L`utopia contestata: mito della rigenerazione e

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L`utopia contestata: mito della rigenerazione e
L’utopia contestata: mito della rigenerazione e influsso delle passioni
nelle “colonie” di Carlo Dossi e di Luigi Pirandello
Claudio De Boni
Università degli Studi di Firenze
Riassunto
Il rapporto della cultura italiana di età contemporanea con l‟utopia è senz‟altro debole e, per molti
aspetti, controverso. Se non mancano spinte verso realtà immaginate (più, peraltro, nelle arti visive
che nelle varie forme della scrittura), raramente sul piano del pensiero politico esse sanno riscattarsi
da una presenza minoritaria. È il caso sia delle pochissime utopie vere e proprie scritte in Italia
dall‟Unità a oggi (del tipo dell‟Anno 3000 di Mantegazza), sia dell‟utopismo movimentista che
segna soltanto periodi molto specifici della storia nazionale, come avviene con l‟anarcosindacalismo del primo Novecento o le varie forme di “immaginazione al potere” declamate intorno
al Sessantotto. Per il resto, l‟Italia politica sembra più figlia delle affermazioni di duro realismo
pronunciate da Machiavelli che dei sogni di rifondazione elaborati da Campanella.
Manifestazioni di un rapporto controverso con l‟utopia si hanno anche nella letteratura: ed è a due
di queste che si volge il mio intervento. La prima è il romanzo La colonia felice, pubblicato la prima
volta nel 1874 da Carlo Dossi, scrittore a tratti contiguo agli ambienti della Scapigliatura milanese:
romanzo che si avvale di un sottotitolo rivelatore come “Utopia lirica”. È la storia di un gruppo di
ex carcerati di entrambi i sessi, deportati in un‟isola sconosciuta (tipico luogo immaginario della
tradizione utopica), i quali decidono di riscattarsi dai loro errori del passato fondando una società
basata sulla legge e su un sentimento di amore reciproco. Dopo varie traversie, l‟esperimento riesce.
Ma quando, come sarebbe compito di ogni narrazione utopica compiuta, viene il momento di
descrivere analiticamente ordinamenti e vita quotidiana di tale società ideale, Dossi chiude il suo
libro. E in una ristampa di un decennio successiva alla prima edizione dell‟opera antepone una
“Diffida” nella quale ritratta quanto affermato nel romanzo, mostrando ora di credere che la natura
umana, compresa quella dei soggetti propensi a delinquere, non possa essere modificata.
Il secondo testo è teatrale e appartiene a un autore che ha segnato con ben altra intensità, rispetto a
Dossi, la storia della letteratura italiana: si tratta della Nuova colonia di Luigi Pirandello, pubblicata
la prima volta nel 1928. La situazione è analoga a quella di Dossi, anche se la molla iniziale non è
una deportazione ma una migrazione volontaria: un gruppo di reietti del mondo reale decide di
spostarsi nell‟isola che aveva visto alcuni di loro costretti in precedenza al domicilio coatto, isola
poi abbandonata dalle istituzioni. Anche in questo caso la vicenda si dipana nella ricerca della legge
ideale per una società giusta: ma il contrasto con le passioni incontrollate dei suoi componenti si
rivela un ostacolo permanente per la sua realizzazione.
Parole chiave
Utopia italiana, società ideale, Carlo Dossi, Luigi Pirandello
MORUS – Utopia e Renascimento, 10, 2015
Claudio De Boni è professore di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Scienze politiche
dell‟Università di Firenze. Nello sviluppo delle sue ricerche, il primo settore di studi è quello del
pensiero utopico. Nel 1986 Claudio De Boni ha pubblicato il volume Uguali e felici. Utopie
francesi del secondo Settecento, dedicato a un‟analisi comparata della produzione utopica di
Morelly, Mably, Deschamps, Mercier, Retif de la Bretonne. L‟indagine è poi continuata indagando
sull‟intersecarsi fra le aspirazioni utopiche e le vicende della Rivoluzione francese, su cui ha fra
l‟altro pubblicato nel 1989 un volume su Condorcet. Ha organizzato, con Carlos Berriel, il
convegno internazionale di studi su “Scienza e tecnica nell‟utopia e nella distopia” tenuto a Firenze
nel maggio 2007, in cui ha presentato una relazione sulla produzione utopica del positivista italiano
Paolo Mantegazza, ed è stato nel giugno 2009 fra i promotori del convegno “Utopia: cosa è?”
tenuto a Campinas, al quale ha partecipato con una relazione sul concetto di religione dell‟Umanità
di Comte, interpretata alla luce di categorie proprie del pensiero utopistico. Gli altri temi del suo
interesse sono quel dello stato sociale e dei diritti sociali, nelle sue espressioni riguardanti la storia
del pensiero politico, e le idee politiche espresse dal positivismo francese. La messa in risalto delle
congiunzioni fra pensiero politico positivista e suggestioni utopiche anima due volumi di Claudio
De Boni: La descrizione del futuro. Scienza e utopia in Francia nell’età del positivismo (2003) e
Storia di un’utopia. La religione dell’Umanità di Comte e la sua circolazione nel mondo (2013).
MORUS – Utopia e Renascimento, 10, 2015
A utopia contestada: mito da regeneração e influxo das paixões
nas “colônias” de Carlo Dossi e de Luigi Pirandello
Claudio De Boni
Università degli Studi di Firenze
Resumo
A relação da cultura italiana contemporânea com a utopia é, sem dúvida, frágil e, por muitos
aspectos, controversa. Se não faltam estímulos a realidades imaginárias (ainda mais nas artes
visuais do que nas várias formas de escrita), raramente, no plano do pensamento político, eles
conseguem eximir-se de uma presença minoritária. É o caso das pouquíssimas utopias, no sentido
restrito do termo, escritas na Itália da Unidade até os dias de hoje (do tipo do Anno 3000 de
Mantegazza), ou do utopismo movimentista che assinala apenas períodos muito específicos da
história nacional, como aconteceu com o anarco-sindicalismo de inícios do Novecentos ou as várias
formas de “imaginação ao poder” declamadas por volta de 68. De resto, a Itália política parece mais
filha das afimações de duro realismo pronunciadas por Maquiavel do que dos sonhos de refundação
elaborados por Campanella.
Manifestações de uma relação controversa com a utopia ocorrem também na literatura: e minha
comunicação se baseia sobre duas delas. A primeira é o romance La colonia felice, publicado pela
primeira vez em 1874, por Carlo Dossi, escritor às vezes ligado aos ambientes da Scapigliatura
milanesa: romance que se vale de um subtítulo revelador como “Utopia lírica”. É a história de um
grupo de ex-prisioneiros de ambos os sexos, deportados em uma ilha desconhecida (típico lugar
imaginário da tradição utópica), os quais decidem redimir-se de seus erros do passado, fundando
uma sociedade baseada na lei e num sentimento de amor recíproco. Depois de várias adversidades,
o experimento tem êxito. Mas quando, como seria função de toda narração utópica completa, chega
o momento de descrever analiticamente as normas e a vida cotidiana de tal sociedade ideal, Dossi
fecha seu livro. E numa reedição dez anos mais tarde, o autor coloca uma “Advertência”, na qual
retrata o que se afirma no romance, demonstrando então crer que a natureza humana, incluída
também a dos sujeitos propensos à delinquência, não possa ser modificada.
O segundo texto é teatral e pertence a um autor que assinalou com intensidade bastante diversa, em
relação a Dossi, a história da literatura italiana: trata-se de Nuova colonia, de Luigi Pirandello,
publicada pela primeira vez em 1928. A situação é análoga à de Dossi, embora o impulso inicial
não seja uma deportação, mas uma migração voluntária: um grupo de párias do mundo real decide
mudar-se para a ilha que, anteriormente, havia visto alguns deles compelidos ao domicílio forçado,
ilha que, depois, é abandonada pelas instituições. Também neste caso, o acontecimento se
desenvolve na busca da lei ideal para uma sociedade justa: mas o contraste com as paixões
incontroladas dos seus componentes se revela um obstáculo permanente para a sua realização.
Palavras-chave
Utopia italiana, sociedade ideal, Carlo Dossi, Luigi Pirandello
MORUS – Utopia e Renascimento, 10, 2015
Claudio De Boni é professor de História das doutrinas políticas junto à Faculdade de Ciências
Políticas da Università di Firenze. No desenvolvimento de suas pesquisas, o primeiro setor de
estudos é o do pensamento utópico. Em 1986, Claudio De Boni publicou o volume Uguali e felici.
Utopie francesi del secondo Settecento, dedicado a uma análise comparada da produção utópica de
Morelly, Mably, Deschamps, Mercier, Retif de la Bretonne. A pesquisa continuou posteriormente,
com o exame da interligação entre as aspirações utópicas e os acontecimentos da Revolução
Francesa, sobre o que publicou, entre outras coisas, um volume sobre Condorcet em 1989.
Organizou, com Carlos Berriel, o congresso internacional de estudos sobre “Scienza e tecnica
nell‟utopia e nella distopia”, realizado em Florença, em maio de 2007, no qual apresentou uma
comunicação sobre a produção utópica do positivista italiano Paolo Mantegazza, e em junho de
2009 foi um dos organizadores do congresso “Utopia: cosa è?”, realizado em Campinas, no qual
apresentou uma comunicação sobre o conceito de religião da Humanidade de Comte, interpretada à
luz de categorias próprias do pensamento utópico. Os outros temas de seu interesse são os do estado
social e dos direitos sociais, em suas expressões concernentes à história do pensamento político, e
as ideias políticas expressas pelo positivismo francês. A evidenciação das ligações entre o
pensamento político positivista e as proposições utópicas anima dois volumes de Claudio De Boni:
La descrizione del futuro. Scienza e utopia in Francia nell’età del positivismo (2003) e Storia di
un’utopia. La religione dell’Umanità di Comte e la sua circolazione nel mondo (2013).
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Mito della rigenerazione e influsso delle passioni nelle “colonie” di Dossi e Pirandello
e l‟Italia compresa fra il Rinascimento e la Controriforma si è rivelata come una
delle culle della produzione utopica, non altrettanto si può dire per le epoche
successive, nelle quali la tradizione utopica presenta nel nostro paese
un‟immagine saltuaria e tutto sommato sbiadita. È un discorso che vale anche per
il periodo della realizzazione e del consolidamento dell‟unità nazionale, fra secondo Ottocento e
primo Novecento, che pure potrebbe costituire, con le sue promesse di profonde trasformazioni
politiche, l‟occasione per immaginare e descrivere situazioni alternative rispetto a quelle
compromissorie e moderate che segnano gli avvenimenti effettivi. Per quanto è di mia conoscenza,
fra Unità e Grande Guerra la cultura italiana esibisce una sola narrazione utopica vera e propria, che
è il romanzo di tono positivista L’anno 3000. Sogno, pubblicato nel 1897 da Paolo Mantegazza,
fondatore della scienza antropologica nel nostro paese1. Qualche segno in più troviamo guardando
non alla produzione letteraria, ma a quella saggistica di impianto utopistico, vale a dire a quelle
opere di teoria politica che rincorrono modelli compiuti di organizzazione politica e sociale,
radicalmente alternativi a quelli esistenti. Penso a quei pensatori di epoca risorgimentale di
ispirazione socialisteggiante, disposti a immaginare fin nei particolari un mondo nuovo, il cui caso
emblematico è costituito forse dalla Rivoluzione di Carlo Pisacane, scritta peraltro ancor prima del
compimento dell‟unificazione nazionale. Oppure alla complessa galassia anarchica, produttrice di
articolati progetti di rifondazione economica e sociale soprattutto nel periodo (il primissimo
Novecento) del sindacalismo rivoluzionario o dell‟anarco-sindacalismo, con autori del calibro di
Arturo Labriola o di Enrico Leone. Esperienze significative, non tali tuttavia da rovesciare
l‟immagine di una cultura politica incline in Italia più all‟accettazione rassegnata delle condizioni
oggettive che alla rincorsa verso soluzioni palingenetiche, oltretutto foriere, se viste in prospettiva,
di incroci quantomai ambigui con quella stessa realtà: basti pensare all‟approdo del sindacalismo
rivoluzionario al fascismo, dopo la prima guerra mondiale, non generalizzato ma comunque
significativo2.
Proprio per questa sostanziale marginalità del discorso utopico rispetto all‟egemonia della
tonalità realistica, vale la pena dare risalto, per contrasto, a un testo come La colonia felice. Utopia,
1
Mi sono interessato della questione nell‟articolo “Utopia e positivismo: il caso italiano di Paolo Mantegazza”, Morus
– Utopia e Renascimento, n. 4, 2007, pp. 137-148.
2
A proposito del dispiegarsi del linguaggio palingenetico da un settore all‟altro dello schieramento politico italiano,
vale forse la pena di ricordare che Benito Mussolini, per contrastare l‟orientamento riformista del partito socialista,
dirige fra il 1913 e il ‟14 un periodico intitolato “Utopia”, che si presenta come organo del socialismo rivoluzionario
italiano. Ed è un giornale nel quale già emerge quell‟impasto ideologico un po‟ eclettico, un po‟ sospeso fra tradizione
socialista e volontarismo individualista, che caratterizzerà il suo direttore nel dopoguerra.
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che ha almeno il merito di evocare nel titolo sia il genere cui aspira ad appartenere, sia quella
dimensione della “felicità” che costituisce uno dei pilastri consolidati del discorso utopico. Il
romanzo esce in prima edizione a Milano, presso l‟editore Perelli, nel 1874. Ne è autore Carlo
Dossi, il cui nome completo suona Alberto Carlo Pisani Dossi: laddove Pisani rivela l‟origine
aristocratica della famiglia, evocando una tradizione nobiliare peraltro mitigata dal padre di Carlo,
che alla continuazione di abitudini redditiere in via di esaurimento aveva preferito la più borghese
professione di ingegnere. Quando pubblica La colonia felice Carlo Dossi ha venticinque anni, e ha
già lasciato la natia Lombardia per cercare fortuna a Roma. Nella capitale intraprenderà una carriera
di funzionario statale di una certa rilevanza, soprattutto in ambito diplomatico, alternando lunghi
soggiorni in America Latina a incarichi nella nascente avventura coloniale dell‟Italia in Africa. I
suoi successi in questo campo si spiegano anche con la protezione ricevuta da Francesco Crispi, del
quale Dossi sarà per un certo periodo una specie di segretario particolare.
Gli impegni di tipo politico-diplomatico si intrecciano, negli anni settanta e ottanta, con
un‟abbastanza intensa attività letteraria, che vede Dossi avvicinarsi all‟inizio agli ambienti della
Scapigliatura milanese, per poi continuare con una produzione personale e di difficile
inquadramento nei generi e nelle correnti letterarie del periodo. In opere come L’altrieri. Nero su
bianco, abbozzata nel 1868 per essere completata nel 1881, La vita di Alberto Pisani scritta da
Carlo Dossi, del 1870, e soprattutto La desinenza in A, del 1878, risaltano le caratteristiche della
sua scrittura. Che sono la tendenza a spezzare continuamente la narrazione principale con
divagazioni, frutto del suo apprezzamento per il Tristram Shandy di Laurence Sterne; la mescolanza
del tono serio con quello umoristico, e delle esaltazioni dei sentimenti alla moda tardo-romantica
con la naturalistica osservazione della realtà di matrice positivista; la propensione, a ciò collegata, a
mescolare nella stessa opera registri linguistici ed espressivi diversi (dall‟aulico al popolaresco e dal
realistico al simbolico), non disdegnando il ricorso all‟invenzione lessicale. E a proposito di
creazione di parole nuove (nonché a proposito di colonie, reali questa volta), vale la pena ricordare
che è Carlo Dossi a coniare il nome Eritrea per il primo possedimento coloniale italiano, alludendo
a una “terra rossa”, o alla terra affacciata sul Mar Rosso3.
Opera dunque giovanile, appartenente a un periodo in cui la carriera politico-diplomatica di
Dossi è ancora agli inizi, La colonia felice è a sua volta preceduta da un breve testo saggistico
abbozzato nel 1873, per essere poi appaiato quasi sistematicamente al romanzo. Il titolo di tale
saggio è Il Regno dei Cieli, con il quale lo scrittore lombardo critica il mondo reale per sognarne
una profonda riforma basata sulla morale e sull‟educazione. Si tratta proprio della dichiarata
3
Vedi quanto scrive Guido Davico Bonino (1985, p. 8) nella prefazione a una riedizione recente della Colonia felice.
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narrazione di un sogno fatto dall‟autore (anche se il lettore lo scopre solo alla fine), secondo un
espediente letterario ricorrente nelle descrizioni utopiche a partire almeno dal secolo precedente. Al
di là del titolo, Il Regno dei Cieli non è uno scritto di immediata propensione religiosa: se non
mancano elementi di continuità con la predicazione evangelica, lo sforzo di Carlo Dossi sembra
essere volto ad annullare la distanza fra cielo e terra, per indicare una via di salvezza per l‟umanità
in questo mondo, e non in un ipotetico paradiso ultraterreno. È lecito e anzi consolatorio credere in
quell‟illusione al quale diamo il nome di Dio – scrive il nostro autore –, ma il vero impegno
dell‟uomo di cultura è di sollecitare i suoi simili a risvegliare i loro istinti migliori senza aspettare
l‟al di là, adorando Dio negli altri, e non in un‟entità astratta.
Una parte rilevante del Regno dei Cieli si regge sulla critica alla realtà esistente. L‟esordio
ruota attorno alla vanità del mondo, nel quale le minoranze privilegiate sono anch‟esse preda
dell‟infelicità generale: i ricchi perché sono schiavi delle loro stesse comodità, i potenti perché non
arrivano mai a raggiungere un momento di sazietà nella loro incessante ansia di dominio, i sapienti
perché si affidano a una gloria (quella della considerazione sociale per chi sa) in realtà effimera. Di
fronte alle tensioni che attraversano i ceti elevati, sembra proprio il caso di dire: “beati i poveri,
beati gli imbelli, beati gli idioti” (Dossi, 1985, p. 14). In un mondo senza morale, anche i poveri
sono però soggetti a evidenti sofferenze. Oltre che per le loro condizioni materiali, le classi basse
soffrono per l‟invidia che provano nei confronti delle altre classi e per l‟errore di pensare, spesso,
che il bene risieda nella vendetta contro il male, contro la cattiveria altrui. Con una critica che
implicitamente si volge contro i massimalismi anarchici e socialisti del suo tempo, Dossi afferma
che vendicarsi “non è dividere il male, è raddoppiare i sofferenti; non è riso, è sogghigno. Vera
gioia, ben in contrario, è pace” (idem, p. 20).
Tutto ciò per cui gli uomini combattono e si dividono dai loro simili è tuttavia destinato a
essere inghiottito dalla storia, alla lunga giustiziera della vanità del mondo. Nel sogno di Dossi fa a
un certo punto la sua apparizione l‟angelo della Memoria, che gli fa vedere l‟enorme cimitero
costituito dalle cose che, dopo aver inutilmente appassionato gli uomini, sono destinate a decadere e
a morire. Imperi, istituzioni, idee, oltraggi alla libertà, crudeltà, dèi, convinzioni, abitudini si
susseguono nell‟elenco proposto da Dossi, il quale si spinge a prevedere un destino analogo anche
per molte passioni politiche del suo tempo: i falansteri alla Fourier, il credito gratuito alla
Proudhon, il comunismo, ma anche l‟amor patrio, spesso trasformato nei fatti in un listino di borsa,
e il principio di nazionalità, votato a cedere al principio di umanità. E a questo proposito lo scrittore
lombardo evoca un‟immagine dal sapore utopistico, quella di una carta geografica del mondo
disegnata con un solo colore, senza quelle diverse tinte che al momento rappresentano realtà
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territoriali separate e non di rado nemiche. A differenza di analoghe speranze di matrice positivista,
il concetto di umanità non si presenta però come un tutto omogeneo, tale da esaltare il collettivo a
scapito dell‟individuale. Un corretto principio di umanità deve servire a coordinare e non a
nascondere i riconoscimenti dovuti all‟individualità: una volta eliminati tutti gli elementi autoritari
presenti nella politica reale, si staglierà il principio per cui “ciascuno sia governo a sé stesso; ùnica
legge, l‟amore” (idem, p. 36).
Il cemento del mondo rigenerato sarà appunto la carità, non quella praticata per ottenere
notorietà e devozione sociale, ma quella modesta, quotidiana, silenziosa, che scaturisce insieme
dalla coscienza e dall‟esperienza: dalla soddisfazione di sé che si prova nella solidarietà, e dalla
convinzione che per ottenere la propria felicità occorre lavorare anche per quella degli altri, visto
che il bene genera il bene, come insegna “quella psicologia del mondo che è l‟economia sociale”
(idem, p. 21). È un convincimento, dal tono vagamente utilitarista allineato con le tesi benthamiane
sulla necessità di un individualismo temperato per perseguire la felicità dei singoli e dell‟insieme,
che costituisce un momento focale nell‟argomentazione di Dossi, tanto da essere ripreso, come
vedremo, anche nella Colonia felice. La speranza che si possa costruire un mondo solidale nasce dal
fatto che i mali che conosciamo nella realtà sono il frutto non della cattiveria umana, ma di una
società che non plasma i suoi membri secondo un appropriato sistema di valori. Con un‟immagine
dal sapore volutamente roussoviano, Dossi scrive che “tutti nasciamo virtualmente buoni” (idem, p.
28). Se ciò non è sempre suffragato dalla pratica, la colpa non sta nella natura ma in una storia
sbagliata: il male “dèesi attribuire ad ostàcoli fuori di noi, incontrati nel mondo, dei quali rèputo
màssimo, perché fa la via ad ogni altro, una educazione perversa”(ibidem).
È per questa ragione che la rigenerazione morale ha bisogno della trasformazione profonda
dell‟educazione, della sostituzione dei cattivi maestri con l‟insegnamento buono, che è quello che
proviene dalla corrispondenza con l‟amore materno, dal gusto per l‟arte, dal “sole universo”
(immagine con cui Dossi allude all‟illuminazione della realtà procurata dalla scienza). Occorre
dunque abituare l‟umanità, partendo dai bambini, all‟intuizione del bello, attraverso la musica,
l‟arte, la letteratura, e convincerla che la libertà scaturisce dai libri. Per il buono, soccorrerà poi la
ragione, in un processo al cui termine “conteremo men leggitori e più pensatori, più signori e men
ricchi, meno mogli e più amanti; e onesti, non per timore; né, per inerzia, buoni” (idem, p. 31).
Vale la pena aggiungere ancora che, se lo scopo è quello di mobilitare le coscienze di ognuno verso
l‟amore universale, resta decisivo il ruolo delle minoranze illuminate nell‟indicare la strada dello
scarto rispetto al passato, della ricerca del cambiamento. Certo, si tratta di un processo per tentativi,
che contempla rischi ed errori, ma che richiede in ogni caso di non acquietarsi nel senso comune.
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Infatti “nuovi errori pigliano continuamente il posto dei vecchi, poiché l‟uomo procede solamente a
lor mezzo; per cui, se tu vuoi èssere degno di scusa in faccia alla storia, attienti all‟errore dei molti,
che è la verità di quest‟oggi; e se invece ambisci a una lode, datti all‟errore dei pochi, che è la verità
del domani” (idem, p. 36).
E veniamo alla Colonia felice. Come per ogni opera di narrazione, le strategie dell‟autore
risaltano anzitutto dalla trama, che si apre su un‟isola immaginaria, tipico luogo-non luogo dei
racconti utopici. È una terra che rappresenta la bontà e i doni della natura: non ancora abitata e
quindi integra nelle sue potenzialità, è fertile e di clima temperato. A chi la colonizzerà sarà quindi
risparmiata la prima “ferocissima guerra” (come scrive Dossi), quella contro la natura; sta poi a
ciascuno evitare la seconda feroce guerra che ha segnato la storia del genere umano, quella con i
propri simili. Cosa non semplice, perché l‟isola è destinata a essere abitata da una quarantina di ex
carcerati, lì deportati con attrezzi e animali domestici dopo un viaggio estenuante per nave. Gli
ufficiali che comandano il drappello di soldati che li hanno scortati sanno, leggendo l‟ordine regio
che istituisce la nuova colonia, che i delitti commessi dai futuri coloni avrebbero a norma di legge
meritato la pena di morte; ma la scelta della “Maestà Sua” è stata invece quella della clemenza, di
una “ingiustizia pietosa” anziché inesorabile. Dossi spiega questa scelta delle istituzioni del
misterioso paese di provenienza dei coloni facendo appello a due sue convinzioni del periodo in cui
scrive il romanzo: da un lato la giustizia codificata nel diritto positivo è un‟invenzione umana
comunque pragmatica e difettosa; dall‟altro i comportamenti in genere etichettati come
delinquenziali sono più il frutto delle circostanze che non dell‟ipotetica cattiveria naturale degli
uomini. Così, data la “malfida ragione del penale diritto per la insolubile lite fra il vizio e la virtù”,
e il fatto che colpevole del vizio, più che la malvagità dei rei, sia “la vostra miseria (come Noi forse
eravamo di questa) o l‟incontrollàbil passione” (idem, p. 46), l‟editto firmato dal sovrano dichiara
di preferire la vita alla morte, la deportazione con speranza di riscatto all‟esecuzione.
Per i nuovi coloni si tratta in effetti della possibilità di un nuovo inizio, dell‟opportunità di
dare veste concreta al mito della rigenerazione. A una serie di individui che nel mondo reale hanno
ritenuto le leggi uno strumento di assurda limitazione delle loro prerogative e le hanno perciò
calpestate, pagandone le conseguenze con il carcere, si offre l‟occasione di ripartire daccapo, questa
volta da una condizione di totale libertà. Come afferma il Capitano della milizia prima di ritornare
indietro con i suoi soldati e abbandonare gli ex galeotti nell‟isola, “ora, eccovi completamente
liberi!, lungi da quella Società, che odiavate e vi odiava; lungi dai luoghi, che vi rammentàvan
soltanto vergogne, consigliando vendette. Voi dicevate le leggi create contro di voi; e quì leggi non
sono. Mostravate di non potere, senza misfatti, viver tra i buoni; èccovi tra i soli malvagi.
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Accusavate alla necessità dell‟errore; quì ne dovrete accusare la volontà. Noi ritiriamo la Nostra
mano da voi, e abbandonàndovi alla implacàbil Coscienza, vi condanniamo a ridiventare uòmini
onesti” (idem, p. 47).
Gli inizi della vita sull‟isola non sono però quelli sperati: dopo una prima esplosione di
passioni voluttuose prevalenti sull‟autocontrollo razionale (dal cibo all‟alcool al sesso), la “storia”
della colonia sembra uniformarsi a quanto aveva argomentato Rousseau nel Saggio sulla
diseguaglianza, quando aveva rappresentato le varie tappe dell‟allontanamento dell‟umanità
dall‟originario (e relativamente felice) stato di natura. Fra i coloni l‟uniformità iniziale viene presto
sostituita dal delinearsi di due gruppi contrapposti, capitanati rispettivamente da Gualdo il Beccajo
(simbolo della forza) e da Aronne il Letterato (emblema dell‟astuzia): le loro differenti
caratteristiche saranno più avanti sottolineate da Dossi facendo riferimento alle machiavelliane
figure del leone e della volpe. Il dissenso fra i due gruppi da un lato verte sul tema del potere, nella
contesa fra i due capi su chi debba comandare la colonia, dall‟altro ruota attorno al modo con cui
gestire la proprietà comune, presto sostituita dalla divisione di armi e attrezzi per il lavoro.
Qualcuno chiede anche la divisione delle donne e il loro asservimento ai maschi, come a volte
appare nelle utopie; e alle donne che chiedono di poter scegliere il loro destino e non di subire le
imposizioni maschili, la giustificazione di Aronne della propria aspirazione al dominio sull‟altro
genere è fra le più classiche: “perché sono uomo io, e tu donna: perché io comando e tu devi
obedire” (idem, p. 56).
La divisione dei beni che si verifica all‟interno della comunità prelude a una rottura ancora
più profonda: il gruppo minoritario (quello di Gualdo) è costretto a lasciare la comunità originaria,
insediandosi in un‟altra parte dell‟isola e dedicandosi soprattutto all‟allevamento (con una probabile
allusione alla mitica contesa arcaica fra popoli coltivatori e popoli pastori). L‟isola non è però
estesa, e i due gruppi sono perciò destinati nei fatti a intersecarsi: con conseguenze nefaste quando
il contatto diventa un vero e e proprio scontro. Accampando un pretesto in realtà di poco conto (lo
sconfinamento di una capra), a un certo punto il gruppo di Aronne assalta le case dei seguaci di
Gualdo, incendiandole: i soccombenti sono costretti a riparare nel pieno della foresta. Fra le due
comunità sembra così profilarsi una situazione di radicale incomprensione e di conflitto: ma la
nascita di una figlia a Gualdo lo induce a sentimenti di mitezza, e recandosi da Aronne per proporre
la pace egli scopre che è interesse anche dell‟altro rinunciare agli atteggiamenti aggressivi. Infatti il
gruppo dei primi vincitori si è a sua volta spezzato in una serie di fazioni contrapposte, che stanno
togliendo vigore alla ragione della sua precedente forza, vale a dire il maggior numero. I due
decidono così di proclamare la pace nell‟insieme della colonia, tracciando per terra con un legno un
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“crocione” sul quale giurano di rispettarsi reciprocamente. Dossi commenta: “Era la prima volta,
che Gualdo si ricordasse di un Dio, per non bestemmiarlo; era la prima, che Aronne non l‟invocasse
per meglio ingannare” (idem, p. 68).
Finisce tuttavia anche l‟illusione di poter mantenere una comunità senza regole: l‟aspirante
uomo d‟ordine Carlo Dossi osserva che a stringere la pace giungono individui stanchi, provati da
una libertà senza freni che ha portato loro più danni che vantaggi. “Pochi mesi di libertà senza
legge, il che viene a dire, di servitù volontaria al vizio e alla miseria, avèano cospirato a lor danno,
peggio del lungo regime di una legge senza libertà, il regime del càrcere” (idem, p. 69). I coloni
decidono perciò di comune accordo di dotarsi di un apparato di leggi, che finiscono per formulare
in termini quasi più severi rispetto alle leggi che li opprimevano nel vecchio mondo: le disposizioni
prevedono per esempio la condanna a morte per una serie vasta di reati (non solo per chi uccide, ma
anche per chi ferisce, ruba, si appropria della donna d‟altri), il che suona curioso rispetto
all‟opinione contraria a ogni pena capitale che lo stesso Dossi professa apertamente nel periodo in
cui scrive la sua operetta. Su insistenza delle donne, viene esclusa la loro messa in comune e
restaurata l‟istituzione familiare, fra l‟altro prudentemente suggerita anche da Aronne, “il qual
prevedeva nella incertezza della Famiglia, quella perpetua della Comunità” (idem, p. 71).
L‟assemblea che stabilisce le nuove regole si conclude con la scelta per acclamazione di un capo (è
il Letterato, simbolo di un governo che intende basarsi sull‟intelligenza e non sulla forza) e con
l‟elezione di un nucleo di magistrati. Dossi conclude questa prima parte del suo apologo
raccontando che nel giro di cinque anni, dopo una ripartenza incentrata su una specie di comunismo
della povertà, la colonia ridiventa prospera, tanto da poter consentire il ritorno a scelte e
possedimenti di tipo individuale, temperati però dall‟amore reciproco fra tutti i suoi componenti.
La seconda parte del romanzo costituisce una specie di lunga digressione rispetto
all‟argomento principale, vale a dire l‟evoluzione comunitaria della colonia. Si tratta infatti di una
complicata storia sentimentale che qui possiamo trascurare, salvo osservare che anch‟essa segna
comunque il trionfo dell‟amore. Corriamo dunque verso il finale, che vede il ritorno per
un‟ispezione sull‟isola del Capitano con i suoi ufficiali e soldati. È l‟occasione per Aronne di poter
svolgere una vera e propria relazione sulla storia della colonia, nella quale riemerge l‟inclinazione
utilitaristica, più che astrattamente moralistica, che Dossi vuole conferire alla sua idea di amore
universale. Dal discorso di Aronne si ricava infatti che “non tanto le dèboli voci della coscienza
morale, quanto le fisiche necessità, avèsseli spinti al bene comune, cioè alla giustizia; e come – dal
non offendèr la legge per volontà, spontaneamente passati a non offendèrla per abitùdine, e dal
rispettarla per timor della pena, a rispettarla in omaggio a lei sola – guidando poi la travagliosa
173
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nequizia all‟ilare probità, fòsser venuti a obedire norme nella legge non scritte, per giungère fino –
rieducàtosi il cuore – a quel più del dovuto, che è il beneficio” (idem, p. 106). In nome del
pentimento dei vecchi ergastolani, del loro riscatto attraverso il lavoro e l‟amore reciproco e
dell‟innocenza originaria dei nuovi nati nell‟isola, al termine del racconto il Capitano pronuncia il
perdono della madrepatria e il ricongiungimento con essa della colonia. Che da allora avrebbe
mantenuto statuti e governo riconosciuti anche in patria e meritato il nome di “Felice”.
“Donde ha principio la Colonia felice” (idem, p. 107): queste sono le parole con cui si
conclude il romanzo di Carlo Dossi. Ma più che di una conferma delle tesi in esso contenute, si
tratta della prima rottura, più o meno consapevole, che lo scrittore lombardo effettua nei confronti
di quel genere utopico che pure ha evocato esplicitamente nel titolo dell‟opera. Dopo aver
raccontato, con toni sospesi fra il realistico, l‟elegiaco e il sentimentale, il difficile processo di
formazione della comunità ideale, egli infatti conclude il suo apologo bruscamente, evocando un
inizio di cui non fornisce però alcuna immagine che ne delinei il successivo sviluppo. E rifiuta così
di assumersi il compito più tipico del narratore utopico, quello di descrivere in modo
particolareggiato istituzioni e vita quotidiana della comunità ideale. Sembra che in tal modo lo
scrittore scelga di mantenersi su un terreno di pura simbologia, per evitare una discesa nella
concretezza che avrebbe reso meno credibile la rigenerazione morale e politica messa in scena4.
Del resto, per proseguire nella stesura di un vero e proprio catalogo da isola felice di utopica
ascendenza occorre possedere, oltre alla vena letteraria, un pensiero politico e una capacità di
osservazione sociale che il giovane Dossi con ogni probabilità non aveva.
Ancora più curioso è quanto avviene nella sua opera nel giro di qualche anno, quando lo
stesso Dossi afferma di non credere a quanto da lui stesso narrato. A una ristampa della Colonia
felice uscita nel 1883, egli antepone infatti una Diffida in cui, seppur in un tono che fa trasparire
anche una certa autoironia, in pratica ritratta quanto affermato nel romanzo e nel saggio
4
Nella postfazione all‟edizione della Colonia felice cui si è fatto fin qui riferimento, Tommaso Pomilio elenca con cura
gli elementi che rendono il testo di Dossi un‟utopia incompleta: l‟assenza di una radicale alterità del mondo ipotizzato
rispetto a quello conosciuto (gli isolani alla fin fine restaurano le leggi che avevano illusoriamente pensato di poter
abbandonare); l‟inesistenza della testimonianza di un viaggiatore che racconti quanto ha visto; e appunto la rivelazione
degli ordinamenti della società ideale, che Dossi evita di descrivere analiticamente. Anzi, con il ritorno della Colonia
nell‟orbita della madrepatria vediamo venir meno anche un altro carattere ricorrente nelle utopie, quello della
separatezza della società ideale rispetto alla realtà da noi conosciuta. Pomilio osserva tuttavia che, in tale serie di
riduzioni volte a costruire un‟immagine esemplare, puramente simbolica, della morale filantropica che sorregge il
discorso di Dossi, permane ugualmente una tensione utopistica, quella della voluta estraneazione rispetto alla realtà
oggettiva per far assurgere appunto la narrazione al livello del simbolo. A tutto ciò vanno aggiunte le scelte stilistiche
dello scrittore lombardo, incline come si è detto alla sperimentazione e talvolta a una tecnica espressiva fatta più di
allusioni che di descrizioni. In una delle note comprese nel cosiddetto “libro azzurro” Dossi (1984, n. 2377) scrive: “Il
mio discorso è tutto a cancellature”. E come una “cancellatura” può essere intesa la scelta di concludere la Colonia
felice parlando di un inizio, e lasciandolo privo dello sviluppo esplicito che ci si sarebbe potuti aspettare.
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Mito della rigenerazione e influsso delle passioni nelle “colonie” di Dossi e Pirandello
preparatorio (cioè Il Regno dei Cieli). La Diffida serve per la verità anche a chiarire i fondamenti
ideologici di quanto narrato nella Colonia. Citando i nomi di Bentham e di Frédéric Bastiat,
l‟economista francese della prima metà dell‟Ottocento ottimistico sostenitore dell‟armonia naturale
e spontanea fra i diversi interessi individuali e di classe, Dossi spiega che l‟interrogativo al quale
aveva cercato di dare risposta riguardava il come poter spingere l‟uomo al bene. Egli riteneva ormai
preclusa la via del richiamo alla giustizia divina, perché qualsiasi rinvio a una dimensione
sovrannaturale è al tempo presente inevitabilmente “limato” dalla scienza e sottoposto al rischio del
ridicolo. E maggiore fortuna non è destinato ad avere l‟appello alla legge degli uomini, che per il
suo carattere difettoso che già conosciamo non è in grado di convincere tutti, e sicuramente scarsa
presa ha “in animi la cui forza ragionatrice si chiama dinamite” (Dossi, 1985, pp. 111-112). Allora
resta soltanto la strada tracciata dai “poemi sociali” di Bentham e di Bastiat, appunto: “pensai –
scrive Dossi – che giustizia e bontà fossero consigliate all‟uomo dal suo egoismo medèsimo e che il
proprio vantaggio, sapientemente considerato, coincidesse, in ùltima analisi, col vantaggio altrui”
(idem, p. 112). Si tratta in effetti della riproposizone della dottrina dell‟interesse ben inteso espressa
a fine Settecento da Jeremy Bentham, nella convinzione che il raggiungimento degli scopi
individuali necessita di un ambiente sociale favorevole, per cui è lo stesso egoismo umano a
suggerire comportamenti benevoli, visto che la felicità individuale si intreccia necessariamente con
quella della comunità di appartenenza. Di qui – prosegue il Dossi del 1883 – la spinta a produrre
quel fascicoletto di carte imbrattate che è Il Regno dei Cieli, e poi la pretesa di mettere in scena tali
buoni propositi con La colonia felice. Il tutto doveva dimostrare che il male paradossalmente può
servire a ispirare la via del bene, che la giustizia deriva dall‟utilità, che la pena di morte è inutile e
di conseguenza ingiusta, che il rinnovamento della compagine morale può far scaturire un‟esistenza
virtuosa anche in chi prima ha errato: il tutto sintetizzabile nello slogan per cui “amore ha forza
assài più della Forza” (idem, p. 113).
Questo per spiegare come mai nel 1874 si sia provveduto a pubblicare un‟opera del genere.
Un decennio dopo Carlo Dossi ritiene tuttavia il libro invecchiato, opera di un giovane “in un
morboso periodo di entusiasmi per la virtù e d‟innamoramento per l‟umanità” (idem, p. 111),
bisognoso ora di essere raddrizzato rispetto alle sue idee precedenti. La “diffida” viene appunto
presentata come l‟ammonimento di un padre (il Dossi del 1883) verso un figlio caparbio (il
romanzo), destinato peraltro a rimanere senza esito (e in effetti il romanzo continua a esser fatto
circolare, con l‟assenso del suo autore), visto che interventi simili servono più a tacitare la
coscienza dei padri che a cambiare per davvero i figli. È tuttavia un‟avvisaglia, seppur espressa in
tono leggero, di quella che nella Diffida diventa a un certo punto una vera e propria ritrattazione,
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alla quale non è certo estranea la pubblicazione, intervenuta poco dopo la prima edizione del
romanzo, dell‟Uomo delinquente di Cesare Lombroso. La ragione fondamentale per cui quanto
narrato nella Colonia felice è da considerarsi un bel sogno letterario e niente più, risiede infatti nella
smentita che la scienza è pronta a produrre nei confronti dell‟idea del possibile riscatto dei rei dai
delitti commessi, spinto fino alla rigenerazione verso una vita virtuosa. Psichiatria, chimica
organica, statistica criminale – argomenta Dossi – dimostrano che l‟uomo malvagio non è
correggibile: bisognerebbe risalire al suo germe e modificarlo prima che si sviluppi, ma è strada
preclusa alle scienze conosciute5.
In una parabola racchiusa in pochi anni lo scrittore lombardo passa dunque dalla
convinzione della possibilità del riscatto per ogni uomo (delinquenti compresi) a un‟ostentata
disillusione sulla possibilità di costruire una società giusta e ordinata facendo appello alla pura
riflessione razionale dei suoi membri. È curioso osservare che un tentativo analogo, accompagnato
anzi da un fallimento espresso in modo ancor più fragoroso, viene rappresentato mezzo secolo dopo
da uno scrittore di ben altra tempra e notorietà rispetto a Dossi, vale a dire Luigi Pirandello. Mi
riferisco al testo teatrale La nuova colonia. Mito, pubblicato nel 1928 da Bemporad e messo in
scena per la prima volta nello stesso periodo6. Come l‟insieme dei “miti” che accompagnano il
crepuscolo della scrittura teatrale di Pirandello (gli altri sono Lazzaro e I giganti della montagna),
anche La nuova colonia è stata variamente commentata dai critici e dagli storici della letteratura e
del teatro, divisi fra chi ritiene tutto sommato “minore” questa parte della produzione pirandelliana
e chi ne intravede invece un nuovo e importante nucleo espressivo, nella sua spiccata propensione
per l‟impiego di un linguaggio e di una narrazione fortemente simbolici 7 . Varia è anche la
5
Il rifiuto delle tesi benevolenti espresse nel 1874 giunge a un punto tale che lo scrittore lombardo si lascia andare a
una serie di provocazioni verbali (peraltro in sintonia con molto pensiero del positivismo italiano più intransigente),
auspicando, come reazione empirica a una situazione di malvagità non correggibile dalle fondamenta, che si impedisca
ai perversi e ai loro figli e nipoti di procreare, o che si ritorni a quel Medioevo in cui gli scellerati venivano annientati
con le loro famiglie, il che costituirebbe una “sincerissima filantropia” (idem, p. 113).
6
Rimane controverso se si possa parlare per La nuova colonia di Pirandello di una filiazione diretta dalla Colonia felice
di Dossi, nel senso di una voluta ricerca di ispirazione del primo dal testo del secondo. Certo, le analogie sono
profonde, come sottolinea fra gli altri lo studio recente di Palmieri (2011, con un‟indagine che si estende da Dossi a
Pirandello fino all‟Isola dei beati di August Strindberg). Guido Davico Bonino, che conclude la sua prefazione
all‟edizione della Colonia felice qui più volte citata con un lungo riferimento a Pirandello, ritiene peraltro che quanto
l‟autore della Nuova colonia conoscesse il lavoro di Dossi non sia poi così importante. Quella che conta è la
corrispondenza a distanza fra le due vicende narrate, segno di una tensione contraddittoria intorno all‟utopia che ogni
tanto emerge dal non detto della nostra cultura nazionale per farsi discorso esplicito.
7
Novità e continuità insieme, nell‟ambito dell‟opera di Pirandello, ricava dalla serie dei miti Leone de Castris (1971,
pp. 200-201), che scrive: “Nel mito, pur se tende a dilatarsi e a farsi velleitariamente centro d‟azione, in realtà torna a
vivere, come inavvertitamente e ostinatamente verificando l‟unica possibile dimensione di arte e di teatro, la
condizione irresolubile dell‟uomo di Pirandello: anche più visibilmente figurata, a dispetto della finale catarsi mistica,
nel simbolo sociale de La nuova colonia”. Nel tentativo di una intera collettività di costruire con la libera iniziativa dei
suoi componenti un mondo ideale, anche moralmente, Leone de Castris intravede in Pirandello un‟ansia politica di
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Mito della rigenerazione e influsso delle passioni nelle “colonie” di Dossi e Pirandello
valutazione ideologica che è stata avanzata intorno al tentativo di costruire ex novo una società
ordinata e alla frustrazione che ne deriva, con giudizi oscillanti fra il piano antropologico
(l‟impossibilità per l‟uomo di travalicare i propri limiti naturali e culturali) e quello vagamente
religioso (la permanenza nell‟uomo del retaggio del peccato originale, che ne impedisce la
realizzazione morale in questo mondo). La continuità argomentativa con l‟opera di Dossi permette
tuttavia a mio avviso di seguire anche un‟altra strada nell‟affrontare criticamente La nuova colonia,
vale a dire la sottolineatura dei suoi passaggi più propriamente “politici”: operazione da cui
dovrebbe scaturire con maggiore nettezza il rapporto controverso che anche Pirandello, come il suo
predecessore, intrattiene con la dimensione utopica, affascinante ma tragicamente irreale.
La ricostruzione della trama che qui propongo risulterà, a chi conosce il testo pirandelliano,
squilibrata sul versante di tali passaggi politici, anche se talvolta larvatamente politici: ma è
appunto ciò che mi sembra qui più significativo. Nel lungo prologo Pirandello mette in scena una
situazione che in parte ricorda quella iniziale di Dossi: è la possibilità che si apre per un abbastanza
folto gruppo di personaggi (in un‟opera teatrale che ha spesso un andamento corale, come si addice
a un “mito”) di cominciare una nuova vita altrove. L‟“altrove” è un‟isola vicina al luogo in cui tali
personaggi abitano, che in passato ospitava un penitenziario, tanto da essere definita nel linguaggio
comune “l‟isola della Penitenza”; ma è stata poi sgomberata a causa dell‟ennesimo terremoto,
perché destinata a essere inghiottita dalle acque del mare. Con una differenza non secondaria
rispetto a Dossi, i protagonisti del tentativo di colonizzare l‟isola non sono ergastolani lì condotti a
forza: si tratta anche questa volta di soggetti degradati, con fra loro più di un delinquente (per lo più
dedito al contrabbando), reietti rispetto alla società rispettabile ai cui margini sopravvivono, che
decidono tuttavia liberamente di spostarsi nell‟isola per tentare una nuova esperienza di vita,
personale e sociale. A sospingerli è anche la speranza di poter dimostrare la falsità dell‟assunto su
cui si basa la loro esclusione nel mondo reale: il pregiudizio cioè secondo cui chi ha commesso un
reato non può più essere accolto nella società degli onesti, che chi una volta ha rubato sarebbe
costretto a essere ladro per sempre. L‟ispiratrice dell‟esperimento è colei che si rivelerà l‟autentica
protagonista della vicenda: La Spera, una prostituta più per necessità che per scelta (deve fra l‟altro
mantenere un figlio illegittimo), che convince gli altri a rincorrere una “vita nuova, vita nuova, e
nostra, fatta da noi” (Pirandello, 1958, p. 1084), e basata quindi sul lavoro comune. A suggellare
l‟iniziativa si manifesta quello che tutti considerano un miracolo: dopo esser stata costretta a
mettere il figlioletto a balia perché priva di latte proprio, quando il bambino ha cinque mesi La
inequivocabile qualità, per quanto irresoluta sul piano pratico: “Non soluzione, non visione costruttiva e fede
pragmatica; ma anelito del personaggio e rimpianto dell‟uomo”.
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Spera inizia invece ad allattarlo, con una rivelazione che coloro che sono disposti a partire per
l‟isola avvertono come una promessa di nutrimento e di fertilità per tutti.
La realtà si dimostra però molto più complicata, seppur dialetticamente aperta a diverse
soluzioni. Una volta giunti nell‟isola, i nuovi coloni (tutti maschi, meno La Spera) rivelano
tendenze contrapposte: a chi si ripromette per davvero di costruire un nuovo mondo di lavoro, di
rispetto reciproco e di solidarietà, si oppongono coloro che pensano di soddisfare i propri bisogni
con la sopraffazione dell‟altro. Fonte di tensione sono soprattutto due questioni. La prima è la
mancanza di donne con le quali dare seguito agli istinti sessuali: la sola presente nell‟isola, La
Spera, forma subito coppia con il padre del suo bambino, Currao, per cui l‟unica soluzione al
problema appare a molti la possibilità di attirare altre donne. L‟altra questione riguarda il modo di
dividere fra i coloni (o di mantenere indiviso) quel poco che l‟isola offre, in particolare i vecchi
edifici del penitenziario. Chi si dà da fare per ripararli è ostacolato da chi crede di risolvere ogni
problema col saccheggio del poco disponibile. A chi ritiene giusto concordare con gli altri suoi
simili le forme della proprietà, in vista del mantenimento della solidarietà reciproca, si
contrappongono coloro che accampano diritti individuali mediante scimmiottature del principio del
primo occupante: tali sono le pretese di chi vuole un edificio per sé solo in virtù dell‟averci pensato
prima degli altri, o perché in un determinato locale era già stato in precedenza, magari come
deportato quando il penitenziario era funzionante.
Ancora una volta è La Spera a cercare di dirimere le questioni con uno sguardo rivolto
all‟interesse comune. Come donna, si dichiara disposta al servizio nei confronti di tutti, ma al
rapporto amoroso con uno solo, il padre del suo bambino (a testimoniare così la permanenza
nell‟isola di una struttura familiare, anche se forzatamente unica). Quanto alla distribuzione delle
risorse e agli altri problemi che dovessero insorgere nell‟organizzazione della nuova colonia, in
nome delle aspettative di rigenerazione che hanno spinto i suoi componenti ad abbandonare il
vecchio mondo8, l‟unico metodo da lei suggerito è che ognuno accetti di farsi guidare dal giudizio
della comunità nel suo insieme. Con un passaggio dal tono quasi roussoviano, l‟appello è anzi a
dismettere l‟abitudine di assolutizzare ciascuno la propria ragione, per consegnarsi interamente alla
comunità: il solo modo – afferma la Spera – “d‟esser tutto per tutti [… è] quello di non essere più
niente per noi” (idem, p. 1099).
Come in Dossi, anche in Pirandello i coloni cercano di superare il primo periodo di
disordine dandosi delle istituzioni e delle leggi. Una volta formato un Tribunale e un Consiglio dei
8
Dice La Spera con una vena più pensosa che ottimistica: “Eh, se fosse vero che, venendo qua e cambiando vita, a uno
a uno dovevamo diventare altri da quello che eravamo…” (idem, p.1097).
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Nuovi Coloni, i loro membri si riuniscono col proposito dichiarato di darsi da se stessi la legge,
dopo essere stati emarginati o puniti nel loro vecchio mondo in base alla legge voluta da altri. Il
principio è sottolineato soprattutto da Currao, che comincia ad atteggiarsi a capo della nuova
comunità. Occorre infatti – egli dice – stabilire una legge “che valga per te e per tutti allo stesso
modo: legge tua e nostra, che ce la comandiamo noi stessi, perché l‟abbiamo riconosciuta giusta;
come la necessità ce l‟ha insegnata: del lavoro che dobbiamo fare, tutti, ciascuno il suo, per darci
ajuto a vicenda: tu questo, io quello, secondo le forze e le capacità. Non te l‟impone nessuno. Tu
stesso. Perché possa ricevere, in cambio di quello che dài” (idem, p. 1102)9. Le parole di Currao
sembrano in un primo momento convincere gli abitanti della nuova colonia, ad eccezione di colui
che si sta profilando come il protagonista negativo dell‟intera vicenda: Crocco. Questi invidia
all‟altro sia l‟influenza che è in grado di esercitare sugli altri componenti (profilandosi appunto
come un possibile uomo di potere), sia l‟esclusività di fatto conseguita in merito ai rapporti con la
sola donna presente nell‟isola. Dopo essersi isolato dalla società degli altri per le proprie
impazienze e per il proprio carattere impulsivo, essersi visto rifiutare per queste ragioni la sua
tardiva richiesta di entrare nell‟ordine comune, e aver tentato di usare violenza alla Spera, Crocco
abbandona l‟isola portandosi via la barca di tutti. Ma l‟episodio che sembra così segnare
l‟isolamento definitivo della nuova colonia farà invece da presupposto per la sua rovina.
Crocco torna infatti nella società di provenienza e, cantando le lodi di un‟isola paragonata
nelle sue parole a un paradiso terrestre, convince un ricco possidente, Padron Nocio, a finanziare
una spedizione nella nuova colonia, a parole per far partecipare altri alla nuova esperienza, ma con
il proposito più o meno velato di potersene appropriare. L‟arrivo nell‟isola di nuove persone mosse
da intenzioni corruttrici segna la rottura con uno dei cardini della tradizione della letteratura
utopistica, vale a dire la separazione della società ideale dal mondo reale, che irrompe invece nella
“nuova colonia” con tutti i suoi vizi. Intanto si crea un‟atmosfera di ostilità fra gruppi diversi, in
particolare fra i “vecchi” occupanti dell‟isola, stretti attorno a Currao, e i nuovi arrivati. E tra queste
due fazioni si instaura una competizione per il potere, che non esclude il ricorso all‟inganno e al
delitto (specialmente dalla parte dei “nuovi”, ispirati da Crocco) per ottenere un ruolo egemone in
una società non più basata sulla primitiva solidarietà fra i suoi membri. Ma anche i “vecchi”,
compreso lo stesso Currao, si fanno presto invischiare dall‟ambizione di poter orientare la comunità
anziché servirla. In secondo luogo, le imbarcazioni provenienti dal continente portano con loro le
9
Alla fine del primo atto, quello in cui si dà corpo alla costruzione della nuova colonia, ritornerà nelle parole di Currao
la stessa aspirazione a costruire una società le cui forme siano pensate e decise dai suoi membri e non da altri. “La
nostra vita qua ce la facciamo noi, con niente, con quello che c‟è; la facciamo sorgere noi, di pianta; e sarà, come
saremo capaci di farcela” (idem, p. 1107).
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fonti di stordimento e di discordia che Currao aveva cercato quantomeno di allontanare nel tempo:
le donne e il vino. E di fronte alla prospettiva della baldoria anche coloro che all‟inizio parteggiano
per il mantenimento della semplicità di vita che si stava sperimentando nella nuova colonia
cominciano ad abbandonare Currao. Il quale osserva sconsolato che se il bene “è difficile a farsi; è
troppo facile il male” (idem, p. 1130).
Con una colorazione che assume quasi un risvolto classista, la critica che Currao esibisce
contro la nuova situazione parte dalla convinzione che quel che la nuova colonia si prefiggeva di
essere, per i diseredati che avevano cercato di uscire dalla malevolenza e dal disprezzo in cui erano
precipitati nel vecchio mondo, cioè una società semplice, proiettata verso la soddisfazione del
necessario e non alla rincorsa del superfluo, fosse effettivamente un bene. Altro è invece il bene dei
ricchi, che fondano il loro successo sulla concorrenza e sulla separazione. Così, afferma Currao,
“avete portato l‟ozio, lo spasso; e nascerà l‟invidia, per forza, e la gelosia; nascerà l‟ambizione e
l‟intrigo, per forza. Tutti i vizi della città avete portato, e le donne, il danaro. La città, la città da cui
eravamo fuggiti, come dalla pèste” (ibidem). Passaggi del genere servono a Pirandello per spiegare
come La nuova colonia intenda esprimere un tentativo di costruzione di una società basata su
equilibri e valori collettivi, se non di un vero e proprio modello socialista: un tentativo destinato
però a soccombere di fronte alle lusinghe della soddisfazione immediata degli impulsi e alla
pressione delle passioni.
Dopo una serie convulsa di avvenimenti, manipolazioni, complotti, le cose finiscono infatti
nel modo in cui Currao teme: esplode il baccanale, la conquista dei favori femminili provoca liti e
risentimenti fra i maschi, l‟alcool impedisce qualsiasi visione non animalesca della realtà umana,
nessuno pensa più né al lavoro quotidiano né al rispetto per i propri simili. Difficile sarà, dopo
questa esperienza, ristabilire la pace, anche perché proprio intorno all‟assunzione di un ruolo di
potere si apre un‟altra dura competizione, che vedrà soccombente anche Padron Nocio, cioè la
figura che potrebbe imporre il proprio ordine attraverso il denaro. Quella che emerge è in definitiva
l‟impossibilità di tenere insieme una comunità senza una legge e un‟autorità che travalichino e
frenino le pulsioni dei singoli. L‟utopia dell‟autogoverno pacifico e spontaneo si rovescia nel suo
contrario, nell‟incubo dell‟esplodere caotico degli istinti. Di qui il messaggio politico, nemmeno
tanto latente, affidato alla Nuova colonia. Come scrive Silvana Monti, per Pirandello “è dunque
nell‟egoismo della natura umana la causa della sua incapacità di attingere a una vera esperienza
sociale e quindi la premessa della „fatale‟ accettazione dello Stato. In questa prospettiva
hobbesiana, suggerita anche dalla realtà storica, dal fascismo e dal capitalismo, che sembra
rinchiudere il drammaturgo nella logica della dittatura, del resto lucidamente accettata col famoso
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Mito della rigenerazione e influsso delle passioni nelle “colonie” di Dossi e Pirandello
telegramma a Mussolini del 1924, si contrappongono problematicamente non solo la distruzione
dell‟isola e quindi di uno Stato comunista considerato un‟illusione, ma anche la morte di Padron
Nocio, simbolo dello Stato borghese” (Monti, 1985, p. 184).
Da segnalare è che, nel coacervo di disillusioni e di tensioni contrastanti che segna la
seconda fase della colonizzazione dell‟isola, anche la dirittura di Currao comincia a venir meno.
L‟arrivo di altre femmine, il fatto che la Spera non sia più l‟unica donna nell‟isola, gli ha tolto gran
parte dell‟alone di autorità che poteva esercitare sugli altri maschi in virtù del suo singolare
possesso. E quando, di fronte al disordine crescente, più di un abitante dell‟isola fra quelli più dotati
di senso pratico comincia a suggerire un patto fra lui e Padron Nocio per ristabilirvi una qualche
autorità, egli non si ritira: attratto anche dalla prospettiva che il contratto politico, per così dire, con
il possidente sia suggellato dal matrimonio con la giovane figlia di questi. L‟ultima parte del
dramma è così riempito dal crescente dissidio fra Currao e La Spera, dovuto soprattutto alla pretesa
dell‟uomo di prendere con sé il figlioletto. Ma ogni discussione e ogni concorrenza sono alla fine
vanificate dall‟irruzione catartica della natura, che si incarica di compiere una specie di sinistra
giustizia: come era in qualche modo scritto sin dall‟inizio, alla fine l‟isola sprofonda nel mare,
sommergendo tutti i suoi abitanti. Tutti meno due: la Spera e il suo figlioletto, che nell‟ultima scena
si stagliano, unici sopravvissuti, su uno scoglio.
Nell‟ambito dell‟operazione simbolica tentata con La nuova colonia, l‟epilogo può essere
variamente interpretato: variamente non nel senso di spiegazioni alternative, ma piuttosto come
stratificazione di diversi significati 10. Si può anche troppo facilmente intravedere nell‟immagine
conclusiva della Spera e del figlio una concessione al mito della maternità veicolato con forza negli
stessi anni del testo teatrale dalla cultura fascista: una concessione che può essere altrettanto
facilmente messa in relazione con l‟iscrizione al partito nazionale fascista da poco effettuata da
Pirandello, con qualche scandalo per altre parti, meno schierate, dell‟ambiente intellettuale italiano
(per non parlare degli ambienti internazionali). Da sola, è senz‟altro una lettura eccessivamente
semplificata: da non escludere tuttavia, se teniamo conto della profonda differenza dell‟epilogo
della vicenda rispetto a quando era stata per la prima volta concepita da Pirandello, quasi un
10
La complessità interpretativa è del resto una delle vie critiche che meglio avvicinano all‟opera di Pirandello nel suo
complesso, non solo a proposito della Nuova colonia. Da sottoscrivere è quanto afferma in proposito lo storico della
letteratura Riccardo Scrivano (1987, pp. 102-103): “Io credo, in verità, all‟intersecazione e alla molteplicità dei
messaggi che intenzionalmente Pirandello affida alle sue opere, specie alle teatrali, a quelle cioè che si concretano solo
nel momento della ricezione da parte di un pubblico che deve cavarne qualcosa lì per lì, ciascuno di esso a suo modo, di
fretta, nell‟attimo della rappresentazione. […] Allo stesso modo che gli stessi materiali possono essere destinati ad altri
significati, possono essere manipolati in prospettive diverse e con esiti estremamente differenti, data insomma la totale
metamorficità dell‟universo, non sono i messaggi ad essere importanti, ma è la loro interscambiabilità”.
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ventennio prima11. E se riandiamo alla possibilità, già detta in precedenza, di interpretare La nuova
colonia come un testo denso di risonanze politiche, nella sua critica all‟idea di poter costruire una
società comunisticamente orientata, capace di far superare agli uomini per pura forza di volontà i
loro individualismi.
Al di sotto di questa soglia di significato quasi esplicita nel testo, possiamo però intravedere
altre simbologie, a partire dall‟inflessibilità della natura nei confronti di ogni possibile artificialità
escogitata dalla mente umana, in un‟ottica di destino ineluttabile che si esprime sia in negativo sia
in positivo. In negativo, facendo piazza pulita di tutte le speranze di rigenerazione virtuosa per forza
spontanea, destinate a soccombere di fronte al riemergere degli istinti; in positivo, facendo
continuare sopra le macerie la vita attraverso la sopravvivenza della figura emblematica della
madre. In questo modo, come osserva Riccardo Scrivano, il mito sociale “è posto sotto il segno del
fallimento, […] e contro il mito che si sfalda, di una società che dall‟infima abiezione si riscatta e si
redime col sacrificio e con la volontà, s‟erge infine quello della salvezza possibile solo nella fedeltà
alla natura, ritrovata in una sorta di rinnovata purezza di cui il rapporto tra madre e figlio è il
simbolo scoperto” (Scrivano, 1987, p. 97). Resta peraltro da valutare, in questa prospettiva critica,
il perché la natura sia restituita nella trama pirandelliana con l‟immagine parziale della maternità,
trascurando le altre relazioni ricavabili dalla naturalità umana. E convincente è in questo senso la
linea interpretativa che evoca, a proposito della Nuova colonia, la continuità con i miti ancestrali
propri in particolare dell‟area mediterranea, utilizzabili per richiamare alla mente l‟idea (a suo
11
È quanto si trova nel romanzo di Pirandello Suo marito, concepito e in gran parte scritto intorno al 1909 e pubblicato
nel 1911 dall‟editore fiorentino Quattrini. Una delle protagoniste del romanzo, la moglie del marito del titolo, è una
giovane drammaturga che vede rappresentata una sua opera intitolata appunto La nuova colonia. La trama, per la verità
nel 1911 ancora appena tratteggiata, si presenta tuttavia nel suo sviluppo iniziale abbastanza vicina a quella definitiva
del 1928, anche se viene espressa nel romanzo con tonalità spregiative nei confronti dei “coloni”, più calcate rispetto a
quelle del successivo testo teatrale. Vi si parla infatti di marinai di Otranto, “rozzi, primitivi”, che decidono di trasferirsi
su un immaginario isolotto del mar Ionio, nonostante questo sia soggetto a continui terremoti e sprofondamenti, per
sfuggire alle imposizioni che una vita sociale normale conduce con sé. Nell‟isola essi vivono infatti “fuori d‟ogni legge,
quasi fuori del tempo”. Fra loro è una sola donna, la Spera, bollata come “donna da trivio”, ma la cui unicità nella
colonia la rende “onorata come una regina, venerata come una santa, e contesa ferocemente a colui che l‟ha condotta
con sé: un tal Currao, divenuto, per ciò solo, capo della colonia”. Fra i contendenti, uno dei più accesi cerca di portare
violenza alla Spera ma, respinto da Currao, fugge dall‟isola. Salvo farvi ritorno con nuovi coloni, che comprendendo fra
loro anche donne tolgono a Currao l‟unicità della sua posizione, e quindi anche la deferenza a ciò dovuta. Da qui
prendono le mosse, in successione, l‟indebolimento del rapporto fra la Spera e Currao, il desiderio di quest‟ultimo di
sostituirla con una giovane, la contesa fra i due per il figlio. Fino a un epilogo, nel romanzo del 1911, diametralmente
opposto rispetto alla versione teatrale del 1928, tale da far pensare non alla sacralizzazione della maternità ma al suo
contrario, a una specie di riedizione in veste sottoproletaria del mito di Medea. Nel romanzo avviene infatti che la
Spera, “per non abbandonare il figliuolo e per colpire nel cuore l‟uomo che l‟abbandona, in un impeto di rabbia
furibonda abbraccia la sua creatura e in quel terribile amplesso, ruggendo, lo soffoca”. Proprio nello stesso momento la
terra si apre sotto i piedi dei coloni cominciando a inghiottirli, in un “ruggito” che si aggiunge a quello della Spera, e
che simboleggia un‟umanità rimasta al livello della pura animalità; e a Currao che precipita mentre si sta ponendo alla
convulsa ricerca del figlio, la Spera urla la verità: “Te l‟avevo ucciso io con le mie mani… Muori, muori dannato!” (Si
veda in proposito Pirandello, 1982; l‟abbozzo della trama della Nuova colonia si trova alle pp. 677-679).
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Mito della rigenerazione e influsso delle passioni nelle “colonie” di Dossi e Pirandello
modo anch‟essa utopica) di una società delle madri destinata a imporsi sulle rovine della società dei
padri12.
L‟epilogo della vicenda nel segno di una maternità che si riduce al rapporto madre-figlio,
senza altre mediazioni sociali, assomiglia però, a me sembra, anche a un impulso di fuga e
regressione, a una nostalgia del ventre materno. E in questo senso La nuova colonia può servire a
portare un altro tassello a quella progressiva sparizione dei messaggi utopici nella cultura italiana
dalla quale siamo partiti, e che nel Novecento per la verità non sembra certo essere una
caratteristica solo italiana. Quasi ovunque, infatti, due secoli di febbrili produzioni di società
immaginarie e di ordinamenti perfetti lasciano il campo, soprattutto a partire dal primo dopoguerra,
a un distacco anche troppo ostentato dai sogni di rigenerazione collettiva. All‟utopia subentra
l‟antiutopia, la critica all‟idea di un mondo alternativo magari suggestivo, ma troppo lontano da una
realtà praticabile; o arriva addirittura la distopia, sulla scia della violenta torsione esercitata nel
mondo reale dai totalitarismi, a denunciare come pericoloso il sogno stesso di una società
programmata sulla misura del collettivo, e perciò stesso destinata, sembrerebbe, a soffocare
brutalmente l‟individualità. La scheggia qui tratteggiata, il segmento che unisce le colonie di Dossi
e di Pirandello, appartiene evidentemente alla prima operazione, quella della critica argomentativa
riguardante l‟impossibilità dell‟uomo di superare i limiti dovuti alla sua singolarità. Ma l‟isola che
affonda della rappresentazione pirandelliana assomiglia anche a quella parte di Novecento incapace
ormai di sognare un proprio sviluppo armonico (uno sviluppo, non una regressione), anche perché
troppo spesso tradito dai suoi stessi sogni.
12
Per quanto Pirandello cancelli nella versione teatrale della Nuova colonia la dichiarata ambientazione meridionale
che la vicenda aveva nella breve anticipazione compresa nel romanzo Suo marito, per trasportarla in un luogo indefinito
come è proprio delle utopie, la filiazione mediterranea del mito della generazione come legame esclusivo fra madre e
figlio rimane evidente. Fulvia Airoldi Namer osserva fra l‟altro che l‟assunzione della Spera al livello di madre-simbolo
non è data una volta per tutte nella Nuova colonia, ma segue le diverse fasi con cui nella donna cresce il processo di
conquista e di consapevolezza della propria dignità. In origine “prostituta e solo secondariamente madre, ella diventa
trascinatrice di folle nel Prologo; casta e unica „donna‟ del capo della comunità dell‟isola è la sacerdotessa della vita
quotidiana nel primo atto, mentre nel secondo finisce con l‟essere soltanto la „mamma di Nico‟, per assurgere poi nel
terzo atto all‟iperbolica funzione di Madre spogliata del suo profetico nome proprio” (Airoldi Namer, 1984, p. 36). A
proposito del significato del nome del personaggio, la stessa Airoldi Namer afferma che in esso si concentrano tre
allusioni convergenti. Il primo è quello più manifesto, del rinvio alla parola “speranza”. Ma ricorda la studiosa che nel
dialetto siciliano Spera significa “sfera”, figura in sé perfettamente realizzata: “in questo caso, essere compiuto in se
stesso come i mitici androgeni del Convito platonico” (ibidem). Se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che “spera” è anche
il nome tradizionale dello specchio da tavolo, fra speranza, sfera e specchio troviamo in effetti un bel po‟ di funzioni
impersonate dalla Spera pirandelliana.
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Claudio De Boni
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