La Torah e i codici legali del Vicino Oriente

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La Torah e i codici legali del Vicino Oriente
La Torah nel contesto delle codificazioni legali del Vicino Oriente antico
Premessa
Per quanto talvolta si obietti alla resa del nome Torah, attribuito ai primi cinque libri
della Bibbia ebraica, con l'italiano "legge" (e prima ancora, a partire dal III secolo a.C., con il
greco nomos), indicando piuttosto come preferibile "insegnamento", non v'è dubbio che parte
della Torah sia costituita da testi di carattere legale. Lo dimostra anche tutta una serie di
attestazioni del modo in cui la tradizione ebraica ha inteso quei libri. Ci limitiamo qui alla
definizione di Giuseppe Flavio (I sec. d.C.): "... cinque sono i libri di Mosè, comprendenti le
leggi e la storia tradizionale dalla nascita dell'uomo fino alla morte del legislatore" (Contro
Apione 1,38-40).
Il sostantivo torah deriva dalla radice verbale yrh, che mostra uno spettro semantico alquanto ampio.
Infatti dal significato più frequente di "gettare" (p. es. soldati e i carri in mare: Esodo 15,4; le sorti: Giosuè
18,6; ma soprattutto specializzato in "scagliare, scoccare frecce": 1 Samuele 20,20.36; Proverbi 29,18;
Numeri 21,30 ecc.), si passa a "irrigare (con la pioggia)" (Osea 6,3; 10,12; Proverbi 11,25), a "mostrare
col dito" (p. es. Proverbi 6,13) e a "insegnare" (p. es. Esodo 24,12; 2 Re 12,3; Isaia 28,16 ecc.). Accade
perciò che il participio derivato moreh indichi sì l'"insegnante", il "maestro", ma anche l'arciere che sa
colpire uccelli in volo. Se per la radice si può dunque ammettere il significato base di "gettare" mirando,
ovvero con uno scopo, è evidente che per comprendere il senso dalla parola torah non basta la sua
etimologia, perché lo si deve piuttosto ricavare dai contesti. Leggiamo così in Genesi 26,5 "Le mie
prescrizioni, i miei decreti e le mie torot" (vedi anche Esodo 16,28): i termini paralleli, sinonimi o meglio
appartenenti allo stesso campo semantico, rivelano che si tratta di disposizioni emanate da un'autorità.
Similmente, Levitico 6,2 parla della "torah per l'olocausto" e Numeri 19,2 dice: "Questa è la prescrizione
della torah". In altri casi torah ha valore riassuntivo (= l'insieme delle regole), come in Levitico 11,46-47:
"Questa è la torah che riguarda i quadrupedi e gli uccelli… perché sappiate distinguere ciò che è impuro
da ciò che è puro". Nei profeti antichi Osea, Amos e Isaia la parola torah si riferisce all'ambito cultuale,
etico e legale, e così pure in Geremia. In Ezechiele, invece, predomina l'uso del plurale torot riferito a
gruppi di prescrizioni e regolamenti (Ezechiele 44,24). Collegando i dati linguistici con quelli filologici,
ovvero l'etimologia con l'uso della parola nei testi, non sarà azzardato proporre che quel che
caratterizzava all'origine la prescrizione autorevole - spesso sacerdotale - definita torah rispetto a quelle
indicate con altri termini fosse la modalità del suo manifestarsi: verosimilmente con una qualche forma di
divinazione in cui aveva parte il "gettare". Beninteso, come per ogni etimologia, ciò non significa che chi
usava il termine ne fosse sempre consapevole e tenesse conto del suo valore originario - anzi
tendenzialmente lo si può escludere. All’inizio dell’epoca ellenistica la parola torah giunge ad avere due
significati distinti: da un lato indica i comandamenti, gli insegnamenti dei profeti e la sapienza
tradizionale. Sono considerate torot, ad esempio, affermazioni profetiche come “Io non posso sopportare
le ingiustizie nelle pubbliche assemblee”, “Lavatevi e purificatevi, rimuovete da voi le vostre azioni
malvagie” e così via. D’altro lato indica la torah di Mosè nel suo insieme. Quest’uso si era affermato
particolarmente con i ritornati dall’esilio babilonese, come mostra la sua frequenza nei libri di Ezra e
Neemia la frase “La torah di Dio che egli diede per mezzo di Mosè” (Ezra 7,10; Neemia 8,1; 9,3; 10,30).
Per gli ebrei ellenizzati di Alessandria, in Egitto, la torah come istituzione rappresentava il patto tra la
nazione e il suo Dio, manifestantesi in un sistema di comandamenti, leggi, usi e tradizioni collegato alla
storia del popolo. Stando così le cose, la traduzione da essi adottata in greco, nomos, va considerata
corretta.
L'aver notato con Giuseppe il carattere composito della Torah in quanto costituita di
leggi e storia tradizionale ci servirà in seguito, quando si porrà la questione della modalità
specifica di "codifica" della legislazione ebraica. Per ora procederemo a individuare all'interno
della Torah i raggruppamenti testuali che si suole definire "codici", sulla scorta di una
tradizione di studi ormai ben consolidata, che qualunque lettore attento può controllare anche
nella forma sbiadita di una traduzione perché si tratta di suddivisioni contenutistiche per lo più
macroscopiche, a causa di precisi marcanti narrativi. Si continuerà a usare la parola "codice" tra
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virgolette, per ricordare che si tratta di un concetto non espressamente presente nelle lingue e
nelle culture che esamineremo.
I “codici” biblici
I maggiori gruppi di leggi all'interno del Pentateuco sono i quattro seguenti - seguiti da
qualche breve citazione a titolo di esempio del rispettivo tenore.
1) Codice (o libro) dell'alleanza; costituito da Esodo 20,22-23,33. Il nome deriva da
Esodo 24,7: "(Mosè) prese il libro dell'alleanza e lo lesse agli orecchi del popolo...".
Esempio: (Esodo 20,22-21,3): Il Signore disse a Mosè: «Così dirai ai figli di Israele: Voi avete visto che
ho parlato con voi dal cielo. Non farete accanto a me dèi d'argento e dèi d'oro: non ne farete per voi. Farai
per me un altare di terra e vi sacrificherai sopra i tuoi olocausti, i tuoi sacrifici di comunione, il tuo gregge
e i tuoi armenti: in ogni luogo in cui ricorderò il mio nome, verrò da te e ti benedirò. Se farai per me un
altare di pietra, non lo costruirai di pietra tagliata, perché colpendolo con la tua lama lo profaneresti. E non
salirai al mio altare per mezzo di gradini, perché là non si mostri la tua nudità. Queste sono le leggi che
esporrai davanti a loro. Quando acquisterai uno schiavo ebreo, ti servirà per sei anni e al settimo sarà
messo in libertà, senza riscatto. Se è venuto solo, solo uscirà; se era sposato, uscirà con la propria
moglie…
(Esodo 22,24-27): Se tu presti denaro al mio popolo, al povero che è con te, non ti comporterai come un
creditore: non gli imporrete interesse. Se prendi in pegno un mantello del tuo prossimo, glielo restituirai al
tramonto del sole, perché quello è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle, con il quale dormirà:
altrimenti, quando griderà a me, lo ascolterò, perché io sono misericordioso. Non bestemmierai Dio né
maledirai un capo del tuo popolo.
2) Codice deuteronomico: Deuteronomio 12-26. Già il titolo in greco, "Seconda legge",
rende palese che si tratta di un codice relativamente più recente.
Esempio (Deuteronomio 12,1): Queste sono le prescrizioni e i decreti che baderete di praticare nella terra
che il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha dato da conquistare, per tutti i giorni della vostra vita su quel
suolo…
3) Codice di santità: Levitico 17-26. Così definito perché vi ricorre la formula: "Dovete
essere santi perché io, Jhwh, sono santo".
Esempio (Levitico 17,1-4): Il Signore disse a Mosè: «Parla ad Aronne, ai suoi figli e a tutti i figli d'Israele
e di' loro: Questo ha prescritto il Signore: chiunque della casa d'Israele uccida nel campo un toro o un
agnello o un capro o chi lo uccida fuori del campo e non lo porti all'ingresso della tenda del convegno per
farne un'offerta al Signore davanti alla dimora del Signore, quell'uomo sarà considerato reo di sangue: ha
sparso sangue e sarà eliminato dal suo popolo…
(Levitico 26,1-6): Non fatevi idoli, non erigetevi statue o stele; non ponete nella vostra terra pietre
lavorate per prostrarvi davanti ad esse. Io infatti sono il Signore Dio vostro. Osservate i miei sabati e
venerate il mio santuario. Io sono il Signore. Se vi comporterete secondo le mie leggi, se osserverete i
miei precetti e li metterete in pratica, io vi darò le piogge al loro tempo e la terra darà i suoi prodotti e gli
alberi della campagna daranno il loro frutto; la trebbiatura durerà fino alla vendemmia e la vendemmia
durerà fino alla semina; mangerete il vostro pane a sazietà e abiterete tranquillamente nella vostra terra. Io
darò pace alla terra; voi potrete coricarvi senza che nulla vi spaventi. Farò scomparire ogni bestia feroce
dalla terra e la spada non passerà nella vostra terra.
(Levitico 26:14-16): Ma se non mi ascolterete e non metterete in pratica tutte queste norme, se prenderete
in disgusto le mie leggi e rigetterete i miei precetti, senza mettere in pratica tutte le mie norme, rendendo
vano il mio patto, anch'io farò questo a voi: vi punirò con il tremore, la consunzione e la febbre che
consumano gli occhi e tolgono il respiro. Seminerete invano la vostra semente e i vostri nemici la
mangeranno…
4) Codice sacerdotale: Numeri 28-30.
Esempio (Numeri 28,1-3): Il Signore disse a Mosè: «Ordina ai figli d'Israele e di' loro: Avrete cura di
presentarmi a suo tempo la mia offerta, il mio cibo, sotto forma di sacrificio da consumare con il fuoco, in
odore gradevole che mi placa. Dirai loro: Questo è il sacrificio da consumarsi con il fuoco che offrirete al
Signore: agnelli di un anno, integri, due per giorno, olocausto perenne...
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(Numeri 30,23) Mosè disse ai capi tribù dei figli d'Israele: «Questo è quanto il Signore ha ordinato: se un
uomo fa un voto al Signore o si lega con un giuramento, non violi la sua parola: faccia secondo tutto
quello che è uscito dalla sua bocca.
Gli esempi riportati certo non sono esaurienti, ma risulta comunque che questi "codici"
raccolgono disposizioni di argomento vario - cultuale, liturgico e di diritto civile e penale -,
precedute da un prologo che ne fornisce l'ambientazione concettuale e storica. Non ci porremo
il problema della datazione delle singole raccolte, ricordando però che la loro forma attuale,
all'interno della Torah/Pentateuco, risale a un'epoca tra il VI e il III secolo a.C.
I “codici” del Vicino Oriente
Ben più antichi sono i "codici" del Vicino Oriente antico, che sono anche le prime
attestazioni di raccolte di leggi dell'umanità. In ordine cronologico, si tratta dei seguenti testi:
- Codice sumero di Ur-Nammu, un usurpatore che fondò la terza dinastia di Ur,
regnando dal 2112 al 2095 a.C.; è frammentario, senza epilogo e con il prologo relativamente
ampio ma molto danneggiato. Contiene una trentina di casi in forma ipotetica.
- Codice sumero di Lipit-Ishtar, re di Isin (1934-1924 a.C.), pervenuto grazie a
frammenti di copie che si usava farne e quindi ricostruito sulla base di testi diversi. Il prologo è
completo, la sezione giuridica con una cinquantina di leggi in forma ipotetica in parte
danneggiata, l'epilogo è mutilo.
- Leggi paloebabilonesi di Eshnunna (città il cui regno occupava la regione tra
Mesopotamia ed Elam, solcata dal fiume Diyala, affluente del Tigri). Sono databili al XIX
secolo a.C. e consistono di una collezione di più di cinquanta leggi in accadico, precedute da un
breve prologo. Se ne hanno due esemplari.
- Codice babilonese di Hammurapi. Di certo il più famoso, ne possediamo addirittura la
stele (o una stele) fatta scrivere dal re in persona prima del 1750: in diorite, più di 2 m di altezza,
nel XII sec. a.C. fu portata a Susa, capitale dell'Elam, da un sovrano elamita che ne fece
cancellare sette colonne, forse per farvi incidere una propria iscrizione. Ora la stele si trova al
Louvre. Siccome il codice era considerato un testo di valore letterario, tanto da essere usato
nelle scuole, ne furono fatte molte copie su tavolette e grazie ad esse è stato possibile colmare la
lacuna. Nelle edizioni moderne la parte giuridica è divisa in 282 articoli, tutti salvo 5 in forma
ipotetica.
- Le leggi medioassire, che rappresentano probabilmente la civiltà del paese verso il
XIV-XIII sec. a.C., per quanto ci siano pervenute in una compilazione dell'epoca di
Tiglat-pileser I (XI sec. a.C.). Si tratta del frammento di un codice di grandi dimensioni, diviso
in dieci sezioni che vertono per lo più su di un tema dominante. La tavoletta A, per esempio,
contiene la sola sezione che ci sia stata tramandata completa, con 59 articoli relativi al diritto
della donna. La tavoletta B, conservata per metà, contiene articoli sulla proprietà fondiaria; altri
frammenti sono molto parziali.
- Leggi ittite. Il codice ittita si ritiene compilato durante l'antico regno (XVII-XVI sec.
a.C.). Già anticamente lo si divideva in due raccolte di un centinaio di leggi ciascuna, chiamate,
in base alle parole iniziali, "Se un uomo" e "Se una vigna". Si tratta di un'opera di raccolta in
fieri, come risulta dal cosiddetto "testo parallelo" (XIII sec. a.C.), un ampio frammento della
raccolta "Se un uomo" che riporta circa 61 articoli, evidentemente emendati e variati al
confronto con l'originale, in base ai tempi nuovi oppure in relazione a usi regionali.
Per quanto riguarda l’Egitto la situazione è diversa, nel senso che non ci sono noti testi affini alle suddette
codificazioni. Comparabile ai codici asiatici potrebbe essere l’Editto di Horemheb (XIV sec. a.C.), a
causa della struttura tripartita prologo-leggi-epilogo e del tono celebrativo. Ma la sua parte giuridica è un
elenco di decreti reali, non di regole di giustizia. A quanto pare in Egitto la codificazione non aveva un
posto così rilevante come in Asia. Ciò nonostante, abbiamo testimonianza che esistessero testi di uso
giuridico; per esempio, nelle “Lamentazioni di Ipuwer”, che denunciando il disordine che imperversa nel
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paese durante il primo periodo intermedio (XXII-XXI sec. a.C.), si dice: “In verità, le leggi dell’aula del
giudizio sono gettate fuori: ci si cammina sopra per le vie, e i miserabili le fanno a pezzi nelle strade”. La
testimonianza sicura di un’opera di codifica delle leggi in Egitto risale a un’epoca ben più tarda, quella del
dominio persiano: Dario ordinò che una commissione di sacerdoti, militari e scribi compilasse una
raccolta delle leggi egiziane e il lavoro dovrebbe essere stato completato nel 503 a.C.
Le “regole di giustizia”
Prima di domandaci quali siano le caratteristiche specifiche dei "codici" sopra elencati,
esamineremo gli elementi minimi che li compongono. Alla base delle diverse codificazioni - di
carattere politico, religioso o erudito - sta infatti come elemento primo la regola di giustizia, la
quale ha schemi formali che è necessario considerare con attenzione.
Innanzitutto, la regola di giustizia appare formalmente come impersonale e, in quanto
affermazione che si presenta come universale e non ha uno specifico destinatario, si avvicina
alla massima sapienziale. Le sue modalità espressive si presentano con sostanziale omogeneità
e costanza nelle varie lingue e nei vari ambienti.
La più diffusa e caratteristica modalità è quella ipotetica. Che si trattasse di una forma
quasi connaturata con l'espressione della legge, risulta da un documento mesopotamico che
definisce "raccolta di ipotesi e di (provvedimenti di) rettitudine" quel che noi chiameremmo
"codice".
È notevole che lo stesso schema formale sia normalmente impiegato anche nei presagi e
nelle prescrizioni mediche. Così suonano i presagi: “Se in una città i ciechi sono numerosi, nella
città regna l’afflizione”; “Se una serpe cade su un malato, la sua malattia si protrae, poi egli
guarisce”. E così un testo medico: “Se egli giace malato per un giorno intero, se poi la sua testa
lo divora, mette di continuo le mani sul ventre, emette lamenti, toglie continuamente le mani dal
ventre, in tal caso morrà”. L'osservazione dei nessi tra aspetti e manifestazioni del reale sta alla
base di questo linguaggio, che individua una relazione causa-effetto e perciò può ben essere
considerato "scientifico". In ambito legale, adottarlo significa esprimere la legge in termini di
causa ed effetto: quel che deve essere fatto è l'oggettiva conseguenza dell'atto o del
comportamento considerato: "Se un uomo rapisce il figlio piccolo di un (altro) uomo, sarà
ucciso" (Codice di Hammurapi § 14).
Il modello formale ipotetico o condizionale ha il pregio della chiarezza ed è anche
flessibile, in quanto permette di inserire nella formula base un numero anche elevato di
specificazioni:
"Se una donna il cui marito è morto non se ne va dalla sua casa alla morte di suo marito,
se suo marito non le ha assegnato nulla per iscritto, abiterà in casa di uno dei suoi figli, dove
sceglierà; i figli di suo marito la manterranno: si metteranno d'accordo su di lei, per il suo cibo e
per la sua bevanda, come per una fidanzata che amino. Se è moglie di secondo rango e non ha
figli, abiterà con uno dei figli del marito: essi la manterranno in comune; se ha figli, e i figli
della moglie di primo rango non accettano di mantenerla, abiterà in casa di uno dei suoi figli,
dove sceglierà: i suoi figli la manterranno ed essa lavorerà per loro. Se però tra i figli di suo
marito uno l'ha presa (per moglie), quello che l'ha presa la manterrà e i suoi figli (?) non la
manterranno" (Leggi medioassire, tav. A § 46).
Le più antiche raccolte di leggi si attengono costantemente alla formulazione ipotetica,
ma non mancano eccezioni, come la seguente: "L'uomo che sarà sorpreso nella casa di un
muškenum, nella casa in pieno giorno, verserà 10 sicli d'argento; (l'uomo) che sarà sorpreso
nella casa di notte, morirà, non sopravvivrà" (Leggi di Eshnunna § 13). Questa formulazione,
che suona più perentoria, è definita relativa o apodittica.
Nel corso del tempo accanto alla formulazione ipotetica classica subentrano sempre più
frequentemente formulazioni apodittiche, che mettono subito in evidenza la persona in
questione, definendo subito dopo il fatto e le eventuali eccezioni ed enunciando infine la
conseguenza.
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In base all'osservazione che anche nella storia del diritto romano si sostituisce
progressivamente a un tipo arcaico di legge introdotta da si un tipo introdotto da qui o
quicumque, è stato proposto che il diffondersi della formulazione relativa in luogo di quella
ipotetica risponda a un'evoluzione del pensiero giuridico. Ma, almeno per quanto riguarda il
Vicino Oriente antico, un'interpretazione evolutiva come questa non regge: in realtà le più
antiche regole di giustizia mesopotamiche, attestate da iscrizioni di Urukagina di Lagash (circa
2350 a.C.), sono di tipo relativo: "Un cliente del re cui nasca un buon asino e cui il suo superiore
dica: Voglio comprarlo - Se all'atto dell'acquisto gli dice: Pagami l'argento che desidero, e non
si accorda sulla vendita, il superiore non lo colpisca furiosamente". Anche se l'Egitto, come si è
detto, è assai meno rappresentato dell'Asia in questo tipo di documentazione testuale, in
quell'ambiente solo tardi sono documentate leggi ipotetiche, mentre formulazioni relative si
trovano fin dal II millennio. Si veda il seguente esempio: "Coloro che faranno atto ostile o
malvagio contro le statue, gli altari, i sacelli, le iscrizioni e i monumenti, quali che siano, che si
trovano in tutti i templi e in tutti i santuari - la mia maestà non permetterà che entrino in
possesso dei beni dei loro padri, che raggiungano i beati nella città divina, che siano tra i viventi
nella città divina."
Perciò è più probabile che l'impiego dei due modelli, quello ipotetico quello e
relativo/apodittico, derivi da una scelta stilistica più che da uno sviluppo
cronologico/ideologico.
Tale scelta è condizionata anche dalla sfera in cui si colloca la regola di giustizia: infatti
la natura prettamente apodittica della formulazione relativa risalta nelle forme del comando e
del divieto, espresso in seconda persona: "Non aprire il mio coperchio e non disturbarmi!" (Iscr.
di Tabnit), o in forma di maledizione: "Maledetto colui che giace con sua suocera!"
(Deuteronomio 27,23). Si tratta di espressioni ingiuntive, categoriche e incondizionate, la cui
sfera più appropriata è quella sacrale. Queste ingiunzioni sono espressioni avvicinabili alla
regola di giustizia in quanto le si può tradurre abbastanza facilmente in formule ipotetiche o
apodittico-relative ("Non devi aprire il coperchio", "Se giacerai con tua suocera sarai
maledetto").
La traducibilità formale, ovvero la possibilità per la regola di giustizia di essere
enunciata secondo l'uno o l'altro modello, soggiace a quasi tutti i casi. "Non lascerai vivere la
strega" (Esodo 22,18) equivale a "La donna che pratica la stregoneria sia uccisa" e anche a "Se
una donna pratica la stregoneria sarà uccisa". La differenza non è quindi sostanziale ma
stilistica, influenzata oltre che dalla sfera in cui si colloca l'enunciato anche dall'atteggiamento
psicologico: il comando apodittico esprime il massimo di soggettività e di tensione, mentre la
forma ipotetica comunica almeno il tentativo di oggettività e un certo distacco.
Questa distinzione non va però intesa così rigidamente da costituire il criterio per una
ripartizione cronologica, e neppure per definire ambienti e modi di pensare rigorosamente
distinti. Nei testi biblici le formulazioni si alternano. Si può dire che di solito sono apodittiche le
norme più connaturate con l'etica e la religione, mentre le formulazioni ipotetiche sembra che
coincidano con il patrimonio di leggi radicato nel diritto orientale comune. In sostanza, la forma
apodittica rimanda alla sfera e alla mentalità del patto, quella ipotetica al clima della tradizione.
Una terza modalità espressiva è la semplice constatazione: "Il prezzo di un bue da
aratro è 12 sicli d'argento" (Leggi ittite), oppure "Al figlio di famiglia e allo schiavo non si fa
credito" (Leggi di Eshnunna).
Un patrimonio giuridico condiviso
Abbiamo fatto riferimento poco sopra al "diritto orientale comune". L'espressione
significa che i casi, e i modi di descriverli e di risolverli, presentano assai di frequente
un'impressionante affinità, anche se nessi e corrispondenze appaiono complessi, in tutte le
epoche e gli ambienti. Le norme di giustizia espresse in queste formulazioni tipiche, che
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ricorrono in codici, trattati, editti e altri tipi di compilazioni di lingua, epoca e civiltà differente
sono quindi la manifestazione di un patrimonio legislativo vicino-orientale comune. Si veda il
caso del bue che cozza. La prima regola appartiene alle leggi di Eshnunna:
Se un bue ha cozzato contro un bue e ne ha provocato la morte, i due padroni dei buoi divideranno il
prezzo del bue vivo e la carcassa del bue morto. Se un bue era solito cozzare e (gli anziani del) quartiere
l'avevano notificato al padrone, ma (egli) non ha custodito il suo bue che ha cozzato contro un uomo e ne
ha provocato la morte, il padrone del bue verserà 2/3 di mina d'argento. Se ha cozzato uno schiavo e ne ha
provocato la morte, verserà 15 sicli d'argento.
La seconda regola al Codice di Hammurapi:
Se un bue, andando per la strada, ha cozzato un uomo e ne ha provocato la morte, quest'affare non
comporta querela. Se il bue di un uomo era solito cozzare e (gli anziani del) quartiere avevano notificato
al padrone come fosse solito cozzare, ma egli non gli aveva tagliato le corna e non aveva custodito il
proprio bue, e questo bue ha cozzato il figlio di un uomo e ne ha provocato la morte, (il padrone del bue)
darà 1/2 mina d'argento. Se (si trattava del)lo schiavo di un uomo, darà 1/3 di mina d'argento.
Infine la versione biblica, dal Codice dell'alleanza (Esodo 21,28-32.35-36):
Se un bue cozza a morte con le corna un uomo o una donna, il bue sarà lapidato: la sua carne non si
mangerà e il padrone del bue sarà ritenuto innocente. Ma se quel bue cozzava già prima con le corna e si
era avvertito il suo padrone senza che lo sorvegliasse, e fa morire un uomo o una donna: il bue sarà
lapidato, ma anche il suo padrone dovrà morire. Se gli è imposto un risarcimento, in riscatto della sua vita
dovrà dare tutto quello che gli è imposto. Se il bue cozza con le corna un figlio o una figlia, si procederà
secondo questa stessa legge. Se il bue cozza con le corna uno schiavo o una schiava, si darà al padrone
trenta sicli in denaro e il bue sarà lapidato. [Se uno apre una cisterna o scava un pozzo e non lo copre, e vi
cade un bue o un asino, il padrone del pozzo pagherà l'indennizzo al suo padrone, e l'animale morto sarà
suo.] Se il bue di uno ferisce il bue del suo prossimo a morte, venderanno il bue vivo e faranno a metà del
suo denaro; anche del morto faranno a metà. Ma se è noto che quel bue cozzava già da tempo con le corna
e il suo padrone non l'ha sorvegliato, dovrà pagare bue per bue e il bue morto sarà suo.
Le versioni mesopotamiche sono evidentemente più prossime sul piano linguistico e
nell'ambientazione. Quella biblica intercala tra la seconda e la terza regola una legge che non
riguarda i buoi cozzanti e si sdoppia: a una sola coppia di casi (versioni mesopotamiche) ne
corrispondono due:
Bibbia
I. bue contro uomo (A)
II. idem + notorietà (B)
Babilonia
I. bue contro uomo (A)
II. idem + notorietà (B)
Eshnunna
I. bue contro bue (C)
II. bue contro uomo + notorietà
(B)
III. bue contro bue (C) e idem +
notorietà (D)
A entrambe le coppie bibliche corrisponde un solo elemento nella coppia di Eshnunna.
È evidente che si tratta di norme assolutamente affini, ed è palese la parentela stretta di tutto
questo materiale giuridico. La natura di questa parentela non consiste, verosimilmente, in una
dipendenza letteraria, vale a dire ben difficilmente si può immaginare che i “codici” più recenti
abbiano, per dirla semplicisticamente, “copiato” i più antichi. Si tratta piuttosto di variazioni, in
base diversi criteri, del materiale tramandato, il più delle volte oralmente.
Un altro caso di emergenza largamente attestata nei testi scritti di un modello comune è
quello dei danni fisici. Nella Bibbia (Esodo 21,24; Levitico 24,18-20; Deuteronomio 19,21) al
riguardo si applica il principio del taglione; nelle leggi di Eshnunna, in quelle ittite e forse
sumere si stabiliscono tariffe per risarcimenti pecuniari; a Babilonia le conseguenze sono
diverse secondo il rango delle persone coinvolte. Se è diversa la sanzione, la sequenza costante
nel menzionare le parti del corpo dimostra però che si tratta di un patrimonio tradizionale
omogeneo:
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Sumer
Eshnunna
arto ?
Naso
?
naso
occhio
Dente
dente
orecchio
(schiaffo)
dito
mano
piede
?
Babilonia
Hatti
Bibbia
(vita)
occhio
osso
dente
occhio
occhio
dente
dente
(schiaffo)
(ferita al capo)
mano
piede
mano
piede
(altre lesioni)
naso
orecchio
È interessante notare che a queste serie, in tutti i "codici", si collega il caso della
gestante colpita violentemente che perda il nascituro. Nella Bibbia subito prima (Esodo 21,22:
“Se due uomini litigano o urtano una donna incinta così da farla abortire, ma non ci sia danno, ci
sarà un risarcimento, come lo imporrà il marito della donna, e si darà attraverso i giudici”), nelle
fonti babilonesi e ittite subito dopo. Nelle leggi medioassire la regola compare invece isolata. Il
caso di una gestante che si trovi a subire un danno del genere sembra poco comune, e proprio
per questo è notevole che compaia in "codici" così distanti nel tempo.
Un altro caso risulta ancor più peregrino: “Se due uomini si azzuffano fra loro e la
moglie di uno di essi si avvicina per liberare il marito dalle mani di chi lo percuote, stende la
mano e afferra costui alle parti vergognose, le taglierai la mano. Il tuo occhio non avrà pietà”
(Deuteronomio 25,11-12:). Eppure anch'esso si ritrova nei vari "codici", a riprova dell'esistenza
di una "problematica tradizionale" comune.
Esiste quindi nel Vicino Oriente antico un patrimonio di regole di giustizia, di
enunciazioni e soluzioni, permanente nel tempo e nello spazio, tenace e malleabile, trasmesso
soprattutto per via orale.
Permanenza, diffusione e omogeneità di quella che potremmo definire una koinè
giuridica vicino-orientale sono illustrate da un verdetto inciso su una tavoletta del XIII secolo
rinvenuta a Ugarit, sulle coste della Siria. Un armatore ugaritico ha affidato una nave e il suo
carico a un agente ittita, il quale ne ha provocato l'affondamento. Il danneggiato si rivolge alla
giustizia ittita, e la regina Puduhepa stabilisce che l'agente debba rimborsare nave e carico,
purché il danneggiato dichiari con giuramento che la causa è stata la negligenza dell'agente
stesso. Nessuno dei duecento articoli delle leggi ittite a noi noti considera un caso del genere;
ma lo si trova menzionato in leggi mesopotamiche che risalgono, nella documentazione che ci è
giunta, a due o trecento anni prima:
Se un uomo ha preso a nolo un marittimo e una nave, e l'ha caricata di grano, lana, olio, datteri,
o qualunque altra sorta di carico, e se questo marittimo è stato negligente e ha fatto naufragare la
nave e ha perduto il suo carico, il marittimo rifarà la nave che ha fatto naufragare e il suo carico,
qualunque sia, che ha perduto (Codice di Hammurabi).
La formulazione oggettiva delle regole di giustizia, che va di pari passo con la tendenza
a non costruire principi giuridici astratti a partire dalla casistica, lascia il posto, come abbiamo
anticipato, a formulazioni più soggettive e drammatiche quando si passa alla sfera dei principi
etici. Il giusto non è più concepito come il risultato delle convenzioni tradizionali, ma come il
comportamento conforme ad un impegno, imposto dalla divinità, la quale si rivela così come
l'essenza stessa della giustizia. Qui emerge il nesso tra il comportamento giusto e la sfera
religiosa. Risalgono alla seconda metà del II millennio testi magico-religiosi mesopotamici ed
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egiziani che comprendono professioni di innocenza. Prendiamo l'esempio del 125° capitolo del
libro dei morti egiziano, risalente al XV-XII secolo:
Non ho bestemmiato Dio, non ho impoverito il misero, non ho fatto ciò che è tabù divino, non
ho danneggiato un servo presso il suo padrone, non ho avvelenato, non ho fatto piangere, non ho
ucciso...
Per il mondo ittita cf. fra gli altri la preghiera di Kantuzili (ca. 1400 a.C.):
Non ho mai giurato (il falso) al mio dio e non ho mai violato un giuramento, non ho mai
mangiato le carni pure destinate al mio dio da mangiare e non ho (con questo mai) reso impuro il
mio corpo. Non ho mai sottratto un bovino dalla stalla e non ho mai sottratto un ovino dal
recinto; trovavo per me del pane ma non me lo sono mai mangiato da solo, trovavo per me
dell'acqua ma non me la sono mai bevuta da solo.
Verso la fine del II millennio sono attestate in Egitto serie più concise, che potrebbero
essere definite "decaloghi", come quello della stele di Usirre, che si compone solo di cinque
prescrizioni positive e sei negative. Che vi sia un rapporto tra queste prescrizioni e i
comandamenti del decalogo biblico è ovvio, ma si tratta di affinità di atteggiamento psicologico
e non si può parlare di dipendenza. Questo ci dimostra però che anche il decalogo biblico ha una
preistoria ben radicata nella tradizione vicino-orientale.
Il genere letterario dei “codici”
Possiamo ora ritornare ai testi citati in apertura, per esprimere alcune considerazioni su
come le singole regole di giustizia, finora esaminate nei loro aspetti formali e ideologici,
diventano "codice", ovvero domandarsi quali siano i fini e i criteri ispiratori delle codifiche
vicino-orientali, comprese quelle bibliche.
Quando, verso la fine del XIX sec. e i primi decenni del XX, il Codice di Hammurapi e
gli altri furono scoperti, in prima istanza parve naturale interpretarle come se si trattasse di
promulgazioni legislative di sovrani interessati a regolare la vita giuridica del loro regno. La
definizione di "codice", ricavata dalla terminologia giuridica moderna, venne loro applicata
proprio in questa prospettiva – e per questo continuiamo qui a usarla tra virgolette: il termine di
origine latina non ha un vero corrispettivo nelle lingue originarie del Vicino Oriente. Ma poi si
constatò, in base al confronto tra il Codice di Hammurapi e i verdetti documentati
dall'abbondante materiale relativo alla pratica giudiziaria contemporanea, che questi ultimi
spesso non corrispondevano alle prescrizioni del Codice stesso: come se prima e dopo la sua
pubblicazione la vita giudiziaria nell'impero antico-babilonese fosse invariata.
Questo fece sospettare che nel mondo vicino-orientale antico la promulgazione di un
codice e l'emissione di verdetti appartenessero a sfere differenti, per quanto naturalmente affini.
Quindi lo scopo primario della redazione di un "codice" doveva essere un altro. Si può
individuarlo esaminando la struttura complessiva del Codice di Hammurapi e dei suoi affini,
vale a dire tenendo nel dovuto conto tutte e tre le parti che compongono il testo: prologo,
sezione giuridica, epilogo. È inverosimile che la prima e la terza siano da considerare
semplicemente elementi giustapposti senza funzione determinante, anzi dovrebbero fornire
indicazioni precise sul genere letterario del Codice.
Nel prologo del Codice di Hammurapi (come in quello più antico di Lipit-Ishtar) il re
dichiara di essersi volto alle opere di giustizia in obbedienza agli ordini divini, dato che gli dei
hanno scelto la sua città, e lui personalmente, per assicurare al paese intero giustizia, benessere
e ordine. Gli epiloghi, per parte loro, affermano che il re ha saputo portare a compimento la
propria missione, e la stele - ovvero la sezione giuridica intermedia - ne reca testimonianza. Le
parti contenenti le leggi sono dunque in primo luogo la descrizione e l'illustrazione dei criteri di
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buon governo ai quali il sovrano si è ispirato. La giustizia è dunque il riverbero nella società del
rapporto tra gli dei e il sovrano:
L'uomo oppresso che è implicato in una causa venga davanti alla mia statua - re di rettitudine - e
legga attentamente l'iscrizione della mia stele, e ascolti le mie squisite parole. La mia stele possa
chiarirgli la causa: veda il suo diritto e il suo cuore si allarghi... (epilogo del Codice di
Hammurapi).
La sezione delle leggi serve dunque a diffondere e promuovere il senso di giustizia nella
società. La sua funzione è didattica e morale.
Perciò, se dovessimo attribuire una definizione al genere letterario del Codice di
Hammurapi, potremmo definirlo un'"iscrizione regale di contenuto giuridico"; un genere già
antico in Mesopotamia, perché preceduto dalle raccolte sumere di Ur-Nammu e Lipit-Ishtar.
La materia per la seconda parte del Codice di Hammurapi è fornita dal patrimonio
tradizionale di regole di giustizia, che diventando raccolta scritta risultano dall'incontro di tre
elementi: 1) l'arbitrio del redattore, che obbedisce ai propri scopi e criteri di lavoro; 2) la
possibile influenza di precedenti elaborazioni o di altre fonti scritte, e 3) dell’ampio repertorio
orale delle regole di giustizia secondo le loro tradizionali connessioni.
La successione degli argomenti pare avvicinare il Codice di Hammurapi e i suoi
predecessori ai codici moderni (leggi sulla famiglia e la successione, leggi sui danni fisici e
morali, leggi sull'agricoltura). Ma né il Codice di Hammurapi, né gli altri sono esaurienti o
completi, in base alle nostre esigenze o a ciò che a noi parrebbe logico. È il caso di norme che
riguardano casistiche specifiche, per le quali vengono date prescrizioni in assenza di una
trattazione del caso generale dal quale esse dipendono. Per esempio, il Codice di Hammurapi
esamina il caso di una promessa sposa vergine che venga violentata mentre ancora risiede nella
casa paterna; ma non vi è prescrizione alcuna per la violenza a una donna che già conviva col
marito, o non sia più vergine, o non sia stata ancora promessa a un uomo.
Questo, con altri casi simili, significa che i "codici" di cui parliamo sono largamente
incompleti riguardo alla casistica giuridica che qualunque società si trova a dover risolvere.
L'osservazione ha fatto sorgere un'altra interpretazione della natura di questi "codici", non
esclusivamente alternativa ma compatibile con la precedente. Stabilito che non si tratta di
manuali di diritto onnicomprensivi, ai quali i giudici dovessero ispirarsi, le sezioni giuridiche
conterrebbero complementi, aggiornamenti e modifiche apportate al diritto tradizionale vigente,
già ben noto tanto che non sarebbe stato necessario riprenderlo nella sua integralità. Nel caso
sopra citato, ciò vorrebbe dire che i casi di violenza avevano naturalmente un proprio
trattamento giuridico tradizionale, perciò nel Codice di Hammurapi risultava utile e necessario
citare solo un caso specifico, per il quale mancava ancora una definizione assodata.
Anche questa ragione, accanto alla definizione del "codice" come genere letterario
celebrativo, può servire a spiegare la natura specifica dei testi legali vicino-orientali, che non
richiede loro completezza né di essere esaurienti. I redattori di questi testi sceglievano e
ordinavano i materiali tradizionali in base alla loro funzionalità nel proprio discorso, in base ad
associazioni di idee e a categorie, oppure anche con criteri storici. Non si vuole essere esaurienti
e completi sul piano giuridico, perché si mira innanzitutto a essere convincenti nell'ambito del
genere letterario dell'iscrizione regale giuridica. Non è estraneo a questo metodo compositivo
l'interesse per la regola e la raccolta in sé, come risulta per esempio dalle copie del Codice di
Hammurapi nelle quali, a differenza della stele, i singoli articoli sono separati l'uno dall'altro.
Nelle leggi di Eshnunna, invece, un terzo delle norme non è in forma ipotetica
(specialmente quando riguarda noli, salari, credito, schiavi) e le regole, che concernono il
diritto familiare, il diritto di proprietà, i danni fisici, sono esposte senza alcun criterio
sistematico. Si tratta di qualcosa di diverso dalle precedenti codifiche, tanto che qualcuno ha
suggerito che si tratti di un documento a uso privato, redatto da un erudito o un funzionario.
Ciò significa che le leggi di Eshnunna potrebbero appartenere, a differenza del Codice
di Hammurapi, all'ambito della giurisprudenza erudita e non a quello della celebrazione regale.
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Sembra che questo sia il caso delle leggi ittite e di quelle medioassire, a causa delle modalità
della loro attestazione e del loro contenuto: esse si presentano come raccolte in fieri, passibili di
modifiche e complementi nel corso del tempo. Le leggi assire, in forma ipotetica, si
caratterizzano per la minuziosità nel determinare casi e circostanze.
Il Codice dell’alleanza (Esodo 20,22-23,33), in quanto raccolta di regole di giustizia, è
manifestamente una sorta di fossile nel contesto biblico. La formulazione è quasi sempre
ipotetica e l’ordine all'incirca il seguente: leggi sugli schiavi, sui danni fisici e morali, sui buoi e
sulla vita rurale, la proprietà, il matrimonio. Dal contenuto si ricava che l’ambiente d’origine di
queste norme non conosce altro sistema economico che l’agricoltura, ignora la pratica
commerciale e finanziaria, e quindi ha una circolazione del denaro alquanto ridotta. Questo
comporta una peculiare maniera di considerare i reati per cui, per esempio, il ladro è un
colpevole che va punito, non un nemico da distruggere (come nel Codice di Hammurapi). Non
vi è traccia della stratificazione sociale complessa dei codici ittiti e medioassiri: il Codice
dell'alleanza conosce solo la distinzione tra schiavi e liberi, senza che quest'ultima categoria sia
ulteriormente suddivisa al proprio interno. L'orizzonte del Codice dell'alleanza è quello di una
comunità rurale chiusa. Il termine “ebreo” ricorre solo come definizione di condizione sociale e
non come termine etnico, e non vi è traccia di una religiosità jahvistica particolarmente
marcata.
La Torah come codifica
Nel corso del II millennio l’uso di codificare le regole di giustizia si diffonde dalla
Babilonia in tutte le grandi province culturali del Vicino Oriente asiatico: Alta Mesopotamia,
Anatolia, Siria-Palestina.
In epoca più recente la codificazione trova un suo sviluppo sotto forma della Torah
ebraica, databile, come abbiamo anticipato, alla seconda metà del I millennio a.C. È difficile
precisare la datazione dei materiali raccolti nel Pentateuco e di conseguenza, nel nostro caso,
definire con esattezza l’epoca in cui i vari “codici” biblici inclusi nel Pentateuco furono redatti
in forma scritta.
Prendendo in considerazione l'ultimo libro della Torah, il Deuteronomio, in passato si
riteneva quasi dato di fatto che dovesse trattarsi nella sostanza del documento all'origine della
“riforma” religiosa e sociale descritta in 2 Re 22-23. Nel suo diciottesimo anno di regno (621),
al re di Giuda, Giosia, viene mostrato un “libro della legge” ritrovato nel tempio di
Gerusalemme. Nessuno oggi dà più per scontato che quel "libro della legge" corrisponda al
Deuteronomio come lo leggiamo ora, anzi si tende a negarlo. Tuttavia l'esistenza di un rapporto
tra la riforma di Giosia e l'ideologia espressa nel libro è palese - anche se la migliore
spiegazione per esso non consiste probabilmente nel pensare che sia stata ispirata a un'antica
redazione del Deuteronomio stesso.
In sostanza, il Deuteronomio così come ora lo leggiamo rappresenta lo schema che poi
si riproduce nella Torah nel suo insieme: la parte centrale contiene gruppi di leggi e prescrizioni
eterogenee, inquadrate in una cornice narrativa che espone gli antefatti storici ed assolve anche
a una funzione esortativa. La Torah ripete macroscopicamente lo schema: i brani che hanno
l'aspetto di codici legali sono integrati in un contesto narrativo, che si presenta addirittura come
la storia dell'umanità e delle origini del popolo ebraico. A loro volta, i singoli "codici" hanno il
proprio prologo specifico, che li ambienta e ne fornisce la chiave di lettura. A questo contenuto
misto allude Giuseppe Flavio, citato all’inizio.
In primo luogo, viene da domandarsi se il materiale legale inserito nella Torah derivi
dalla raccolta di regole di giustizia isolate, collegate l'una accanto all'altra in occasione della
stesura della Torah stessa, oppure se gli autori biblici abbiano trascritto raccolte già scritte in
precedenza, se necessario ritoccandole. La seconda ipotesi pare le migliore: i "codici" integrati
nella Torah esistevano già per iscritto (si ricordi quanto detto a proposito del Codice
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dell'alleanza). Nella loro attuale forma appaiono piuttosto disorganici rispetto alla tradizione
mesopotamica, che teneva separate regole di diritto (dīnu), norme di vita morale (kibsu) e
precetti religiosi (parṣu). Pensare che si tratti di semplice confusione, dovuta all'avere inserito
brani giuridici di vario tenore nella cornice della Torah, significa svalutare l'attività dei
redattori; è più probabile che la ragione dell'apparente confusione di livelli sia dovuta a una
differente idea di legge. Si tenga conto anche del fatto che, se il Codice dell'alleanza di per sé
può essere considerato un manuale di diritto, il Codice sacerdotale è evidentemente un manuale
di regole relative unicamente ai doveri dei sacerdoti, di nessun interesse pratico per chi tale non
sia. Siamo di fronte a testi indirizzati a settori della società separati, che però perdono la loro
natura originariamente settoriale una volta che sono stati integrati nella Torah. L'impianto
complessivo che viene a costituirsi deriva evidentemente da una concezione della legge tipica
di Israele, quale dev'essersi configurata alla metà del I millennio. Per intendere la sua specificità,
risulta comunque essenziale ricordare la definizione di genere letterario adottata per il Codice
di Hammurapi: non un manuale di diritto a uso dei giudici, ma un manifesto dell'attività del
sovrano, ovvero degli dei per suo tramite. Applicata alla Torah questa definizione si dimostra
piuttosto calzante: non un manuale giuridico, ma il manifesto dell’azione di Jhwh per il suo
popolo, che comprende, accanto alla descrizione degli interventi miracolosi nella sua storia,
anche quella della giustizia nella vita sociale (= “codici” di leggi) e rituale (= “codici”
sacerdotali). Una volta inseriti nella cornice della Torah i codici legali sono infatti sottratti
all'ambito giuridico e vengono inseriti nel contesto dell'ideologia del patto o trattato, secondo
un modello non nuovo nel Vicino Oriente (si pensi ai "patti" che gli ittiti e gli assiri imponevano
ai sovrani sottomessi).
Una dimostrazione lampante di questa trasposizione ideologica all'opera nella Torah si
ha proprio nel racconto di quel che il buon re Giosia fece, dopo che ebbe letto il "libro della
legge" ritrovato ed ebbe consultato i profeti:
Il re stette sul podio e concluse l’alleanza di fronte al Signore, per seguire il Signore, custodire i
suoi comandamenti, le sue leggi e i suoi precetti con tutto il cuore e con tutta l'anima, al fine di
mettere in pratica la parole dell'alleanza scritte in questo libro. Tutto il popolo aderì all'alleanza
(2 Re 23,3).
Le analogie con i trattati di vassallaggio ittiti dei secoli XV-XVIII sono sorprendenti:
per la maggior questi trattati sono strutturati secondo uno schema abbastanza rigido.
Normalmente comprendono un'introduzione storica, molte affermazioni apodittiche relative
alla benevolenza del sovrano, l'enunciazione di clausole e infine le maledizioni in cui incorrerà
il vassallo qualora non osservi il trattato.
Conclusione
Anche da una rassegna rapida e parziale come questa emerge quanto profondo sia il
radicamento nella civiltà e nella tradizione culturale del Vicino Oriente sia dei “codici” ebraici,
in quanto una della manifestazioni del patrimonio giuridico comune, sia della loro cornice, la
Torah, in quanto reimpiego di materiale legale non in funzione immediatamente giuridica, ma
soprattutto come descrizione del corretto rapporto tra Israele e Jhwh, secondo un modello
culturale che si ricollega per certi versi al Codice di Hammurapi (e affini) e per altri (idea del
patto) ai trattati.
Possiamo così ritornare esattamente al punto dal quale siamo partiti: è corretto dire che
tradurre Torah con "legge" è impreciso, non tanto per ragioni etimologiche ma soprattutto
perché la Torah non fu scritta per essere un "codice" di leggi con valore giuridico.
In questo senso, la sua struttura e il suo fine si pongono in sintonia con i grandi "codici"
del Vicino Oriente antico: come il Codice di Hammurapi è principalmente un manifesto del
buon governo del sovrano, o del suo dio, così la Torah può essere considerata il manifesto della
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sovranità del dio d'Israele: all'interno del primo come della seconda, le disposizioni legali e
rituali mettono in evidenza in che cosa la giustizia consista.
La Torah combina con questo un altro aspetto caratteristico del Vicino Oriente, vale a
dire l'ideologia del patto, e rappresenta quindi l'originale fusione di due modelli: il “codice”
giuridico espositivo e celebrativo, ma non principalmente impositivo, e l'ideologia tipicamente
impositiva del patto, le cui clausole vanno rispettate e diventano costrittive, pena la maledizione.
In questo senso, il rispetto della Torah è richiesto perché deriva da un impegno che il popolo si
è assunto.
Una conseguenza molto importante riguardo alla concezione della legge in Israele –
almeno dopo la sua codifica all’interno della Torah – è che la legislazione risulta direttamente
data da Dio. Già le culture circostanti del Vicino Oriente si mostravano consapevoli che la
divinità era all’origine della giustizia, ma lasciavano al sovrano la funzione di suo promotore
nel mondo umano, come legislatore o promulgatore. Nel caso del Codice di Hammurapi, questa
concezione è espressa in modo tale che anche agli illetterati – si presume numerosi – tra chi
vedeva la stele era dato di recepirla, per mezzo del bassorilievo che, in cima, raffigura il
sovrano in piedi di fronte al dio Shamash assiso. Il venir meno dell’intermediario legislativo in
Israele si collega idealmente al concetto della sovranità di Jhwh e storicamente al venir meno
della monarchia di Giuda, prima della codifica della Torah. Non a caso il termine “teocrazia”
viene consapevolmente usato per la prima volta da uno storico ebreo, Giuseppe Flavio, alla
ricerca di una parola che descriva adeguatamente il sistema di governo del suo popolo:
Alcuni affidarono il governo alla monarchia, altri all’oligarchia, altri alle masse. Il nostro
legislatore non si appoggiò a nessuna di queste, ma – per parlare facendo violenza alle parole –
stabilì una teocrazia come forma di governo, rimettendo a Dio il potere e la guida (Contro
Apione 2,164-165).
Per quanto riguarda la prassi giuridica dell'antico Israele, per esempio dell’epoca della
monarchia, essa doveva - come quella vicino-orientale in generale - ispirarsi al patrimonio
giuridico tradizionale, cristallizzato solo in parte in testi poi accolti nella Torah, come il Codice
dell'alleanza. Definire in che modo la giustizia fosse amministrata dagli anziani alla porta del
villaggio, dai giudici di nomina regale (v. 2 Cronache 19,4-7), dal sovrano stesso
occasionalmente (v. 2 Samuele 15,2-6), non è possibile sulla base delle scarse testimonianze
bibliche. Certo è che la casistica giuridica tramandataci all'interno della Torah è ben lungi
dall'esaurire le esigenze che nella realtà dovevano emergere. In altre parole, la Torah - o meglio
i "codici" in essa contenuti - ci dicono ben poco sulla realtà giuridica dell'Israele antico.
Che le cose stiano così, lo dimostra anche un ulteriore sviluppo della concezione della
Torah, caratteristico del giudaismo rabbinico: alludiamo alla dottrina della Torah orale, che ha
tra gli altri l'ovvio scopo di confermare e sacralizzare una prassi giuridica, talvolta anche
minuziosa, che sorgeva e si sviluppava proprio in carenza di una normativa sacra scritta
esplicita.
La Torah in quanto "libro del patto", trasformando il patrimonio legale tradizionale in
una serie di norme di rivelazione divina, introduce anche l'idea del "libro sacro", in quanto
contenente la legge rivelata da Dio. Una concezione, com’è noto, densa di sviluppi nel Vicino
Oriente, non antico ma medievale, con il sorgere dell'islam.
Meno noto è, forse, che ai “codici” legali contenuti nella Torah ritornarono, per certi versi, a sussistere
autonomamente come norme di diritto. Ciò avvenne quando i cristiani d’Oriente, trovandosi a percepire
una sorta di inferiorità giuridica nel confronto con l’ebraismo e con l’islam, religioni e società dotate
entrambe di libri sacri che ne codificavano il diritto civile e penale riferendolo direttamente a Dio,
produssero una letteratura di “codici” in greco, etiopico, siriaco e arabo separando dalla Torah la parte
storica e riprendendone le parti legali, che vennero così ricodificate in manuali giuridici di diritto
cristiano.
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Nota bibliografica
La presente trattazione è largamente ispirata a F. Pintore, La struttura giuridica, in S.
Moscati (dir.), L’alba della civiltà. Società, economia e pensiero nel Vicino Oriuente antico,
Vol. I: La Società, Torino, UTET 1976, pp. 417-511 e a C. Saporetti, Antiche leggi. I “Codici”
del Vicino Oriente antico, Milano, Rusconi 1998. Quest’ultimo libro contiene anche la
traduzione completa dei “codici” in questione, organizzata anche per temi. Si veda inoltre: C.
Saporetti, Le leggi della Mesopotamia. Tradotte dai testi originali, Firenze, Le Lettere 1984; W.
von Soden, Introduzione all’orientalistica antica, Brescia, Paideia 1989, pp. 147-160; G. Del
Monte, Antologia della letteratura ittita, Pisa 2004 (preghiera di Kantuzili: pp. 128 s.). Sui
trattati ittiti si veda G. Del Monte, Il trattato fra Muršili II di Hattuša e Niqmepa‘ di Ugarit,
Roma 1986 (in particolare pp. 7-12).
Sui “codici” biblici si veda O. Eissfeldt, Introduzione all’Antico Testamento, vol. I:
Aspetti letterari dell’Antico Testamento, Brescia, Paideia 1970, §§ 4, 8, 19; vol. II: Analisi dei
libri dell’Antico Testamento - 1, Brescia, Paideia 1980, §§ 33-36; la voce "Israele, legge di -", in
Ebraismo, vol. 6 dell’Enciclopedia delle religioni, diretta da M. Eliade. Ed. tematica europea a
cura di D.M. Cosi, L. Saibene, R. Scagno, Milano/Roma, Jaca Book / Città Nuova 2003; la voce
"Legge" in Dizionario della Bibbia, a cura di P.J. Achtermeier e della Society of Biblical
Literature, ed. it. a cura di P. Capelli, Bologna, Zanichelli 2003; L. Rosso Ubigli, La
trasformazione del rapporto Dio-Legge-Popolo nelle interpretazioni di alcuni scritti giudaici,
Ricerche storico-bibliche 15 (2003), pp. 133-152 (= Deuteronomio e Sapienza: la riscrittura
dell'identità culturale e religiosa di Israele. Atti del XII Convegno di studi veterotestamentari
(Napoli, 10-12 Settembre 2001); D.J. McCarthy – G.E. Mendenhall – R. Smend, Per una
teologia del patto nell’Antico Testamento, Torino, Marietti 1972.
Sul diritto cristiano a partire dalla Torah si veda G. Galbiati – S. Noja, Precetti e canoni
giuridico morali per arabi cristiani. Vol. I: Il manoscritto ambrosiano e la versione italiana,
Milano, Hoepli 1964.
Ringrazio il collega Giuseppe Del Monte, della cui competenza di storico del Vicino
Oriente e ittitologo non avrei potuto fare a meno.
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