Relazione prof. Zatti

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Relazione prof. Zatti
Giornata di Studio “Monoteismi e violenza” - 5 marzo 2013
A PROPOSITO DI MONOTEISMI E VIOLENZA1
Giuliano Zatti
Introduzione
Vorrei cominciare con un breve testo, propostoci da Moni Ovadia, che ci ispira ironia e riflessione allo stesso
tempo.
Un lord inglese, al suo ricevimento annuale, ha invitato anche il Vescovo anglicano ed il Rabbino che, con
malizioso intento, sono stati sistemati vicini a tavola. Il Vescovo non resiste alla tentazione di punzecchiare il
Rabbino e gli dice: «Rabbino carissimo, suvvia! Lo riconosca! Il vostro Dio è così tremendo, minaccioso,
vendicativo. Il nostro invece è tutto bontà, perdono, indulgenza, sacrificio …». «Sono totalmente d’accordo
con lei, Vescovo», riconosce candidamente il Rabbino, «il vostro Dio ha preso per sé tutte le migliori qualità e
non ne ha lasciata alcuna ai suoi devoti».2
Chi siamo noi e chi è Dio? Cosa abbiamo fatto del nome di Dio e delle parole con le quali lo definiamo? Che
ne abbiamo fatto delle qualità che lo rappresentano e delle qualità che, invece, non ci rappresentano? Come
nel passato, anche nell’epoca attuale non si dovrebbe parlare di spiritualità, di fede, del fatto religioso senza
una riflessione sui legami assai complessi fra la religione e le tentazioni violente che si esprimono attraverso
il fanatismo, la violenza e le persecuzioni, che in qualche modo si rifanno alla volontà divina. Ai nostri giorni
si manifestano, contemporaneamente, un “rinascimento” del religioso e una recrudescenza di pulsioni
estreme. Nella logica dell’invisibile, forse potremmo collocare sullo stesso piano due atteggiamenti che si
rifanno alla volontà divina, ovvero il terrorismo e la santità: si tratta di una simmetria sorprendente, eppure
dobbiamo avere il coraggio di proporla, anche per sottolinearne l’enorme differenza di fondo.
Questa inattesa congiunzione di opposti suscita ovviamente delle domande che non vanno disattese. Anche
ammettendo che la religione mantenga un legame con la violenza, si tratta di un legame strutturale, ossia
ontologico o solo di un legame passeggero e occasionale? Quale può essere la risposta dei filosofi, dei
teologi, degli storici, degli psicanalisti, dei sociologi, a questo interrogativo? Esiste - ci si chiede - un
antidoto tale da consentire ad una spiritualità sana e rinnovata di superare questa minaccia fatale che pesa sul
nostro futuro? Di certo non saremo noi a risolvere le questioni. Per parte mia provo soltanto a ripercorrere
con voi alcuni filoni di pensiero e qualche ipotesi di lavoro. Dopo un “elogio” del monoteismo, ricorderò
alcuni contenuti che hanno caratterizzato o caratterizzano il dibattito sul monoteismo, mentre nella seconda
pista di lavoro terrò maggiormente in considerazione la situazione interreligiosa odierna.
Vogliamo fare un elogio del monoteismo?
Ancor prima di vedere il monoteismo sul banco degli imputati, vista la sua possibile correlazione al tema
della violenza, potrebbe essere utile raccontare soltanto alcuni tratti del monoteismo cui le religioni dicono di
rifarsi e le acquisizioni che ne sono venute per la vita religiosa, la cultura e la società.
Le fasi della nascita e dello sviluppo del monoteismo – che qui non presentiamo - evidenziano come sarebbe
antistorica la definizione dello stesso monoteismo come di un fenomeno soltanto occidentale, quantunque
1
A monte di queste pagine, secondo le indicazioni dell’ISSR, stanno i lavori di J. ASSMANN, quali: La distinzione
mosaica. Ovvero il prezzo del monoteismo, Adelphi, Milano 2011; Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del
monoteismo, il Mulino, Bologna 2009; Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, il Mulino,
Bologna 2007; Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria, Adelphi, Milano 2000.
2
M. OVADIA, L’ebreo che ride. L’umorismo ebraico in otto lezioni e duecento storielle, Einaudi, Torino 1998, 9. M.
BUBER, ci consegna un altro testo il cui senso resta aperto anche ad un’interpretazione negativa: «Tutte le qualità, anche
quelle basse e malvagie, possono essere sollevate al servizio di Dio. Così, per esempio, l’orgoglio: quando viene
innalzato, si trasforma in nobile coraggio nelle vie di Dio». Racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 19883, 409. Il
detto è di Rabbi Moshe Löb.
1
abbia delle radici esclusivamente bibliche. La ricerca dell’Uno non è prerogativa del pensiero occidentale,
ma esigenza universale della riflessione religiosa, che ci tramanda la concezione di un Assoluto che può
essere persona (Dio Uno e Unico) e può anche non esserlo.3 L’apporto dato alla storia delle religioni dal
monoteismo sta nell’aver proclamato che l’Assoluto-Uno è “persona”, cioè un Essere padrone di sé,
intelligente e libero, avente caratteri propri e inconfondibili.4 In genere l’Assoluto Uno non-persona si fa
avvertire dall’uomo indirettamente negli elementi del cosmo; talvolta, nelle religioni di cultura, si condensa
in parola sacra. È invece specifico di Dio Uno e Unico l’aver parlato dialogicamente per mezzo dei profeti,
in una continuità e attualità di parola cui ripugna il “silenzio di Dio”, nonostante rimanga mistero insondabile
e ineffabile.
Inevitabilmente il monoteismo trascina con sé una serie di acquisizioni positive. Innanzitutto, solo nel
monoteismo può trovare fondamento il concetto di creazione, giacché questa non può non essere che libera e
volontaria, oltre che gratuita: dall’Assoluto non-persona l’universo può nascere per necessaria emanazione,
non per azione volontaria. E mentre il processo emanativo indica un progressivo sminuirsi dell’essere,
l’azione creatrice di Dio dona alle cose create una permanente consistenza ed un intrinseco valore. In
definitiva, mentre le religioni moniste possono arrivare a concepire il mondo e lo stesso uomo come effimeri
e illusori aggregati di elementi primordiali, il monoteismo attribuisce al creato un proprio inalienabile valore,
poiché opera di Dio.5
In secondo luogo, il Dio persona crea l’uomo persona. Il monoteismo restituisce all’uomo la sua dignità
spirituale e corporea, mentre nei contesti religiosi che pongono al vertice dell’essere un Assoluto nonpersona, neanche l’uomo è persona. Possiamo parlare, quindi, di una “funzione antropologica” dei diversi
monoteismi: a differenza delle mitologie creazioniste in cui il Dio trascendente rimane ancora esterno al
mondo, grazie invece alla relazione personale con un Dio Amore e Provvidente, inaugurata dalla fede
ebraico-cristiana, l’individuo umano accede veramente alla dignità di persona.6
3
L’uomo religioso vive in un cosmo e il cosmo è tale, cioè ordine, appunto perché è uni-verso, ovvero orientato verso
l’Uno. G. RAGOZZINO, Religioni, sette, occultismo, Edizioni Dehoniane, Roma 1997, 39-50. P. Claudel parla di
Universo come «versione all’unico, l’insieme della creazione nella confessione di un solo Dio». Citato da A.
MANARANCHE, Il monoteismo cristiano, BTC 55, Queriniana, Brescia 1988, 144 (nota 24).
4
A. Rizzi descrive tre processi evolutivi che portano dal divino a Dio e che allo sguardo ermeneutico-fenomenologico
sembrano dare una lettura plausibile dei dati della Storia delle religioni. Un primo processo è quello dell’unificazione o
del passaggio dai molti all’uno; il secondo processo è l’istituzione della trascendenza slegata dall’ethnos e dal locus; il
terzo comporta la dislocazione dal divino come predicato al divino come soggetto. Conclude: «[Il linguaggio religioso]
dice Dio e, dicendolo, fa l’uomo di fronte a Dio. Quando ci si chiede se Dio è persona, la risposta religiosa più
appropriata è che Dio è quella presenza in forza della quale siamo persona, vale a dire soggetti responsabili e vite
preziose. Che quindi il pensarlo come persona è meno improprio che pensarlo come totalità cosmica o come principio
razionale o altro». «Il divino e Dio. In risposta a G. Filoramo e M. Fuss», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA,
Cristianesimo religione e religioni, 89-91. Circa il carattere personale della divinità si veda anche A. ALESSI, Filosofia
della religione, 175-190.
5
«Il mondo non è oggetto di esperienza; può essere pensato soltanto in rapporto alla trascendenza. Soltanto la
creazione, parola teologica, può appellare a una risposta rispondente dello stesso tipo: il mondo. Per questo il credo lega
l’affermazione «un solo Dio Padre» a quella «creatore del cielo e della terra» (...) la tradizione ebraico-cristiana lo
comprende perfettamente: il mondo è un concetto religioso; ingloba tutto nella sua dipendenza dal Dio della
rivelazione». MANARANCHE, Il monoteismo cristiano, 144.
6
Cf M. MESLIN, «La funzione antropologica del monoteismo», in Concilium 1/1985, 49-62. Secondo l’autore, l’analisi
del lento processo, secondo il quale la nozione di persona è giunta ad affermarsi in Occidente, mostra che il fattore
religioso non ne è stato la prima causa. È evidente pure che l’elaborazione di teorie metafisiche, anche se affermano
l’unicità di Dio, non ha giocato alcun ruolo in questo processo di individualizzazione se non nella misura in cui queste
teorie hanno indotto concrete ripercussioni sulla posizione dell’uomo e là dove hanno determinato relazioni particolari
tra questo Dio unico e il credente. Allo stesso modo non è affatto certo che il monoteismo affermato da alcuni
presocratici, come Senofane di Colofone, sia riuscito a collocare l’uomo greco in una nuova prospettiva, cosicché le
prime affermazioni monoteistiche del pensiero greco si trovano sul piano delle teorie filosofiche. I culti orientali, che
offrivano un’esperienza religiosa consistente in un coinvolgimento sensibile e immediato del divino percepito tramite
l’uomo, aprirono una nuova tappa nel pensiero ellenistico, anche se l’antropologia antica non seppe formulare la
dimensione di una religione della salvezza. Ugualmente nelle tradizionali società dell’Africa nera, nonostante
un’esperienza religiosa totalizzante nella quale il sacro investe tutta la vita e dove si elaborano relazioni tra il visibile e
l’invisibile, manca una percezione di Dio Provvidente, oltre che trascendente e creatore. La possibilità reale di relazioni
tra Dio e la creatura non esiste se non nel caso in cui il Dio creatore è anche la vita continuata in ciascuno: occorre, cioè,
che Dio accetti di inserirsi completamente nella condizione dell’uomo e del mondo, così che sia data la possibilità di
2
Il tempo stesso acquista consistenza e valore, esaltato dalla sua linearità e dal suo fine: il trascorrere del
tempo è significante ed è storia. Il tentativo dell’uomo di cogliere le linee portanti del progetto di Dio che si
svolge nella storia, si concretizza nella teologia e nella filosofia della storia.
Il monoteismo, pertanto, patrimonio comune della «famiglia di Abramo»,7 ha donato alla civiltà
contemporanea una positiva conoscenza del mondo, la dignità della persona umana, la preziosità del tempo e
il senso della storia. Queste acquisizioni hanno dato una forma precisa alla cultura e alla spiritualità.
PRIMA PISTA DI LAVORO.
“Monoteismo no, monoteismo sì”.
Obiezioni e correttivi
1. La ricomposizione forzata dell’unità
La violenza legata al mondo delle religioni è l’archetipo nel bene e nel male di ogni concezione della
violenza.8 La strana alleanza del sacro con la violenza, descritta nelle società più arcaiche del pianeta, è una
costante antropologica che gioca un grande ruolo, positivo e negativo, in tutte le religioni, tanto che i rituali
che si rifanno alla violenza sono inerenti alle religioni. Nel suo significato più profondo, la violenza può
essere intesa in senso onnicomprensivo: è una grandezza religiosa e metafisica. Già i grandi miti
cosmogonici nella storia delle religioni ci mettono sull’avviso e forse la maggior intuizione di tutto il mondo
mitico-religioso antico è proprio il fatto che la violenza precede l’ordine nel tempo della creazione. La
violenza appare un originario inspiegabile come l’ignoranza nel mondo buddhista, come il peccato originale
nella visione biblico-cristiana. Ora la vera radice religiosa della violenza va colta nella stessa parola che
nomina il mondo religioso e che diversifica il mondo orientale da quello semitico e cristiano, quanto a
interpretazione: il sacro, il santo. Nel contesto indo-europeo si indica il sacro con un termine che indica
interezza e totalità (sva-astha, holos, heilig, holy, salvus), mentre nel mondo semitico si indica il sacro con
un termine opposto, che dice “separazione” (qadoš, sacer e analoghi). Qui sarebbe il primo impianto da cui
nasce il concetto stesso di violenza: se il sacro è ciò che è separato, se esiste un discrimine tra sacro e
profano, per colmare questo divario occorre passare attraverso la violenza che riporti a unità ciò che appare
irrimediabilmente distinto. Però questa radicale eteronomia, questa diversità dell’identico non è compresente
in tutte le religioni. La radice della parola “santo” ci conferma che nel mondo orientale prevale un altro
indirizzo: non la dualità, ma l’adavaita (il non dualismo), non la differenza, ma l’identico e non è quindi
necessario passare attraverso la violenza per ricongiungersi all’originario. La violenza è basata sulla
metafisica della dualità e sulla religione dell’impuro apposto al santo, al divino, al puro: «Siate santi
(separati) perché io sono santo (sono altro da)». Le religioni in Occidente hanno cercato di venire incontro a
questi problemi: il rito e il sacrificio rituale – secondo la concezione di R. Girard – alla fine aiuterebbe a
togliere le violenze con la vittima sostitutrice, mentre il modello orientale, contro la violenza, propone di
sopprimere l’ego, semplicemente e decisamente.9
La violenza non può essere dissimulata tanto semplicemente o negata in modo leggero e tuttavia la religione
può essere il fondamento profondo di un’etica che supera la violenza. In effetti, vediamo che tutte le religioni
nuove relazioni. La storia mostra bene come, quando è ammessa la nozione di persona umana, riconosciuta di fatto
anche se non esplicitamente formulata nel diritto, essa comincia a funzionare come un efficace fattore di trasformazione
e di evoluzione. Ci mostra, ancor più chiaramente, che è solo quando una fede religiosa definisce e giustifica i contorni
stessi della persona umana che questa acquista un valore ancor più dinamico ed eminente.
7
Con questa espressione L. Massignon chiamava ebrei, cristiani e musulmani. Cf G. BASETTI-SANI, Louis Massignon
(1883-1962), Alinea, Firenze 1989, 206-209.
8
Viene qui seguito il testo di A. N. TERRIN, Introduzione allo studio comparato delle religioni, Morcelliana, Brescia
1991, 173-174, 180-181.
9
Afferma lo storico F. Cardini: «Induismo e buddismo partono da una visione dell’uomo legato alle altre componenti
dell’universo, in perfetta armonia. Nel mondo indù l’accettazione della pace è obbligatoria. Il mondo abramitico, al
contrario, è un mondo di culture che combattono contro la realtà fisica e storica. Popoli convinti che Dio li abbia creati a
propria immagine e somiglianza. Padroni del mondo, che dominano. Ebraismo, cristianesimo e islamismo hanno alla
base un principio molto forte: il concetto di giustizia. E se la giustizia viene violata, la vendetta è legittima. Questo
principio è talmente radicato che il concetto di non-violenza, intesa come non-reazione, è quasi ripugnante». N.
MARTINELLI, «Un Gandhi per l’islam», Avvenire, 13.07.2005, 24.
3
hanno una posizione critica nei confronti della violenza, anche se mutano i quadri di riferimento e sono
attraversate da correnti che rigettano senza riserve l’uso della violenza. Vi sono credenti, al loro interno, che
operano incessantemente in vista della riconciliazione, come ve ne sono altri che tengono viva la necessità di
riferirsi in modo critico alle tradizioni e agli stessi testi canonici. Le diverse situazioni sociali, in cui sono
inserite le religioni, si prestano a faticose pratiche di ripensamento e attualizzazione (non da ultimo,
attraverso una reale solidarietà con le vittime della violenza).10
Nel cristianesimo, ad esempio, l’ambiguità originaria del sacro, che non distingue tra bene e male, tra vero e
falso, viene meno e l’immagine di Dio comunicata da Gesù rende impossibile un Dio dell’ira e della
vendetta. L’incarnazione porta a concludere che l’atteggiamento religioso ha a che vedere con un’etica
precisa: il sacro non è più il tempio o la legge, ma si trova nei volti concreti degli esseri umani. La più alta
dimensione del sacro è l’uomo vivente, immagine di Dio: abbiamo l’inaugurazione di un nuovo modo di
pensare Dio. Il concetto di sacro non ha più nulla a che fare con la concezione primitiva e maschilista del
culto della forza e dell’arbitrio, compreso il Dio del teismo e dell’onnipotenza di alcune pagine bibliche. Il
concetto di religione che ne esce è profondamente trasformato, tanto che di conseguenza - per esemplificare risulta “sacra” per la coscienza la lealtà della relazione, l’armonia che va costantemente ricercata e costruita,
la qualità del “volto” di tutti.11
2. Il genio del paganesimo
Ma le obiezioni non si fermano qui. Lo stesso Assmann sostiene che il monoteismo biblico è una controreligione, formulata contro una concezione del tutto diversa e molto più antica, il cosiddetto cosmoteismo,
cioè l’idea di un’unità di Dio e natura, di una divinità del mondo. Le considerazioni qui sono ben più
impegnative di quanto io non vada ricordando, ma ne derivano con immediatezza alcune conseguenze, con
esplicite accuse. Nel paganesimo il divino rappresentava una forma di apprezzamento della vitalità e della
sacralità dell’universo, essenzialmente pluralista nella sua manifestazione e tollerante nelle proprie esigenze.
Il politeismo sarebbe stato effervescente e bizzarro come la natura, entusiasmante e festoso, accogliente e
non fanatico, mentre il monoteismo biblico, fin dalle origini, avrebbe indossato le vesti dell’intransigenza e
dell’intolleranza, veicolando l’ossessione dell’unico e dell’omogeneo. La civiltà antica, tollerante rispetto
alle religioni, avrebbe compreso il potenziale fanatismo del monoteismo chiuso ad ogni scambio rispettoso.
Addirittura, da vari settori del pensiero occidentale si sono levate voci che vedono nel monoteismo il vero
responsabile della disumanizzazione imperante nel nostro tempo: la fede in un Unico Dio rappresenterebbe il
postulato di un’unica verità, il cui possesso porta all’intolleranza religiosa e alla tirannia sulle coscienze, da
cui deriverebbero assolutismo culturale, atteggiamenti di arroganza del sapere e della cultura occidentale, la
violenza religiosa, il colonialismo vecchio e nuovo, il razzismo.12
10
Il numero 4/1997 della rivista Concilium, curato da K. J. Kuschel e W. Beuken, dal titolo Religione – fonte di
violenza?, tratta dell’argomento tenendo conto proprio di pratiche di riconciliazione, senza tacere i nodi delle questioni.
11
Si veda la presentazione critica che V. Mancuso fa del libro di U. Galimberti, Cristianesimo. La religione del cielo
vuoto (Feltrinelli, Milano 2012), in «Quel che resta del sacro», La Repubblica, 15.11.2012, 51. Secondo Galimberti, il
cristianesimo ha eliminato dal concetto di Dio la pienezza della vita. La vita infatti è bene + male, giustizia +
ingiustizia, mentre il Dio cristiano è solo bene e solo giustizia, quindi strutturalmente incapace di rispecchiare la
straboccante totalità della vita. Liberando Dio dalla responsabilità del male, il cristianesimo l’ha impoverito rendendolo
incapace di abbracciare il tutto, così che, a differenza degli dèi greci e dell’islâm, il cristianesimo è rimasto privo della
dimensione del sacro. Il sacro infatti non conosce distinzione tra bene e male, ma veicola una dimensione di fascino e
insieme di terrore, in un’originaria ambiguità che rispecchia alla perfezione l’ambiguità della vita (il latino sacer
significa al contempo “sacro” ed “esecrato”). Privo di sacralità, ridotto ad agenzia etica, il cristianesimo non è più in
grado di riempire il cielo della storia, che quindi, per l’Occidente, risulta vuoto. Per Galimberti, la notte indifferenziata
del sacro è lasciata alla solitudine dei singoli, che, senza protezione religiosa, devono vedersela da soli con l’abisso
della propria follia, che il sacro sapeva rappresentare e la ritualità religiosa placare.
12
La pubblicistica non è da poco. Ricordo soltanto la recente riedizione di A. DE BENOIST, Come si può essere pagani?,
Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed., Roma 2011. Secondo l’autore, il cristianesimo costituisce, più ancora che un insulto
alla ragione, una deviazione rispetto alla spiritualità e al sacro. Amputando, in larga misura, i popoli europei delle loro
tradizioni religiose più antiche, del loro paganesimo originale, il monoteismo cristiano ha sortito l’effetto di allontanare
Dio dagli uomini e di esiliarlo fuori del mondo. De Benoist non propone un ritorno all’indietro e nemmeno ad una
nuova religione, quanto ad una nuova domanda di fondo sul senso che riveste oggi la parola «pagano». Invece
l’antropologo F. REMOTTI, in L’ossessione identitaria e Contro natura. Una lettera al papa (entrambi Laterza, Bari
2010), non sopporta lo scagliarsi contro una modernità che fa invece gustare le meraviglie di un politeismo liquido,
pluralista, tollerante e liberatorio. Si possono vedere anche i contributi di A. RUSSO, «Analisi delle recenti accuse al
4
Probabilmente - giusto per non menzionare soltanto la «distinzione mosaica» di Assmann (che fa da sfondo a
questa tavola rotonda) - potremmo anche ricordare il fatto che già nell’antichità il politeismo fu oggetto di
critica filosofica; che nella teologia cristiana dei primi secoli non sono mancate interpretazioni inclusive
delle forme sapienziali elaborate in àmbito non cristiano; e da ultimo, che la coscienza moderna, proprio
perché maggiormente avvertita della varietà del fenomeno religioso, non ha rinunciato a porre la questione di
una distinzione di valore tra le diverse forme religiose.13
Riguardo, poi, ad un ricorso al politeismo quale lettura o addirittura auspicio di una modalità “leggera” di
dire Dio, mi piace mettere accanto alle osservazioni di Assmann anche le parole del famoso archeologo
Buccellati, esperto di Mesopotamia e Siria, il quale affermava che «Tra Bibbia e Mesopotamia lo scarto
culturale riguarda la frammentazione o l’unitarietà del divino. Per gli antichi di Babilonia Dio era divisibile,
e quindi controllabile. Per la Scrittura Dio è imprevedibile. E così anche noi moderni siamo un po’ figli della
grande cultura mesopotamica, che tende a rendere scomponibile la realtà».14 Mi piace partire da questo
spunto per concludere che il Dio del monoteismo non è semplicisticamente frammentabile, ma caratterizzato
da una grande coerenza: a noi spetta il compito di coglierne la devastante imprevedibilità, senza ridurlo a
definizioni e stili prevedibili.
3. La “funzionalità politica del monoteismo”
Le accuse portano anche a vedere nel monoteismo il generatore di società totalitarie, in quanto garante di un
modello politico e ideologia a servizio di un potere politico. La questione della “funzionalità politica del
monoteismo” è stata investigata anche dalla teologia, come se l’unicità del mistero divino rivelato sia
assimilabile ad un’idea funzionale e organica ad una qualsiasi rappresentazione del mondo.
«L’egittologo tedesco Jan Assman ha sostenuto che tra tutte le religioni solo il Monoteismo è potenzialmente
violento e perciò nemico della libertà religiosa. Questo assunto è ovviamente ispirato dagli studi di Assman sul
Faraone Amenhotep IV, che si proclamò Echnaton, “servo del solo Dio Aton”, e la rivoluzione monoteista
intorno al tredicesimo secolo a.C. L’ipotesi di Assman ha sicuramente una plausibilità iniziale. Se c’è un solo
Dio, la venerazione di tutte le altre supposte divinità è uno scandalo da eliminare. O, per dirla in un altro modo,
il monoteismo introduce nella religione l’idea della verità, la distinzione tra la verità e la non-verità. La
questione fu complicata fin dall’inizio da quella che è normalmente chiamata “l’alleanza fra trono e altare”.
monoteismo», in Asprenas 43 (1996), 459-482 e G. RAGOZZINO, «Apologia del monoteismo», in Asprenas 45 (1998),
391-398.
13
S. ZUCAL, «Ma il Dio cristiano ha l’esclusiva?», Avvenire (03.03.2012) 27. Riprendo la citazione per intero: «Ha
ancora senso porsi oggi da un punto di vista filosofico la domanda sull’«assolutezza» di una religione rispetto alle altre?
E il cristianesimo è davvero la religione «assoluta»? Spesso si sente affermare che nella storia culturale dell’Occidente
una simile domanda ha senso soltanto nel contesto delle religioni monoteistiche e in particolare a partire da quella che
l’egittologo Jan Assmann ha chiamato la «distinzione mosaica». Con la rivendicazione di un’assoluta superiorità del
«Dio geloso» dell’ebraismo, si sarebbe prodotta quella frattura tra il politeismo tollerante dell’antichità e appunto
l’esclusivismo del monoteismo ebraico, prima, e cristiano e islamico, poi, per i quali soltanto una è la religione vera. Si
tratta, però, di una tesi ideologicamente orientata e in larga misura discutibile perché già nell’antichità il politeismo era
stato oggetto di critica filosofica. Nella teologia cristiana dei primi secoli non sono mancate interpretazioni inclusive
delle forme sapienziali elaborate in àmbito non cristiano, mentre la coscienza moderna, proprio perché maggiormente
avvertita della varietà del fenomeno religioso, non ha rinunciato a porre la questione di una distinzione di valore tra le
diverse forme religiose. Anzi proprio la coscienza moderna, consapevole della genesi storica delle religioni e dei motivi
spesso contingenti che hanno segnato il loro sviluppo, ha posto con fin troppa forza una simile questione alimentando
così la decostruzione razionalistica del cristianesimo. Soltanto con il diffondersi di varie tendenze filosofiche di tipo
relativistico, essa è sembrata divenire troppo gravosa per gran parte della coscienza culturale contemporanea, e
fondamentalmente ha finito per estinguersi in quella che oggi è la posizione maggioritaria tra i filosofi della religione e
talora anche fra i teologi delle religioni, cioè il pluralismo religioso di fatto indifferenziato».
14
Giorgio Buccellati, uno dei più importanti archeologi viventi, è docente emerito di Storia dell’Antico Oriente
all’University of California, dove nel 1973 ha dato vita all’Istituto di Archeologia, di cui è stato il primo direttore fino al
1983. Ha inoltre diretto l’Istituto Internazionale per la Mesopotamia e l’Alta Siria. «In Mesopotamia, dove è nato il
primo sistema di pensiero a noi noto così ampio, rintracciamo la tendenza a bloccare e frammentare l’assoluto,
riducendolo a parti specifiche. Gli dei rappresentano queste unità singole: c’è il dio dell’amore, della forza, della
ricchezza, divinità che non hanno personalità ma si riferiscono a specifici aspetti dell’assoluto. Invece il Dio biblico non
è mai frammentabile. In tutta la Bibbia, lungo l’intero percorso della Scrittura, pur così ampio e diversificato, esiste una
notevole e precisa coerenza su questo. C’è davvero una grande coerenza di un Dio che non è mai frammentabile, al di là
della nostra capacità di analizzare». Intervista di L. FAZZINI, «Politeismo, la sfida ritorna», Avvenire (01.08.2012) 19.
5
Già nel caso del monoteismo di Echnaton si trattava della fede proclamata da un governante. Esso ebbe perciò
inevitabilmente delle implicazioni politiche; la fede del governante e l’unità e l’identità dell’Impero egiziano
finirono per essere legate».15
Nei primi secoli, il cristianesimo era stato essenzialmente religione di martiri e confessori della fede, mentre
la successiva alleanza tra religione e potere politico ha segnato l’epoca della cristianità ed è stata all’origine
di intolleranza, violenze e guerre. Anche teologi cristiani, tra cui Erik Peterson, hanno mosso aspre critiche al
legame tra religione e potere, addebitando al monoteismo la responsabilità del connubio tra fede in Dio e
potere politico.
J. Moltmann, ad esempio, sostiene che il monoteismo cristiano è monarchismo e che l’idea di una monarchia
divina in cielo e sulla terra fonda poi generalmente la signoria terrena (religiosa, morale, patriarcale o politica),
trasformandola in gerarchia. Il monoteismo politico-religioso sarebbe sempre stato impiegato, a partire dai culti
all’imperatore nell’antichità, dal bizantinismo fino alle ideologie dell’assolutismo nel sec. XVII e della
dittatura del XX, per legittimare il potere, e questo perché, in ambito cristiano, la dottrina trinitaria non è
evoluta come dottrina teologica della libertà, dell’unificazione e comunione tra le persone.16 Moltmann
sostiene inoltre che il monoteismo monarchico si sviluppò anche nella dottrina ecclesiastica dell’autorità,
sempre per restare in ambito cristiano: la gerarchia ecclesiastica deve corrispondere alla monarchia divina e
rappresentarla, cosa che permise di garantire l’unità a scapito del carisma. Lo stesso Moltmann, comunque, è
consapevole che le conclusioni cui arriva presuppongono un ragionamento non del tutto appropriato alla
riflessione trinitaria.
La tesi ha ormai mostrato la sua inconsistenza dal punto di vista storiografico. Il problema non risiede nel
monoteismo in quanto tale, ma nel suo uso: è questo che lo può rendere funzionale a un regime politico e
dunque un fattore di divisione tra gli uomini.17 Vi sono forme di realizzazione storica del cristianesimo che
oggi si è pronti a dichiarare indebite, di fronte alla verità dello stesso cristianesimo. Salim Daccache,
nell’ultimo Dies Accademicus (28.11.2012), ha fatto riferimento al famoso discorso di Regensburg:18
15
N. LOBKOWICZ, «Il Faraone Amenhotep e la Dignitatis Humanae», Oasis 8 (2008) 18.
Una prima forma di monoteismo politico, secondo Moltmann, fu quella degli apologeti cristiani dell’antichità: dalla
fusione tra monarchismo biblico e cosmologico venne a delinearsi la piramide del mondo: l’unico Dio è Creatore,
Signore e Padrone del mondo. La volontà divina ne costituisce la legge; in Lui il mondo ha la propria unità e pace. Il
panteismo stoico fu esasperato in un teismo cristiano: il mondo non è il “corpo” visibile della divinità invisibile, bensì
“l’opera” del Dio Creatore. Il politeismo dei pagani è idolatria e la varietà delle nazioni, cui dà origine, spiega la
discordia che vi regna, mentre la fede nel Dio unico porta la pace nel mondo plurale e antagonista degli dèi. Questa
teologia politica venne propagata a partire da Origene per giungere fino a Eusebio di Cesarea. Fu facile trarre una
conclusione teocratica alle premesse addotte: un Dio, un imperatore, una chiesa, un regno. L’assolutismo moderno fu
l’ultima figura di un monoteismo politico legittimato in chiave religiosa, dove si incontrarono sovranità divina e
sovranità dello Stato. «Il regno della libertà», in Trinità e Regno di Dio, Queriniana, Brescia 1983, 204-217. L’autore
aggiunge: «Quanto più si sottolinea l’economia della salvezza e della signoria di Dio, tanto più ci si vedrà costretti a
sottolineare l’unità di Dio, perché questa signoria di Dio sembra possa venir esercitata soltanto da un soggetto unico e
identico. Invece quanto più si sviluppa la dossologia, tanto più si riconosce la Tri-Unità già nella storia della salvezza e
nella signoria che ci rende liberi e la si loda per l’eternità» (204).
17
Sulla questione del rapporto tra monoteismo, politeismo e intolleranza, si sofferma anche una parte del libro di E.
BIANCHI, Cristiani nella società, Rizzoli, Milano 2003. Afferma M. Arkoun: «La religione emana dal cielo, ma quando
scende sulla terra utilizza una lingua umana. (…) Qualsiasi religione tende e desidera l’unità: un credo non tollera
concorrenti, che inevitabilmente vengono considerati eretici. È un funzionamento intrinseco della religione, che instaura
un “regime della verità”, necessariamente monolitico. (…) Da un punto di vista sociologico, storico e antropologico,
ogni religione contiene al suo interno sfumature diverse perché è sempre anche il prodotto di società diverse; cercare di
ridurla a una definizione unica, significa sopprimere la società che ha prodotto una determinata forma specifica». E.
CASTAGNA, «Anche l’islam è plurale», Avvenire, 23.06.2005, 28.
18
«Non è un caso che il controverso discorso di Regensburg abbia aperto un controverso dialogo con l’islam. Senza il
colpo di avvertimento costituito dalla citazione di un imperatore bizantino, molti uomini di cultura musulmana non
avrebbero forse mai pensato di accettare l’invito al dialogo, di prenderlo sul serio, di rispondere gentilmente e di
cominciare subito ad avanzare delle critiche invece dei soliti scambi di cortesie. Che altri musulmani abbiano reagito
con un atto di violenza sanguinaria conferma che la questione del rapporto tra fede e violenza resta per l’islam un
problema aperto. Il Papa ha facilitato l’apertura di un dialogo serio ammettendo senza infingimenti apologetici che
anche la cristianità ha avuto questo problema per tanto tempo e che spera che l’islam compia lo stesso processo di
apprendimento che ha compiuto la Chiesa. Oggetto di tale dialogo sarà verificare se il Corano favorisca un tale processo
allo stesso modo del Nuovo testamento. Metterlo inizialmente in dubbio fa parte di un onesto inizio di dialogo». R.
SPAEMANN, «Ma Dio non è violenza», Avvenire, 18.07.2007, 25.
16
6
«Benedetto XVI ha affermato che le violenze attuate in nome della religione sono espressioni dei limiti di
una comprensione culturale inadeguata che i seguaci delle religioni hanno avuto in determinati momenti
storici rispetto a come declinare l’insegnamento religioso in rapporto a questioni specifiche. Andrebbe quindi
operata una distinzione tra la fede religiosa considerata nella sua dimensione dottrinale e le sue declinazioni
storiche, spesso insidiate da forme diverse di compromesso e di interferenze dovute alle più diverse ragioni
storiche e culturali. La ragionevolezza resta elemento fondamentale della fede e dell’etica che ne
scaturisce»,19 considerato che la violenza è originata proprio dalla dissociazione fra ragione e fede e quindi
dall’abbandono di quella che Assmann definisce la «distinzione mosaica».20
Daccache continuava affermando che ogni religione e a fortiori le religioni monoteiste non possono esistere e
manifestarsi che attraverso dei segni materiali, di cui esse sono le proprietarie, il cui rischio è che divengano
degli idoli da difendere o imporre, anche cadendo nell’irrazionale o nella forza cieca. Da qui l’invito ad usare
le mediazioni, senza abusarne e facendone piuttosto un dono. Continuava il relatore: «Le dialettiche all’opera
tra religioni e violenza intrecciano affinità e antinomie: i monoteismi hanno per effetto sia di generare la
violenza (giustificandola in nome di Dio), ma anche di regolarla (addomesticandola e canalizzandola), sia di
denunciarla (protestando contro le sue legittimazioni abusive). Ora queste tre realtà sono ben presenti in tutte
le religioni, politeiste così come monoteiste, e si manifestano in funzione del loro rapporto con il potere
politico. La correlazione tra monoteismi e violenza è dunque in definitiva contingente, ossia significa che ci
può essere così come può anche non esserci».21
Non è il monoteismo in quanto tale, quindi, ma un determinato uso di esso a renderlo funzionale ad una
visione della società dove l’ordine e il bene comune sono garantiti dall’unicità di una volontà sovrana (sia
essa quella di un sovrano, di un gruppo o di una classe).22 Né le religioni monoteistiche, né l’ortodossia
19
Nel famoso discorso di Regensburg (12.09.2006), Benedetto XVI aveva approfondito e riproposto il nesso costitutivo
esistente tra fede e ragione, tra ragione e conoscenza di Dio, affermando che l’utilizzo della violenza in nome della fede
è irragionevole e dunque assolutamente contrario all’identità di Dio e alla sua volontà nei riguardi degli uomini e dei
loro itinerari religiosi personali e comunitari. Benedetto XVI ha sempre messo in guardia dalle patologie della religione,
tra cui la violenza religiosa, definita come «falsificazione», tanto quanto il fondamentalismo: si vedano le parole del
pontefice durante il viaggio aereo verso Beirut (14-16.09.2012) e la conversazione con J. Habermas del 2004, da cui il
libro Ragione e fede in dialogo (Marsilio, Venezia 2005). Anni prima, Giovanni Paolo II auspicava che «mai Dio sia
fatto ostaggio delle ambizioni degli uomini. L’odio, il fanatismo e il terrorismo profanano il nome di Dio e sfigurano
l’autentica immagine dell’uomo». («Rispetto per l’islam», Il Regno-documenti 17/2001, 536). Sulla relazione tra fede e
ragione torna anche un intenso articolo di K. MULLER, che riformula in questa prospettiva la critica di Assmann al
monoteismo. «Dio fra monoteismo e monismo», il Regno-attualità, 18/2006, 641-650.
20
«Questa luce [la ragione], come dice Platone, fa vedere il bene come il koinon, “ciò che è comune a tutti” (Cfr
Platone, Fedone). Non a caso Eraclito parla a questo riguardo del logos e logos significa anche “parola”. Soltanto
attraverso la parola, soltanto attraverso la lingua, attraverso il parlare con gli altri, noi ragioniamo. La violenza però è
l’esatto contrario del parlare con gli altri. Lo scopo del discorso è l’intesa tramite la comune sottomissione al criterio del
vero, lo scopo della violenza è la sottomissione dell’altro alla volontà di colui che si dimostra fisicamente più forte.
Michel Foucault, che nega l’intelligibilità del mondo, deve di conseguenza minimizzare la differenza tra dialogo e
violenza. Siccome non esiste un qualcosa che non sia verità, anche nel dialogo può trattarsi solo di misurare le forze
nella lotta per il potere. Così già pensavano d’altronde i sofisti con i quali si scontrò Socrate. Soltanto quando si dà
verità come koinon si dà un’alternativa alla violenza. (…) La trasformazione del dialogo in violenza è sempre il
fallimento della ragione e la probabilità che una situazione violenta possa essere migliorata con la violenza è scarsa». R.
Spaemann, «Ma Dio non è violenza», Avvenire, 18.07.2007, 25.
21
Aggiungeva Daccache: «Evidentemente queste prospettive richiedono di essere sfumate. Esse devono tenere conto
anche dei contesti di crisi, della minaccia e della persecuzione religiosa che pesa sulle persone. Inoltre esse devono
prendere in considerazione lo stato della dottrina e della riflessione sulla violenza, stato variabile a seconda delle
religioni. Ma la questione concerne ugualmente ogni credente che si deve interrogare sul senso che può avere la sua
religione allorché essa è ridotta a un ordine di legittimazione nei confronti del quale ogni rapporto all’altro che non sia il
modo dell’ostilità sarebbe negato».
22
E. PETERSON, nel suo Il monoteismo come problema politico (Queriniana, Brescia 1983, originale del 1935), ha
evidenziato che i despotismi hanno pressoché sempre negato sia l’incarnazione sia la Trinità, per tornare ad un
monoteismo che sembrava meglio favorire la loro concezione sacra del potere imperiale. MANARANCHE fa notare come
si possa scorgere una reale affinità tra tutte le forme di monolitismo: monarchia, monofisismo, monotelismo, a partire
dalla storia della Chiesa, nelle quali non vengono assunti nella giusta complementarietà i concetti di Trinità e
Incarnazione. «Questa unità di Dio è stata troppo pensata, talvolta, in funzione dell’unità del cosmo sotto l’aspetto
coattivo: oppure in connessione con un simbolismo troppo patriarcale». Op. cit., 166-173.
7
trinitaria, per se stesse, sfuggono alla possibilità di una caduta ideologica, che si verifica quando
l’immaginario religioso viene strappato all’orizzonte mistico e reso funzionale ad un orizzonte etico.23
Abbozzando qualche altra risposta, potremmo dire che l’ideologia unitaria non può fondarsi su un
ragionamento deduttivo del tipo: se Dio è uno, esige una forma sociale unica del suo riconoscimento; oppure:
al riconoscimento di un Dio Unico corrisponde una volontà di dominazione unitaria del suo gruppo
testimone, non per sete di potere, ma per dovere. Il ragionamento è troppo astratto per esplicitare ciò che è
storicamente avvenuto (e le reali intenzioni della rivelazione biblica). Non tutti i monoteismi sono totalitari
ed intolleranti (mentre, per converso, la storia mostra che i grandi imperi totalitari dell’antichità sono stati
politeisti). Ha condotto invece assai più all’intolleranza l’assunzione da parte di Dio di una storia particolare:
concretamente sono state la struttura gerarchizzata della chiesa e la sua pratica universalistica che hanno fatto
giocare al monoteismo questa funzione ideologica.24 Ciò che sorregge il ragionamento non è “un solo Dio”,
ma è “un solo Signore storico” che mette in moto il processo della storicità dei testimoni ecclesiali e pertanto
del segno particolare dell’appartenenza, il cui rovescio è l’esclusione. È il modo in cui la chiesa fa agire
storicamente Dio che porta il monoteismo a svolgere il compito ideologico di fondamento di una prassi
unitaria. La particolarità della chiesa prolunga la particolarità della sua origine, ma lo scopo dell’elezione
non è l’esaltazione di Israele e dell’immutabilità delle sue leggi, quanto piuttosto la testimonianza portata al
Dio vivente. Assumere la precarietà, la contingenza e la particolarità non significò per Gesù renderle assolute
o divine: fu per invitare ad incontrare Dio nel mediato. 25 Le modalità del rivelarsi di Dio sono
profondamente storiche: ecco l’antidoto al fondamentalismo e alla cultura conflittuale, che non ha bisogno di
alcuna «semplificazione identitaria».26 Il monoteismo cristiano, pertanto, possiede un carattere di
destabilizzazione e non di giustificazione, anche se non è facile mantenere lo scarto tra la prassi unitaria
cattolica storicamente radicata e il suo supposto fondamento, il monoteismo.
4. Le parole della croce
Se vi sono state nella storia delle aberrazioni da parte cristiana, quasi che la violenza potesse essere
funzionale all’annuncio del Vangelo, sappiamo che vanno attribuite agli uomini e alle donne di fede
23
«L’universo etico sorge per un irrigidimento della dimensione simbolica, per un tentativo di bloccare e fissare la
discesa del divino, per dare dignità definitiva e non soltanto dinamica ad un gesto: altrimenti si è dannati. L’etica sorge
perché si vuole dare una dimora al divino [ed éthos significa proprio ‘dimora’, ‘carattere’]. Quando l’uomo traccia le
mura di una dimora al divino, il divino diventa progetto di esistenza e l’esistenza stessa si sacralizza. Allora l’unicità di
Dio diventa confine, esclusione di tutto ciò che non è integrabile al progetto e, al tempo stesso, principio di coesione di
tutto ciò che nel progetto si lascia integrare. La questione più ardua e difficile è data dalla inevitabilità dell’etica: perché
sorge la conoscenza del bene e del male?» G. RUGGIERI, «Dio e potere: funzionalità politica del monoteismo?», in
Concilium 1/1985, 43.
24
Sul ruolo delle mediazioni storiche torna anche E. SCHILLEBEECKX, in «Religione e violenza», nel già citato numero
di Concilium, a partire da pagina 217. L’autore, ad esempio, ricorda che l’elezione divina di un popolo non può suonare
come minaccia per altri e che le forme storiche di un’elezione religiosa devono essere al servizio di un’elezione
universale e sottomesse alla sua critica. Nell’avvenimento della croce si vede come l’incarnazione (la più alta forma di
elezione) del Figlio di Dio come manifestazione storica (Gesù di Nazareth), sottomette ogni elezione e ogni alleanza
all’intenzione universale della creazione: la salvezza di tutti. Grazie allo Spirito, la redenzione di Gesù acquista una
figura storica universale senza alcuna discriminazione e violenza virtuale.
25
Cfr C. DUQUOC, «Monoteismo e ideologia unitaria» in Concilium 1/1985, 89-97. Secondo l’autore, il monoteismo
cristiano è la risultante di diversità assunte nella comunione (parliamo di immagine trinitaria di Dio): le diversità
espresse non si addizionano, ma si articolano in un’unità che confessiamo Dio. Questo porta a non identificare la serie
degli attori divini con una sola trama: quella del Nazareno. Il dono dello Spirito non assolutizza la particolarità di Gesù,
ma lo colloca come punto critico per le altre vie di accesso a Dio. L’intercomunione di attori divini, aventi ruoli diversi
nella storia, apre uno spazio in contraddizione con la chiusura dell’ideologia unitaria..
26
«L’appartenenza religiosa da base per una convivenza civile all’insegna della solidarietà e dell’accoglienza reciproca,
diventa causa e occasione di divisione sociale, di irrigidimento culturale, di esclusivismo religioso. È noto, d’altra parte,
come nella religione sia custodita la simbolica di un popolo, lo scenario della sua appartenenza, il luogo di
riconoscimento della propria identità. Ora, precisamente la dimensione pre-razionale tipica dei simboli, di per sé, non
facilita la dialogicità, perché i simboli sono sempre collegati all’identità e all’appartenenza, attraverso cui ciascun
individuo giunge al riconoscimento di sé. La religione, nella misura in cui rimane a livello di puro “sapere” e
“conoscenza”, non causa divisione o conflitti, perché oltrepassa la soglia del regime simbolico, dove la dialogicità è
molto difficile. Quando, invece, essa assume il carattere di un atteggiamento di fede personale e pre-razionale, crea
inevitabilmente un senso di appartenenza forte dei fedeli e di esclusione dei non fedeli». F. MASTROFINI, «Dal
fondamentalismo al dialogo», Settimana, 44/2006, 3. L’autore riporta il pensiero del vescovo I. Sanna.
8
cristiana, ma non al messaggio fondante di Gesù. Gesù rimane la “riserva critica” del nostro pensare e del
nostro agire. La cultura del conflitto non è un’invenzione cristiana e lo specifico cristiano si fonda sulla croce
di Gesù, che abolisce qualsiasi affermazione di identità fondata sulla negazione dell’altro. Gesù, Parola di
Dio inchiodata alla croce, dice il modo nuovo, originale, non ovvio, sovranamente divino e autenticamente
umano di manifestarsi di Dio. «Non è più l’essere umano a subire la violenza divina; è il divino a subire la
violenza umana e a trovarsi, nell’uomo Gesù, messo a morte. Il Dio che fa violenza diventa il Dio al quale si
fa violenza».27 Questa è la specificità della rivelazione cristiana rispetto ad ogni altra religione, una
specificità che comunica anche il giudizio di Dio sulla religione in quanto tale e sulle religioni. Il Crocifisso
smaschera il volto violento della religione, nella misura in cui ne rimane vittima sulla croce.28
La croce giudica ogni pretesa di dare salvezza alla sete dell’uomo che non parta esclusivamente da Dio, la
rappresentazione religiosa di un ordine sociale (dove si giustificano, ad esempio, rapporti diseguali o un ordine
socio-politico preciso), la definizione religiosa dell’identità di un gruppo, il ricorso puramente ideale alla nonviolenza, come anche qualunque tipo di legittimazione (evidente o nascosta) dell’ingiustizia sociale, della
violenza di genere. La croce giudica anche della violenza che abita ogni rifiuto netto del dialogo.
Per il cristiano, riconoscere la propria identità significa riconoscere l’identità altrui (a partire da quella di chi
soffre): l’Incarnazione di Cristo è avvenuta per tutti gli uomini e tra tutti gli uomini continua ad agire, grazie
all’azione dello Spirito del Cristo risorto, come ci ricorda il numero 22 della Gaudium et Spes. Questa è
l’ispirazione di fondo che va mantenuta, per evitare che la religione venga trasformata in una perversione al
fine della violenza, del tutto contrapposta al criterio della carità. Il mistero della morte e risurrezione di
Cristo, così come le beatitudini, incrociano e superano la storia di Erode e di Pilato. Tocca a noi sviluppare
forme di santità capaci di riassumere tutta la complessità della storia, allargando il cuore a tutta l’umanità e al
cosmo.29
SECONDA PISTA DI LAVORO.
Monoteismo, monoteismi e consigli per l’uso
Potremmo anche iniziare questa seconda pista di riflessioni ricordando che, secondo la Bibbia, il primo
omicidio è avvenuto nei pressi di un altare e dopo un sacrificio offerto a Dio (cfr. Gen 4,3- 8) ed è innegabile
che nella storia il monoteismo sia divenuto motivo di violenze e guerre, soprattutto quando il singolare
«monoteismo» è stato declinato al plurale come «monoteismi», indicando con ciò le tre grandi religioni:
ebraica, cristiana e islamica. Potremmo distinguere tre ambiti in cui si è manifestata l’intolleranza: a) nella
relazione dei monoteismi fra di loro; b) nelle espressioni interne di ciascun monoteismo; c) nel rapporto dei
monoteismi con gli “altri”, «pagani», «non credenti o «infedeli» che siano.
27
J.-D. CAUSSE, «La religione dell’amore: una risoluzione della violenza divina?», in J.-D. CAUSSE – E. CUVILLIER – A.
WÉNIN, Violenza divina. Un problema esegetico e antropologico, Edizioni Dehoniane, Bologna 2012, 159.
28
Riguardo al messaggio di Gesù in croce in quanto superamento definitivo della violenza, «L’argomentazione parte
dalla presenza nella Bibbia e anche nei Vangeli dell’immagine di un Dio «simmetrico» al ragionare dell’uomo circa
giudizio, premio e castigo. Quest’immagine di Dio simmetrica alle misure dell’uomo regge la dottrina della retribuzione
nella letteratura profetica e apocalittica, con riscontri anche nei Vangeli e altrove nel Nuovo Testamento. La croce
invece segna il passaggio definitivo all’immagine di Dio «asimmetrico» rispetto al ragionare dell’uomo: in essa infatti
l’amore sovrabbondante e gratuito si manifesta come criterio assoluto di salvezza, misura unica ed estrema, che riporta
al progetto originario di un Dio che crea per totale bontà». A. F., «La violenza nella Bibbia», Il Regno-attualità,
18/2006, 616.
29
«Il concetto di umanità, che il XVIII secolo volle mettere in campo contro l’intolleranza delle religioni rivelate,
contestando il loro possesso esclusivo e la loro validità universale, non ha resistito alla critica, perché era ancorato nelle
concezioni occidentali della comune origine e della natura dell’uomo. Oggi, che il problema si pone con tutt’altra
urgenza, noi non ancoriamo il concetto di umanità nell’origine, bensì nel fine e non deriviamo i concetti di diritti umani,
libertà, democrazia, distribuzione del potere, ecc. dalla natura dell’uomo, bensì da obiettivi e bisogni comuni. Che
l’origine del concetto sia occidentale o orientale è del tutto irrilevante; ciò che importa è che esso venga perseguito in
Oriente e in Occidente. Non parleremmo neppure più di «religione» dell’umanità; infatti il principio che relativizza, sia
pure rispettandole, le differenze religiose e culturali è un principio non religioso, ma laico, e si appella non a Dio e alla
rivelazione, bensì alla ragione e al discernimento. Ma queste non dovrebbero essere contrapposizioni. Nella misura in
cui anche le religioni fanno propri questi obiettivi, non polarizzano, ma umanizzano». J. ASSMANN, «Il Dio totale», il
Regno-attualità, 12/2011, 417.
9
1. Un inventario delle differenze
Se ebraismo, cristianesimo e islâm si rifanno all’unico Dio e si riconoscono discendenti di Abramo, padre di
tutti i credenti nel Dio unico, questa comune eredità è divenuta, come spesso nelle famiglie, motivo di
gelosia, di opposizione e perfino di violenza. Ciascuno dei tre monoteismi è stato persecutore e perseguitato
nei confronti dell’altro monoteismo, certamente in misure molto diverse e da valutarsi storicamente in
maniere differenziate (si pensi al rapporto ebraico-cristiano, dentro il quale non si possono comparare le
persecuzioni ebraiche contro i primi cristiani e l’antigiudaismo cristiano la cui influenza non è stata estranea
alla Shoah).
A modo di precisazione terminologica, comunque, sarebbe anche utile ricordare che il termine
“monoteismo” appartiene a quel cestino di prodotti che volentieri vengono comperati assieme (ci mettiamo
anche la “rivelazione”, le “religioni del libro”, le “religioni abramitiche”), ma sui quali andrebbe fatto anche
un più corretto “inventario” delle differenze, considerato che le grandi tradizioni monoteistiche, nel caso
specifico, dicono in modo diverso la loro effettiva percezione del monoteismo. Il monoteismo come religione
di fatto è professato dalle «religioni di Abramo» (ebraismo, cristianesimo e islâm)30 che, differenziazioni a
parte, sviluppano comunemente due parametri: la trascendenza che prende consistenza personale e la
salvezza escatologica. Detto questo, però, il mistero di Dio delle tre grandi religioni monoteiste non è
vissuto, né definito allo stesso modo: la convergenza delle parole si accompagna spesso ad una specifica
divergenza di contenuti. Il monoteismo musulmano (puro divieto di associare qualcuno ad Allâh) non può
essere confuso con quello ebraico che sostiene l’unicità dell’elezione storica di Israele (monoteismo
monogamico: Dio è l’unico sposo dell’unico popolo eletto), o con la fede cristiana che professa un solo Dio
nella Trinità.31 Detto in modo diverso, «Dio può essere uno per continuità con sé, senza soluzione di
continuità. Il Corano si rappresenta qualcosa del genere quando, in una sura famosa, utilizzata spesso contro
l’idea cristiana della Trinità, chiama Dio “l’Inconoscibile” (as-samad, CXII, 2). I commentatori spiegano che
Egli è come continuo, senza difetto, come un pezzo di metallo ben forgiato. Dio può essere uno per fedeltà a
se stesso al di dentro di un progetto di salvezza che si svolge in una storia. Forse è ciò che viene espresso
dalla famosa formula con la quale il Dio di Israele si presenta chiamandosi “io sono colui che sono” (Es
3,14). Dio può essere uno per accordo nell’amore delle tre ipostasi della sostanza divina. La Trinità, per il
monoteismo, non è un modo per attenuare il rigore del monoteismo, ma per dire come Dio è uno. Se “Dio è
amore”, è l’amore che deve costituire anche la legge interna del suo essere e quindi della sua unità con sé».32
Il popolo di Israele ha rivolto il suo pensiero all’unicità di Dio e anche se lo sviluppo del monoteismo ebraico
non è sempre stato lineare, possiamo affermare che il Dio di Israele ha assunto poco per volta un volto preciso:
il Dio unico ed esclusivo del popolo diventa anche il Dio unico di tutti i popoli. Fu il profetismo biblico in
particolare a confermare questo, approfondendo la relazione con Dio in chiave personale e sociale, tanto che
l’affermazione dell’unicità divina ha conseguenze di carattere liturgico (il sabato), politico (la restaurazione di
Israele) ed etico (l’osservanza del Decalogo). La dottrina trinitaria dei cristiani, invece, non è un aggiustamento
o un correttivo venuto dopo l’affermazione dell’unità di Dio: dire che Dio è Uno, per i credenti in Cristo,
significa dire che è Amore: la Trinità è la sostanza stessa del monoteismo dell’Unico Dio di Gesù Cristo. Non
vi è altro modo per dire che Dio-Trinità è amore se non quello di affermare che è Uno. Il dato unico, in Dio, è
la perfezione della misericordia che ha preso forma di “passione”, nel senso più vero del termine. Nella dâr alislâm Dio è Unico (wahîd), Uno in se stesso (ahad), nel suo mistero incomunicabile e totale. Il monoteismo
30
Alle religioni di Abramo si è soliti aggiungere lo zoroastrismo nella sua versione moderata o monarchica, anche se la
sua innegabile struttura dualista viene letta in maniera discorde. Elementi che si richiamano al monoteismo (non
assoluto), inoltre, si riscontrano all’interno delle religioni dei popoli pre-letterati, nel culto del dio-Sole del re egizio
Akhnaton (metà del XIV sec. a.C.) e in Grecia (Senofane), fenomeno questo dove poterono giocare un ruolo anche
eventi statali e politici, oltre che le discussioni filosofiche e teologiche. Anche nella religione germanica e presso lo
stesso induismo delle sette si osservarono alcune tendenze monoteistiche, anche se si potrebbe essere in presenza di
concezioni enoteistiche e monistiche. Cf R. PETTAZZONI, L’essere supremo nelle religioni primitive, Einaudi, Torino
19773, 160; M. ELIADE, Storia delle credenze e delle idee religiose, I, Sansoni, Firenze 1979, 122-123. G. RAGOZZINO,
contro queste letture storiche, ribadisce con forza che il monoteismo, in quanto fede e culto riservati ad un unico e solo
Dio, personale, principio e fine ultimo di tutte le cose, distinto dal mondo, creatore e provvidente, ha radici
esclusivamente bibliche. Il fatto religioso. Introduzione allo studio della religione, Edizioni Messaggero, Padova 1990,
225, 231-238.
31
Si pensi alla distinzione tra Uno e Unico così come esplicitate nella tradizione ebraica e cristiana proprio in
riferimento alla storia salvifica. Cf A. MANARANCHE, «Dio nella Bibbia. I - Monoteismo», in Grande dizionario delle
religioni, Cittadella-Piemme, 19902, 524-525.
32
R. BRAGUE, «Esistono davvero tre monoteismi?», Avvenire, 09.12.2007, 15.
10
islamico si configura come “aseità di Dio”: Dio è un “a sé”, è il “solo”: questo comporta il professare Dio
come mistero, cioè la sua inafferrabilità; comporta il professare la distanza tra Dio e il mondo, tra Dio e l’uomo
(distanza che la mistica tenterà più volte di colmare). Il Dio Uno e Unico è il Dio dell’unica e assoluta legge.
Credere nel “solo” Dio vuol dire sottomettersi alla “sola” legge, anche se non ne deriva l’elezione di un
popolo, alcuna progressione storica o valenza salvifica.
Gli stessi “luoghi divini” che si rifanno al monoteismo sono diversi: abbiamo il cosmo, la storia, la natura, la
coscienza, come del resto sono diversi anche i fondamenti che lo sostengono: l’elezione, la semplice
rivelazione, la sola ragione, l’esperienza affettiva.33
Fatte queste precisazioni, la storia delle relazioni tra le tre grandi religioni ci mostra che vi sono stati
vocabolari inadeguati nella descrizione reciproca, false aspettative, perdoni mancati che si accompagnano a
vere responsabilità sociali, ogni volta non si sia presa una netta distanza rispetto alla strumentalizzazione di
Dio, alla mancata attenzione reciproca, ai linguaggi stonati. C’è sicuramente da purificare la memoria degli
errori passati, assumendo la storia e le sue contraddizioni, così che ne nascano relazioni nuove e magari
anche un modo meno ridicolo di sponsorizzare il nome di Dio.
2. Il problema del medesimo
Ci sono dei periodi storici nei quali vediamo le tre religioni monoteiste caratterizzate da un equilibrio di
convivenza, ma allo stesso tempo da un atteggiamento inquisitorio e persecutorio rivolto al loro interno. Da
questo possiamo vedere che il rapporto del monoteismo con la tolleranza non è solo il problema dell’altro,
ma anzitutto il problema del medesimo. Si può pensare, in campo cristiano, alle cruente repressioni degli
eretici e alle lotte fra cattolici e protestanti e, in campo islamico, alle violente repressioni dell’ortodossia
islamica nei confronti di sette eretiche, ad esempio, durante l’impero ottomano. Nell’ambito ebraico, così
pluralista e tollerante al proprio interno, si può pensare alla questione delle sette giudaiche all’epoca del
secondo Tempio, alle opposizioni e agli ostracismi conosciuti dal movimento chassidico al suo sorgere o ai
difficili rapporti fra ortodossi, riformati e conservatori in epoca moderna e contemporanea.
Sappiamo bene, quindi, che la custodia dell’uniformità del credere e delle sue forme dentro ad una religione
è una questione sempre attuale. A questa affermazione, però, credo si possano accompagnare oggi alcune
considerazioni di altro genere. Se attualmente è significativo il rinnovato ruolo pubblico delle religioni, non
meno significativa è la crescente affermazione dell’individuo come soggetto morale, culturale e politico,
riconosciuto nella sua libertà anche in riferimento alla scelta religiosa.34 A proposito di quest’ultimo aspetto la crescente centralità dell’individuo, come soggetto di scelte - siamo davanti ad un fatto dirompente che
obbliga tutte le religioni a confrontarsi con un dato originario e inevitabile, ovvero la libertà dell’atto di fede,
come elemento fondamentale e qualificante dell’appartenenza religiosa. La scelta religiosa assume oggi un
tratto tangibile di libertà e questo fatto incide anche sull’intensificazione del pluralismo interno al vissuto di
una determinata religione, così come ripropone la diffusione di forme di secolarizzazione del vissuto. La
fede e l’appartenenza non sono più situazioni scontate e non è un caso, quindi, che vi siano fatiche evidenti a
concretizzare forme di dialogo intra-religioso, o inter-confessionale (per i cristiani), ovvero nelle dinamiche
stesse, nelle relazioni, nel consenso, che caratterizzano le diverse appartenenze religiose. L’uniformità del
pensiero e del vivere potrebbero prestarsi a forme di violenza e di condizionamento più sottili rispetto al
terrore o alla morte stessa.
Di conseguenza, si può dire ancora che i monoteismi sono giudicati dall’idea di libertà che promuovono.
Certo, ogni religione conosce il vincolo a norme etiche e a disposizioni religiose, perché l’obbedienza e il
vincolo comunitario ne fanno parte, ma ogni religione dovrebbe sostenere la libertà del credente in vista della
vita buona, superando ogni forma di condizionamento o di tutela. In altre parole, una religione deve
sostenere e approfondire la capacità personale di critica e di pensiero, i percorsi individuali e comunitari,
prendendo nettamente le distanze da entusiasmi sospetti o cieco fanatismo che la renderessero inaffidabile: si
33
Non tener conto di questa osservazione significherebbe cadere in un deismo vago, che non è portatore di alcuna
confessione, oppure in un sincretismo mistico che, nel cristianesimo come nell’islâm, non fa che tornare alla comoda
tenebra del neo-platonismo, dove la speculazione metafisica si confonde del tutto con una dottrina di salvezza.
34
Nei testi che seguono vengono riprese alcune considerazioni pratiche già espresse in G. ZATTI, «La Dichiarazione
Dignitatis humanae: storia, contenuti e attualità per la situazione odierna di pluralismo religioso», Credere Oggi 32
(6/2012) n.192, 21-39.
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pensi a forme antiche e nuove di fondamentalismo e nazionalismo religioso, ma anche al fenomeno della
“religione civile”.
3. Il mistero della differenza
Il problema dell’intolleranza verso «gli altri» riguarda essenzialmente il cristianesimo e l’islâm, in quanto
l’ebraismo, pur avendo conosciuto qualche sussulto di proselitismo, non ha sostanzialmente mai interpretato
la propria vocazione a essere «luce delle genti» nel senso di quello zelo missionario che ha suscitato in
cristiani e musulmani la volontà di «rendere gli altri uguali a sé», convertendo l’umanità alla propria fede.
Comunque, i tempi odierni, con le migrazioni, la mobilità, l’attenzione all’intercultura, hanno aggiunto la
consapevolezza che la credibilità di ogni monoteismo e di ogni religione sarà tanto più efficace quanto più
questi impareranno a pensarsi in un contesto di pluralismo. Il percorso non è semplice e indolore, né per i
cristiani, né per gli appartenenti ad altre religioni, anche quelle comunemente pensate come più innocue, più
pacifiste e meno sovraccaricate dal bagaglio della storia o dei dogmi.35 Le stesse conseguenze sociali della
libertà religiosa presumono, oltre al dialogo interreligioso, anche un’idea nuova di “tolleranza” che renda
possibile la comprensione altrui dentro un orizzonte particolare di significato, qual è quello portato da ogni
religione o pensiero non religioso.
Il mandato missionario appartiene al cristianesimo e all’islâm se, e nella misura in cui questi sono convinti
che esso, prezioso per i suoi membri, potrebbe e dovrebbe essere trasmesso anche ad altri a loro favore. Ma
nel momento in cui il mandato missionario si unisce in qualsiasi maniera alla violenza, allora non solo è
distrutta la dignità e la libertà dell’uomo, ma anche quella della religione. In determinate circostanze, tutto
questo si gioca su un filo estremamente sottile.
Nello specifico cristiano, l’autocoscienza di «Chiesa» maturata nel Vaticano II non permette di intendere
l’evangelizzazione come evento che faccia a meno del dialogo, né il dialogo cristianamente ispirato come
esercizio che prescinda all’intima adesione a Cristo, che si esprime nella rispettosa testimonianza di lui. La
forma stessa della rivelazione di Dio in Cristo e della fede che l’accoglie, comporta l’inscindibile nesso tra
verità e libertà, e di conseguenza, tra annuncio e dialogo. Detto in altre parole, «l’incompatibilità tra violenza
e religione racchiude in sé l’idea stessa di dialogo interreligioso – senza la quale il dialogo vero non può
svilupparsi perché diverrebbe o pura imposizione di una parte o una reciproca mancanza di ascolto – e contiene
in sé il metodo del dialogo, che implica accettare in modo pacificato la dimensione critica e dialettica che ogni
dialogo necessariamente comporta. L’accettazione della dimensione critica del dialogo implica ovviamente
anche esporsi alle valutazioni dell’altro senza sentirsi irrimediabilmente offesi da possibili critiche o anche da
serie richieste di chiarimenti. E tali critiche o chiarimenti hanno come oggetto non solo le concrete e attuali
relazioni tra le diverse comunità religiose, ma anche la storia trascorsa di tali relazioni, che spesso non può non
incidere sul presente».36
Non da ultimo, al cuore di tutto si pone la questione dell’alterità. Nel vertice delle sue potenzialità, il
monoteismo giunge ad affermare che il proprio Dio è anche il Dio degli altri e che quindi l’esistenza di altre
comunità è voluta da Dio. Quanto sfugge a questo tipo di approccio è la capacità di cogliere il perché esista
l’alterità, l’anomalia misteriosa della pluralità. Qui bisogna assumere in modo diretto la riflessione sul
reciproco nesso che vi è tra universale e particolare.37 Forse al cristianesimo va riconosciuto un merito:
quello di aver mostrato più di altre religioni il coraggio di non sottrarsi al confronto con l’alterità e la
pluralità religiose e di mettere per forza di cose in discussione la propria identità, la propria tradizione e le
proprie categorie.38 Se così fosse davvero, speriamo di essere all’altezza di questo merito.
35
Si vedano, ad esempio, le considerazioni di A. PELISSERO, «Tradizione e rinnovamento sociale nello induismo
tradizionale», in S. PIANO (a cura), Le grandi religioni dell’Asia. Orizzonti per il dialogo, Paoline, Milano 2010, 126.
36
A. PACINI, «Fede e ragione rifiutano la violenza», Vita Pastorale, 11/2006, 22-23.
37
Per una ripresa più ampia della questione rimando a P. STEFANI, «Ebraismo, cristianesimo e islam. Un unico Dio e tre
religioni», Il Regno-attualità, 6/2003, 203-210.
38
L’Osservatore Romano dell’11.01.2013, presentando il dibattito La spiritualité face à la violence et la terreur.
Penser le religieux au XXI siècle di qualche giorno prima presso la Sorbona, annotava: «Gilles Bernheim e BernardHenri Lévy, un uomo di fede e un pensatore laico, condividono la convinzione, ereditata dal filosofo Emmanuel
Lévinas, che bisogna tradurre la saggezza biblica in “greco”, la sola maniera, si legge sul sito di Bernard-Henri Lévy,
per far cogliere ai contemporanei, ebrei e non ebrei, la pertinenza del messaggio di Israele. Se “conoscere Dio significa
ciò che occorre fare”, se “l’etica non è il corollario della visione di Dio ma la visione stessa”, se “il pio è il giusto”,
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La profezia esterna. Una conclusione
Nella prima pista abbiamo soltanto esplorato alcune delle accuse e delle risposte che si potrebbero evocare
parlando di monoteismo e violenza. Si potrebbe aggiungere l’accusa che il monoteismo generi forme di
presunzione conoscitiva, ma si potrebbe rispondere che appartengono piuttosto all’ambito delle espressioni
gnostiche. A chi poi ricorda che l’etimologia fanum (“luogo consacrato”) suggerisce un legame tra fanatismo
e ambito religioso, si potrebbe obiettare che il fenomeno del fanatismo esiste anche al di fuori del religioso:
esiste quello che potremmo definire, con un ossimoro, “fanatismo profano”, non meno presente laddove ci si
vorrebbe opporre diametralmente alla religione, come, ad esempio, nell’ateismo militante. La violenza può
esplodere dove abita Dio e anche dove si è già deciso che Dio sia insignificante;39 la stupidità e l’irrazionale
nascono anche nel vuoto della fede, nella mancanza di impegno e di etica.40
E tuttavia ci fa bene ascoltare questa sorta di “profezia esterna”, ovvero l’avvertimento che ci viene dalle
accuse di violenza, perché non venga meno lo scarto critico del nostro agire. I riferimenti religiosi devono
essere restituiti alla loro coerenza spirituale, senza che diano adito ad una “ideologia della lotta”; la
trascendenza deve aprire all’adorazione (non all’uso) di Dio e ad una conseguente umiltà che non si
appropria indebitamente degli interessi di Dio, sminuendo la dignità di qualcun altro.
Per quanto ci riguarda, come cristiani, il rispetto di ogni differenza (e quella religiosa è la più ardua) è il
solo modo di confessare Gesù in modo coerente.41 Nella religione dell’altro – giusto per ribaltare la tesi di
Assmann – il cristiano non va a cercare la «quintessenza dell’estraneità».42
Ho iniziato con Moni Ovadia: vorrei concludere citandolo di nuovo a partire da un testo in cui Gabriella
Caramore intervista questa poliedrica figura di ebreo contemporaneo. Il titolo del libro suona Difendere Dio
e l’intento dell’intervistato è proprio questo: «provare a difendere Dio dalle idolatrie, dalle ortodossie, dai
falsi nomi che nei secoli gli sono statu cuciti addosso, risalendo i sentieri spesso arditi dell’interpretazione,
ma anche sospendendo le parole, o deviandole in un sorriso, là dove si scontra con il fatto che Dio non è una
“evidenza” sempre alla nostra portata» (dalla Premessa).43 È tempo, quindi, che Dio venga disarmato, o
meglio, che siano più adeguati i nostri modi di raccontarlo, in maniera che non sia solo il linguaggio della
violenza a renderlo presente.
come scriveva Lévinas, allora la riflessione sulla “strana alleanza” fra sacro e violenza può solo sollevare scandalo. In
un’epoca caratterizzata dal confronto fra civiltà - ha affermato il gran rabbino di Francia in una recente intervista a La
Croix - la questione è di sapere se le religioni sono capaci di diventare una forza di pace piuttosto che una fonte di
conflitti. La risposta a questa domanda “dipende strettamente dal posto che le differenti fedi e culture concedono
all’altro, a quello che non ci somiglia, a quello la cui appartenenza, colore o credo differisce dai nostri. Cosa vediamo in
questo “altro”? Una minaccia per la nostra fede e il nostro modo di vivere o piuttosto un arricchimento per l’eredità
dell’intera umanità?».
39
«Il grande problema della nostra epoca, in ogni caso nei nostri Paesi, è l’emergere di una nuova religione
inconsapevole, quella del soggetto individuale o collettivo. Rifiutando la trascendenza, questi si conferisce il diritto di
scegliere la figura del divino che è di suo gradimento. Ma nulla dimostra che questo divino non conduca l’uomo alla sua
stessa distruzione». R. BRAGUE, «Il fanatismo. La religione degli dei», Vita pastorale, 2 /2010, 62-63.
40
Al fondamentalismo pseudoreligioso potremmo aggiungere quello politico che nega le libertà religiose e civili; quello
economico che domina e sfrutta paesi arretrati. C’è anche un fondamentalismo nichilista per il quale non c’è nulla in cui
valga la pena credere (si può quindi credere a tutto, mettendo da parte ogni esigenza di verità e ogni fede).
41
A. MELLONI, «Quel bis voluto da Wojtila», Unità, 24.01.2002, 6. L’articolo si riferisce all’incontro di Assisi.
42
ASSMANN, Non avrai altro Dio, 10.
43
M. OVADIA, Difendere Dio (a cura di G. Caramore), Morcelliana, Brescia 2009.
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