profiti e l'ex tesoriere della Fondazione, Massimo Spina, ora sono indagati in Vaticano. Le accuse per entrambi sono pesanti: peculato, appropriazione e uso illecito di denaro. Ieri la sala stampa della Santa Sede ha confermato le anticipazioni scritte sul settimanale da Emiliano Fittipaldi, autore, tra l'altro, del libro-inchiesta "Avarizia". «Il cardinale non è indagato», ha poi precisato il vicedirettore Greg Burke. Interpellato da "Repubblica", Tarcisio Bertone ha detto: «Sono come inchiodato alla croce, vengo crocifisso ogni giorno». Tra le carte in mano alla gendarmeria vaticana e al promotore di giustizia ci sono sette fatture del 2014 intestate non alla società che ha eseguito il restauro (la Castelli Re di Gianantonio Bandera, fallita nel luglio 2015), ma a una holding con sede a Londra, la Lg Contractor, controllata sempre da Bandera, amico personale di Bertone. Il costruttore, oggi riparato in Iraq, ha offerto al Bambino Gesù uno sconto sui lavori edili del 50 per cento e si è formalmente impegnato a restituire alla Fondazione 310 mila euro (promessa non mantenuta). Perché tanta generosità? Nel tempo la Castelli aveva ottenuto da Bertone la possibilità di costruire parcheggi per le parrocchie di Genova, aveva quindi amministrato i beni della diocesi genovese destinati ai poveri, partecipato alle gare per i porti turistici di Santa Margherita e Lavagna e realizzato il nuovo polo romano del Bambino Gesù: auditorium, parcheggi interrati, poliambulatori e laboratori. Le sette fatture versate al costruttore sono state pagate attraverso i conti Ior e Apsa della Fondazione e sono servite per saldare il parquet in listoni di rovere, il pavimento in marmo di Carrara e l'impianto audio-video del cardinale, un oggetto da 19 mila euro. Tarcisio Bertone, 81 anni, oggi vive ancora in quelle stanze, frutto di due appartamenti unificati. Il suo avvocato, Michele Gentiloni Silverj, ribadisce: «Il cardinal Bertone non ha mai dato indicazioni, o autorizzato, la Fondazione Bambino Gesù a pagamenti in relazione all'appartamento da lui occupato e di proprietà del Governatorato». Nella lettera dell'8 novembre 2013 l'ex segretario di Stato s'impegnava con Profiti a cercare finanziatori «terzi» affinché «nulla resti a carico» del Bambino Gesù. I terzi non sono arrivati, Bertone successivamente ha dichiarato di aver restituito 300 mila euro, ma solo lo scorso dicembre ne ha versati 150 mila all'ospedale "a titolo risarcitorio". La ristrutturazione, ora si sa, è costata tre volte tanto e l' intera inchiesta sta valutando eventuali doppie fatturazioni. Sull'attico di Bertone già monsignor Balda, oggi in carcere come corvo di Vatileaks 2, aveva consegnato un dossier direttamente al papa. Città del Vaticano. Chi collabora con Francesco racconta che l'apertura dell'indagine per i finanziamenti della ristrutturazione dell'attico dell'ex segretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, «non ha colto il Santo Padre di sorpresa ». Il Papa, che «non ha paura della verità», non ha dato particolari ordini in merito, anche se, nell'indagine aperta dal Vaticano su Giuseppe Profiti e Massimo Spina, è stata correttamente interpretata quella linea della «chiarezza e della trasparenza» che fin dal 13 marzo del 2013, il giorno dell'elezione al soglio di Pietro, egli ripete sia doveroso la Chiesa faccia propria. Una linea, raccontano alcuni suoi collaboratori, che vale «per l'usciere come per il segretario di Stato», nessuno escluso. In questo senso, quanto egli disse sulla pedofilia tornando dal viaggio in Terra Santa può valere anche per le finanze: «Non ci sono privilegi... In Argentina dei privilegiati diciamo: questo è un figlio di papà. Ecco su questo tema non ci saranno figli di papà». Tuttavia, puntualizzano Oltretevere, in questo caso come in altre indagini su materie delicate che hanno caratterizzato l'azione di pulizia interna, la Santa Sede non si è mossa in seguito alle inchieste giornalistiche. Tutto, per stessa volontà di Francesco, era emerso da tempo e ogni azione conseguente muove senza influenze esterne e anzitutto grazie a lui. La nuova linea ha una data d'inizio precisa. Era il 13 aprile del 2013, esattamente un mese dopo l'elezione, quando il Vaticano annunciò la creazione di un "Consiglio di cardinali" per aiutare il Papa nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della curia romana. In questa opera di governo e di riforma era già sottinteso un cambio di rotta sugli scandali. I cardinali convocati, alcuni vicini alla curia romana, altri alieni alle questioni interne, erano garanzia di una strada nuova dopo gli scandali dei leaks usciti sotto il pontificato di Benedetto XVI. Francesco comprese nelle prime riunioni la necessità di iniziare dalle finanze vaticane, per lasciare a momenti successivi la riforma, anch'essa ritenuta importante, dei dicasteri della Santa Sede. Meno di un anno dopo, per dare più sostanza alle riforme finanziarie, Francesco decise di affidare al cardinale tedesco arcivescovo di Monaco Reinhard Marx il coordinamento di un Consiglio per l'Economia. Come avrebbe spiegato lo stesso Bergoglio successivamente, è questo Consiglio ad avere per lui «un ruolo centrale» nel «lavoro di riforma» economica del Vaticano. Riforma i cui obiettivi non sono altro che «la trasparenza» e «una gestione più efficace delle risorse della Santa Sede». Francesco non ha nemici dentro e fuori dal Vaticano. L'azione di trasparenza non è mossa contro qualcuno in particolare. «Non ci sono personalità da abbattere o da fare fuori», dicono ancora. In questo senso, anche il cardinale Tarcisio Bertone, che dal Vaticano non è indagato, non è un suo nemico. Suoi nemici sono piuttosto il malaffare, la corruzione, l'arrivismo e il carrierismo, la prevaricazione sugli altri mossa nel nome di un potere raggiunto. Tutte malattie che il vescovo di Roma Bergoglio ha elencato a dovere, senza accusare direttamente nessuno, durante gli auguri fatti alla curia romana il 22 dicembre del 2014. Egli scelse di chiamarsi Francesco anche per questo, per stare come il povero di Assisi sempre dalla parte degli ultimi. La sua fu una scelta di campo precisa, risoluta. Tutte le azioni di riforma seguenti, dicono ancora Oltretevere, discendono da quel posizionamento, insomma «da una precisa volontà». Anche la nuova direzione del Bambin Gesù, subentrata nel febbraio del 2015 dopo l'èra di Giuseppe Profiti, ha da subito fatto propria questa linea. «Stiamo seguendo questa vicenda in stretto raccordo con la Santa Sede. Abbiamo a suo tempo consegnato tutte le carte a nostra disposizione al promotore di giustizia del Vaticano e aspettiamo i risultati dell' inchiesta», dice non a caso Mariella Enoc, presidente della Fondazione ospedaliera. In questo senso c'è identità di vedute con Francesco e il nuovo segretario di Stato Pietro Parolin. «Come è noto - sottolinea ancora Enoch - per volontà del cardinale Parolin, la Fondazione Bambino Gesù è stata completamente rinnovata nel consiglio direttivo e nel management già dallo scorso novembre. La fondazione si occupa di raccogliere fondi per l'ospedale, con particolare riferimento alla ricerca e alle attività filantropiche e umanitarie». Le vicende della pedofilia del clero hanno insegnato molto alla Chiesa. Su tutto, come dimostra l'arresto per accuse di abusi sessuali su minori del nunzio nella Repubblica domenicana Wesolowski (oggi scomparso), hanno fatto capire che coprire è un'azione deplorevole. Vale per la pedofilia, ma vale anche per altri crimini. Denunciare e processare laddove i crimini sono comprovati è il minimo nel tempo di papa Francesco. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT "Francesco ci spaventa enormemente, e non solo noi. Eppur ci piace" di Sandro Magister La sorprendente analisi dell'enigma Francesco fatta dal superiore generale della Fraternità San Pio X, Bernard Fellay. Con il resoconto delle visite di un cardinale e di tre vescovi, inviati segretamente da Roma L'ecumenismo di papa Francesco è davvero a larghissimo raggio. Ha incontrato il patriarca ortodosso di Mosca, andrà in Svezia a celebrare i cinquecento anni di Lutero, è amico di molti leader pentecostali, ha perfino in simpatia i seguaci dell'arcivescovo ipertradizionalista Marcel Lefebvre. E quest'ultimo è il dato più sorprendente. Perché in campo cattolico l'ostilità contro i lefebvriani è tanto più intollerante proprio tra coloro che più si fanno vanto di spirito ecumenico e di misericordia. Contro i lefebvriani, a motivo del loro presentarsi come cattolici "veri", si riproduce infatti il meccanismo che rende così invisi agli ortodossi i cattolici di rito orientale, da essi chiamati spregiativamente "uniati". Invisi perché troppo simili a loro, come un nemico in casa. Già Benedetto XVI aveva denunciato questa distorsione, nella lettera aperta da lui scritta nel 2009 a tutti i vescovi del mondo dopo l'esplosione di proteste per la sua remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani della Fraternità San Pio X. Papa Francesco ha compiuto anche lui un gesto di grande apertura, quando lo scorso settembre ha autorizzato tutti i fedeli cattolici, durante il giubileo, a confessarsi, volendolo, anche dai sacerdoti della Fraternità, ricevendo da essi "validamente e lecitamente" l'assoluzione. Basti pensare, per comprendere la novità di questo gesto di Francesco, al divieto sotto pena di scomunica imposto ai suoi fedeli il 14 ottobre 2014 dal vescovo di Albano, Marcello Semeraro, di partecipare alla messa e ai sacramenti celebrati dalla Fraternità San Pio X. Semeraro non è uno qualsiasi, è anche segretario del consiglio dei nove cardinali che assistono il papa nel governo della Chiesa. La differenza, rispetto a papa Benedetto, è che Francesco non è stato subissato di critiche e di improperi dagli ecumenisti di professione, a motivo di questa sua apertura. Non solo. All'indulgenza degli ecumenisti per il gesto di Francesco si è aggiunto un attestato di stima senza precedenti da parte dello stesso superiore generale della Fraternità di San Pio X, il vescovo Bernard Fellay. Fellay ha espresso il suo articolato giudizio su Francesco in un'ampia intervista registrata il 4 marzo scorso nel suo quartier generale in Svizzera, a Menzingen, e messa in rete in più lingue durante la successiva settimana santa. Più che di un'intervista si tratta di un intervento in prima persona di Fellay, che fa il punto sulle seguenti questioni: 1. I rapporti della Fraternità San Pio X con Roma dall'anno 2000 2. Le nuove proposte romane studiate dai superiori maggiori della Fraternità 3. “Essere accettati così come siamo” senza ambiguità né compromessi 4. Papa Francesco e la Fraternità San Pio X: una benevolenza paradossale 5. La giurisdizione accordata ai sacerdoti della Fraternità San Pio X: conseguenze canoniche 6. Le visite dei prelati inviati da Roma: delle questioni dottrinali aperte? 7. Lo stato presente della Chiesa: inquietudini e speranze 8. Cosa chiedere alla Santa Vergine? L'intero testo è di notevole interesse, in quanto esprime il più attendibile, completo e aggiornato punto di vista della comunità lefebvriana riguardo ai suoi rapporti con Roma. Ma i passaggi più sorprendenti sono proprio quelli in cui Fellay spiega la benevolenza di Francesco per la Fraternità, benevolenza che definisce "paradossale", perché contrastante con gli indirizzi prevalenti, di segno opposto, del suo pontificato. È l'analisi che Fellay compie nel punto 4 del testo, riprodotto integralmente qui sotto. Ad esso segue un altro brano tratto dal punto 6, che racconta invece lo svolgimento e l'esito delle recenti visite fatte ai seminari e a un priorato della Fraternità da quattro inviati di Roma: "un cardinale, un arcivescovo e due vescovi". Fellay non fa i nomi dei quattro prelati. Essi sono: - Walter Brandmüller, cardinale, già presidente del pontificio comitato di scienze storiche; - Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, del clero dell'Opus Dei, segretario del pontificio consiglio dei testi legislativi; - Vitus Huonder, vescovo di Coira, Svizzera; - Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Maria Santissima in Astana, Kazakistan. Papa Francesco e la Fraternità San Pio X: una benevolenza paradossale di Bernard Fellay Bisogna qui utilizzare il termine "paradossale": il paradosso di voler andare avanti verso una specie di Vaticano III, nel senso peggiore che si potrebbe dare a questa espressione, e, dall'altra parte, la volontà di dire alla Fraternità: "Siete i benvenuti". È veramente un paradosso, quasi una volontà di unire gli opposti. Io non credo che sia per ecumenismo. Alcuni potrebbero pensarlo. Ma perché non penso che sia per ecumenismo? Perché basta guardare l'attitudine generale dei vescovi su questa materia dell’ecumenismo: hanno le braccia spalancate per tutti, tranne che per noi! Molto spesso ci è stato spiegato perché siamo ostracizzati, dicendo: "Non vi si tratta come gli altri perché voi pretendete di essere cattolici. Ora, con ciò create una confusione tra noi, quindi non ne vogliamo sapere". Abbiamo sentito diverse volte questa spiegazione che esclude l’ecumenismo. Allora, se questa disposizione che consiste nel dire: "Accettiamo tutti in casa" non vale per noi, che cosa rimane? Penso che rimanga il papa. Se già Benedetto XVI e ora papa Francesco non avessero uno sguardo particolare sulla Fraternità, diverso da questa prospettiva ecumenica di cui ho parlato, penso che non ci sarebbe niente. Anzi, penso piuttosto che saremmo già di nuovo sotto i colpi delle pene, delle censure, della scomunica, della dichiarazione di scisma, che manifesterebbero chiaramente la volontà di eliminare un gruppo che dà fastidio. Allora perché Benedetto XVI, perché adesso papa Francesco sono così benevoli verso la Fraternità? Penso che l'uno e l'altro non abbiano necessariamente la stessa prospettiva. Per quanto riguarda Benedetto XVI, credo che ciò derivasse dal suo lato conservatore, il suo amore per la liturgia antica, il suo rispetto per la disciplina anteriore nella Chiesa. Ho potuto constatare che molti, dico molti sacerdoti, e anche gruppi che avevano problemi con i modernisti nella Chiesa, e che avevano fatto ricorso a lui quando era ancora cardinale, hanno trovato in lui – dapprima come cardinale, in seguito come papa – uno sguardo benevolo, una volontà di protezione, di aiutarli almeno quanto potesse. Con papa Francesco non si vede questo attaccamento né alla liturgia, né alla disciplina antica, si potrebbe anche dire che è proprio il contrario, manifestato tramite molte affermazioni contrarie, ed è questo che rende ancora più difficile, più complicata la comprensione di tale benevolenza. Penso che ci siano almeno diverse spiegazioni possibili, ma confesso di non avere l'ultima parola sulla questione. Una delle spiegazioni è lo sguardo di papa Francesco su tutto ciò che è messo ai margini, ciò che chiama le "periferie esistenziali”. Non mi stupirebbe che ci consideri come una di queste periferie alle quali dona palesemente la sua preferenza. E in questa prospettiva, usa l'espressione “compiere un percorso" con la gente in periferia, sperando che si arriverà a migliorare le cose. Dunque non è una volontà ferma di risolvere subito: il percorso va dove va, ma alla fine lui è abbastanza calmo, tranquillo, senza troppo sapere ciò che potrà risultare. Probabilmente, è questa una delle ragioni più profonde. Un'altra spiegazione potrebbe provenire dal fatto che papa Francesco pronuncia un'accusa abbastanza costante contro la Chiesa costituita – la parola inglese è "establishment", si dice a volte anche da noi –, un rimprovero fatto alla Chiesa di essere autocompiaciuta, compiaciuta di se stessa, una Chiesa che non cerca più la pecora smarrita, quella che è nelle difficoltà, a tutti livelli, sia per la povertà, o anche per un dolore fisico. Si vede con papa Francesco che questa preoccupazione non è solamente, malgrado le apparenze, una preoccupazione materiale. Si vede bene che lui, quando dice "povertà", include anche la povertà spirituale, la povertà delle anime che sono nel peccato, dal quale bisognerà che escano, che bisognerà ricondurre a Dio. Anche se ciò non è sempre espresso in maniera chiara, si trovano un certo numero di espressioni che lo indicano. E in questa prospettiva egli vede nella Fraternità una società molto attiva, soprattutto quando la si paragona alla situazione dell’"establishment". Molto attiva vuol dire che cerca, che va a cercare le anime, che ha questa preoccupazione del bene spirituale delle anime e che è pronta a rimboccarsi le maniche per questo compito. Egli conosce Mons. Lefebvre, ha letto due volte la biografia scritta da Mons. Tissier de Mallerais, e questo mostra senza alcun dubbio un interesse; penso che gli sia piaciuta. La stessa cosa si può dire riguardo ai contatti che ha potuto avere in Argentina con i nostri confratelli, nei quali ha visto spontaneità e anche franchezza, perché non gli è stato assolutamente nascosto niente. Certo, si cercava di ottenere qualche cosa per l'Argentina, dove eravamo in difficoltà con lo Stato per quanto riguarda i permessi di soggiorno, ma non si è nascosto niente, non si è cercato di tergiversare, e penso che ciò gli piaccia. Può darsi che sia questo lato umano della Fraternità che lo attira, si vede che il papa è molto umano, dà molto peso a queste cose, e questo potrebbe spiegare una certa benevolenza nei nostri confronti. Ancora una volta non ho l'ultima parola su questa questione e certamente dietro a tutto ciò c'è la Divina Provvidenza. La Divina Provvidenza che opera per mettere dei buoni pensieri in un papa che, su molti punti, ci spaventa enormemente, e non solamente noi. Si può dire che tutti quelli che sono più o meno conservatori nella Chiesa sono sbigottiti da ciò che succede, da ciò che egli dice e, malgrado ciò, la Divina Provvidenza si adopera per farci passare attraverso questi scogli in un modo molto sorprendente. Molto sorprendente, perché è chiaro che papa Francesco vuole lasciarci vivere e sopravvivere. Ha perfino detto, a chi lo vuole sentire, che non farebbe mai del male alla Fraternità. Ha anche detto che noi siamo cattolici. Ha rifiutato di condannarci per scisma, dicendo: "Non sono scismatici, sono cattolici", anche se dopo ha usato un termine un po' enigmatico, cioè che noi siamo in cammino verso la piena comunione. Su questo termine "piena comunione" sarebbe proprio bello una volta avere una definizione chiara, perché si vede che non corrisponde a niente di preciso. È un sentimento, è un non si sa bene cosa. Anche molto recentemente, in un'intervista a nostro riguardo, Mons. Pozzo riprende una citazione che attribuisce al papa stesso – si può dunque prenderla come una posizione ufficiale –, che ha confermato alla commissione "Ecclesia Dei" che noi siamo cattolici in cammino verso la piena comunione. Mons. Pozzo precisa come questa piena comunione si può realizzare: con l'accettazione della forma canonica, che è una cosa abbastanza sconvolgente, una forma canonica risolverebbe tutti i problemi di comunione! Un po' più avanti, nella stessa intervista, dirà che questa piena comunione consiste nell'accettare i grandi principi cattolici, cioè i tre livelli di unità nella Chiesa, che sono la fede, i sacramenti e il governo. E parlando della fede, egli parla piuttosto del magistero. Ma noi non abbiamo mai messo in discussione alcuno di questi tre elementi. E dunque non abbiamo mai messo in discussione la nostra piena comunione, ma l'aggettivo "piena” lo spazziamo via, dicendo semplicemente: "Siamo in comunione secondo il termine classico utilizzato nella Chiesa. Siamo cattolici, e se siamo cattolici siamo in comunione, perché la rottura della comunione e precisamente lo scisma". Le visite dei prelati inviati da Roma: delle questioni dottrinali aperte? Queste visite sono state molto interessanti. Chiaramente da un certo numero dei nostri sono state percepite con una certa diffidenza: "Che vengono a fare da noi questi vescovi?". Questo non era il mio punto di vista. […] Io ho detto più volte a Roma: "Venite a trovarci". Non hanno mai voluto. Poi, tutto d'un tratto, […] un cardinale, un arcivescovo e due vescovi sono venuti a vederci, a visitarci, in circostanze differenti, nei seminari, anche in un priorato. […] La prima cosa che ci hanno detto tutti (era una parola d'ordine o un loro sentimento particolare? Non lo so, ma è un fatto) è stata: "Queste discussioni si svolgono tra cattolici; questo non ha niente a che vedere con delle discussioni ecumeniche; siamo tra cattolici". Quindi, dall'inizio, si spazzano via tutte queste idee come: "Non siete completamente dentro la Chiesa, siete a metà, siete fuori – Dio sa dove! –, scismatici…”. No! Noi discutiamo tra cattolici. È il primo punto che è molto interessante, molto importante. Malgrado quello che, in certe istanze, si dice ancora a Roma oggi. Il secondo punto – penso ancora più importante – è che le questioni affrontate in queste discussioni sono le questioni classiche sulle quali si inciampa. Che si tratti della libertà religiosa, della collegialità, dell’ecumenismo, della nuova messa, o anche dei nuovi riti dei sacramenti… tutti ci hanno detto che queste discussioni avevano per oggetto delle questioni aperte. Penso che sia una riflessione fondamentale. Fino a qui hanno sempre insistito per dire: dovete accettare il Concilio. È difficile rendere esattamente la portata reale di questa espressione "accettare il Concilio". Cosa vuol dire? Perché è un fatto che i documenti del Concilio sono totalmente diseguali, e che la loro accettazione si fa secondo un criterio graduale, secondo una scala di obblighi. Se un testo è un testo di fede c'è un obbligo puro e semplice. Ma quelli che, in un modo completamente sbagliato, pretendono che questo Concilio è infallibile, costoro obbligano a una sottomissione totale a tutto il Concilio. Allora se "accettare il Concilio" vuol dire questo, diciamo che non accettiamo il Concilio. Perché, precisamente, noi neghiamo il suo valore infallibile. Se ci sono certi passaggi del Concilio che ripetono quello che la Chiesa ha detto altre volte e in un modo infallibile, è evidente che questi passaggi sono e restano infallibili. E noi li accettiamo, non c'è nessun problema. È per questo che quando si dice "accettare il Concilio" bisogna ben distinguere cosa si intende. Nonostante questo, anche con questa distinzione, fino ad ora si è sentita da parte di Roma un'insistenza: "Dovete accettare questi punti, fanno parte dell'insegnamento della Chiesa e dunque dovete accettarli". E si è sentito fino ad oggi – non soltanto da Roma, ma anche dalla grande maggioranza dei vescovi – questa ammonizione, questo grande rimprovero che ci fanno: ‘"Voi non accettate il Concilio". Ed ecco che, tutto d'un tratto, su questi punti che sono i punti di inciampo, gli inviati di Roma ci dicono che si tratta di questioni aperte. Una questione aperta è una questione su cui si può discutere. E quest'obbligo di adesione è fortemente attenuato e anche, forse, del tutto eliminato. Penso che sia un punto fondamentale. Bisognerà poi vedere in seguito se ciò si confermerà, se veramente si potrà discutere liberamente, diciamo onestamente, con tutto il rispetto che bisogna avere verso l'autorità, per non aggravare ancora di più la situazione attuale della Chiesa che è talmente confusa, precisamente sulla fede, su quello che bisogna credere, e là noi chiediamo questa chiarezza, questa chiarificazione, alle autorità. Noi la chiediamo da molto tempo. Diciamo: "Ci sono dei punti ambigui in questo Concilio e non sta a noi chiarirli. Noi possiamo esporre il problema, ma chi ha l'autorità per chiarirli è proprio Roma". Nondimeno, ancora una volta, il fatto che questi vescovi ci dicono che sono delle questioni aperte è per me fondamentale. Le discussioni propriamente dette si sono svolte, secondo la personalità dei nostri interlocutori, con più o meno facilità, perché ci sono stati anche degli interessanti confronti dove non eravamo necessariamente d'accordo. Comunque l'apprezzamento, credo, è unanime, dalla parte di ciascuno di questi interlocutori: essi sono rimasti soddisfatti delle discussioni. Soddisfatti anche delle loro visite. Ci hanno fatto i complimenti per la qualità dei nostri seminari, dicendo: "Sono normali (per fortuna! Bisogna cominciare da qui), non è della gente limitata, ottusa, ma che vive bene, aperta, gioiosa, normale, semplicemente". Questo è stato un commento espresso da tutti. È il lato umano, è innegabile, ma non bisogna mai dimenticarlo. Per me, questo discussioni, o più esattamente questo aspetto più facile delle discussioni, è importante. Perché uno dei problemi e la sfiducia. Questa sfiducia è certo che noi l'abbiamo. E penso che si possa anche dare per certo che Roma l'ha nei nostri confronti. Fintanto che regna questa sfiducia, la tendenza naturale è di interpretare male o di considerare la peggiore delle soluzioni possibili su quello che si dice. Fintanto che siamo in questo contesto di sfiducia, non andremo molto avanti. Bisogna arrivare a una fiducia minima, a un clima di serenità, per eliminare queste accuse a priori. Penso che sia ancora il contesto nel quale noi ci troviamo, nel quale si trova Roma. E ciò prende del tempo. Bisogna che le due parti arrivino ad apprezzare correttamente le persone, le loro intenzioni, per arrivare a dissipare tutto ciò. Penso che ci vorrà del tempo. Ciò richiede anche degli atti dove si manifesti una buona volontà che non sia quella di distruggerci. Ora c'è sempre un po' quell'idea tra noi, che si è sparsa in maniera abbastanza rapida: "Se ci vogliono, è per soffocarci, ed eventualmente distruggerci, assorbirci completamente, disintegrarci". Questa non è un'integrazione, è una disintegrazione! Evidentemente, fintanto che c'è questa idea, non ci si può aspettare niente. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 7 L’eterna lotta ai “cocai” (che ora sono più furbi) di Martina Zambon Venezia vittima dei gabbiani Venezia. «Cocal» o «magoga» che dir si voglia, importante è non fare confusione perché esistono 60 diverse specie di gabbiani e il nemico, nella piazza più bella del mondo, Piazza San Marco, è solo uno: il Gabbiano Reale. Sfrontato, famelico, aggressivo e, sembra, invincibile. Non sono bastati le trasmissioni sonore al cimitero di San Michele sperimentate dalla multiutility comunale Veritas negli ultimi due anni e neppure l’uso dei falchi. Proprio a San Michele un cucciolo di falco è stato accerchiato e ucciso dai gabbiani «residenti». I turisti che si entusiasmano per l’acqua alta spesso ridono anche dei voli in picchiata dei gabbiani sui loro tramezzini ma chi in piazza lavora da sempre all’insegna del prestigio e del decoro non ride poi molto. L’ennesimo grido d’allarme, infatti, arriva dall’associazione dei commercianti del salotto buono della città che, dopo aver inutilmente contattato esperti di ogni genere e dopo aver archiviato preventivi salati di falconieri in grado di garantire un vigilantes pennuto, non possono far altro che segnalare, una volta di più, l’emergenza. Sembrano lontani i tempi in cui «Uccelli» di Hitchcock veniva evocato nelle disamine sui prolifici piccioni responsabili di marmi corrosi e colate di guano. Ora si è ufficialmente aperto un nuovo capitolo nella citazione del capolavoro del maestro del brivido. Con una differenza, se i piccioni provocavano fastidio e danni al patrimonio artistico cittadino, ora a Venezia il vis-à-vis con stormi di gabbiani voraci provoca più di qualche brivido di autentico terrore. «È capitato anche a me – ammette Vanni Bonotto, dello storico Caffè Quadri gestito dagli Alajmo de Le Calandre – qualche settimana fa uscivo dal Caffè con un panino recuperato al volo e attraversavo la piazza. Ho sentito un frullare d’ali alle mie spalle e in un lampo il panino era sparito dalle mie mani. Mi è andata bene visto che un secondo prima l’avevo addentato». La conta dei danni parla di almeno un vassoio ogni dieci che non riesce ad arrivare ai clienti seduti ai tavolini all’aperto. Depredati o rovesciati, il risultato non cambia. Anche camerieri che servono da decenni i plateatici più chic di Venezia non si capacitano di quella che oramai in molti viene definita l’«evoluzione della specie». Qui i rimandi cinematografici scadrebbero in copioni di sci-fi thriller molto meno nobili, fatto sta che i gabbiani reali 2.0 esistono davvero. «Il fenomeno è nato da una quindicina d’anni – commenta Marco Dinetti, responsabile nazionale per il settore dell’Ecologia Urbana per la Lipu – questa particolare specie di gabbiani, il gabbiano reale, appunto, ha modificato le sue abitudini dopo un’attenta osservazione dell’uomo in ambienti urbani. E non parliamo solo di città di mare, sto seguendo questa problematica anche in altre città alle prese proprio con il gabbiano reale, una specie nidificante che si caratterizza come una delle più opportuniste. Una specie che si è affrancata dal mare e ha seguito l’uomo anche nell’entroterra iniziando a nidificare sui tetti delle città e parlo di Bolzano, Viterbo, Firenze, Torino e Cuneo. Raggiungere luoghi così distanti dal mare non è un problema per loro visto che sono veri e propri pendolari con movimenti di 50-60 km alla ricerca di cibo. Capendo che il cibo non c’era solo in mare ma anche nelle discariche, nei campi e in città con prede morte, ad esempio i piccioni, ma anche vive e catturati con le modalità di un vero predatore». Quindi, effettivamente, la teoria dell’evoluzione della specie regge. Il punto chiave restano i tetti su cui i gabbiani reali nidificano e da Dinetti arriva un monito per operai edili e antennisti da aprile a maggio, periodo in cui si schiudono le uova, un caschetto prima di accedere ai tetti è d’obbligo perché se di norma l’uomo non viene aggredito, l’istinto di protezione verso i piccoli può portare anche a comportamenti più aggressivi». Intelligenti e specie gregaria che quindi si muove e si difende in gruppo, i gabbiani sono pure «social» per dirla con l’esperto della Lipu: «noi usiamo gli sms ma loro si tengono aggiornati sui luoghi migliori ad esempio per recuperare il cibo», Piazza San Marco inclusa. I deterrenti non mancano ma si tratta di prendere provvedimenti capillari a partire proprio dai tetti. «Durante l’inverno e fino a febbraio – conclude Dinetti – si possono installare dispositivi specifici che dissuadano i gabbiani dal nidificare, a volte, è sufficiente una tessitura di cavi o fili che renda difficile all’animale, che non è un gran manovratore a causa della sua apertura alare, la costruzione del nido». E poi l’abc è semplice e va nella direzione sperimentata dall’autunno scorso da Veritas fra l’Accademia e la Salute: ridurre al minimo l’immondizia con avanzi di cibo in città. Veritas fa sapere che l’abolizione delle sportine in calle e la raccolta attraverso barche dell’immondizia ha raggiunto il duplice scopo di far sloggiare i gabbiani e di aver raddoppiato la differenziata arrivata ormai al 40% e non esclude di estendere il metodo ad altre zone della città. La «grande guerra» ai cocai continua. Pag 10 Alla scoperta della Basilica con video e percorsi 3D: “Più costi per il Giubileo” di G.B. Il bilancio della Procuratoria Venezia. Un bilancio 2015 sano e in attivo di quasi 30 milioni di euro e per il futuro della Procuratoria di San Marco è in arrivo un piano pluriennale delle opere, che tenga conto di restauri da eseguire e degli investimenti da fare per portare la basilica al passo con i tempi. «Vorremmo definire una programmazione nel medio e lungo termine - spiega il Primo Procuratore Carlo Alberto Tesserin -. Stiamo studiando ad esempio come portare la banda larga, di cui non siamo dotati e vorremmo investire anche in altre attività e opere che migliorino la basilica e la sua conoscenza». L’idea è di scoprire e presentare i segreti di San Marco con alcuni video, così come è stato fatto da Piero Angela che ha realizzato una collana di cd alla scoperta del Vaticano. Nei giorni scorsi, la Procuratoria ha chiuso il bilancio del 2015 rendendolo pubblico. Ci sono 5,5 milioni di proventi e 5,9 di oneri istituzionali, ossia le spese per il personale e per i restauri. Sul fronte degli incassi da attività, la Procuratia ha guadagnato 1,6 milioni di euro e un 1,3 milioni sono stati spesi in interventi di sistemazione. «Il costo maggiore è per il personale, si tratta di 24 dipendenti - spiega Carlo Alberto Tesserin - e la spesa è di tre milioni l’anno». In passato, sono comunque stati accantonati dei fondi: 10,7 milioni presso la banca Intesa San Paolo, 4,1 nella banca Popolare di Verona e Novara e e quasi 900 mila euro in Azimut. «Sono depositi di cui noi non abbiamo alcun merito - sottolinea il Primo Procuratore -. Purtroppo rispetto al 2014 sono un po’ diminuiti per via dei restauri ma restano un importante tesoretto». Il valore degli immobili intestati alla basilica si attesa sui 12,6 milioni di euro e la liquidità disponibile alla Procuratia di San Marco è di circa 1,4. Nel 2016 le spese sono aumentate: «sono i costi del Giubileo», conclude Tesserin. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’illusione dello Stato trasparente di Ferruccio de Bortoli Una legge imperfetta Un piccolo ma prezioso termometro dello stato di salute della democrazia italiana è racchiuso in un provvedimento semisconosciuto adottato dal governo, in via preliminare, il 20 gennaio. Stiamo parlando del diritto di ogni cittadino ad accedere agli atti della pubblica amministrazione. È la versione italiana del Freedom of Information Act. Negli Stati Uniti esiste dal 1966. In molti Paesi, una novantina, è un paradigma della trasparenza. Dà la misura reale della cittadinanza. E della libertà d’informazione, del diritto di cronaca. Senza quelle norme - tanto per fare un solo esempio - non avremmo avuto l’inchiesta del Boston Globe sui preti pedofili (si chiese l’accesso agli atti giudiziari), da cui è stato tratto il film premio Oscar Spotlight. Da noi invece la legge rischia di assumere il tono di una concessione dovuta, una fastidiosa e vuota incombenza. Eppure va dato atto al governo, e in particolare a Renzi (ne fece cenno durante il suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio 2014) e al ministro Madia (Leopolda del 2015), di averne fatto una bandiera. Peccato che questo vessillo di libertà sia stato velocemente ripiegato nel testo varato a inizio anno, ed esprima, al contrario, tutto il potere discrezionale di cui la burocrazia italiana è ghiotta. All’articolo 6 del decreto legislativo, si legge che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». Bene. Peccato però che l’elenco delle eccezioni sia semplicemente sterminato. Alcune (sicurezza, difesa, relazioni internazionali) sono condivisibili. Altre decisamente meno. Il limite della «tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti» forma una categoria talmente vasta da porre il diritto del cittadino a conoscere l’iter di un atto, i tempi e i costi della sua esecuzione, in una condizione di palese inferiorità, alla stregua di una curiosità molesta. La legge non identifica, nelle varie amministrazioni, un responsabile unico cui rivolgersi. Non c’è uno sportello. La mancata risposta dopo trenta giorni alla domanda di un singolo cittadino (destinata a perdersi nel mare magnum degli uffici) configura una sorta di silenzio-rigetto privo di sanzione. L’obbligo di motivazione del rifiuto, da parte dei pubblici uffici, era già previsto dalla legge 241 del 1990. Disposizione quasi mai rispettata. E dunque il legislatore, innovando la 241, ne avrebbe tenuto conto (cioè si sarebbe arreso a un’inadempienza), ipotizzando, con il silenzio-rigetto, una particolare «garanzia» per il cittadino titolare di un interesse legittimo. Rivolgendosi al Tar, questi potrebbe costringere l’amministrazione a spiegare il suo no. Una procedura troppo complessa e costosa per un semplice diritto all’informazione. Nel suo parere, il Consiglio di Stato (18 febbraio 2016) è assai critico sullo schema di decreto legislativo. Condivide, citando Norberto Bobbio, «l’aspirazione a una democrazia intesa come regime del potere visibile». Sottolinea come la trasparenza sia «una forma di prevenzione dei fenomeni corruttivi». Ma senza semplicità nell’accesso ai dati e con troppe eccezioni, è tutto inutile. Il silenzio-rigetto, decorsi i 30 giorni dalla richiesta, realizzerebbe poi «il paradosso che un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la pubblica amministrazione non gli accorda l’accesso richiesto». I fautori di un più esteso Freedom of Information Act italiano si sono mobilitati. Hanno raccolto firme. Saranno ascoltati dalle Commissioni Affari costituzionali delle Camere il 7 aprile. Meritano di essere presi sul serio. E non considerati dei petulanti rompiscatole legislativi. Qualche loro richiesta è opinabile (come la gratuità dell’accesso agli atti) ma le loro critiche sono fondate. Il provvedimento finale verrà probabilmente varato entro un paio di mesi ed è auspicabile che sia corretto tenendo conto, non solo dei rilievi del Consiglio di Stato, ma anche delle osservazioni dell’Anac, l’autorità anticorruzione (ribadite ieri nell’audizione del presidente Raffaele Cantone) e del Garante per la protezione dei dati personali. Il governo ha l’occasione di dare attuazione a una promessa che riguarda la libertà dei cittadini e il loro diritto ad essere informati. La trasparenza non va vissuta come un intralcio all’attività amministrativa ed economica. Se attuata senza eccessi (e con buon senso) è garanzia di correttezza e incisività degli atti. Un deterrente efficace contro la corruzione e i soprusi. Valorizza le buone pratiche, contrasta abusi di potere e assenteismi. Se, al contrario, vincerà ancora una volta la burocrazia, non dovremo più stupirci se il nostro Paese è così arretrato nelle classifiche internazionali (libertà di stampa compresa). Conoscere la qualità dell’assistenza di un ospedale, le sue liste d’attesa, sapere le condizioni igieniche dei ristoranti e dei bar che frequentiamo, gli stipendi di coloro che gestiscono i servizi pubblici, non ha una portata rivoluzionaria o distruttiva dei rapporti economici. Non è il Panopticon di Jeremy Bentham. L’occhio ossessivo di una prigione di vetro. È solo la normalità di una democrazia avanzata che non ha paura né della trasparenza né del diritto d’informazione. Anzi, ne va orgogliosa. Pag 1 Una decisione che non aveva alternative di Antonio Polito Guidi si dimette, caso nel governo Non potendo smentire la telefonata intercettata, in cui garantisce al convivente che sta per passare un emendamento a suo favore nella legge di Stabilità, Federica Guidi non aveva alternative: doveva lasciare. È infatti venuta meno innanzitutto a un dovere di riservatezza, fornendo informazioni privilegiate: già questa una leggerezza molto grave. Ma soprattutto ha usato il suo potere di pubblico ufficiale quantomeno sapendo di favorire il fidanzato. A sua volta il convivente è accusato di aver utilizzato quell’aiuto per farsi dare un appalto da Total. Più conflitto di interessi di così, è difficile immaginarlo. E questo indipendentemente dall’esito dell’inchiesta giudiziaria della Procura di Potenza, della quale vedremo la robustezza. I pm hanno infatti ipotizzato per Gianluca Gemelli, l’imprenditore convivente del ministro Guidi, il reato di «traffico di influenze illecito», una norma recentemente importata nel nostro diritto dalla controversa legge Severino del 2012. Se si aggiunge che l’affare in questione riguarda lo stoccaggio a Taranto del petrolio estratto in Basilicata a Tempa Rossa, progetto da tempo contestato dagli ambientalisti e dal Comune, che si rivolse anche al Tar per bloccarlo (perdendo), si capisce l’estrema delicatezza politica del caso. Tra l’altro esploso nel clima già rovente del referendum sulle trivelle, che sempre di estrazione di petrolio tratta, seppure in mare. La vicenda è insomma un brutto colpo all’immagine del governo. L’opposizione sta già cavalcando il caso Guidi per lanciare un attacco diretto a Renzi, accusato di essere a capo di un «governo d’affari». E il progetto Tempa Rossa viene accostato a Banca Etruria come esempio di questo presunto «affarismo». Pesa il fatto che nella telefonata Federica Guidi dice al suo fidanzato che l’emendamento passerà se anche il ministro Boschi sarà d’accordo. E l’emendamento è passato. Di qui la richiesta, politicamente molto più insidiosa, che si dimetta anche Maria Elena Boschi. Bisogna però dire che quest’ultima è la titolare dei Rapporti con il Parlamento e tutti sanno che, soprattutto quando si tratta della legge di Stabilità, qualsiasi norma entri nel maxi-emendamento su cui il governo mette la fiducia non può passare senza essere autorizzato prima da quel ministro. In più lo stesso Renzi, qualche mese prima a Taranto, aveva pubblicamente sostenuto il progetto per i suoi effetti positivi sull’occupazione. Per dimostrare una responsabilità personale della Boschi, bisognerebbe dunque dimostrare che era consapevole dell’interesse al provvedimento da parte del fidanzato della sua collega. Cosa possibile, ovviamente, ma tutta da provare. Nel caso di Federica Guidi questa consapevolezza è invece fuori discussione. Renzi non ha dunque potuto avere esitazioni. Se è caduto Lupi, la cui vicenda era molto meno grave, doveva cadere anche Guidi. E se non cadeva subito Guidi, diventava più difficile difendere Boschi. Fin dalla sua nomina nel governo, del resto, la ministra dello Sviluppo economico era stata inseguita dal sospetto del conflitto di interessi, a causa del fatto che è lei stessa un’imprenditrice, figlia di uno dei più importanti imprenditori italiani, Guidalberto. Alla fine è stato il conflitto di interessi del compagno, invece che il suo, a perderla. LA REPUBBLICA Pag 1 L’incendio morale sul referendum di Stefano Folli Nessun governo può sopportare un'ombra morale, un sospetto come quello che si è allungato all'improvviso sull'esecutivo Renzi in seguito al caso Guidi. Non lo può tollerare nei tempi in cui viviamo, percorsi dalle correnti dell'anti-politica, dalla rivolta contro gli establishment, dall'insistente quotidiano controllo di legalità esercitato da un'opinione pubblica severa. L'ormai ex ministra dello Sviluppo economico si è lasciata intrappolare in un grave conflitto d'interessi, un esempio quasi di scuola di come non ci si comporta quando si riveste una delicata responsabilità istituzionale. L'emendamento sul progetto petrolifero "Tempa Rossa" reinserito in extremis nella legge di Stabilità; l'ingenua telefonata al compagno, diretto interessato a quelle ricerche; l'immediata e gioiosa comunicazione di quest'ultimo alla compagnia petrolifera con cui era in affari... La vicenda è abbastanza trasparente nella sua dinamica, soprattutto perché esistono intercettazioni telefoniche a carico dei protagonisti del pasticcio, intercettazioni disposte nell' ambito dell' inchiesta della magistratura di Potenza che ha portato a numerosi arresti e al pieno coinvolgimento del compagno della ministra Guidi. È invece una forzatura polemica, almeno per ora, voler trascinare nel caso l'altra ministra, Maria Elena Boschi, che non è intercettata ed è solo citata, non si sa quanto abusivamente, nella conversazione fra i primi due. In ogni caso la ministra tecnica Guidi - priva fra l'altro di protezioni politiche - non poteva restare al suo posto un giorno di più e infatti è uscita di scena con una lettera dignitosa a Renzi, senza nemmeno attendere il rientro del presidente del Consiglio dagli Stati Uniti. «Opportunità politica», certo: sarebbe stato quanto mai inopportuno lasciare affondare il governo nelle sabbie mobili di una vicenda in cui la protagonista non era più difendibile. Per qualcosa di meno Maurizio Lupi, esponente del Ncd, fu costretto a dimettersi senza indugi. E in passato (governo Letta) era stato proprio Matteo Renzi a reclamare a gran voce le dimissioni della ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri per un comportamento improprio nel caso Ligresti. Allora la lettura politica di quell'episodio fu semplice: il "fuoco amico", cioè l'opposizione interna, voleva indebolire Enrico Letta che difatti di lì a poco lasciò Palazzo Chigi. La Cancellieri non si dimise, ma il caso pesò non poco sulle sorti complessive del governo. Che ora si tratti di leggerezza o di mancanza di senso delle istituzioni, il conflitto d'interessi va tagliato alla radice altrimenti la moralità di fondo dell' esecutivo viene minata in modo fatale. Nonostante tutto, esistono dei limiti non superabili anche in queste stagioni in cui l' etica in politica sembra essere diventata una scelta opzionale. La questione, peraltro, va al di là della persona di Federica Guidi. Come in una miscela velenosa, la storia del petrolio in Basilicata porta con sé una serie di elementi che in campagna elettorale possono diventare esplosivi. Nel pentolone tutto si tiene: il petrolio, le trivelle, l'ambiente minacciato, gli interessi economici di pochi, i favori legislativi fatti con il favore delle tenebre. Il vero, il probabile e magari il falso si confondono come nella trama di un brutto romanzo politico in cui protagonisti e comprimari peccano per approssimazione, sottovalutazione della posta in gioco, mediocre affarismo. L'inchiesta di Potenza ha fornito, certo in modo casuale, alcuni ottimi argomenti alla campagna dei Cinque Stelle, della Lega e delle altre opposizioni di destra e di sinistra. Anche di quelle che manovrano nella penombra correntizia del Pd. E ovviamente ha portato alla ribalta il confronto sul referendum del 17 aprile. Qualcuno si lamentava che di quella consultazione si parlasse ancora troppo poco: dopo il caso Guidi non c'è più tale pericolo. Il referendum diventa un appuntamento politico, al di là del merito del quesito, e s'intreccia con lo scontro sul conflitto d' interessi, guarda caso proprio collegato ad affari petroliferi. C'è da riflettere su come si è giunti a impaludarsi in questo groviglio. Renzi ha avuto la prontezza di riflessi di salutare in fretta la Guidi e questo limita i danni. Per il suo governo è chiaro che si tratta di uno scivolone. Tuttavia da una caduta ci si può rialzare se non si commettono altri errori. Quali? Sul referendum delle trivelle, ad esempio, si poteva evitare di provocare ulteriori lacerazioni all'interno del Pd. Aver sottovalutato le insidie del 17 aprile e il gioco di alcuni governatori regionali che parlano dell' ambiente ma pensano agli assetti di via del Nazareno a Roma, è apparso un atto assai goffo in termini politici. L'invito all'astensione ora si ritorce sul Pd, sembra quasi che serva a proteggere interessi inconfessabili. Sarebbe meglio a questo punto un chiarimento all' interno del partito in vista di una posizione più rispettosa verso gli elettori. Poi, chi vuole non andrà a votare e punterà sul non raggiungimento del quorum. Ma sarà una scelta individuale. Tutti hanno capito che Renzi ama poco il Pd, così come è oggi strutturato. Eppure ignorarne i travagli interni e le contraddizioni espone il premier a rischi da non sottovalutare. Il caso Guidi e le nubi che si sono addensate all' improvviso sul governo testimoniano che il cammino del centrosinistra non è semplice né lineare. Prima il referendum e poi le amministrative sono due passaggi che da oggi diventano più insidiosi. LA STAMPA La strada dritta per una scelta obbligata di Federico Geremicca Le dimissioni della ministra dimissionaria per lo Sviluppo economico Anche in politica, a volte, esistono vie dritte: decisioni che vanno al cuore del problema, evitando sotterfugi, dilazioni e improbabili arrampicate sugli specchi. La scelta compiuta ieri da Federica Guidi, ministra dimissionaria per lo Sviluppo economico, è una di queste. Sorpresa a premere per l’approvazione di un emendamento alla legge di stabilità che avrebbe economicamente favorito il suo compagno (circostanza sulla quale indaga la magistratura) Federica Guidi ha impiegato poche ore per assumere la decisione migliore. Non era scontato, perché non è sempre andata così: ed è dunque giusto dar atto all’ormai ex ministra di una scelta certo inevitabile e doverosa, ma né facile né indolore. Saranno i giudici a dire se l’approvazione dell’emendamento che ha dato il via libera al progetto «Tempa Rossa» (nuovo impianto di estrazione petrolifera in Basilicata) ha fruttato al suo compagno - Gianluca Gemelli - lavori in subappalto per un importo di due milioni e mezzo di euro. Quel che è certo, invece, è che le intercettazioni a disposizione della magistratura rivelano da sole - a sufficienza e in maniera inequivoca - un comportamento da parte della ministra Guidi incompatibile con la permanenza nel ruolo alla quale era stata chiamata due anni fa da Matteo Renzi. E’ possibile, naturalmente, che la decisione delle dimissioni - maturata dall’ex ministra e condivisa dal Presidente del Consiglio - sia stata assunta per placare la bufera che ha immediatamente investito il governo, ed evitare guai peggiori. E’ possibile: ma questo nulla toglie al valore della scelta compiuta. Soprattutto in considerazione del fatto che in passato - un passato anche recente - non è sempre andata così. La cronaca politica di questa legislatura - e non solo di questa - non è infatti avara di decisioni di segno diverso: ministri nella bufera per giorni e giorni prima di compiere una scelta (o alla fine rifiutando addirittura di compierla) inevitabile sia politicamente sia agli occhi dei cittadini. E’ inutile star qui ad elencare casi - da Maurizio Lupi a Nunzia De Girolamo, dalla Cancellieri a Josefa Idem che dimostrano quanto questo sia vero. La novità, nei tempi e nei modi, è evidente: e non è inopportuno segnalarla. Il caso, naturalmente, non è chiuso. Certamente non lo è giudiziariamente: almeno fin quando non sarà accertato dalla magistratura - e sancito con una sentenza - il fatto che il compagno di Federica Guidi abbia tratto un beneficio economico dall’intervento (questo invece già sicuro) dell’ex ministro. E ancor più certamente, il caso non è chiuso politicamente. Del resto, a due settimane dal «referendum sulle trivelle» e ad un paio di mesi da elezioni amministrative importanti come mai, non è immaginabile che le opposizioni al governo abbassino i toni solo perché le richieste dimissioni della ministra Guidi sono affettivamente arrivate. Giunta la notizia del suo abbandono, infatti, si è cominciato a chiedere a gran voce chiarimenti parlamentari, altre dimissioni (quella della ministra Boschi, per esempio, chiamata in causa nelle intercettazioni dalla Guidi in qualità di «controllore» degli emendamenti da accogliere o respingere) e perfino quelle dell’intero governo. È un copione noto, che fa parte - da sempre - di una legittima polemica politica: assai depotenziata, stavolta, dalla decisione assunta dal tandem Renzi-Guidi. Mai come in questo caso, insomma, resistereresistere-resistere, sarebbe stato un errore: ed è un bene che il presidente del Consiglio e la ministra dimissionaria lo abbiano capito per tempo. AVVENIRE Pag 1 Oltre le amare sentenze di Andrea Lavazza La Corte dell’Aja e i crimini nei Balcani L’elenco delle accuse era (e rimane) impressionante. Deportazione o trasferimento forzato di decine di migliaia di croati, musulmani e altri civili 'non serbi' in Bosnia, Croazia e Serbia. Omicidio e distruzione deliberata di abitazione, monumenti e luoghi sacri (sempre di popolazioni 'non serbe'). Torture e stupri, anche nei campi di detenzione. Incitamento all’odio etnico-religioso contro croati, musulmani e altre popolazioni 'non serbe'. La fama di Vojislav Seselj è commisurata alle nefandezze di cui si è macchiato nelle guerre dei Balcani, perseguendo il sogno (o, meglio, l’incubo) di una purezza etnica della Grande Serbia. La sua responsabilità morale e politica non sarà cancellata, ma la sorprendente assoluzione pronunciata ieri in primo grado dalla Corte Onu dell’Aja gli restituisce un’innocenza penale su cui pochi avrebbero scommesso. Seselj s’è sempre detto estraneo a ogni imputazione, sebbene la sua carriera, alla destra di Slobodan Milosevic, con cui ruppe opponendosi agli accordi di pace per la Bosnia siglati a Dayton, testimoni il ruolo chiave avuto nelle vicende belliche che hanno segnato di sangue gli anni Novanta dell’ex Jugoslavia. Sia come esponente di governo sia come capo dei paramilitari, il fondatore del Partito radicale serbo non ha mai nascosto i suoi obiettivi, che già lo avevano messo in urto con il regime di Tito, sotto il quale fu incarcerato negli anni Ottanta per le sue posizioni nazionalistiche. L’inopinato esito di un processo in ogni caso inaccettabilmente lungo – Seselj fu estradato in Olanda nel 2003 e da due anni è libero a Belgrado perché malato di tumore – non sembra comunque destinato a riaprire antiche ferite, più di quanto già non accada quotidianamente nelle zone in cui gli odii del conflitto sono ancora accesi. La reazione della Croazia e della Bosnia, che hanno bollato la sentenza rispettivamente come vergognosa e scioccante, fa parte più di un inevitabile copione diplomatico che di un’autentica preoccupazione per le conseguenze della decisione dell’Aja. L’assoluzione è frutto di un dibattimento pasticciato (con i giudici divisi e la Procura impacciata) in cui le prove dirette a carico dell’imputato sono risultate sfocate e divergenti, e non è escluso che un eventuale secondo grado ribalti il verdetto. Non «crimini contro l’umanità» – ha detto il presidente della Corte che ha emesso il verdetto, Jean-Claude Antonetti –, ma una «guerra» che ha visto anche il coinvolgimento dei civili. Un coinvolgimento che ha sfiorato il genocidio e che fece auspicare a Giovanni Paolo II un intervento di «ingerenza umanitaria » (non a caso Seselj scrisse un feroce libello contro il Papa). E che, a massacri in Bosnia-Ezegovina ormai compiuti, portò la Nato a intervenire contro Belgrado in Kosovo. Non poteva quindi essere solo un’altra condanna – pochi giorni fa sono stati inflitti 40 anni a Radovan Karadzic per l’eccidio di Srebrenica – a riportare vera giustizia oltre due decenni dopo i crimini e i lutti. Non sono mai le aule di giustizia da sole a riparare i guasti e a pacificare la memoria. Anche perché la Corte dell’Aja, in particolare, non si è segnalata per efficacia e celerità nei giudizi. Sono diversi i processi politici e sociali che si devono innescare, sui territori e nei cuori, per uscire dal circolo vizioso del risentimento. La situazione bosniaca, con la divisione del Paese sancita dagli accordi di pace, fa sì che ancora oltre il 60% della popolazione abiti lontana da quella che era la propria casa e che le tensioni restino altissime, tanto che due giovani su tre vorrebbero lasciare al più presto il Paese. Contano in queste situazioni più le scuole interetniche promosse dalla Chiesa cattolica che sentenze ambigue e lontane. E c’è da essere sollevati per il fatto che raccolgano ben pochi sostenitori i comizi nei quali in queste settimane Seselj brucia a Belgrado la bandiere Ue. Sarà forse proprio l’avvicinamento all’Unione Europea ciò che potrebbe aiutare a svelenire l’eredità del conflitto. A condizioni che le istituzioni sovrannazionali, compresa la Corte Onu e una Ue pacifica, aperta e sicura 'casa dei popoli', sappiano comprendere sensibilità, esigenze e priorità di un cammino di pace che nei Balcani è ancora dolorosamente da completare. LA NUOVA Pag 1 Il governo e gli schizzi di petrolio di Roberta Carlini Dimissioni lampo, ma il caso non è chiuso. Stavolta il passo indietro è stato rapido, arrivato in serata, a poche ore dalla diffusione delle carte dell’inchiesta di Potenza. Che rivelano uno spaccato d’azione di governo veramente inguardabile: un emendamento infilato all’ultimo momento, in una di quelle notti delle manovre economiche - nelle quali, senza soluzione di continuità dalla Prima alla Seconda repubblica, si ripete da anni il più classico mercato delle vacche, o il pork barrel per dirla all’inglese. E il mercato mette insieme tutto: parlamento, governo, ministri, famiglie e affini. Imprenditori e politici partecipano, e se sei insieme imprenditore e politico la cosa viene anche meglio. Non c’era bisogno dell’ennesima prova, per confermare che per portare civiltà nella politica non basta pescare dalla cosiddetta società civile - che sarebbe la Confindustria, in questo caso, dove la Guidi ha scalato tutta la carriera, da figlia di industriale, a presidente dei Giovani imprenditori, a vicepresidente dell’associazione. Dovrebbe rifletterci, la lobby degli industriali che proprio ieri ha rinnovato il suo vertice. Ma la grana maggiore ce l’ha il governo. Che perde un altro pezzo, come già era successo dopo il caso Rolex di Lupi. E come non era successo in un altro caso sospetto di conflitto di interessi, quello della ministra Maria Elena Boschi e della Banca Etruria: e il nome di Boschi torna, anche in questo caso, visto che è con il suo decisivo accordo, si dicono i ciarlieri telefonisti, che è passato l’emendamento sui lavori a Tempa Rossa, giacimento petrolifero della nostra Lucania saudita. Boschi e petrolio: queste le due parole che portano a pensare che il caso non è chiuso. La ministra per le Riforme costituzionali e per i Rapporti con il parlamento è rimasta al suo posto durante la tempesta Etruria, protetta da un cerchio magico. Ma dovrà chiarire il suo ruolo in questa storia, se quello di passaparte tecnico o di persona informata degli emendamenti che approvava. Non solo. Il sottobosco familiar-privato, e la stretta connessione con le attività economiche che vivono a margine, o a rimorchio, delle decisioni pubbliche, appare tanto simile dalla Toscana alla Basilicata. Come se non potesse emergere mai, nelle nostre istituzioni, una funzione di chi fa la spesa pubblica, o anche solo di regolatore pubblico, al di sopra delle parti: nell’interesse collettivo. E poi c’è il merito, in quell’altra parola: petrolio. I giacimenti di Tempa Rossa, in quel di Viggiano non hanno niente a che vedere con le trivelle nei mari, contro le quali si celebrerà il 17 aprile un referendum voluto dai governatori delle regioni appartenenti allo stesso partito del premier. Tecnicamente le vicende non sono collegate: in Basilicata si parla delle estrazioni dal sottosuolo, il referendum riguarda la proroga delle concessioni a dodici miglia dalle nostre coste. Ma politicamente il cortocircuito è inevitabile. Perché il partito del presidente perde un ministro - importante, se è importante lo Sviluppo economico in questo Paese - su uno scandalo che riguarda il petrolio, mentre la sua politica in materia è contestata dal basso, a torto o a ragione, con un richiamo al voto popolare. Sul quale Renzi si è mosso in modo furbesco. Prima, con la scelta della proroga delle concessioni, ha preso una decisione chiara: contestabile, ma netta. Poi, ha deciso di non difendere questa scelta invitando a votare No al referendum, e andando ad argomentare le sue ragioni, ma ha cercato di aggirare il referendum. Ha evitato di accorpare il voto con quello delle amministrative, nonostante l’indubbio risparmio che l’election day avrebbe portato. E infine, ha esortato a non andare a votare a difesa di una legge che lui stesso aveva fatto: ha scelto l’astensione, l’invito ad andare tutti al mare. Probabilmente l’affaire Guidi non avrà l’effetto di portare al voto sulle trivelle un elettorato stanco, distratto e forse disinteressato. Ma certo complica ancora di più la posizione del premier, e la sua immagine da giovane decisionista innovatore ne esce quantomeno macchiata. Da diversi schizzi di petrolio. Torna al sommario