orphan x - TGCom24

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ORPHAN X
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Gregg Hurwitz
ORPHAN X
Traduzione di Martina Rinaldi
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Titolo originale dell’opera: Orphan X
Traduzione dall’inglese: Martina Rinaldi
Copyright © 2016 by Gregg Hurwitz
First published in 2016 by Minotaur Books
All rights reserved
Italian Translation Copyright
© 2016 De Agostini Libri S.p.A., Novara
Prima edizione: giugno 2016
www.deagostini.it
Redazione: Corso della Vittoria, 91 - 28100 Novara
Tutti i personaggi e gli eventi in questo romanzo sono opera di fantasia. Ogni
riferimento a persone esistenti o esistite è puramente casuale.
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le fotocopie per uso personale
del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto
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20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.
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A tutti i ragazzi e le ragazze cattivi, sovversivi e capaci di fare giustizia:
Philip Marlowe e Sam Spade, Bruce Wayne e Jason Bourne, Bond
e Bullitt, Joe Pike e Jack Reacher, Hawk e Travis McGee, i Sette Samurai e i Magnifici Sette, Mack Bolan e Frank Castle, i tre John (W.
Creasey, Rambo, e McClane), il Capitano Achab e Guy Montag,
Mike Hammer e Paul Kersey, The Lone Ranger and The Shadow,
Robin Hood e Van Helsing, Beowulf e Gilgamesh, Ellen Ripley
e Sarah Connor, Perseo e Coriolano, Hanna e Hannibal, l’Uomo
senza Nome e Léon, Parker e Lucy, Arya Stark e George Stark, Pike
Bishop e Harmonica, Lancillotto e Achille, il Cavaliere della Valle
Solitaria e Jena Plissken, Ethan Edwards e Bill Munny, Jack Bauer e
Jack il Riparatore, Zorro e The Green Hornet, Dexter e Mad Max,
Quella sporca dozzina e l’Ispettore Callaghan, Terminator e Lady
Vendetta, Nick Mano Fredda e Lucas Davenport, Logan 5 e James
“Logan” Howlett, V e Vic Mackey, Hartigan e Marv, Sherlock e
Luther, Veronica Mars e Selina Kyle…
Per essere stati così sbagliati da diventare leggenda.
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Ripley: «Ciò che stai facendo è sbagliato».
Luther: «Sì, lo so».
Ripley: «Allora perché lo fai?».
Luther: «Perché è giusto».
Neil Cross, Luther
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Prologo
La prova del fuoco
Evan se ne sta rigido e silenzioso sul sedile della berlina nera. Ha
dodici anni. Una guancia aperta e un taglio alla tempia. Il sangue
gli cola tiepido sul collo, si mescola al sudore della paura. Le manette incidono solchi profondi nei polsi magri. Il cuore gli martella
nel petto, nella testa.
Ce la mette tutta per non tradire alcuna emozione.
L’uomo alla guida ha detto di chiamarsi Jack Johns. Nient’altro.
È sulla cinquantina, robusto e piazzato come un catcher, lineamenti regolari e sguardo dritto, affilato. Prende un fazzoletto
dalla tasca e glielo allunga. «Per la guancia».
Evan studia il rettangolo di stoffa sottile. «Si macchierà».
«Pazienza» fa Jack divertito. Lui, obbediente, si tampona il
sangue sul viso.
Evan era il più piccolo, sempre l’ultimo a essere chiamato in
squadra. Solo grazie a una lunga serie di sfide è riuscito a conquistarsi un posto in quella macchina, a farsi scegliere.
Qualche mese prima, l’Uomo Misterioso si era materializzato
ai margini del campetto da basket. Osservava i ragazzi fare a botte. Nessuno sapeva chi fosse. Indossava un paio di impenetrabili
Ray-Ban e fumava una sigaretta dopo l’altra giochicchiando con
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la catenina che portava al collo. Si muoveva lento, quasi pigramente, eppure riusciva ad apparire e scomparire in un batter d’occhio. Di teorie sul suo conto ne giravano tante. Era un maniaco.
Era un ricco uomo d’affari che voleva adottare uno di loro. Un
trafficante di organi. Un affiliato alla mafia greca.
Evan ne era affascinato.
L’hanno fatto sparire in un soffio, come risucchiato da un disco
volante. È la prova del fuoco, sì, una specie di reclutamento, ma
in vista di cosa Evan non lo sa ancora.
Di sicuro la sua destinazione, qualunque essa sia, non potrà
essere peggio del disperato angolo di Baltimora da cui proviene.
D’un tratto il suo stomaco brontola e persino in quel momento,
in quella situazione, l’imbarazzo gli colora le guance. Nello specchietto il suo volto è aguzzo, scavato. Magari nel posto in cui lo
stanno portando ci sarà da mangiare in abbondanza. O forse sarà
lui a finire mangiato.
A quel pensiero si riscuote. Si schiarisce la voce e domanda:
«Che cosa volete da me?».
«Non te lo posso dire, per ora». Jack guida in silenzio per un
po’, poi realizza che quella risposta non può bastare a un ragazzino nella posizione di Evan. «Non posso spiegarti tutto adesso»
aggiunge con un tono quasi di scusa. «Ma stai pur tranquillo che
non ti racconterò mai bugie».
Evan lo studia. Decide di credergli. «Mi farò del male?».
Jack guida impassibile, lo sguardo fisso sulla strada davanti a sé.
«Qualche volta» dice.
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La spinosa questione
del kombucha
Evan Smoak era al volante del suo pick-up, nel bagagliaio un
set di silenziatori appena acquistato dal suo fornitore di fiducia, un tipo di Las Vegas con nove dita. Era diretto a casa, deciso ad arrivarci il più in fretta possibile senza lasciarsi distrarre
dalla ferita da taglio che aveva sul braccio.
Se l’era procurata in una rissa nell’area di sosta. A meno che
non fosse in missione, di solito evitava di immischiarsi in situazioni che non lo riguardavano, ma in quel caso c’era di mezzo
una ragazzina e restare a guardare sarebbe stato impossibile.
Così, in attesa di medicarsi a dovere, faceva del suo meglio per non imbrattare la macchina. Era riuscito a fermare il
sangue con un calzino, se l’era tolto e l’aveva annodato stretto
attorno alla ferita aiutandosi con i denti.
Non vedeva l’ora di rientrare nel suo appartamento: era un
giorno e mezzo che non chiudeva occhio. Riusciva a pensare
soltanto alla bottiglia di vodka a tripla distillazione che teneva
nel surgelatore del suo Sub-Zero, alla doccia bollente, alle lenzuola fresche di bucato, e al cellulare chiuso nel cruscotto che
ormai avrebbe potuto squillare in qualsiasi momento.
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Procedendo verso ovest attraversò una trafficatissima Beverly Hills e finalmente imboccò Wilshire Corridor, una via di
palazzi residenziali dall’altezza imponente per gli standard di
Los Angeles. L’edificio in cui abitava aveva un nome altisonante, Castle Heights, e si trovava all’estremità est della strada. Per
questo gli appartamenti dei piani alti godevano di una discreta
vista su Downtown. Dagli anni Novanta, Castle Heights non
era mai stato ristrutturato: le pareti rivestite di marmo color
salmone e le finiture in ottone non gli conferivano un’aria elegante né tantomeno trendy, ma solo – fatto raro nella scintillante Los Angeles – vagamente datata e pretenziosa. Era il posto perfetto per Evan. Gli inquilini erano benestanti e vecchio
stampo – chirurghi, dirigenti d’azienda, pensionati incanutiti,
soci onorari del country club. Pochi anni prima, quasi per sbaglio, ci si era trasferito un playmaker dei Lakers, e tutta la via
aveva sofferto per qualche tempo lo scompiglio della notorietà,
ma ben presto il tizio aveva tolto il disturbo e il palazzo era
tornato alla sua routine ovattata e tranquilla.
Giunto a destinazione, Evan rallentò, fece segno al portiere
che avrebbe parcheggiato da solo e svoltò giù per la rampa diretto al garage. Il pick-up scivolò con precisione nel suo spazio
tra due pilastri di cemento, appartato e protetto dal bagliore
delle luci al neon sul soffitto.
A quel punto Evan sciolse il calzino-benda dal braccio e
diede un’occhiata alla ferita. I margini erano puliti, ma era un
bel taglio, e sanguinava ancora. Una cosa da sei, sette punti al
massimo.
Recuperò il cellulare dal cruscotto. Era in gomma dura
nera, con una custodia in vetroresina e Gorilla Glass, e aveva uno speciale abbonamento RoamZone. Lo teneva sempre a
portata di mano per essere sicuro di sentirlo.
In ogni momento.
Dopo aver controllato nello specchietto che il garage fosse
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deserto, scese dal pick-up e si cambiò, sfilandosi la t-shirt e
indossando al suo posto una delle felpe che teneva dietro il
sedile. I silenziatori erano infilati in un comune sacchetto di
carta. Ci buttò dentro anche la maglietta e il calzino sporchi
di sangue. Verificò sul cellulare quanta batteria gli restava (due
tacche), se lo fece scivolare in tasca e salì le scale che portavano
all’ingresso.
Fuori dal portone si concesse un respiro profondo, per prepararsi al passaggio da un mondo a un altro. Trentadue passi
attraverso l’atrio fino all’ascensore, un breve viaggio verso l’alto
e finalmente sarebbe stato libero di rilassarsi.
Nella hall l’aria profumava di fiori freschi. Conscio dello
stridio delle sue suole sul pavimento lucido, si stampò in faccia
un blando sorriso e si incamminò senza fermarsi a salutare i vicini che a quell’ora rientravano a casa. Non dare nell’occhio era
da sempre al primo posto nella lista delle sue priorità. Aveva
superato da poco la trentina, era abbastanza in forma, ma non
troppo muscoloso da attirare gli sguardi. Un giovane uomo
normale, attraente al punto giusto.
Gli inquilini di Castle Heights andavano fieri degli eccezionali standard di sicurezza del palazzo, primo fra tutti l’ascensore controllato a distanza dall’addetto alla reception. Evan fece
un cenno col capo al tipo che, dietro al bancone, sedeva circondato da una impressionante schiera di schermi.
«Ventunesimo piano, per favore, Joaquin» disse.
«Perché non dice semplicemente attico? Dopo tutto è così
che si chiama. Attico» protestò una voce alle sue spalle. Nello
stesso istante una mano grinzosa si strinse attorno al braccio
ferito e una fitta bruciante gli percorse l’arto da cima a fondo.
Evan si voltò a guardare la donna tozza e vecchia che gli si
era piazzata di fianco: Ida Rosenbaum, del 6g. «Ha proprio
ragione, signora» concesse con un sorriso.
«E già che ci siamo,» lo incalzò lei «tra pochi minuti inizia la
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riunione dell’Associazione proprietari nella sala al decimo piano. Se non ricordo male ne ha già saltate tre dall’inizio dell’anno». Forse per compensare l’affievolirsi dell’udito, la voce della
Rosenbaum sovrastava qualunque rumore nel raggio di un chilometro. Evan poteva star certo che tutti i presenti ora sapessero del suo record di defezioni.
L’ascensore arrivò con un ding. La Rosenbaum rinsaldò la
presa sul braccio di Evan e fissò lo sguardo imperioso su Joaquin. «Il signor Smoak salirà al decimo piano insieme con me».
«Solo un secondo! Aspettateci!». Era la donna del 12b – Mia
Hall – che attraversava l’atrio di corsa con il figlioletto alle calcagna e il telefono stretto tra la spalla e la guancia.
Evan approfittò di quel momento per liberare educatamente il braccio dalla stretta della vicina. Il taglio continuava a
sanguinare e il tessuto della felpa era già incollato alla pelle.
Mentre entrava di gran carriera nell’ascensore trascinandosi dietro il figlio, Mia cantilenava allegramente nel telefonino: «Tanti auguriii a teee, tanti auguri-in-ritardoooo, tanti
scusa-mi-si-è-rotta-la-macchina-e-ho-dovuto-far-cambiarei-dischi-il-che-tra-l’altro-mi-è-costato-un-botto-e-non-hofatto-in-tempo-a-prendere-Peter-a-scuola-e-allora-lui-èdovuto-andare-da-un-amico-e-così-per-poco-non-mi-scordavo-di-lasciarti-questo-messaggio… Insomma, tanti auguri!». A quel punto chiuse la comunicazione e lasciò cadere l’apparecchio nella capiente borsa che portava a tracolla.
«Scusate! Permesso, grazie» disse. Appena prima che le porte automatiche si richiudessero si rivolse a Joaquin: «Salve.
Sbaglio o tra poco è prevista una riunione dell’Associazione
proprietari?».
«È esatto» si affrettò a confermare la Rosenbaum nel solito
tono.
Joaquin lanciò a Evan un’occhiata del tipo «Mi spiace, fratello» e le porte dell’ascensore finalmente scattarono. Il profu14
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mo della Rosenbaum nello spazio ristretto della cabina dava
alla testa.
Non ci volle molto perché l’anziana signora rompesse di
nuovo il silenzio. «Tutti con la faccia perennemente incollata
a quei maledetti telefonini» si lamentò rivolta a Mia. «Il mio
Herb, pace all’anima sua, lo diceva sempre: “Un giorno o l’altro la gente comincerà a parlare con gli schermi e non avrà più
bisogno di altri esseri umani”».
Mentre Mia annuiva paziente, l’ascensore si mosse ed Evan abbassò lo sguardo sul piccolo Peter. Gli occhioni sgranati risplendevano neri come il carbone. I capelli biondi erano fini e liscissimi,
a parte una ciocca sulla nuca che si arricciava all’insù sfidando la
forza di gravità. Aveva un coloratissimo cerotto proprio al centro
della fronte e stava fissando il piede sinistro di Evan. In effetti – si
accorse in quel momento – sentiva fresco alla caviglia. Ma certo,
era per via del calzino mancante! Sotto lo sguardo indagatore del
piccoletto, Evan fece un mezzo passo di lato.
Nel frattempo Mia aveva parlato. A giudicare dalla sua
espressione doveva avergli appena rivolto una domanda. La
guardò. Una spruzzata di lentiggini sul naso, talmente pallide
da risultare quasi invisibili, la fronte alta incorniciata da una
folta chioma castana, lucida e disordinata. Fedele come sempre
al look tipico della madre single trafelata, le calze smagliate, il
portapranzo di Batman nella mano destra e la borsa del computer a tracolla.
«Prego?» domandò Evan, trovandola improvvisamente diversa nella luce intensa dell’ascensore.
«Dicevo» ripeté lei scompigliando affettuosamente i capelli
di Peter «che la vita sarebbe noiosissima senza altri esseri umani
a complicarcela un po’. Non trova anche lei?».
«Concordo» rispose Evan, scollando impercettibilmente la
manica bagnata dalla pelle lacerata del braccio.
«Mamma? Mamma, mamma, mi si sta staccando il cerotto».
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«Ecco, appunto» disse Mia alla signora Rosenbaum, che
però non le restituì il sorriso. Si mise a frugare nella borsa. «Ho
la scatola qui da qualche parte».
«Quelli dei Muppet» specificò Peter, la voce bassa e roca,
insolita in un bambino di appena otto anni. «Voglio Kermit,
mamma».
«Kermit lo hai messo questa mattina. Miss Piggy può andare?».
«No, Miss Piggy non la voglio. Gonzo».
«Trovato!».
E così, mentre Mia cambiava il cerotto a Peter fermandolo
bene con i pollici e gli scoccava un bacio in fronte, Evan ne
approfittò per sbirciarsi la manica.
Il sangue aveva impregnato il tessuto, e in quel punto il
nero della felpa era più scuro.
Cambiò posizione e dalla busta di carta che teneva appoggiata sul fianco giunse il suono metallico dei silenziatori. Sul
sacchetto era apparsa una chiazza umida – il calzino insanguinato. Posò la busta a terra con la parte macchiata rivolta verso
la parete.
«Evan, dico bene?». Mia pareva decisa a fare conversazione.
«E mi dica, di cosa si occupa?».
«Importazione».
«Ah, e di che cosa nello specifico?».
Lanciò un’occhiata all’indicatore luminoso dei piani. Quella sera l’ascensore saliva lento come una lumaca. «Forniture per
pulizie industriali. A uso di alberghi e ristoranti».
Mia appoggiò la schiena alla parete. Indossava una giacca
dall’aria vissuta e il bottone mancante all’altezza del petto offriva un generoso scorcio della sua scollatura.
«Be’, non mi chiede che lavoro faccio io?». Il tono era allegro, con una punta di malizia. «È così che funzionano le conversazioni, di solito».
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Procuratore distrettuale, terzo livello, tribunale di Torrance.
Vedova da cinque anni e qualcosa. Qualche mese prima, con
quel che restava dell’assicurazione sulla vita del marito, si era
comprata un piccolo appartamento al dodicesimo piano.
Evan stirò le labbra in un sorriso forzato. «E lei, di cosa si
occupa?».
«Io sono» scandì ironica Mia «procuratore distrettuale. Dunque bada a come ti comporti!». Era passata al “tu” con naturalezza. Evan si produsse in un’esclamazione che sperava appropriata
alle circostanze. Peter, intanto, gli stava di nuovo fissando la caviglia incuriosito.
L’ascensore si fermò al settimo piano, affollandosi di condomini provenienti dalla cosiddetta “social room”. «Ottimo,
ottimo» commentò Hugh Walters, il presidente dell’Associazione proprietari, grande appassionato di monologhi. «Sono
contento che siamo in tanti. L’occasione è importante. Oggi
voteremo per decidere quali bevande servire al mattino nella
hall».
«Purtroppo temo di non…» provò a schermirsi Evan.
Hugh lo ignorò. «Decaffeinato o normale? È questo il dilemma».
«Ma qualcuno beve ancora il decaffeinato?» intervenne garrula Lorilee Smithson, del 3f, una terza moglie, che dopo anni
di devozione alla chirurgia estetica, vantava un aspetto decisamente felino.
La Rosenbaum sbottò. «Che razza di domande! Mai sentito
parlare di ipertensione?».
«Dacci un taglio, Ida» cinguettò Lorilee. «Quando la smetterai di guardarmi dall’alto in basso solo perché sono bella?».
«Ti sbagli, mia cara. Se ti guardo dall’alto in basso è perché
sei stupida».
«Io dico che dovremmo servire kombucha» saltò su Johnny
Middleton, dell’8e. Sulla quarantina, la chioma rada e stentata
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tipica di chi ha subito un trapianto di capelli, si era trasferito lì
qualche anno prima per stare accanto al padre rimasto vedovo.
Indossava come sempre una tuta da ginnastica con il logo del
corso di arti marziali che seguiva – e di cui parlava incessantemente. «Contiene probiotici e anticorpi. Decisamente più
sano del decaffeinato». Le porte si richiusero al quarto tentativo ed Evan si ritrovò schiacciato contro la parete di fondo. Gli
pizzicava la pelle e sentiva il sangue ribollirgli per l’impazienza.
Nelle situazioni ad altissimo rischio o durante gli scontri armati poteva contare su un notevole self-control, ma le chiacchiere
da bar di Castle Heights lo mettevano a durissima prova. Anche Mia alzò gli occhi al cielo mentre estraeva dalla borsa un
muffin ai semi di papavero e lo addentava di gusto.
«È da un po’ che non dice la sua opinione su questo genere di questioni, signor Smoak» intervenne Hugh Walters nel
solito tono altezzoso. Lo sguardo, dietro la montatura tanto
antiquata da essere quasi tornata di moda, era severo. «Avanti,
si esprima!».
Evan si schiarì la voce. «Personalmente… sento di poter fare
a meno del kombucha».
«Forse se ti allenassi un po’, ogni tanto, invece di occuparti
tutto il giorno di scartoffie, la vedresti in modo diverso» si indignò Johnny, strappando una risatina imbarazzata a Lorilee e
occhiatacce di rimprovero agli altri.
A corto di pazienza, Evan abbassò lo sguardo constatando
che la macchia sulla manica andava allargandosi pericolosamente. Incrociò le braccia per coprirla. «La tua felpa» bisbigliò Mia allungandosi verso di lui e portando con sé un lieve e gradevole sentore di citronella. «È bagnata».
«Ho avuto un piccolo incidente poco fa, in macchina» disse
Evan. E, dato che continuava a fissargli la manica, aggiunse:
«Succo d’uva».
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«Succo d’uva?».
L’ascensore si fermò di colpo.
«Ehi!» esclamò Lorilee. «Che succede?».
La Rosenbaum non perse l’occasione di lanciarle una delle
sue frecciatine acide. «Magari hai attivato l’allarme con le tue
labbra a canotto!».
I condomini scalpitavano nervosi come buoi in un recinto
troppo stretto. Peter, accovacciato in quella selva di gambe e
di scarpe, sollevò il lembo del pantalone sulla caviglia nuda di
Evan. Lui ritrasse bruscamente il piede, e così facendo colpì il
sacchetto di carta. Uno dei silenziatori rotolò sul pavimento
della cabina.
Peter lo fissò per un istante a occhi sbarrati prima che
Evan riuscisse a recuperare l’arnese metallico e a rimetterlo
nella busta.
«Peter» intervenne Mia. «Alzati, non si sta per terra. Che ti
salta in testa?».
Peter obbedì imbarazzato.
«Mi era caduta una cosa» disse Evan. «E lui me l’ha raccolta».
«Una cosa, cosa?» si informò Johnny.
Evan decise che era meglio lasciar correre e fingere di interpretarla come una domanda retorica.
Alla fine Johnny sbloccò la leva di emergenza e l’ascensore
ricominciò a salire lentamente. Arrivati al decimo piano Hugh
tenne aperte le porte e attese finché non furono scesi tutti.
Guardò Peter e poi Mia. «Ne deduco che non ha nessuno che
le guardi il bambino».
Le donne presenti si scambiarono occhiate eloquenti.
«Sono una madre single» disse Mia semplicemente.
«Il regolamento tuttavia parla chiaro, durante le riunioni
non sono ammessi bambini».
«E va bene, Hugh». Mia sfoderò un sorriso abbagliante.
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«Vorrà dire che farà a meno del mio voto sulla questione begonie nell’area piscina».
Hugh si accigliò e si avviò con gli altri per il corridoio. Evan
si voltò per rientrare nell’ascensore con Mia e Peter, ma la Rosenbaum gli strinse di nuovo il braccio all’altezza della ferita
aperta. «Andiamo» disse. «Lei ci vive in questo posto, ed è giusto che prenda parte alle decisioni come tutti gli altri».
«Mi dispiace» si sottrasse Evan. «Ma devo proprio tornare
alle mie scartoffie».
Si liberò dalla presa e in quel momento si accorse che la signora aveva i polpastrelli sporchi di sangue. Le offrì una stretta
di mano per poterle asciugare le dita senza che lei se ne accorgesse.
Nell’ascensore, Mia rimpacchettò gli avanzi del muffin e li
rimise in borsa con un sospiro rivolto al soffitto. Proseguirono
la corsa in silenzio, Evan con in mano la busta girata in modo
da coprire la macchia e con la caviglia nuda e il braccio ferito
rivolti verso la parete. Peter teneva lo sguardo fisso davanti a
sé. Raggiunsero il dodicesimo piano, Mia salutò e suo figlio la
seguì. Le porte scattarono pronte a richiudersi, ma all’ultimo
minuto una piccola mano si intrufolò a impedirglielo.
Spuntò la faccia di Peter, l’espressione serissima in contrasto
con l’allegra smorfia di Gonzo sulla sua fronte. «Grazie per
avermi coperto» bisbigliò.
Prima che Evan potesse rispondere, le porte si chiusero definitivamente.
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