RASSEGNA STAMPA

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RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
giovedì 19 giugno 2014
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VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 19/06/14, pag. 1/15
Tom Benetollo 2004-2014
Il ragazzo della pace
di Luciana Castellina
Non sembrano dieci anni che Tom Benetollo è mancato.
Forse perché non ci è davvero mai «mancato», nel senso di scomparso dalla vita dell’Arci:
struggente nostalgia per quando era a nostro fianco, questo sì, ma ancora presente in
ogni momento dell’associazione. Perché non solo sempre ricordato nelle celebrazioni, ma
anche nella vita quotidiana.
Qualcuno potrebbe dire che si è creato il mito di Tom Benetollo. Per certi versi è vero, ma
questo non è affatto un derogativo: Tom ha avuto tutti i meriti per diventare il mito dell’Arci.
Solo che questa consacrazione non gli si addice, perchè era il contrario del tipo di persona
che diventa mito. Tom è stato infatti sopratutto un compagno, nel senso più pieno della
parola. E il senso di questo termine ce lo aveva spiegato bene e con grande semplicità
quando ci aveva proposto come figura simbolica il «lampadiere». Che è colui che non
tiene la lampada in modo che il raggio di luce sia proiettato davanti ai suoi piedi, ad
illuminare il proprio cammino, ma chi lo rivolge all’indietro, perchè quel che importa non è
che veda una sparuta avanguardia ma tutti, anche l’ultimo. Il contrario di quanto ogni
giorno il sistema in cui viviamo ci suggerisce, tutto fondato come è sull’idea che occorre
«farcela», e non importa se al prezzo di calpestare chi ti sta vicino, nell’assunto che libertà
coincida con individuo.
Questa è stata la democrazia che Tom ha praticato — e insegnato : garantire a tutti la luce
per ridurre al massimo la distanza fra chi dirige e chi è diretto, così rendendo possibile la
condivisione del sapere e dell’informazione. Che è poi il solo modo di assicurare
uguaglianza reale, perchè rende possibile che il giudizio di ciascuno conti davvero.
Quando Tom è morto colpito da un ictus improvviso proprio mentre partecipava ad
un’iniziativa promossa da il manifesto, molti dei lettori attuali del quotidiano erano ancora
ragazzi. A differenza dei loro coetanei che militano nell’Arci e perciò ne conoscono bene la
storia, di Tom hanno molto probabilmente una conoscenza assai vaga Vorrei brevemente
raccontarlo, a partire dalla mia diretta conoscenza.
Io Tom l’ho incontrato quando non era ancora iniziato il suo impegno diretto nell’Arci, alla
fine degli anni ’70. Ero iscritta al Pdup (il partito nato dalle viscere de Il manifesto), lui al
Pci. All’epoca questo voleva dire: diffidenza reciproca. E però i tempi si erano fatti già più
civili di quanto non fossero stati quando noi eravamo stati radiati da quel partito, il dialogo
era ammesso. E così con Tom ci siamo parlati. Io ero parecchio più anziana, ma grazie
alla straordinaria retrocessione generazionale di cui noi vecchi del manifesto godemmo
per via dell’incontro col ’68, frequentavo ancora gli stessi luoghi politici di Tom quando lui
stava nella Fgci.
E anche lui continuò a battere le strade delle organizzazioni giovanili quando non ne ebbe
più l’età ed era «passato» al Partito. Perché nel partito adulto aveva avuto l’incarico di
responsabile della «pace». E, si sa, la pace è cosa da ragazzi. Gli anziani si occupano di
politica internazionale, che è cosa notoriamente diversa, più «seria», più «responsabile»,
tant’è vero che può persino prendere in considerazione la guerra. Ma poiché la «pace» era
una sottosezione della politica adulta, quella «internazionale», Tom si trovò in bilico.
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Diventammo quasi amici per via di questa «doppia appartenenza»: io quella
generazionale, lui quella dell’apparato di Botteghe Oscure.
Per far saltare quel «quasi» ci vollero ancora un po’ di anni di reciproco annusamento, in
cui si sono intrecciati sospetto e affetto crescente. Che durò anche quando dopo 15 anni
rientrai con i compagni del Pdup nel Pci e però feci una certa fatica a riabituarmi alle rigide
discipline di quel partito. Tant’è vero che mi azzardai, senza chiedere il permesso a
nessuno, a procedere ad un autonomo impegno nell’End (European Nuclear
Desarmement) e a proporre la creazione in Italia di una vera Associazione per la pace,
che unificasse, come altrove, i tanti dispersi gruppi pacifisti.
Tom, in quanto responsabile «pace» del Partito, avrebbe dovuto vigilare sui miei
comportamenti; e invece non solo non provò mai a far prevalere sul movimento — che
chiedeva passi unilaterali di disarmo da ambo le parti – le ben più prudenti posizioni della
sezione internazionale del PCI, ma anzi, del movimento, Tom sposò fino in fondo la
causa,l’orientamento,i comportamenti,i nuovi modi di far politica. È allora che si saldò fra
noi un’amicizia inossidabile. Insieme abbiamo riso quando Popov, responsabile
brezneviano della sovietica unione per la pace ci accusò pubblicamentre di essere agenti
della Cia, e, contemporaneamente questa di essere agenti del Kgb. Guardati con
diffidenza, ad ogni buon conto, anche da chi preferiva che il ben ordinato mondo diviso in
blocchi non fosse turbato da stravaganze giovanili e terzomondiste.
Con quel movimento pacifista dell’End scoprimmo anche l’Europa. E infatti Tom fu uno dei
pochi che già da allora cominciò a pensare europeo, anche quando le guerre cambiarono
aspetto e diventarono più difficili da interpretare: quella irachena, quella jugoslava, nelle
cui vicende il suo impegno personale fu grandissimo.
Non era affatto scontato: il super-europeismo della sinistra italiana aveva infatti prodotto
molti incontri di vertice, attenzione all’ingegneria istituzionale, convegni. Assai poca
partecipazione alla vita della società civile europea, scambio di culture, creazione di
movimenti comuni e impegno comune nelle scadenze di lotta. Tom seppe dare questa
dimensione alle organizzazioni in cui è stato impegnato, all’Arci in primo luogo
Ma Tom si aprì anche a un nuovo rapporto con l’America, quella della battaglia per i diritti
civili e contro le guerre. Non fu solo la ricerca politica di alleanze, fu anche curiosità
intellettuale per una cultura di cui divenne conoscitore attento. E infatti ci ha lasciato un
prezioso libro su Martin Luther King, purtroppo pubblicato postumo.
Con tante discussioni che in questi anni si sono moltiplicate sul rapporto partiti-movimenti,
il vissuto di Tom è stata la lezione più saggia: per l’intelligenza dimostrata nel gestire il
difficile rapporto fra la ricca ma spesso confusa nebulosa movimentista e le istituzioni
tradizionali della sinistra. Lui sapeva che queste istituzioni erano importanti, ma lui stava
nel movimento. Per questo è stato un grande presidente dell’Arci.
del 18/06/14, pag. 15
Il “costruttore” collettivo
L’ostinata rivoluzione di un giardiniere
Raffaella Bolini
Da bravo padovano ti chiamavi Antonio. Ma per tutti, tranne tua mamma, sei sempre stato
Tom.
Il nome te lo eri scelto da bambino, figlio di ferroviere e famiglia di contadini. La tua casa, a
Peraga di Vigonza, confinava con il grande parco della villa padronale del paese. Un
giorno il figlio dei signori ti aveva intimato: «devi obbedirmi, perché io sono Tom
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Bettanini». In realtà anche il suo nome era Antonio — lo chiamavano così per snobismo di
classe. E tu gli avevi risposto: «Di qui non mi muovo, se tu sei Tom Bettanini allora io sono
Tom Benetollo». Ti eri cambiato il nome in un secondo, te lo sei tenuto per tutta la vita e
ne andavi orgoglioso. Del resto, la resistenza all’arroganza del potere l’hai praticata e
predicata per tutta la vita.
La relazione al tuo ultimo congresso dell’Arci nel 2002 si concludeva con una citazione di
Al Ghazali, filosofo mediovale persiano: «Devi evitare di frequentare principi e sultani,
perché dalla loro compagnia e frequentazione deriva gran danno. Ma se sei obbligato a
frequentarli, evita complimenti e adulazioni, poiché Iddio l’Altissimo si adira quando
vengono lodati malvagi ed oppressori».
E infatti ti sono sempre piaciuti i dissidenti. Una delle tue stelle polari era Alexander
Dubcek, l’eroe della Primavera di Praga schiacciata nel 1968 dai carri armati sovietici –
costretto per anni a pulire giardini fino alla «rivoluzione di velluto» del 1989 che lo riportò
alla testa del suo paese. Nessuno costrinse mai te a fare il giardiniere, anche se coltivavi i
pomodori sui vasi in balcone. Però te ne andasti da Botteghe Oscure. Per anni avevi
accettato di negoziare parola per parola perfino il testo dei volantini pacifisti, ma dopo
Berlinguer la mediazione interna ti pareva finalizzata solo a produrre immobilismo.
Rinunciasti a una sicura carriera politica per esiliarti all’Arci, che a quel tempo stava
sull’orlo del fallimento. Con Nuccio Iovene e Giampiero Rasimelli, vi caricaste di una
enorme quantità di debiti e di una storia tutta in salita. Ma avevate un piano: creare uno
spazio libero per la sinistra, ancorato alla dimensione politica del sociale.
Tu eri comunista. Il Pci rispondeva per te alla esigenza di trasformare in forza collettiva
l’anelito individuale contro ogni oppressione. La possibilità di dare agli ultimi gli strumenti
per «imparare a non togliersi il cappello davanti al padrone» come dicevi sempre.
Produttore di emancipazione e cambiamento, come il sindacato.
Poi, il Pci si fece cadere in testa il Muro di Berlino. Per te, che quel muro avevi sempre
combattuto, il 1989 avrebbe dovuto essere una festa e aprire la strada a una sinistra più
forte e più grande, non ideologica, plurale e unitaria. Fu al contrario la resa al pensiero
unico.
Tu rimanesti convinto fosse necessario innestare sulla migliore cultura comunista il portato
dei nuovi movimenti. Il pacifismo, la nonviolenza attiva, l’ambientalismo, i diritti civili, il
femminismo, l’antirazzismo stavano facendo crescere in tutto il mondo generazioni nuove
e nuove pratiche, arricchivano l’orizzonte della lotta per la pace, l’uguaglianza e la giustizia
sociale. Lo hai creduto e praticato fino all’ultimo, accompagnando il movimento
altermondialista, tollerando sempre più a fatica «la debolezza e la subalternità delle forze
del centrosinistra e della sinistra», fino a dire nel tuo ultimo intervento che «l’autoriforma
della politica non c’è stata e non ci sarà: ne deduco che sia necessaria una vera e propria
rivoluzione, rovesciando i meccanismi che conducono alla formazione della volontà
politica».
L’avresti fatta, la rivoluzione della politica dal basso e da sinistra. Avresti saputo farla.
Perché avevi capacità di visione e guardavi lontano. Eri curioso del mondo, capivi le sfide
del futuro prima che diventassero evidenti. Sapevi come mettere un passo dietro l’altro per
avanzare. Costruivi alleanze, per aumentare l’impatto. Sapevi coinvolgere tutti, e non
lasciavi indietro nessuno.
Ti stavi attrezzando, grazie agli anni di immersione nel sociale. Ci avresti indicato la
strada, come sempre. Non hai fatto in tempo.
E noi siamo qui, dopo dieci anni, a rimpiangerti – Tom Benetollo, che potevi sfidare il
potere perché non lo invidiavi. Tu credevi nella forza dei piccoli. E per questo eri un
grande.
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del 19/06/14, pag. 15
Tom
Eri quel gigante che sei.
Dove t’ho incontrato? Dove
non t’ho incontrato…
palestinese serbo croato.
Parlavi con le mie parole,
ecco, sei stato il mio partito.
E tutti a dire: «Proprio ora…»,
proprio ora, il giorno prima
che l’estate fa il giorno più lungo.
Come se in un’altra ora la tua
partenza fosse autorizzata.
Eri il mio partito, sentivo
nella voce tua del disincanto
il rumore vero del mondo.
Sei il gigante che eri…
Tommaso Di Francesco
del 19/06/14, pag. 15
53 anni vissuti appassionatamente
1951/2004. Dalla Fgci a Botteghe Oscure, alla costruzione dell’Arci. Dal
1999, contro la guerra per il Kosovo, al febbraio 2003, protesta mondiale
«No war in Iraq»
Tom Benetollo nasce a Vigonza, poco distante da Padova, il 22 febbraio del 1951.
Dopo il diploma, si iscrive all’università di Padova. Collabora come critico musicale ad una
rivista del settore. Diviene corrispondente dal Veneto del quotidiano l’Unità.
Nel 1973 si iscrive alla Federazione giovanile comunista (Fgci) di Padova. Nel ’77 diventa
funzionario della segreteria regionale della Fgci del Veneto, poi segretario regionale. Nel
1981 si trasferisce a Roma come responsabile esteri della Fgci nazionale. Tom comincia a
lavorare su questioni che non smetterà mai più di frequentare: è fra gli iniziatori del grande
movimento per la pace degli anni ’80 in Italia e in Europa.
Nel 1983 diventa responsabile pace per l’Ufficio esteri del Pci.
Dal 1982 al 1992 è componente del segretariato delle convenzioni End (European Nuclear
Disarmament) e della Segreteria della Helsinki Citizens’ Assembly per la democrazia e i
diritti umani.
Nel 1987 lascia l’incarico a Botteghe Oscure e arriva all’Arci, in un periodo di profonda crisi
dell’associazione.
Da questa collocazione lavora alla costruzione dei movimenti per la pace in Medio Oriente,
contro la guerra nella ex-Jugoslavia, contro il razzismo e per i diritti dei migranti, per i diritti
civili e la libertà di informazione.
Dal 1993 al 1995 è presidente di Arcinova, la principale associazione della
Confederazione Arci. Dal 1995 è presidente della federazione Arci.
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Nel 1997, dopo un lungo percorso che porta alla riunificazione dell’Arci e a una fase di
rinnovamento e grande crescita della associazione, viene eletto presidente nazionale di
Arci Nuova associazione, carica che gli viene rinnovata nel 2002.
Sono gli anni dei movimenti contro la guerra per il Kosovo, di Genova 2001, del Forum
Sociale Mondiale, contro la guerra in Afghanistan, della più grande manifestazione contro
la guerra il 15 febbraio del 2003.
Tom Benetollo muore a 53 anni di aneurisma dell’aorta la notte fra il 19 e il 20 giugno
2004, poche ore dopo il malore che lo coglie mentre interviene a un dibattito organizzato
dal manifesto a Roma. Lasciando sua moglie Eva Fratucello e un figlio, Gabriele, che dieci
anni fa aveva solo due anni e mezzo.
del 19/06/14, pag. 15
Il Libro
Oggi alle 17, alla Camera
Oggi 19 gugno, sala Aldo Moro, Camera dei Deputati, alle 17, sarà presentato il libro
“Abbiamo fatto la pace” selezione di articoli di Tom Benetollo dal 1981 al 2004. Sarà
presente la Presidente della Camera Laura Boldrini. Testimonianze di Chiara Ingrao,
Giulio Marcon, Mario Pianta. Proiezione di foto di Mario Boccia. Iscizione obbligatoria
[email protected]
Da PeaceLink.it del 19/06/14
Tom Benetollo, dieci anni dopo il lampadiere
illumina ancora il nostro cammino
Il 20 giugno 2004, il giorno dopo un incontro convocato da Il Manifesto
durante il quale ebbe un malore, ci lasciava il Presidente Nazionale
dell'Arci
Il 2014 è l’anno di una ricorrenza storica tra le più importanti: esattamente cent’anni
scoppiava la Prima Guerra Mondiale, la “Grande Guerra” che diede l’avvio alle disumanità
e alle atrocità del Novecento. L’inutile strage avviò la stagione perenne delle “guerre
moderne”, quelle dove oltre il 90% delle vittime sono civili, dove intere città vengono
bombardate e i massacri sono continui. Iniziò una scia di sangue, morte, devastazione che
non è mai più finita. Apparentemente inarrestabile. Ma proprio dalle trincee di quella
Guerra, dalle atrocità di quegli anni, nacque la consapevolezza – crescente sempre più nei
decenni – che o l’umanità prima o poi porrà fine alle guerre o le guerre porranno fine prima
o poi all’umanità. Mentre gli eserciti continuavano a marciare e bombardare e la teoria
bellica di Von Clauzewitz ad essere costantemente applicata, gli animi più nobili e
appassionati si sono incontrati e hanno cominciato a lavorare costantemente perché il
giorno in cui la guerrà sarà tabù possa giungere. Mentre la disumanità si spingeva sempre
più oltre nelle sue atrocità, l’umanità tentava di riannodare i suoi fili.
Scrisse alcuni anni fa Marco Revelli che “decine, forse centinaia di migliaia di donne e di
uomini sono al lavoro, negli interstizi del disordine globale, per riannodare i nodi, ricucire le
lacerazioni, elaborare il male” ed ovunque nel mondo “nel cuore di Kabul come nelle
banlieux di Parigi, o negli slum di New York o di Londra, tra le macerie di Grozny e la
polvere di Mogadiscio” sono essi “l'unico embrione, fragile, esposto, di uno spazio
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pubblico non avvelenato o devastato nella città planetaria”. Dieci anni fa uno di questi
“embrioni”, tra i più attivi, appassionati, lungimiranti, ebbe un malore durante un incontro a
Roma convocato da Il Manifesto: il 20 Giugno 2004 lasciava prematuramente questa terra
il Presidente Nazionale dell’Arci Tom Benetollo. Lo ricordo ancora, durante quella che è
tragicamente diventata la sua ultima Marcia Perugia-Assisi, quando apparve davanti alle
telecamere del tg3, bandiera della Pace sulle spalle. La giornalista sembrava scomparire
davanti alla mole di quel gigante apparso improvvisamente all’orizzonte. Ma la vera mole
di Tom Benetollo non era quella fisica, era quella morale, era quella dell’impegno. Quella
bandiera caricata sulle spalle è la plastica rappresentazione di tutta una vita dedicata alla
politica e all’impegno civile. Senza mai cercare inutili riflettori e passerelle, senza chiasso
e rumore. “Il tempo del cambiamento è ora” e lui quel tempo lo costruiva quotidianamente.
Le parole di Revelli descrivono perfettamente la sua storia. Una storia che lo ha portato ad
essere punto di riferimento dell’arcipelago pacifista e della sinistra, da Comiso alla ex
Jugoslavia, da Genova ai Social Forum e al “popolo della bandiere della Pace” contro la
guerra in Iraq, passando per la nascita del Forum del Terzo Settore, di Banca Etica e di
tantissime altre reti, realtà, comunità, iniziative culturali e sociali nelle quali ancora oggi
l’Arci è in prima linea. Scrisse ad un’amico dell’Arci in una lettera “In questa notte scura,
qualcuno di noi, nel suo piccolo, è come quei “lampadieri” che, camminando innanzi,
tengono la pertica rivolta all’indietro, appoggiata sulla spalla, con il lume in cima. Così il
lampadiere vede poco davanti a sé, ma consente ai viaggiatori di camminare più sicuri.
Qualcuno ci prova. Non per eroismo o per narcisismo, ma per sentirsi dalla parte buona
della vita…” Quella notte scura lui la visse nella ex Jugoslavia martoriata dalla guerra
civile, costruendo dal basso quel che le grandi cancellerie europee e di tutto l’Occidente
non sapevano (o non volevano) fare. Soccorrendo la popolazione civile, facendo da scudi
umani alla popolazione inerme (son quelli gli anni del sacrificio di Gabriele Moreno
Locatelli, della Marcia dei 500 a Sarajevo), costruendo ponti di pace, solidarietà ed
umanità. Subito prima di dire “scusate compagni, non mi sento bene…” e di subire il
malore che si stava preparando a strapparcelo via stava ricordando proprio quegli anni, gli
Anni Ottanta di Comiso e gli Anni Novanta del pacifismo impegnato della ex Jugoslavia,
rivendicando il valore di quell’impegno che coinvolse una generazione che poi si ritrovò
sulle strade di Genova e di tutto il mondo contro il capitalismo, le guerre, sui percorsi di “un
altro mondo possibile”. E Tom Benetollo fu uno dei “lampadieri” più importanti da
presidente dell’Arci, orgoglioso degli oltre 5000 circoli e almeno 1 milione e 100mila soci
impegnati in mille vertenze, iniziative, movimenti, reti.
I giorni precedenti il decimo anniversario della scomparsa di Tom Benetollo sono iniziati
con l’elezione della nuova Presidenza Nazionale dell’Arci. E’ l’omaggio più appassionato e
intenso, più vero che gli si possa fare: proseguire il cammino e l’impegno civile, sociale,
politico sul quale lui ci ha preceduto. La sua morte, le sue parole mai finite, sono forse,
chissà, un segno del destino. Un cammino interrotto improvvisamente, come a indicarci a
tutti che tocca a noi continuarlo. E' una sfida importante per la sinistra come per il
pacifismo, per gli amici della nonviolenza come per il popolo della solidarietà.
Da Tiscali.it del 19/06/14
Francesca Chiavacci presenta l'Arci del
futuro e annuncia battaglia a difesa dei diritti
civili
di Giovanni Maria Bellu
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Un milione 182mila 661 iscritti, 4.989 circoli. Se l'Arci fosse un partito, sarebbe di gran
lunga il più forte e strutturato d'Italia. Eppure l'associazione di promozione sociale dove - a
partire dal 1957 - si sono formate generazioni di giovani della sinistra italiana, vive una
crisi. Non solo di numeri (gli iscritti e i circoli, sia pure di poco, sono diminuiti), ma anche di
identità.
Sabato – a conclusione di un confronto travagliato che a marzo fece addirittura paventare
una clamorosa scissione – l'Arci ha eletto il suo nuovo presidente, per la prima volta una
donna. E' Francesca Chiavacci, 53 anni, parlamentare del Pds per due legislature,
consigliere comunale a Firenze (dove si è distinta tra gli oppositori a Matteo Renzi),
presidente dell'Associazione in città. L'unità è stata ritrovata dopo il lavoro di mediazione
del comitato di reggenza (formato dai presidenti regionali) nominato a marzo, quando si
decise di 'congelare il congresso, e anche grazie al ritiro della candidatura di Filippo
Miraglia, responsabile nazionale dell'Arci Immigrazione, siciliano trapiantato in Emilia, che
è stato eletto vicepresidente. A confermare l'anima di sinistra dell'associazione, l'elezione
a presidente onorario di Luciana Castellina.
“Le difficoltà dell'Arci – dice Francesca Chiavacci – sono un aspetto della più generale crisi
dell'associazionismo che è a sua volta un effetto della crisi della partecipazione dei
cittadini alla politica. Una crisi che nasce dalla sfiducia, ma anche dal diffondersi dell'idea
che organizzare i cittadini non è tanto importante quanto stare in tv. Noi abbiamo resistito,
siamo una grande comunità di persone che non si riconosce in un partito ma in un sistema
di valori. Ecco, credo che dobbiamo rafforzare la nostra identità, estendendo il campo
d'azione. Oltre all'impegno per la pace, per la solidarietà, contro il razzismo, oggi abbiamo
quello per la lotta alla povertà e per i diritti civili”.
A marzo lo scontro tra le due anime dell'associazione si concentrò prevalentemente su
questioni organizzative, in particolare sul peso da attribuire alle tessere (concentrate per la
metà tra Emilia, Lombardia e Toscana) e quello da attribuire ai circoli. Questione alla fine
risolta tecnicamente con l'introduzione di un nuovo sistema elettorale del consiglio
nazionale (formato da 185 membri) che garantisce la rappresentanza anche ai luoghi più
distanti da quelli di insediamento tradizionale.
La struttura dell'Arci è molto complessa e le differenze sono rilevanti anche tra le regioni
più forti. In Toscana, per esempio, c'è un gran numero di piccoli circoli, formati anche da
poche decine di iscritti, in Emilia il modello è quello delle case del popolo. Come a San
Lazzaro (il luogo dove si è svolto il congresso nazionale) dove il “circolo” è quasi una città
nella città. Poi ci sono i circoli tematici, quelli che – affiancando “Libera” di don Luigi Ciotti
– operano nei terreni confiscati alla mafia. E i locali affiliati dove si fa musica, ristorazione,
intrattenimento. Inoltre le attività di sostegno e di accoglienza ai rifugiati, quelle per la lotta
alla povertà.
Ma qual è il comun denominatore? Francesca Chiavacci – che tra gli obiettivi della sua
presidenza ha anche quello di evitare il radicarsi di correnti interne - paragona l'Arci a un
grande palazzo con più porte d'ingresso. A un giovane che volesse iscriversi a un circolo
solo perché è interessato alla musica, direbbe che deva sapere che quella tessera “porta
dentro di sé dei valori che accomunano persone diverse”. Insomma, le porte del palazzo
sono aperte a tutti, ma non è scontato varcarle. “Perché non ci si può iscriversi a un circolo
Arci per sentire musica e prendere il caffè e, contemporaneamente, dire che gli immigrati
devono essere ributtati in mare”:
Lo scontro “organizzativo” del marzo scorso era, in realtà, anche uno scontro sulla visione
del ruolo dell'organizzazione. Luciana Castellina intervenendo dopo la sua elezione a
presidente onorario, l'ha riassunto (per superarlo) così: “Non è un male che esistano due
linee, una che da un lato guarda alla vita quotidiana dei circoli e al loro radicamento
sociale,e l'altra alle mobilitazioni, ai momenti di lotta, ai conflitti politici e sociali. La forza
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dell'Arci è avere entrambe le modalità d'azione. C'è chi vorrebbe che ne fosse accentuata
una e chi invece pensa che vada privilegiata l'altra. Il ruolo del 'centro' è quella di
stimolarle tutt'e due”
Ma questo “centro” non può essere un luogo astratto, né una specie di “stato d'animo”:
Deve tradursi in qualcosa che dal nord a sud accomuni gli iscritti all'Arci, ne consolidi
l'identità. Francesca Chiavacci pensa a un'associazione che, come in passato, sa essere
presente al social forum di Genova o partecipare alla campagna per la difesa dell'acqua
come bene comune. E che “non sempre è in sintonia col Pd” (del quale ha scelto di non
rinnovare la tessera) e riesce a coniugare il suo essere già, attraverso i circoli, una “rete”,
con l'uso dei social network. Contrapponendo all'idea grillina che il web sia il nuovo luogo
della democrazia, la convinzione che può essere uno strumento per creare una
comunicazione permanente all'interno di una comunità di persone che continuano a
vedersi e a incontrarsi.
Come si dice: vasto programma. Una grande spinta, fa intendere la presidente, potrebbe
venire se si arrivasse a individuare in concreto, cioè in una concreta “battaglia”, il comun
denominatore che metta in moto l'intera comunità degli iscritti. Quale sia ancora non è ben
chiaro. Francesca Chiavacci riconosce che questa è l'impresa più difficile. Ma, forse, un
ambito tematico dentro il quale avviare la ricerca è stato individuato: quello dei diritti civili.
“Un'associazione come la nostra – dice – deve avere un ruolo nella crescita delle
coscienze. Credo che siamo in presenza di una 'emergenza dei diritti'. Penso per esempio,
alla questione delle unioni civili. Temo che in questo Parlamento non si arrivi a risultati
concreti per le coppie omosessuali. La mia idea è che debba essere semplicemente
riconosciuto il diritto al matrimonio, come in altri paesi europei”.
http://notizie.tiscali.it/articoli/interviste/14/06/intervista_francesca_chiavacci.html
Da Redattore Sociale del 18/06/14
Arci: riforma terzo settore promossa, ma con
riserva. Ecco l’agenda Chiavacci
Intervista alla neo presidente eletta dopo il “trauma” dell’ultimo
congresso nazionale. Prima donna a guidare la storica associazione, ha
già sul tavolo molte questioni. Dall’accoglienza dei migranti al
superamento le divisioni interne
ROMA – Riforma del Terzo settore promossa, ma con riserva; preoccupazione sul fronte
dell’accoglienza dei migranti; rilancio dell’associazione attraverso nuove sfide e superando
le divisioni interne. Sull’agenda della neo eletta presidente dell’Arci nazionale, Francesca
Chiavacci, sono già tante le questioni urgenti da affrontare. Sia sul fronte governativo, che
su quello interno. Eletta a maggioranza con 160 voti su 168 all’ultimo consiglio nazionale,
dopo l’aspro confronto tra varie correnti dell’associazione nel corso del congresso tenutosi
a marzo a Bologna che ha causato la sospensione dei lavori, Chiavacci è la prima donna
nella storia dell’Arci a guidare una realtà che conta oltre un milione di soci e circa 5 mila
circoli in tutta Italia. Dopo dieci anni da presidente di Arci Firenze, Chiavacci è diventata
componente della presidenza nazionale ed è stata anche deputata, nonché relatrice del
disegno di legge sull'obiezione di coscienza. Oggi, si trova a capo di una realtà in
evoluzione, che nell’ultimo congresso ha mostrato tutta la propria complessità, che dovrà
confrontarsi con una riforma chiesta a gran voce da anni.
La riforma del Terzo settore, spiega Chiavacci, è “indubbiamente un elemento di grande
novità – spiega -. Gli ultimi che hanno parlato di questo tema li abbiamo avuti col governo
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Prodi, che ha messo mano un po’ al terzo settore. Sono anni che lo si chiede, ora siamo
nella fase in cui sono state presentate delle linee guida che nella loro sostanza noi
giudichiamo positivamente, ma che bisognerà capire meglio come si articoleranno in leggi
delega in particolare per quanto attiene al nostro comparto, quello della promozione
sociale”. Un giudizio positivo, quindi ma che non nasconde i dubbi, soprattutto riguardo le
risorse. “Si tratta di capire come si concretizzerà la riforma – aggiunge Chiavacci -. Come
sempre c’è il problema di dove si andranno a trovare le risorse. In quelle linee si parla di
100 mila volontari al servizio civile. Un fatto molto positivo, ma bisogna ricordare che ad
oggi ci sono state difficoltà perfino per far partire l’ultimo scaglione, già deliberato da
tempo”.
I dubbi sulla gestione dell’accoglienza dei migranti. Tra le grandi questioni che Chiavacci
sarà chiamata ad affrontare alla guida dell’Arci, anche quella dell’accoglienza degli
immigrati che vede l’associazione impegnata a livello territoriale in molti progetti di
accoglienza all’interno della rete Sprar. “Pensiamo che l’operazione Mare Nostrum e la
gestione dell’accoglienza, decentrata ai comuni, sia un fatto positivo – spiega Chiavacci -.
Siamo preoccupati, però, per la gestione dell’accoglienza ai migranti e per il loro
ricollocamento. Insieme ai comuni c’è un tavolo per capire come andare avanti, ma siamo
un po’ preoccupati”. Posizione molto diversa e netta, quella che riguarda i Centri di
identificazione e espulsione. “Questa forma di detenzione amministrativa ci trova molto
contrari – spiega Chiavacci -. Sappiamo che il governo ha annunciato di voler lavorare, ma
ad oggi ancora nulla. Ci rendiamo conto, però, che un governo che costruisce la propria
forza su un’alleanza così larga, con forze che su questi temi hanno opinioni diverse, fa un
grande sforzo per tenerle insieme”.
Divisioni interne superate. Se sui temi dell’accoglienza e della riforma del Terzo settore
non mancano i nodi da sciogliere, sulle divisioni in seno all’associazione emerse in diretta
streaming durante il congresso di Bologna, Chiavacci non ha dubbi: sono acqua passata.
“In questi sei mesi c’è stato un confronto sulla gestione del potere e si è risolto – continua
Chiavacci -. Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci e candidato alla
presidenza, sarà vicepresidente. Il conflitto si è risolto superando la visione personalistica
e cercando di partire dai contenuti. Quello che ci divideva era come riuscire a fare sintesi
di un’associazione così complessa e che si manifesta nei vari territori con caratteristiche
diverse. Ora si tratta di rilanciare le attività dopo questo trauma”. La sfida per il futuro
dell’Arci, spiega Chiavacci, è quella di “continuare ad avere una funzione di
rappresentanza sociale” in un mondo dove la missione originaria mirata su ricreazione e
cultura, oggi ha un orizzonte più ampio. E che il cambiamento sia in atto lo dimostra
proprio l’elezione di una donna per la prima volta a capo dell’Arci. “Il mondo
dell’associazionismo e del Terzo settore, pur nella sua autonomia dal mondo politico
tradizionale, segue un po’ le stesse dinamiche – aggiunge Chiavacci -. Noi siamo
un’associazione con moltissime donne, anche tra le dirigenti dei circoli. Tuttavia il
cosiddetto soffitto di cristallo che impedisce di arrivare al livello più alto, negli anni, ha
funzionato. Al di là della mia persona, però, penso che l’elezione di una donna sia un
percorso importante come modello ed esempio e come ricchezza ulteriore che si può
portare nell’associazionismo, nella politica e nel mondo aziendale”. (ga)
Da StampToscana.it del 18/06/14
Intervista: Francesca Chiavacci, prima donna
presidente nazionale Arci
Gabriele Parenti
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Firenze – Per la prima volta una donna diventa presidente nazionale dell’Arci. Si tratta
della fiorentina Francesca Chiavacci (52 anni) che dopo essere stata deputata (e relatrice
della legge sull’obiezione di coscienza), consigliere comunale e per dieci anni presidente
dell’Arci di Firenze, assume adesso la guida di una delle più grandi espressioni del mondo
associativo con più di un milione di iscritti e 5.500 circoli o strutture associative.
Votata da 160 su 168 membri del Consiglio nazionale, la neo presidente ha parlato della
necessità di raccogliere la sfida del cambiamento. Su questo tema ha accettato di parlare
con Stamp.
Hai annunciato un nuovo protagonismo dell’Arci a cominciare dalla questione dei
diritti civili e della promozione della cultura. Quali le prime indicazioni ?
“La questione dei diritti civili è nel nostro paese un’emergenza democratica, la coscienza
culturale e i comportamenti dei cittadini sono molto più avanzati delle leggi che trattano di
questo. Penso alle unioni civili, alle regole sul fine vita, al tema della fecondazione
assistita. Una grande associazione popolare può attivare campagne importanti e diffuse su
questi temi. Sulla cultura, si tratta oggi, in tempo di crisi, oltre che la possibilità di
produzione e innovazione in questo settore, di difendere la possibilità di accesso alla
cultura da parte dei cittadini. I nostri spazi sono e devono essere sempre di più luoghi di
educazione popolare, di formazione degli adulti, di fruizione accessibile ad eventi”.
L’Arci sarà da stimolo anche per un maggiore protagonismo del terzo settore nei
confronti delle istituzioni?
“E’ uno dei nostri impegni. Siamo presenti nel Forum del Terzo Settore, e da questo ci
sentiamo rappresentati. Ma l’associazionismo di promozione sociale soffre, rispetto ad
altri, della poca consapevolezza, talvolta, a livello istituzionale, che anche attraverso
l’attività ricreativa e culturale si contribuisce a un sistema di welfare qualificato e rinnovato.
Inoltre dobbiamo riuscire a far capire meglio , nel tempo della crescita di una relazione
diretta leader-popolo, che la rappresentanza sociale , i cosiddetti “corpi intermedi” sono
fondamentali per la ricostruzione di un’etica pubblica, della partecipazione”.
Una donna per la prima volta alla guida dell’Arci..anche questo è un segnale di un
cambio di passo?
“Direi di sì. Anche nella nostra associazione, come in altri luoghi della politica, le socie
attive e le dirigenti nelle basi associative sono tantissime, ma in tutti questi anni non si era
riuscite a rompere quello che si chiama “il soffitto di cristallo”, che impedisce alle donne di
raggiungere i livelli più alti di direzione. Credo che, insieme ovviamente a tanti altri e tante
altre, si possa lavorare per dare maggiore protagonismo femminile e portare l’innovazione
e la dinamicità che in genere lo accompagna…..”
- See more at: http://www.stamptoscana.it/articolo/societa/stamp-intervista-francescachiavacci-prima-donna-presidente-nazionale-arci#sthash.zt6GHB8y.dpuf
Da Ansa del 19/06/14
Immigrazione:Arci, Italia faccia il suo prima di
chiedere Ue
Dare accoglienza dignitosa a chi chiede protezione
ROMA
(ANSA) - ROMA, 18 GIU - "L'Italia dovrebbe fare la propria parte prima di chiedere la
corresponsabilità degli altri Paesi europei sul tema dell'immigrazione". Lo ha detto il
vicepresidente dell'Arci, Filippo Miraglia, intervenendo ad un convegno organizzato da
Unar e Anci-Sprar per la giornata mondiale del rifugiato. "In vista della giornata del
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rifugiato - ha spiegato Miraglia - sarebbe indispensabile che il Governo cominciasse a fare
la sua parte in maniera seria, rispettando le leggi nazionali e le direttive europee, dando
quindi accoglienza dignitosa a tutti coloro che arrivano qui a chiedere protezione
internazionale". Il vicepresidente dell'Arci ha sottolineato che "l'Italia viene considerata e
si comporta come un 'corridoio' per i migranti che vogliono andare in altri Stati europei.
Così come successo nel 2011 per i tunisini che, arrivati in 24 mila in Italia, sono stati
accolti in 600, con 11 mila permessi di soggiorno rilasciati. Oggi, su oltre 50 mila arrivi, le
domande di asilo sono meno della metà, perchè - ha evidenziato - i profughi vogliono
andare altrove e questo equivale ad un voto negativo per l'accoglienza nel nostro Paese:
non vogliono rimanere qui, perchè sono soggetti a discriminazione, a partire dall'accesso
alla procedura di asilo, all'accoglienza, al sistema di welfare e così via". (ANSA).
del 19/06/14, pag. 18
Le sfide per rilanciare la musica in Italia
CARLO TESTINI*
MENTRE L’UNIONE EUROPEA PREVEDE UNA TIMIDA CRESCITA DEL PIL del nostro
Paese il sistema cultura italiano vive una nuova stagione di incertezza. Con qualche
interessante novità positiva. Sempre che vengano emanati i decreti attuativi e si resista
alla tentazione di tagliare fondi per far tornare i conti. E il comparto della musica come se
la passa? I fronti aperti sono davvero molti. Il primo di questi riguarda i nuovi criteri di
accesso al Fondo Unico per lo Spettacolo che hanno avuto il via libera dalla conferenza
unificata Stato-Regioni. Avranno maggiore spazio esperienze giovanili che potrebbero
trovare casa negli spazi demaniali che il precedente decreto «Valore Cultura» sembrava
mettere a disposizione di aggregazioni di artisti. Il jazz italiano è riuscito a conquistare un
fondo straordinario del Mibact di mezzo milione di euro dal 2015. Un segnale significativo
per tutta la musica popolare contemporanea.
Altra partita difficile ed impegnativa riguarda tutto ciò che ruota attorno al diritto d’autore e
alla gestione dei suoi proventi. Negli ultimi mesi si è sviluppato un dibattito a tratti aspro
che riguarda l’aumento della cosiddetta quota per la «copia privata» che viene incassata
dalla Siae per poi essere redistribuita agli aventi diritto. Stiamo parlando di un importo
monetario che viene richiesto ai produttori di ogni supporto che può memorizzare dati, e
quindi anche musica e video, supponendo che prima o poi chi è in possesso di una
chiavetta usb o uno smartphone scaricherà qualche contenuto musicale tutelato dalla
Siae. L’aumento delle tariffe richiesto sarebbe sostanzioso e potrebbe far crescere i relativi
introiti della Siae dagli attuali 80 milioni a circa 200 milioni di euro. Se almeno la metà di
questi introiti venisse utilizzati per promuovere progetti e iniziative a sostegno dei giovani
autori, si potrebbe pensare che quest’aumento, che si configura come una vera e propria
tassa, sosterrà anche il vasto mondo della musica. Parlando di Siae, non si può
dimenticare che molti sono ancora in attesa di una riforma importante nel funzionamento
dell’ente che produca maggiori ricadute positive sul mondo della musica. Una rivoluzione
dagli esiti non scontati. Ovviamente non possiamo dimenticare che per rendere più solido
il panorama musicale del nostro Paese c’è bisogno di maggior pubblico, curioso e
partecipe. Per questo è fondamentale puntare sulla formazione musicale nelle scuole di
ogni ordine e grado. La campagna «Fare musica tutti» sostiene un progetto di legge che
tiene insieme in maniera organica molti provvedimenti importanti che aiuterebbero il vasto
mondo della formazione musicale. Già dai primi di giugno sono tantissimi i festival musicali
che riempiranno di musica strade e piazze delle nostre città. Non sarà facile far quadrare i
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conti per gli organizzatori e i musicisti. Come sarebbe bello se l’Iva su tutti costi sostenuti
fosse abbassata al 10% e i parametri per il calcolo dei compensi Siae fossero meno
onerosi.
* responsabile politiche culturali dell’Arci
Da Adn Kronos del 18/06/14
Musica: Arci e Audiocoop, si intervenga su
social media
Roma, 18 giu. (Adnkronos) – Audiocoop, il Coordinamento nazionale Amici della Musica e
Arci promuovono il decreto Valore Cultura, ma “chiedono con forza di intervenire sui social
media, in particolare su Facebook e Youtube, che riempiono le piattaforme di contenuti
musicali ma che riconoscono un irrisorio, se non addirittura nullo, compenso agli autori e
alle etichette indipendenti”. Questa la richiesta principale emersa nell’incontro ‘La Musica
in mezzo al guado’, promosso da Arci, coordinamento Amici della Musica e Audiocoop in
occasione della Festa della Musica che si celebra, in tutto il mondo, il 21 giugno.
Decine di operatori del settore musicale, organizzatori di eventi e artisti, hanno incontrato
oggi a Roma parlamentari e senatori tra cui il senatore Corradino Mineo del Pd e il
deputato di Scelta Civica Andrea Romano, hanno fatto il punto sui provvedimenti legislativi
in vigore, le proposte di legge, gli strumenti per lo sviluppo del mondo della musica.
I promotori e gli operatori hanno giudicato “positivamente alcuni dei provvedimenti
contenuti nel decreto ‘Valore Cultura’, in particolar modo la possibilità, prevista dal decreto
di poter usufruire degli spazi demaniali per realizzare progetti dedicati alle arti e alla
musica, la semplificazione delle normative per i piccoli eventi di musica dal vivo, gli sgravi
fiscali alle opere prime dei musicisti emergenti”.
Da Ansa del 18/06/14
Mafie:dopo 62 giorni la Carovana si
ferma,riprende a ottobre
Oltre 30 appuntamenti sul tema della degli tratta esseri umani
(ANSA) - ROMA, 18 GIU - Dopo 62 giorni, 91 tappe, oltre 15 mila chilometri percorsi, la
Carovana Antimafie partita il 7 aprile da Roma, chiude la prima parte del suo viaggio, per
riprenderlo ad ottobre con le ultime tappe italiane e poi spostarsi all'estero. Lo rendono
noto gli organizzatori dell'iniziativa: Arci, Libera, Avviso Pubblico con Cgil, Cisl e Uil e con
la Ligue de l'Enseignement (organizzazione francese che si batte per una educazione
pubblica e laica).
Ad ottobre, informa una nota, la Carovana tornerà in Sicilia, dove nel 1994 è nata su
iniziativa di Arci Sicilia. Un viaggio lungo venti anni che concluderà la parte italiana,
simbolicamente, nell'isola siciliana, prima di muoversi verso la Serbia, la Romania, la
Francia e la Spagna. Nel marzo 2015, infine, la Carovana approderà a Malta. Intanto,
viene sottolineato, sono significativi i numeri di questa prima parte del viaggio: 89 fra città
e piccoli centri attraversati, 39 scuole, 50 circoli Arci visitati o che hanno collaborato
all'iniziativa, 32 fra presidi e coordinamenti di Libera, 82 interventi a dibattiti o incontri con
sindacalisti Cgil, Cisl, Uil e amministratori di Avviso pubblico, 5 beni confiscati visitati, 3
Università coinvolte. Inoltre, decine di centri sociali, case di accoglienza, centri di
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aggregazione giovanile coinvolti nelle numerose iniziative organizzate in ogni città o centro
in cui la Carovana è giunta.
Più di trenta gli appuntamenti promossi sul tema della tratta degli esseri umani, che era il
filo conduttore della Carovana di quest'anno. Un core business della criminalità
organizzata, che trova laute fonti di guadagno nello sfruttamento dei migranti. In questo
percorso, Carovana ha incontrato il progetto internazionale Cartt (Campaign for
Awareness Raising and Training to fight Trafficking), articolando il tema della tratta nei
diversi aspetti di sfruttamento del lavoro: in Italia quello del lavoro domestico, di cui sono
vittime soprattutto le badanti straniere; in Francia nel campo dell'edilizia, in Romania in
quello minorile, a Malta nel settore turistico. Se il viaggio della Carovana dal 1994 non si è
mai fermato, ma anzi si è arricchito di nuovi contatti, relazioni, persone e organizzazioni
disponibili a condividere il percorso, è proprio perché continua ad essere prezioso
strumento per comunicare e costruire il cambiamento sociale.(ANSA).
Da Antimafia Duemila del 18/06/14
Dopo 62 giorni di viaggio, la Carovana
antimafie si ferma
Dopo 62 giorni, 91 tappe, oltre 15mila chilometri percorsi, la Carovana Antimafie partita il 7
aprile da Roma, chiude la prima parte del suo viaggio, per riprenderlo ad ottobre con le
ultime tappe italiane e poi spostarsi all’estero.
Ad ottobre, infatti, la Carovana tornerà in Sicilia, dove nel 1994 è nata su iniziativa di Arci
Sicilia. Un viaggio lungo venti anni che concluderà la parte italiana, simbolicamente,
nell’isola siciliana, prima di muoversi verso la Serbia, la Romania, la Francia e la Spagna.
Nel marzo 2015, infine, la Carovana approderà a Malta.
Intanto, sono significativi i numeri di questa prima parte del viaggio: 89 fra città e piccoli
centri attraversati, 39 scuole, 50 circoli Arci visitati o che hanno collaborato all’iniziativa, 32
fra presidi e coordinamenti di Libera, 82 interventi a dibattiti o incontri con sindacalisti Cgil,
Cisl, Uil e amministratori di Avviso pubblico, 5 beni confiscati visitati, 3 Università
coinvolte.
E inoltre, decine di centri sociali, case di accoglienza, centri di aggregazione giovanile
coinvolti nelle numerose iniziative organizzate in ogni città o centro in cui la Carovana è
giunta.
Più di trenta gli appuntamenti promossi sul tema della tratta degli esseri umani, che era il
filo conduttore della Carovana di quest’anno. Un core business della criminalità
organizzata, che trova laute fonti di guadagno nello sfruttamento dei migranti.
In questo percorso, Carovana ha incontrato il progetto internazionale Cartt (Campaign for
Awareness Raising and Training to fight Trafficking), articolando il tema della tratta nei
diversi aspetti di sfruttamento del lavoro: in Italia quello del lavoro domestico, di cui sono
vittime soprattutto le badanti straniere; in Francia nel campo dell’edilizia, in Romania in
quello minorile, a Malta nel settore turistico.
Se il viaggio della Carovana dal 1994 non si è mai fermato, ma anzi si è arricchito di nuovi
contatti, relazioni, persone e organizzazioni disponibili a condividere il percorso, è proprio
perché continua ad essere prezioso strumento per comunicare e costruire il cambiamento
sociale.
In Italia la Carovana è organizzata da Arci, Libera, Avviso Pubblico con Cgil, Cisl e Uil e
con la Ligue de l’Enseignement, organizzazione francese che si batte per una educazione
pubblica e laica.
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Partener del progetto europeo Cartt sono Arci, Libera, Ligue de l’Enseignement, Parada
(Romania) e Inizjmed (Malta).
http://www.antimafiaduemila.com/2014061850048/cronache-italia/dopo-62-giorni-diviaggio-la-carovana-antimafie-si-ferma.html
Da Redattore Sociale del 18/06/14
La Carovana antimafie si ferma e riprende il
suo cammino a ottobre
Dal 7 aprile 91 tappe e oltre 15 mila chilometri, 89 centri attraversati, 39
scuole, 50 circoli Arci, 32 presìdi di Libera. In autunno tappa siciliana e
poi in Serbia, Romania, Francia e Spagna, per approdare a marzo 2015 a
Malta
ROMA - Dopo 62 giorni, 91 tappe, oltre 15mila chilometri percorsi, la Carovana Antimafie
partita il 7 aprile da Roma chiude la prima parte del suo viaggio, per riprenderlo ad ottobre
con le ultime tappe italiane e poi spostarsi all’estero. Ad ottobre, infatti, la Carovana
tornerà in Sicilia, dove nel 1994 è nata su iniziativa di Arci Sicilia. Un viaggio lungo venti
anni che concluderà la parte italiana, simbolicamente, nell’isola siciliana, prima di
muoversi verso la Serbia, la Romania, la Francia e la Spagna. Nel marzo 2015, infine, la
Carovana approderà a Malta.
Intanto, sono significativi i numeri di questa prima parte del viaggio: 89 fra città e piccoli
centri attraversati, 39 scuole, 50 circoli Arci visitati o che hanno collaborato all’iniziativa, 32
fra presidi e coordinamenti di Libera, 82 interventi a dibattiti o incontri con sindacalisti Cgil,
Cisl, Uil e amministratori di Avviso pubblico, 5 beni confiscati visitati, 3 Università
coinvolte. Inoltre decine di centri sociali, case di accoglienza, centri di aggregazione
giovanile coinvolti nelle numerose iniziative organizzate in ogni città o centro in cui la
Carovana è giunta.
Più di trenta gli appuntamenti promossi sul tema della tratta degli esseri umani, che era il
filo conduttore della Carovana di quest’anno. Un core business della criminalità
organizzata, che trova laute fonti di guadagno nello sfruttamento dei migranti. In questo
percorso, Carovana ha incontrato il progetto internazionale Cartt (Campaign for
Awareness Raising and Training to fight Trafficking), articolando il tema della tratta nei
diversi aspetti di sfruttamento del lavoro: in Italia quello del lavoro domestico, di cui sono
vittime soprattutto le badanti straniere; in Francia nel campo dell’edilizia, in Romania in
quello minorile, a Malta nel settore turistico.
Se il viaggio della Carovana dal 1994 non si è mai fermato, ma anzi si è arricchito di nuovi
contatti, relazioni, persone e organizzazioni disponibili a condividere il percorso, è proprio
perché continua ad essere prezioso strumento per comunicare e costruire il cambiamento
sociale.
In Italia la Carovana è organizzata da Arci, Libera, Avviso Pubblico con Cgil, Cisl e Uil e
con la Ligue de l’Enseignement, organizzazione francese che si batte per una educazione
pubblica e laica.
Partener del progetto europeo Cartt sono Arci, Libera, Ligue de l’Enseignement, Parada
(Romania) e Inizjmed (Malta). Sul sito www.carovanaantimafie.eu e sulla pagina Facebook
Carovana Internazionale Antimafie sono pubblicati i diari del viaggio, redatti dai carovanieri
durante le tappe.
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Da Repubblica.it (Bologna) del 19/06/14
Gli appuntamenti di giovedì 19: Montagnola
music club
Il parco della Montagnola torna a vivere. Un parco per famiglie, per appassionati di
musica, anche per tifosi, durante i Mondiali. Un parco restituito alla città, grazie anche al
cartellone del Montagnola Music Club, che si apre stasera e proseguirà fino al 26 luglio.
Tanto jazz, il rock indipendente dal vivo all’ora dell’aperitivo, la danza e il maxischermo per
le partite dell’Italia in Brasile, tutto a ingresso gratuito. «È un lavoro per riconsegnare il
parco e la sua centralità ai bolognesi spiega il presidente Arci (che assieme all’Antoniano
cura la rassegna) Stefano Brugnara . Non è più un luogo buio e oscuro ma un parco
popolato da bambini, con momenti di cultura e ricreazione». Si parte stasera col live del
trio fiorentino Trucupas, alle 19.30. È il primo di otto appuntamenti (sei giovedì più due
martedì a luglio) con Area 51 Sunset, i concerti al tramonto curati dall’omonimo
programma di Radio Città del Capo. In orario d’aperitivo, ecco allora in Montagnola i live di
novità e realtà importanti della musica indie italiana, esplorandone i vari generi, dal rock al
folk, dal funk alla drum and bass. Tra gli altri, si esibiranno Johann Sebastian Punk il 26
giugno, Sycamore Age il 3 luglio e C+C=Maxigross il 10. I lunedì saranno invece dedicati
al jazz, con la formula del concerto alle 20.30 seguito da jam session con altri musicisti
che s’aggiungono alla band per improvvisazioni. Un’anteprima la si avrà però già nel
weekend, con due importanti appuntamenti col jazz internazionale. Domani alle 21.30
dalla Francia l’Alban Darche Trio; mentre alla stessa ora, sabato, tocca al Jimmy Cobb
Quartet, con l’arrivo al Parco della Montagnola dello storico collaboratore di Miles Davis,
unico superstite dei musicisti che incisero quel «Kind of blue» che fu il più venduto disco
jazz della storia. Inoltre, stage di danza, spettacoli teatrali e corsi di yoga, in una
programmazione gratuita allestita anche grazie a 15mila euro del Comune.
Domani sera, come martedì prossimo, si apre in anticipo alle 18 invece che alle 18,30 per
seguire la partita degli azzurri. E se avanzeranno, le successive gare saranno alle 22: in
caso di sovrapposizione coi concerti, questi saranno anticipati di un’ora. Gli altri giorni la
chiusura dei live è, da regolamento acustico, entro le 23,30.
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2014/06/18/news/gli_appuntamenti_di_gioved_19_mo
ntagnola_music_club-89348966/
Da Corriere.it (Roma) del 19/06/14
Giornata mondiale dei Rifugiati
a Roma mancano 5 mila posti
Il 20 giugno è la giornata dedicata al sostegno a chi fugge da carestie e
guerre. Nella Capitale sono migliaia gli irregolari che trovano
sistemazioni di fortuna, in attesa di tentare il viaggio verso il Nord
Europa. E le strutture come il C.a.r.a scoppiano
ROMA – Dai centri istituzionali ai palazzi occupati, dalla vita in strada all’ospitalità presso
qualche parente o amico. Tutti in fuga dal proprio paese perché in pericolo di vita. Per
molti di loro Roma è solo una breve tappa del viaggio, per altri il capolinea. Alle soglie
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della Giornata mondiale del Rifugiato, che si celebrerà il 20 giugno, e pochi giorni dopo la
protesta di100 migranti che hanno bloccato la via Tiberina per ribellarsi contro le
condizioni di vita del C.a.r.a. (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Castelnuovo di Porto
Corriere.it cerca di fare chiarezza sui numeri e sul sistema di accoglienza dei rifugiati nella
Capitale. Secondo le stime più attendibili sono 20 mila, provenienti da almeno 30 diverse
nazioni; 15 mila quelli affidati dal Comune di Roma a strutture del Sistema di protezione
per richiedenti asilo e rifugiati dell’Anci. Dunque, mancano 5 mila posti letto, manca un
tetto sicuro per una folla di fuggitivi in attesa dello status di rifugiati.
Un esercito di fantasmi in attesa di ripartire
Un censimento con dati certi è pressoché impossibile, perché oltre ai richiedenti asilo
inseriti nel sistema istituzionale, a Roma arrivano migliaia di persone «in transito», che si
fermano per pochi giorni o qualche mese, in attesa di ripartire verso il Nord Europa per
fare domanda d’asilo in Germania o Scandinavia, Paesi nei quali il sistema di accoglienza
è più vantaggioso rispetto all’Italia. In tutto in città sarebbero dunque presenti più di 20
mila persone fra rifugiati «ufficiali» e migranti che attendono di spostarsi - e sarebbero un
esercito di almeno 5 mila - in altri Paesi e per questo hanno deciso di non fare domanda in
Italia.
Un anno di attesa al C.a.r.a. per gli irregolari
Il C.a.r.a di Castelnuovo di Porto attualmente ospita 758 migranti di oltre 30 Nazioni
diverse. Nel centro viene inviato il richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o
che si è sottratto al controllo di frontiera. Il soggiorno nel C.a.r.a dovrebbe consentirne
l’identificazione e la definizione della procedura dello status di rifugiato. A febbraio 2014,
l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha denunciato come i tempi
di attesa nel centro per ogni richiedente asilo superano spesso il limite previsto di 35 giorni
e in alcuni casi i migranti sono costretti a restare in questo «limbo» sovraffollato anche per
un anno.
Fuga da Corno d’Africa, Siria, Afghanistan
Un altro canale ufficiale è rappresentato dallo Sprar (sistema di protezione per richiedenti
asilo e rifugiati) gestito dall’Anci. Nei centri di prima e seconda accoglienza dello Sprar
confluiscono i rifugiati che vengono inviati dal Comune di Roma. «Si tratta di circa 15 mila
persone, provenienti per la maggior parte dal Corno d’Africa, anche se negli ultimi tempi
sono aumentati i migranti che scappano dalla Siria, dall’Egitto e dall’Afghanistan – spiega
Claudio Graziano, responsabile immigrazione di Arci Roma -. Questo dato, però, non è
ufficiale, perché i centri di seconda accoglienza dovrebbero ospitare 13.000 persone, ma
nei casi di “emergenza” nei paesi d’origine, possono aggiungersi circa altri 3.000 posti». A
questi dati vanno anche aggiunti quelli dei rifugiati in lista d’attesa presso il Comune di
Roma e a cui non è stato ancora assegnato alloggio. Ad attendere una risposta del
Campidoglio sono oltre 1.000 persone.
Accoglienza regolare e occupazioni
Oltre al canale ufficiale c’è anche un percorso parallelo, una sorta di sistema di
accoglienza informale in cui confluiscono migliaia di migranti. Anche in questi casi un
censimento preciso è pressoché impossibile: a Roma sarebbero almeno 4.000 i rifugiati
che non hanno un posto in accoglienza, né una casa, e vivono in grandi edifici occupati,
anche se non fanno parte dei movimenti di lotta per la casa. Alla Romanina sono
alloggiate oltre 1.000 persone, il palazzo dell’ex Ispra di Piazza Indipendenza ne ospita
circa 500, fra cui molte donne e bambini.
Dormire in garage a Palazzo Selam
Il caso più importante riguarda il Palazzo Selam, in via Arrigo Cavaglieri 8, dove c’è il più
grande insediamento di persone richiedenti asilo o già titolari di protezione internazionale
della capitale. Sono circa 2000 uomini, donne e bambini, provenienti dalle nazioni del
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Corno d’Africa - Etiopia, Somalia, Eritrea - che dal 2006 vivono in condizioni igienicosanitarie precarie. Soltanto negli ultimi due mesi sarebbero arrivate nel palazzo 330
persone provenienti dall’Eritrea, dopo un viaggio che le ha portate prima in Libia, in attesa
di imbarcarsi, e poi in Italia. I nuovi ospiti per motivi di spazio sono costretti a dormire in
garage. Per sollecitare un intervento delle istituzioni giovedì 19 giugno l’Associazione
Cittadini del Mondo presenterà un rapporto sulle attività del proprio sportello sociosanitario all’interno dello stabile.
I Movimenti per la casa e il Medu
Queste realtà di grandi numeri vanno aggiunti micro insediamenti in zone come Ponte
Mammolo e San Paolo. Secondo l’associazione Medici per i diritti umani si tratterebbe di
migranti che non riescono ad entrare nei circuiti di accoglienza statali o comunali. Sono
circa un migliaio, inoltre, i richiedenti asilo che dormono in strada, in zone come quella di
Colle Oppio. «A questi dati, che per forza di cose sono imprecisi, vanno aggiunti quelli di
rifugiati che, dopo essere usciti dal sistema di accoglienza, sono confluiti nei movimenti di
lotta per la casa e hanno partecipato ad occupazioni di stabili abbandonati – precisa
Graziano -. Orientativamente si tratta di migliaia di persone, ma la stima è molto
complessa».
Ospitati in famiglia
Molte persone che scappano dalla guerra nei propri Paesi trovano a Roma ospitalità da
parenti e amici. La maggior parte decide di non farsi foto segnalare e quindi di non avviare
l’iter della richiesta d’asilo in Italia per cercare di spostarsi poi in Nord Europa. «Roma è
molto spesso una città di semplice transito – spiega Graziano -. Chi arriva non sempre si
ferma, ma fa tappa per spostarsi in paesi come la Germania o la Svezia che dispongono di
un sistema di accoglienza per rifugiati sicuramente più vantaggioso».
Da Adn Kronos del 19/06/14
Musica: a Roma Villa Ada incontra il mondo,
dal 27 giugno al 31 luglio
Roma 19 giu. - (Adnkronos) - Villa Ada si rinnova, diventando vero spazio per i cittadini per
tutto l'arco della giornata. 'Roma incontra il mondo' è l'iniziativa che con Roy Paci e Mamo
Giovenco alla direzione artistica, e il contributo dell'Arci di Roma, ha ricevuto il
riconoscimento come manifestazione storica tra i festival di particolare interesse per la vita
culturale della città. Nella cornice naturale, a bordo del lago e tra gli alberi secolari della
villa, si svolgeranno gli incontri tra arte, musica e cucina dal respiro internazionale.
La nuova direzione artistica della manifestazione porterà il meglio della musica nazionale
ed internazionale, con una virata rispetto al concetto di world music, non solo etnica ma
sperimentale in senso lato. Quindi dalle nuove tendenze della musica elettronica al rap,
passando per il new rock, il festival darà spazio anche a quella musica italiana che si sta
facendo largo al di fuori dello stivale. Fra i tanti nomi in cartellone spiccano Emis Killa,
Public Enemy, Dub Fx, Nouvelle Vague, Brunori Sas, Salmo, Buzzcocks, Tre Allegri
Ragazzi Morti.
Se la musica sarà la protagonista assoluta, avranno la loro parte anche il benessere, lo
sport e l'enogastronomia che invaderà Villa Ada di prodotti bio e street food. A garantire
qualità e ricercatezza, cinque chef stellati dal 27 giugno al 25 luglio danno appuntamento
al food stand creato per loro: Marco Gallotta, Gianfranco Pascucci, Francesco Apreda,
Roy Caceres e Cristina Bauermann saranno i maestri della cucina. Poi lo chef Rubio, il
volto della rete televisiva Dmax, terrà uno show cooking. E ancora le partite dei mondiali di
calcio Brasile 2014, ed un servizio alle famiglie, con un'area bambini a loro dedicata. Altra
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novità di 'Roma incontra il mondo' è uno spazio allestito all'interno del villaggio della
capienza di 600 persone, aperto sia al pubblico dei concerti sia a quello della notte, che si
trasformerà nel weekend in dance floor capitolino sulle sonorità house, abstract hip hop e
new disco.
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ESTERI
del 19/06/14, pag. 2
Nasce nel segno dell’estrema destra il gruppo
europeo di Grillo e Farage
Guido Caldiron
Europarlamento. Nell’Efd gli svedesi anti-immigrati e un'eletta con il
Front National
Si tinge sempre più di nero l’alleanza europea del Movimento 5 Stelle. Alla vigilia di un
nuovo incontro tra Beppe Grillo e l’euroscettico britannico Nigel Farage, che dovrebbe
svolgersi oggi a Bruxelles, proprio il leader dell’Ukip ha annunciato ieri di aver raggiunto i
numeri sufficienti per formare un gruppo autonomo in seno al parlamento europeo.
Dopo giorni di intense quanto riservate trattative, Farage che già presiedeva nella
precedente legislatura il medesimo gruppo — Europa della Libertà e della Democrazia,
Efd che all’epoca comprendeva, tra gli altri, la Lega Nord e i populisti di estrema destra del
Partito del popolo danese e dei Veri finlandesi -, ha reso noto l’esito positivo dei colloqui
intrapresi con diverse formazioni e anche con singoli eurodeputati.
Accanto a quelli dell’Ukip e del M5S, confluiranno nel nuovo raggruppamento gli eletti
dell’Unione dei Verdi e degli Agricoltori lettoni, quelli del Partito dei liberi cittadini della
Repubblica Ceca, ma soprattutto quelli del movimento lituano Ordine e giustizia, l’estrema
destra dei Democratici Svedesi, oltre alla deputata francese Joëlle Bergeron, eletta con il
Front National di Marine Le Pen. In totale, quarantotto deputati che si riuniranno per la
prima volta a Bruxelles martedì 24 giugno.
Se Grillo parla, quanto alla formazione del gruppo, di «una grande vittoria per la
democrazia diretta, i cittadini hanno scelto i loro portavoce e hanno detto loro dove sedere
nel Parlamento europeo», mentre Farage si dice «orgoglioso di avere formato questo
gruppo, malgrado la forte opposizione politica che abbiamo incontrato per farlo», non può
sfuggire come l’asse di questa alleanza muova da destra per arrivare fino alle posizioni del
radicalismo nero. E non è tutto.
Se lettoni e cechi si situano infatti tra l’euroscetticismo e la destra ultraconservatrice, già la
pattuglia di Ordine e giustizia, guidata dall’ex premier ed ex presidente lituano Rolandas
Paksas è schierata su posizioni più che nazionaliste. Ma soprattutto, Paksas è stato
destituito nel 2004 dalla sua carica presidenziale in seguito ad un pronunciamento della
Corte costituzionale lituana, e un conseguente voto del parlamento di Vilnius, per aver
intrattenuto relazioni regolari con il discusso uomo d’affari russo Yuri Borisov, il maggior
finanziatore della sua campagna elettorale, cui ha anche concesso, pare in modo
arbitrario, la cittadinanza del piccolo paese baltico.
Ma ciò che colpisce di più nel nuovo profilo dell’eurogruppo Europa della Libertà e della
Democrazia, è il fatto che sia Farage che Grillo avevano più volte rifiutato ogni rapporto
con il Front National francese, mentre invece oggi è grazie allo scranno occupato da Joëlle
Bergeron, 63 anni eletta a Lorient, in Bretagna, nelle file frontiste, che la loro alleanza può
trasformarsi in qualcosa di concreto. Si è detto che Bergeron avrebbe rotto con la
leadership del Front per alcune sue dichiarazioni in favore del voto amministrativo degli
immigrati, comunitari. Ma in realtà, come ampiamente riportato dalla stampa d’oltralpe, il
vero casus belli che l’ha opposta a Marine Le Pen è il suo rifiuto di cedere il seggio a
Gilles Pennelle, capofila bretone dell’estrema destra, come era stato concordato prima del
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voto. La candidatura di Bergeron era infatti servita solo ad aggirare la rigida norma sulla
parità di genere vigente in Francia.
Ancora più sorprendente, il fatto che malgrado Nigel Farage in persona avesse smentito la
cosa solo pochi giorni fa, intervistato da un quotidiano di Stoccolma, parlando di
«incompatibilità con le loro posizioni estremiste», i 5 Stelle e l’Ukip abbiano finito per
allearsi perfino con gli Sverigedemokraterna, i Democratici svedesi, sulla cui affiliazione
alla destra neonazista aveva scritto ampiamente all’inizio del decennio perfino il giornalista
e scrittore Stieg Larrson.
Nato da un gruppo denominato Bevare Sverige Svensk (Mantenere la Svezia svedese),
difensore delle tesi della supremazia bianca e ombrello pubblico delle bande razziste,
sotto la guida del giovane leader Jimmie Akesson il partito si è andato ridefinendo come
una formazione anti-immigrati, rinunciando ai suoi aspetti ideologici più aggressivi, senza
per questo cambiare del tutto pelle. Solo nel 2012, ad esempio, tre dei suoi deputati sono
stati processati per aver aggredito per strada un popolare attore di origine straniera molto
attivo nella denuncia del razzismo in Svezia.
del 19/06/14, pag. 7
Nell’incontro Renzi-Van Rompuy messo a punto il documento che
spiana la strada all’esponente del Ppe Gli ultimi nodi: la resistenza di
Cameron e la Merkel contraria ad ogni modifica del Patto di Stabilità
Juncker a un passo dalla presidenza
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
Una lunga e a tratti difficile seduta di correzione di bozze. L’incontro a Roma tra Matteo
Renzi e il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy è servito soprattutto per
definire i dettagli del documento programmatico che verrà sottoposto alla discussione dei
capi di governo giovedì prossimo. Un documento, fortemente voluto da Renzi e
pazientemente concordato con la Merkel, che Van Rompuy utilizzerà come base per
raccomandare di proporre al Parlamento europeo Jean-Claude Juncker come presidente
della Commissione.
Sul nome di Juncker, ieri, Renzi non si è voluto sbilanciare. Non perché sia contrario alla
nomina del l’ex premier lussemburghese, ma perché si attiene strettamente alla linea che
ha proposto fin dall’inizio: discutere prima i contenuti del programma della Commissione e
solo dopo decidere sul suo presidente. Una linea che si sta rivelando vincente, e che sta
offrendo anche a chi si era schierato con Cameron nel rifiutare l’ipotesi Juncker di fare
marcia indietro senza perdere la faccia. Non è un caso che, dopo una telefonata tra Renzi
e il premier olandese Mark Rutte, anche quest’ultimo, inizialmente contrario a Juncker, si
sia schierato sulla linea di discutere prima i contenuti e solo dopo i nomi.
«Nessun via libera né diktat su questo o quel nome, ma un approccio di metodo che
cambia verso al dibattito sulle nomine: queste vengono dopo, solo dopo, la definizione di
una Europa all’altezza delle sfide che ha davanti», ha riassunto ieri il premier italiano al
termine dell’incontro con Van Rompuy. Tuttavia, nonostante il mancato via libera formale,
la strada di Juncker verso una designazione da parte dei capi di governo sembra ormai in
discesa.
L’unico che continua ad opporsi alla sua nomina è il premier britannico David Cameron.
Che ancora ieri ha insistito: «non importa quanti all’interno del Consiglio europeo siano in
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disaccordo con me, io mi batterò fino alla fine». Ma senza l’appoggio dell’Italia, o di un
altro grande Paese, Cameron non riuscirà a mettere insieme una minoranza di blocco, che
dovrebbe riunire un numero di stati che rappresentanti almeno il 38 per cento della
popolazione dell’Ue. E Renzi, ieri, ha fatto chiaramente capire a Van Rompuy che non
intende mettere veti su questo o quel candidato. Cameron, dunque, appare sempre più
isolato. La sua insistenza nel combattere una battaglia apparentemente disperata si
spiega solo con la speranza di ottenere, come compensazione, condizioni più favorevole
per rinegoziare una partecipazione ancora più diluita della Gran Bretagna all’Unione
europea.
Renzi, ieri, ha invece condiviso con Van Rompuy la necessità che le nomine europee
tengano in conto «una rappresentanza di genere». In altre parole, che ai vertici delle
istituzioni ci sia almeno una donna. Questo potrebbe favorire la bulgara Cristalina
Georgeva al posto di alto rappresentante per la politica estera Ue; oppure la premier
danese Helle Thorning Schmidt per il ruolo di presidente del Consiglio europeo.
Ma intanto l’attenzione delle cancellerie è concentrata sul testo del documento
programmatico che Van Rompuy dovrà presentare al vertice. Che debba parlare di priorità
alla crescita e all’occupazione pare fuor di dubbio. L’Italia insiste perché ci siano anche
riferimenti alla flessibilità nell’attuazione dei parametri. La Merkel sembrerebbe disposta a
qualche concessione in questo senso. Ma ieri, dopo che il vice-cancelliere
socialdemocratico Sigmar Gabriel aveva parlato di una revisione del Patto di stabilità, la
leader tedesca è intervenuta per precisare che il Patto non si tocca, anche perché già offre
«tutta la flessibilità necessaria ».
Insomma, la messa a punto del documento programmatico, che dovrebbe servire a
presentare Juncker sotto una luce diversa e meno rigorista, presenta ancora qualche
ostacolo da superare. Ma l’Italia considera che sia un passo irrinunciabile. «Juncker è
stato interprete della politica del rigore e dell’austerità, ora dovrà prendere atto del fatto
che dobbiamo voltare pagina in Europa e prendere un netto impegno su queste priorità»,
ha commentato ieri il sottosegretario incaricato degli affari europei, Sandro Gozi. Una volta
designato dai capi di governo, Juncker potrebbe trovare qualche difficoltà nei negoziati
con i gruppi politici per trovare una maggioranza in Parlamento europeo. E che le trattative
non saranno facili lo dimostra il fatto che ieri il presidente del Parlamento europeo, Martin
Schulz, ha lasciato la carica per assumere la guida del gruppo socialista e partecipare
direttamente alle discussioni. La presidenza del Parlamento è stata assunta, ad interim,
dal vice-presidente Gianni Pittella.
del 19/06/14, pag. 6
L’Onu: a Odessa strage neonazi
Simone Pieranni
Ucraina. Poroshenko cambia, via il ministro degli esteri e il capo della
procura (di Svoboda) e apre: «Siamo pronti a cessare il fuoco»
Un report delle Nazioni unite sui diritti umani in Ucraina è impietoso: il paese è dilaniato
dalla guerra, da scontri feroci, violenze quotidiane. Una situazione all’interno della quale
sguazzano criminali di ogni sorta, da una parte e dall’altra. Ci sono anche i numeri totali
delle vittime riscontrate: almeno 356 morti, di cui 257 civili, 14 bambini. Un conflitto
dimenticato, ormai superato dalle questione geopolitiche, del gas, di incontri e cene, ma
nel quale le persone continuano a soffrire, a scappare — chi può — o tentare di
sopravvivere.
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Il report si concentra anche sul rogo di Odessa, nel quale sono morte almeno 48 persone.
Un evento tragico, finito nell’oblio, perché fin da subito è apparsa chiara la responsabilità
degli «eroi» di Majdan, ovvero i gruppi paramilitari neonazisti di Settore Destro. Il rapporto
sottolinea la loro presenza, armata, nei pressi del Palazzo del Sindacato a cui poco dopo
sarebbe stato dato fuoco. Le parole del report confermano le ricostruzioni subito dopo i
fatti provenienti dai testimoni: un accampamento di pacifici sostenitori dell’indipendenza da
Kiev del Donbass, aggrediti e costretti a rintanarsi nell’edificio dei sindacati, che diventerà
poco dopo una trappola mortale. All’epoca gli eventi erano stati minimizzati.
Chi sosteneva ci fosse lo zampino dei paramilitari di Settore Destro, veniva additato come
una sorta di visionario novecentesco, ancora alla ricerca dei fascisti nel mondo che ha
decretato la fine delle ideologie.
Ora però a centrare l’attenzione su Pravyi Sektor sono le Nazioni unite. È un segnale
talmente rilevante, che perfino Poroshenko sembra voler correre spedito verso un repulisti
nelle file del suo governo. Decisioni concomitanti con l’apertura più seria, da quando è
stato eletto, nei confronti dei filorussi e di chi spera che al più presto arrivi un vero
«cessate il fuoco». Il neo presidente ucraino ha infatti specificato ieri, di essere disposto a
chiudere la guerra: «Il piano — ha detto — parte col mio ordine di cessare il fuoco in modo
unilaterale.
Ci aspettiamo poi in tempi brevi di ottenere il sostegno al piano di pace presidenziale da
parte di tutti i partecipanti agli avvenimenti nel Donbass». Il presidente ucraino si è quindi
detto disposto a «offrire un’amnistia a coloro che depongono le armi e non hanno
commesso gravi reati» e a «offrire un corridoio per dare ai mercenari la possibilità di
lasciare il territorio del Paese senza armi». I separatisti dovranno però liberare gli ostaggi
e sgomberare i palazzi occupati. Poroshenko ha infine precisato che il suo piano di pace
prevede 14 passi politici che saranno resi noti nei prossimi giorni.
Su tutto questo devono aver influito e non poco alcuni eventi: innanzitutto la telefonata di
due giorni fa con Putin. Al Cremlino infatti hanno confermato che, durante il colloquio
telefonico, Poroshenko e Putin hanno «toccato» la questione di un possibile cessate il
fuoco. Come ha spiegato Poroshenko, il cessate il fuoco sarà il primo passo di un
processo di pace che include anche emendamenti costituzionali che daranno più potere
alle regioni. In secondo luogo il paese è al tracollo e solo un passo in avanti, oltre la
guerra, sembra poter garantire un futuro.
La risposta dei filorussi è stata, ad ora, negativa: il leader dell’autoproclamata Repubblica
popolare di Donetsk Denis Pushilin ha specificato che «il nostro interesse è che gli
occupanti lascino il nostro territorio. Loro smettono di spararci contro, noi consegniamo le
armi e loro ci catturano disarmati. Questa è la logica di Kiev». Infine da sottolineare il
rimpasto in atto. Poroshenko in modo energico sta cominciando a piazzare le proprie
persone nelle posizioni chiave, sfruttando anche alcuni eventi. Il ministro degli esteri che
aveva definito «testa di cazzo» Putin è stato estromesso ieri e sostituito da un membro del
partito «Patria» di Tymoshenko (mozione richiesta al Parlamento di Kiev).
Dopo il report delle Nazioni Unite non è un caso la sostituzione del procuratore generale,
un membro del gruppo nazista di Svoboda. Infine Poroshenko ha proposto di sollevare
Stepan Kubiv dall’incarico di governatore della banca centrale, sostituendolo con Valeriya
Gontareva, avvezza al mondo finanziario e considerata la persona ideale per negoziare
con il Fondo Monetario internazionale.
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del 19/06/14, pag. 6
Dopo il linciaggio di Darius, l’evacuazione di
un campo rom
Anna Maria Merlo
PARIGI
Mentre l’indagine sul linciaggio di Darius, il ragazzo di 16 anni ancora ieri tra la vita e la
morte, non ha dato nessun risultato, il Prefetto delle Bouches-du-Rhône ha scelto il giorno
dopo le reazioni indignate del mondo politico contro l’aggressione del giovane di origine
rom a Pierrefitte-sur-Seine, per ordinare lo smantellamento del più grande campo nomadi
di Marsiglia. Ieri mattina, all’alba, la polizia ha fatto irruzione nella zona della Parette, dove
si erano insediate dall’ottobre dell’anno scorso, dopo lo smantellamento di un altro campo
illegale, circa 400 persone. Malgrado esista una circolare dell’agosto 2012 che obbliga le
autorità pubbliche a cercare una soluzione abitativa per gli espulsi, è stata fatta una
proposta di alloggio solo a 18 famiglie. Gli altri sono adesso in erranza nella regione,
destinati a occupare altre aree illegalmente. “Decine di bambini sono senza tetto con i
genitori – denuncia Amnesty International – mentre fino al giorno prima andavano a scuola
e avevano un minimo di stabilità”. Il Prefetto ha già annunciato che a metà luglio ci sarà a
Marsiglia un’altra operazione di espulsione, sul sito di Plombières, dove vive un centinaio
di persone. Alla Parette, il terreno evacuato ieri è di proprietà della Comunità urbana di
Marsiglia, che ha deciso di venderlo a un privato in vista di un’operazione immobiliare.
Le polemiche continuano sul linciaggio di Darius, mentre le indagini si rivelano difficili.
Raccogliere le testimonianze è complicato a Pierrefitte, nel quartiere della Cité des Poète,
un’area degradata, tra le più povere della periferia parigina, con un tasso di
disoccupazione che sfiora il 40%. Le famiglie sono “terrorizzate” dicono gli inquirenti,
anche perché c’è una forte presenza di trafficanti di droga. Il Pcf del dipartimento della
Seine-Saint Denis ha insistito ieri sul clima “deleterio” che regna nella zona, tra “l’estrema
povertà di numerosi abitanti del nord di Parigi” e “l’estrema miseria dei rom”, che fomenta
la “crescita di ogni tipo di xenofobia, di cui il risultato delle ultime elezioni è un riflesso”.
All’opposto, il Fronte nazionale, che cerca elettori nelle classi popolari, ha collegato
l’aggressione di Darius al “lassismo giudiziario” che fa vittime tra i “cittadini, che hanno
l’impressione di non essere difesi”.
Nessuno propone una soluzione al degrado in cui sono obbligati a vivere ampi strati della
popolazione. In Francia, ci sarebbero oggi non più di 17mila rom, provenienti soprattutto
da Romania e Bulgaria. Con l’arrivo dei socialisti al potere, la politica delle espulsioni delle
occupazioni illegali di spazi urbani non è cambiata. C’è la circolare del 2012, che dovrebbe
favorire l’inserzione, ma è quasi lettera morta, anche perché impone dei parametri difficili
da rispettare da parte di questo tipo di migranti, a cominciare da una conoscenza
abbastanza buona del francese, oltre al circolo vizioso dell’obbligo di scolarizzazione dei
bambini, missione impossibile quando non si ha domicilio fisso. “I rom continuano ad
essere espulsi senza che vengano loro proposte soluzioni alternative” denuncia Amnesty
International.
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del 19/06/14, pag. 19
Dopo il linciaggio di Darius, l’evacuazione di
un campo rom
Anna Maria Merlo
PARIGI
Mentre l’indagine sul linciaggio di Darius, il ragazzo di 16 anni ancora ieri tra la vita e la
morte, non ha dato nessun risultato, il Prefetto delle Bouches-du-Rhône ha scelto il giorno
dopo le reazioni indignate del mondo politico contro l’aggressione del giovane di origine
rom a Pierrefitte-sur-Seine, per ordinare lo smantellamento del più grande campo nomadi
di Marsiglia. Ieri mattina, all’alba, la polizia ha fatto irruzione nella zona della Parette, dove
si erano insediate dall’ottobre dell’anno scorso, dopo lo smantellamento di un altro campo
illegale, circa 400 persone. Malgrado esista una circolare dell’agosto 2012 che obbliga le
autorità pubbliche a cercare una soluzione abitativa per gli espulsi, è stata fatta una
proposta di alloggio solo a 18 famiglie. Gli altri sono adesso in erranza nella regione,
destinati a occupare altre aree illegalmente. “Decine di bambini sono senza tetto con i
genitori – denuncia Amnesty International – mentre fino al giorno prima andavano a scuola
e avevano un minimo di stabilità”. Il Prefetto ha già annunciato che a metà luglio ci sarà a
Marsiglia un’altra operazione di espulsione, sul sito di Plombières, dove vive un centinaio
di persone. Alla Parette, il terreno evacuato ieri è di proprietà della Comunità urbana di
Marsiglia, che ha deciso di venderlo a un privato in vista di un’operazione immobiliare.
Le polemiche continuano sul linciaggio di Darius, mentre le indagini si rivelano difficili.
Raccogliere le testimonianze è complicato a Pierrefitte, nel quartiere della Cité des Poète,
un’area degradata, tra le più povere della periferia parigina, con un tasso di
disoccupazione che sfiora il 40%. Le famiglie sono “terrorizzate” dicono gli inquirenti,
anche perché c’è una forte presenza di trafficanti di droga. Il Pcf del dipartimento della
Seine-Saint Denis ha insistito ieri sul clima “deleterio” che regna nella zona, tra “l’estrema
povertà di numerosi abitanti del nord di Parigi” e “l’estrema miseria dei rom”, che fomenta
la “crescita di ogni tipo di xenofobia, di cui il risultato delle ultime elezioni è un riflesso”.
All’opposto, il Fronte nazionale, che cerca elettori nelle classi popolari, ha collegato
l’aggressione di Darius al “lassismo giudiziario” che fa vittime tra i “cittadini, che hanno
l’impressione di non essere difesi”.
Nessuno propone una soluzione al degrado in cui sono obbligati a vivere ampi strati della
popolazione. In Francia, ci sarebbero oggi non più di 17mila rom, provenienti soprattutto
da Romania e Bulgaria. Con l’arrivo dei socialisti al potere, la politica delle espulsioni delle
occupazioni illegali di spazi urbani non è cambiata. C’è la circolare del 2012, che dovrebbe
favorire l’inserzione, ma è quasi lettera morta, anche perché impone dei parametri difficili
da rispettare da parte di questo tipo di migranti, a cominciare da una conoscenza
abbastanza buona del francese, oltre al circolo vizioso dell’obbligo di scolarizzazione dei
bambini, missione impossibile quando non si ha domicilio fisso. “I rom continuano ad
essere espulsi senza che vengano loro proposte soluzioni alternative” denuncia Amnesty
International.
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del 19/06/14, pag. 1/14
Iraq, Obama prepara i droni compagnie del
petrolio in fuga
MARCO ANSALDO
DAL NOSTRO INVIATO
ERBIL (Kurdistan iracheno)
CORANO , terrore e petrolio. I mitra in pugno, il Sacro libro piegato alle falsità di
predicatori aguzzini, la battaglia degli “uomini in nero” per il controllo delle raffinerie
irachene è appena cominciata.
ALL’ALBA di ieri, i miliziani jihadisti si sono fatti largo nel complesso petrolifero di Baiji, il
più grande del Paese, 250 chilometri a nord di Bagdad. E a colpi di mortaio hanno
conquistato tre quarti dell’impianto, mentre gli uomini della sicurezza riuscivano a
malapena a mettersi in salvo. Una fuga allargata ai colossi delle società occidentali,
scappati dagli uffici, e ora già al riparo sugli aerei in decollo dal Paese via Bagdad o da
Erbil, nel Kurdistan più sicuro.
Ci sono due posti in Iraq dove le scarpe affondano nel petrolio appena vi si mette piede:
Kirkuk e Mosul. Città vicine, eppure divise dal confine ormai certo della regione autonoma
del Kurdistan, sono così ricche da contenere la metà dei proventi petroliferi di tutto il
Paese. Pochi giorni fa i peshmerga, i guerriglieri curdi, sono riusciti a strappare Kirkuk, che
considerano la loro antica capitale, alla ferocia qaedista del nuovo Stato islamico dell’Iraq
e della Siria, l’Isis. Ma Mosul è caduta senza colpo ferire nelle mani dei fondamentalisti,
impegnati tuttavia a preservare con cura i pozzi dove le fiamme si alzano alte alla periferia
della città. Un controllo levato al governo centrale del premier Nuri al Maliki, adesso privo
dei preziosi barili di oro nero.
Baiji sta più a Sud. L’attacco improvviso. Fuori, i combattenti hanno esploso colpi di
mortaio, facendosi largo con le mitragliatrici. Incendi sono scoppiati qua e là nell’impianto,
che dà più di un quarto alla capacità di tutte le raffinerie del Paese. In mancanza di fonti
indipendenti, mentre il governo sostiene di aver ucciso negli scontri 40 qaedisti e di aver
ripreso il controllo della struttura, il possibile blocco del compound spaventa il Paese, che
da esso dipende in molte regioni per i prodotti di uso domestico, come benzina, olio per
cucinare e carburante per centrali elettriche. La paura è anche per qualche blackout.
Eppure la raffineria di Baiji era già sotto assedio fin dall’inizio della massiccia offensiva
jihadista, il 10 giugno scorso, con l’obiettivo di instaurare un califfato steso fra i confini di
Iraq e Siria, scopo finale la conquista di Bagdad. I miliziani dell’Isis ieri si sono spinti anche
a est, occupando villaggi della regione mista di Diyala, e rafforzando la propria presenza
nella zona di al Anbar, al confine con la Siria. Una strategia a tenaglia conclusa con
successo: in un comunicato il Ministero del petrolio ha ammesso che gli oleodotti di Anbar
sono tutti in mano agli insorti.
La presa della raffineria ha così scatenato la fuga immediata del personale di molte
compagnie petrolifere occidentali. Subito la Exxon Mobil e la Bp hanno evacuato buona
parte del loro staff. La Exxon ha lasciato quasi completamente il campo. La Bp ha ordinato
a circa il 20% dei lavoratori di partire. L’italiana Eni invece per ora resta. Un portavoce ha
reso noto che «al momento, la regione di Bassora, dove è situato il giacimento di Zubair,
non è toccata dalle rivolte e stiamo mantenendo sul posto il personale essenziale. La
sicurezza del nostro personale — ha aggiunto — è la nostra prima priorità e continuiamo a monitorare da vicino la situazione in Iraq».
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Ma è almeno dalla guerra del 2003 che il controllo delle sue risorse petrolifere è sotto gli
occhi del mondo. L’Iraq è il secondo produttore dell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi
esportatori di greggio. Le vendite sono arrivate a quota 2,58 milioni di barili al giorno, in
media, nonostante il blocco di uno degli assi principali, l’oleodotto a nord che collega
Kirkuk al porto turco di Ceyhan, obiettivo in passato di attacchi di sabotatori legati al verbo
di Al Qaeda.
Proprio il petrolio, poi, è da lustri l’oggetto di continui litigi fra Bagdad e i curdi. Questi
ultimi, che nella regione costituitasi attorno alla “capitale” Erbil sono circa il 17 per cento
della popolazione irachena (e curdo è lo stesso presidente iracheno Jalal Talabani), non
intendono affatto fare a meno delle risorse locali. Da anni, ormai, trattano, gestiscono e
vendono il petrolio alle compagnie occidentali passando direttamente dalla Turchia, senza
consultare o rendere conto alle autorità centrali che di colpo si sono visti ridurre della metà
i proventi.
E i curdi, considerati da sempre gli sconfitti della Storia, mai riusciti a organizzarsi in Stato,
sono in realtà i veri vincitori della guerra a Saddam Hussein. La loro regione, dopo la
caduta del regime, è quella cha ha goduto di una stabilità e sicurezza sconosciute al resto
del Paese. E i grandi investimenti stranieri hanno garantito lo sviluppo della loro economia.
Adesso il nodo è quello della difesa dei pozzi. Dopo essersi riassicurati Kirkuk, anzi, la
strategia dei curdi è quella di cacciare i jihadisti da Mosul. A Erbil incontri e riunioni si
susseguono fra peshmerga, esercito e governo con l’obiettivo di trovare una soluzione
politica o militare. I guerriglieri curdi, ormai inquadrati come una forza armata vera e
propria del Kurdistan iracheno, propongono di riprendere la zona ovest della città,
spingendo gli “uomini in nero” verso i quartieri orientali. Poi di costruire muri di cemento sui
cinque ponti di Mosul per evitare il ritorno dei militanti nei quartieri liberati, e quindi lasciare
intervenire l’esercito. Un piano che non convince però il capo della polizia locale, generale
Khalid al-Hamdani, per il quale ci vogliono invece «100 carri armati e blindati» per
riprendere la città. La battaglia per il petrolio iracheno è appena cominciata, e di sicuro
durerà a lungo.
del 19/06/14, pag. 14
Iraq, il piano di Obama “Raid e uso di droni”
Big del petrolio in fuga
Appello di Bagdad agli Usa: “Bombardate” Cheney e i neo-con
attaccano il presidente
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
NEW YORK .
Raid aerei mirati e altamente selettivi (ma non subito), l’uso di droni e soprattutto di
intelligence. Con i suoi più stretti consiglieri Barack Obama sta mettendo a punto la
strategia per l’Iraq, escludendo una sola opzione: l’invio di truppe di terra. E con questa
certezza (anche se un centinaio di uomini delle forze speciali sono già pronti a partire per
coordinare e addestrare i militari di Bagdad) ha ricevuto ieri alla Casa Bianca i quattro
leader del Congresso (due repubblicani e due democratici) per ottenere il via libera.
Il Pentagono ha però messo in guardia il presidente: una campagna aerea precipitosa
potrebbe diventare un boomerang.
27
Per il generale Martin E. Dempsey, capo dello Stato Maggiore, che ha confermato la
pressante richiesta di raid da parte del ministro degli Esteri iracheno Zebari, «non sono
così facili, non è come guardare sull’iPhone il video di un convoglio e colpire».
Obama è conscio però di non poter perdere ulteriore tempo. La destra lo attacca
duramente («l’ennesimo fallimento della politica estera del presidente», lo slogan più
gettonato), gli uomini di Bush, con i neocon in prima fila, tornano a farsi vivi e l’ex vicepresidente Dick Cheney (il vero “architetto” dell’invasione Usa) liquida così sul Wall Street
Journal l’operato del presidente: «L’Iraq rischia di cadere nelle mani di un gruppo terrorista
islamico e lui parla di cambiamenti climatici. I terroristi prendono il controllo di risorse come
mai prima nella storia e lui gioca a golf».
Preoccupa il petrolio, con l’assedio alle raffinerie di Baiji e la fuga («massiccia
evacuazione», il termine ufficiale) del personale della Exxon e della British Petroleum. La
Casa Bianca si mostra fiduciosa, perché finora l’avanzata dei militanti dell’Isis «non ha
ostacolato i rifornimenti», ma il portavoce Jay Carney si è limitato a un secco «no
comment» quando gli è stato chiesto se l’amministrazione Obama stava pensando di
utilizzare la riserva strategica Usa per stabilizzare i prezzi.
La “scala delle opzioni” che i consiglieri di Obama hanno presentato al Presidente per ora
prevede l’aumento di “consiglieri militari” e l’invio di 170 soldati a Bagdad per rafforzare le
misure di sicurezza nella propria ambasciata. Solo più avanti inizieranno i raid e l’uso dei
droni in stile Yemen. Gli analisti del Pentagono (e della Cia) sono al lavoro per “tracciare”
le figure-chiavi dell’autoproclamatosi Stato Islamico di Iraq e Siria, grazie anche alle
informazioni ricevute dai servizi segreti giordani, sauditi e turchi. Su tutti un nome: quello di
Abu Bakr al-Baghdadi, leader riconosciuto dell’Isis e un passato da prigioniero nelle mani
Usa (venne rilasciato nel 2009). Ora lo vogliono morto.
del 19/06/14, pag. 13
Rapiti in Siria 145 scolari, legione di bambini
soldato?
Sequestrati altri 193 civili curdi nello stesso periodo ● L’Opac: uso
sistematico di armi chimiche
In Iraq conquistano le città del petrolio. In Siria, rapiscono studenti. L’Isil ha sequestrato
145 scolari. Il fatto è avvenuto il 29 maggio ma la denuncia è arrivata soltanto ieri dall’ong
Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus). I genitori di alcuni dei ragazzini temono
che siano sottoposti a un lavaggio del cervello per poi essere usati come attentatori
suicidi. Secondo l’Ondus, i bambini sono stati rapiti sulla strada tra Aleppo e Minbej
mentre tornavano a Kobani, dove abitano, dopo avere sostenuto gli esami di fine anno in
aree di Aleppo controllate dal regime. Alcuni abitanti di Kobani hanno espresso il timore
che possano essere istruiti per diventare kamikaze, dopo che cinque scolari che sono
riusciti a scappare hanno detto di avere ricevuto dai loro sequestratori lezioni «sulla Jihad
contro i nemici di Dio e gli apostati ». On line circola un video che mostra un bimbo
costretto ad assistere a un’esecuzione di un soldato per opera degli jihadisti.
Nella stessa giornata, il 29maggio, secondo l’Osservatorio, miliziani dell’Isil
hannorapitoancheungruppodi193 curdi di età compresa tra i 17 e i 70 anni nel villaggio di
Qabbasin, nel Rif della città di Al-Bab, sempre nella provincia di Aleppo. Cronaca di
guerra. È di almeno 12 morti, tra i quali nove bambini e una donna, il bilancio di un
bombardamento effettuato da un elicottero delle forze governative siriane contro un campo
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per sfollati nella provincia di Daraa, nella Siria meridionale, lungo il confine con la
Giordania. Lo riferisce sempre l’Osservatorio siriano per i diritti umani. La maggior parte
delle vittime sono civili che erano fuggiti dalle loro case nella provincia di Daraa dove negli
ultimi mesi si sono intensificati i combattimenti tra i ribelli e le forze lealiste. Il
bombardamento ha colpito una zona nei pressi della città di al-Shajara.
GAS MORTALE
Intanto, arriva a Damasco anche l’accusa di aver utilizzato «sistematicamente» agenti
chimici tossici. «Agenti irritanti polmonari come il gas cloro, sono stati usati in maniera
sistematica in un certo numero di attacchi» sostiene un rapporto degli ispettori dell'Opac,
organizzazione per la proibizione delle armi chimiche in Siria, citato dall’ambasciatore
americano all'Aja Robert Mikulak in un suo intervento al Consiglio Esecutivo
dell’Organizzazione. «La natura sistematica degli attacchi, gli obiettivi previsti e altre
informazioni disponibili pubblicamente, indicano tutti un probabile colpevole: il governo
siriano. A chi altri gioverebbero? Chi altri potrebbe compiere simili attacchi sistematici?»,
afferma Mikulak. È intervenuto anche il direttore generale dell’Opac, Ahmet Uzumcu, che
ha dichiarato che la missione «continuerà il suo importante lavoro di raccolta dati per
portare i fatti alla luce» e ha ricordato "il grave incidente che ha impedito alla missione di
compiere un’importante visita sul terreno», quando il 27 maggio il convoglio degli ispettori
è stato attaccato nei pressi di Kfar Zeita, uno dei villaggi colpiti con gas cloro lo scorso
aprile.
ASSAD AVVERTE
Il «terrorismo» sta per raggiungere l’Occidente e altri Paesi che hanno sostenuto questo
flagello in Siria e in Medio Oriente. È la previsione del presidente siriano, Bashar al-Assad.
«L’Occidente e i Paesi che sostengono l’estremismo e il terrorismo in Siria e nella regione
devono rendersi conto che questa minaccia crescente sta per colpire tutti, in particolare i
Paesi che hanno sostenuto il terrorismo e gli hanno permesso di svilupparsi», ha detto
ricevendo a Damasco una delegazione nordcoreana. Assad ha accusato inoltre i Paesi
occidentali, la Turchia e i Paesi del Golfo di aiutare e finanziare i ribelli. «Sono circa 30 i
soggetti già residenti nel nostro Paese che si sono recati in Siria, otto dei quali vi hanno
trovato la morte ». Lo ha detto il titolare del Viminale, Angelino Alfano, al question time alla
Camera rispondendo a una interrogazione sul recente vertice dei ministri dell'Interno della
Ue per fare luce sul fenomeno dei cittadini europei di religione musulmana che si
arruolano tra le fila dei ribelli al regime di Assad in Siria. Alfano ha aggiunto «che il
fenomeno è attentamente seguito», anche perchè secondo il calcoli di Europol «sono
circa2300 i giovani estremisti islamici che dai paesi dell' Ue hanno raggiunto la Siria per
unirsi alle diverse formazioni attive in quel conflitto ».
del 19/06/14, pag. 17
Shock nel Paese che teme un nuovo caso Shalit I giovani postano
l’hashtag “bring back our boys”
Tra le strade di Hebron la città sotto assedio
in cerca dei ragazzi rapiti
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO INVIATO
HEBRON .
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Un sole impietoso flagella la strada, una luce accecante rimbalza dai palazzi di pietra
bianca. Auto ferme e strade deserte, i caffè, i negozi, le fabbriche di ceramica e di vetro
famose in tutto il Medio Oriente, sono sbarrati. Due cani randagi frugano fra i mucchi di
immondizie abbandonate sulla strada. Benvenuti a Hebron, la città sotto assedio da sei
giorni. Più di metà degli oltre 250 uomini di Hamas arrestati in risposta al rapimento di
Eyal, Gilad e Naftali — i tre seminaristi ebrei scomparsi giovedì scorso in un incrocio alle
porte della città — sono stati prelevati dalle case qui attorno. Uomini del Sayeret Matkal, i
reparti speciali dell’Esercito, frugano in ogni casa sospetta, magazzino, cantina, negozio,
pollaio, dell’abitato.
Nelle colline circostanti si vedono i mezzi militari muoversi nelle campagne. L’Unità 669,
specializzata nelle ricerche, e una brigata di paracadutisti stanno cercando in fattorie,
grotte, pozzi, granai, mulini e cisterne dell’acqua, la possibile prigione. Perché i generali
che comandano le operazioni sono convinti che i tre studenti israeliani siano ancora tenuti
prigionieri nell’area urbana o nelle vicinanze, da sempre un caposaldo di Hamas. Soltanto
qualche mese fa qui circolava un manuale di Hamas — che considera il sequestro di
israeliani l’arma migliore per ottenere il rilascio dei palestinesi detenuti in Israele — di 18
pagine a circolazione interna dal titolo “Guida per il rapitore”, con suggerimenti e consigli
ben dettagliati.
Al sesto giorno Israele si consuma nell’ansia di quest’attesa, di un segnale, un indizio, una
rivendicazione. I rapimenti degli islamisti non sono una novità, ma il fatto che questa volta
riguardi tre giovani seminaristi, usciti dalla yeshiva quasi inconsapevoli dei rischi legati al
fatto di attraversare a tarda sera un territorio ostile, pieno di minacce, ha colpito
l’immaginario collettivo. Soprattutto i giovani, i ragazzi israeliani hanno reagito con forte
emozione. In migliaia stanno postando il loro sostegno all’hashtag “Bring back our boys”,
lo hanno fatto anche due giovani arabiisraeliani che abitano a Nazareth e che per questo
hanno ricevuto minacce di morte.
L’esercito non si fermerà finché «non avrà messo le mani sui rapitori e non avremo
riportato a casa i ragazzi», ha promesso ieri il ministro della Difesa Moshe Yaalon, che ha
incontrato alcuni parenti dei giovani scomparsi che hanno potuto ascoltare la registrazione
della telefonata che uno di loro ha fatto giovedì notte al centralino della Polizia,
sussurrando: «Siamo stati rapiti». La Polizia spera che le famiglie, ascoltandola, si
rendano conto quanto fosse difficile capire dalla telefonata che si trattava di una richiesta
di soccorso reale e non di uno scherzo, come è spesso accaduto in passato e accade in
questi giorni.
Negli istituti religiosi, fra gli amici, i parenti, si susseguono le preghiere collettive per un
loro rapido ritorno a casa. Tutti si sono stretti a fianco delle famiglie. Ieri i compagni di studi
di Eyal, il più grande dei tre, hanno portato ai suoi genitori un filmato girato le scorso Purim
( il carnevale ebraico), in cui si vede Eyal che nella tradizionale recita della festa, che
interpreta la parte di un soldato che libera ostaggi rapiti. Certamente non ha mai pensato
che un giorno, non lontano, si sarebbe trovato in un contesto simile ma nella parte della
vittima.
Il presidente palestinese Abu Mazen, si sente pugnalato alla schiena dal coinvolgimento di
Hamas nel rapimento ad appena due mesi dalla “riconciliazione”. «Chi lo ha compiuto
vuole distruggerci» ha detto ieri mattina al vertice arabo di Jedda, ricevendo in cambio da
Gaza l’accusa di tradimento dal portavoce degli integralisti. Perché anche gli uomini del
generale Adnan Al Damiri, il capo dei servizi segreti palestinesi, stanno collaborando alla
ricerche dei rapiti e sono stati discretamente sguinzagliati per la città. All’appello degli
arrestati in città mancano due boss delle Brigate Ezzedin Al Qassam — il braccio armato
di Hamas — che da giovedì, il giorno del rapimento, sono scomparsi nel nulla e
potrebbero essere coinvolti.
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Ma il “colpo” sarebbe stato fatto da un piccolo gruppo criminale attivo nel furto di auto
legato ad ambienti integralisti e salafiti. In città due anni fa è stata sgominata una cellula
composta da sei persone, uccisi in due scontri a fuoco. Mohammed Nairuk, il loro leader,
era stato espulso due anni prima da Hamas per il suo «estremismo religioso». Questi
gruppi di solito operano in cellule molto piccole, non predicano il loro messaggio e non
raccolgono fondi dalla gente. Per questo rintracciarli è un compito particolarmente difficile.
«Arriveremo ai rapitori, è solo questione di tempo», promette anche l’ufficiale che
comanda il plotone schierato all’ombra del complesso della Tomba dei Patriarchi. Ma di
tempo non ne resta molto, fra meno di dieci giorni inizia il Ramadan — mese sacro per i
musulmani e sempre già gravido di tensioni — e non sarà possibile fare operazioni militari
di questa ampiezza in Cisgiordania senza suscitare la reazione della popolazione
palestinese. E anche Israele ha fretta di risolvere il “caso”, nessuno dei suoi politici vuole
trovarsi di fronte ad un nuovo caso Shalit, il soldato rapito a Gaza e liberato dopo cinque
anni di prigionia in cambio della liberazione di più di mille detenuti palestinesi, buona parte
dei quali in questi giorni è tornata in cella.
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INTERNI
del 19/06/14, pag. 2
Sel, il lento addio
Daniela Preziosi
Sinistre. Sì al decreto Irpef, ma esplode il caos. Migliore si dimette.
Vendola: «Non siamo filorenziani, i deputati non cambiano la linea del
partito». Ma da Delrio un segnale di incoraggiamento: le porte del Pd
sono aperte
«Accetto le tue dimissioni». La crisi di Sel è un vortice a spire larghe che gira da mesi ma
che da ieri precipita a velocità infernale. Verso il suo centro, che però è un buco nero. La
crisi si ufficializza alle cinque del pomeriggio con il discorso più breve della storia politica di
Nichi Vendola. Gennaro Migliore ha rassegnato le dimissioni da capogruppo dei deputati
martedì notte, nel corso di un ruvido confronto sul decreto Irpef. Alla fine la sua proposta,
votare sì, passa a maggioranza, 17 a 15.
Durante la discussione da Bari arriva l’sms presidenziale («solo un consiglio», dirà poi):
dice «astensione», una «proposta di mediazione» per un gruppo «spaccato a metà come
una mela». È l’ulteriore, l’ennesimo, forse l’ultimo ponte fra le due anime del gruppo
dirigente di Sel: una che vuole aprire una linea di dialogo con il governo Renzi, l’altra che
tenta di ricostruire una sinistra «autonoma» guardando alla lista Tsipras, nonostante tutto.
Migliore a quel punto rassegna le «dimissioni irrevocabili, per essere libero di sostenere la
mia posizione». Il dissenso con Vendola è netto. Le sfumature sono tante, ma chi vuole
astenersi sottolinea il pasticcio contenuto nel decreto, chi vuole votare sì non accetta di
andare contro un provvedimento popolare, che ha comunque distribuito un po’ di soldi a
milioni. A cui anche il fiommista Landini ha dato un mezzo credito.
La mattina dopo, siamo a ieri, in aula, è Titti Di Salvo a pronunciare la dichiarazione di
voto. Il gruppo si allinea al sì, solo i due indipendenti Giulio Marcon e Giorgio Airaudo
annunciano l’astensione. Vendola arriva alla camera, la sua presenza già dice burrasca.
Accanto a lui si materializza anche Massimiliano Smeriglio, vice di Zingaretti alla regione
Lazio e ultrà dell’operazione Tsipras. «Ma nessuno può accusarmi di non dialogare con il
Pd», attacca. Vendola discute a lungo con Pippo Civati, poi con Gianni Cuperlo. C’è in
ballo un’iniziativa congiunta per far vedere che in ogni caso Sel non si chiuderà nelle
ridotte della sinistra radicale. In aula Marcon alza il velo del tinello di Sel e mostra lo stato
di famiglia. Si astiene: «Una scelta personale ma che interpreta la convinzione di quasi
metà del gruppo», dice, «votare a favore significa dire sì ai positivi 80 euro ma anche alla
politica economica di Renzi ancora subalterna all’austerità. Nessuno si sogni di utilizzare
questo dl per cambiare questo orientamento». Ce l’ha con Migliore e compagnia. Vendola,
il viso tirato, lo guarda sullo schermo del Transatlantico e mormora un «bravo». «Sel non
si accomoderà nel cono d’ombra del Pd».
Di qui all’accettazione delle dimissioni di Migliore ci sono due ore convulse di incontri e
ripensamenti. Le dimissioni aprono ufficialmente la crisi in Sel. Due deputati ’filo-pd’ (Aiello
e Ragosta) sono già passati nei banchi dei dem. Fra i ’miglioristi’ ci sono ancora molte
titubanze. Il capogruppo incontra Nicola Fratoianni, amico di sempre, antagonista di oggi.
Vendola è con loro, cerca ancora una mediazione. A un certo punto i tre si passano un
Ipad acceso su una dichiarazione di Pierluigi Bersani, l’uomo del governo ’di
cambiamento’, un bel sogno ormai alle spalle. Dice Bersani: «Il percorso di avvicinamento
tra Sel e Pd è maturo, mi auguro che avvenga in modo ordinato e politico», no a
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«improvvisazioni, personalismi, opportunismi». È un gesto generoso, un altro dell’ex
leader. Fratoianni e Vendola la leggono come un invito a evitare la diaspora alla
spicciolata.
Ma nel pomeriggio la riunione dei deputati dura una manciata di minuti. Vendola stavolta
sceglie: non lancia ponti. «Avete colto l’occasione per spaccare la linea politica del
partito», dice, all’indirizzo di Migliore. Poi accetta le dimissioni e annuncia che la segreteria
di oggi affronterà il caso.
Ma è un caso già chiuso. O comunque lo diventa quando il governatore torna in
Transatlantico dai cronisti. «Migliore ha rassegnato le dimissioni con grande correttezza,
con grande onestà intellettuale, perché non è stato in grado di cucire la tela di una sintesi
nel gruppo». L’accusa però è quella di non rispettare la linea. Vendola si sforza di dire che
«la differenza è ricchezza» ma sferza: «Il luogo che ha il potere di decidere sulla linea di
un partito è il congresso e un gruppo parlamentare non può essere in alcun modo un
impedimento a questa linea». L’accusa è pesante. E c’è di più: «La differenza tra essere
renziani e non renziani è esattamente quella che passa tra combattere ed arrendersi».
Nell’assemblea di sabato scorso Vendola aveva invitato i gruppi a discutere «con laicità»
del decreto Irpef. Oggi invece Vendola si arrende alla constatazione che «la vicenda del
nostro dibattito interno è stata letta come una divisione tra filo-renziani e anti-renziani. E
Sel, nonostante il fascino che i vincitori hanno, non può dichiararsi filo-renziana». È carta
vetrata per i ’miglioristi’, un nucleo di una decina di persone intorno a cui si muove una
costellazione di posizioni diverse che ora rischia di compattarsi con effetti devastanti sul
gruppo. Circolano numeri: due deputati e un senatore pronti a passare con il Pd. Numeri
piccoli, ma cresceranno. «Ci vogliono cacciare?, non hanno voluto discutere», esplode
Michele Piras. «La mia casa è Sel, non voglio andare nel Pd, ma voglio ricostruire il
centrosinistra», spiega Stefano Quaranta. E Gianni Melilla: «Vengo dal gruppo del
manifesto. Nichi mi dica: vogliono radiarci?».
Dal Pd arriva il segnale pubblico che non era mai arrivato. Lo lancia Graziano Delrio, fra i
più alti in grado dei renziani: i parlamentari che appoggiano le misure del governo «sono
benvenuti, non andiamo a caccia di parlamentari ma abbiamo bisogno di un esecutivo
forte. Chi vuole entrare nel Pd lo faccia, è cambiato il partito, si è concretizzato il partito
leggero, è diventato una casa aperta».
del 19/06/14, pag. 3
Sindaci in senato, ma meno
Andrea Fabozzi
ROMA
Un primo cittadino per regione, mancano solo i dettagli all’intesa Pd-Fi.
L’ex Cavaliere lancia il presidenzialismo senza convinzione. E ai suoi
ordina la retromarcia sul caso Mario Mauro
È sempre Renzi-Berlusconi. Le riforme costituzionali restano un appuntamento per due,
un appuntamento ancora rinviato ma intuibile sullo sfondo. Nel frattempo si incontrano i
secondi, il capogruppo dei senatori forzisti Romani e la ministra Boschi che però girano
sempre attorno alla modalità di elezione del nuovo senato. L’ex Cavaliere accetta ormai da
tempo l’elezione indiretta, ma punta ancora a ridurre il peso dei sindaci che considera tutti
o quasi tutti di sinistra (gli ultimi rovesci alle amministrative l’hanno rafforzato nell’idea). Ieri
in conferenza stampa ha fatto il nome del «mandante» di Renzi, l’Anci (l’associazione
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nazionale dei comuni) di cui uno dei registi dell’operazione-senato, il sottosegretario
Delrio, è stato presidente prima di passare la mano a un altro folgorato da Renzi, Fassino.
La conferenza stampa di Berlusconi era in realtà convocata per lanciare — per la sesta
volta nel ventennio — l’opzione presidenzialista. Ma a tal punto l’ex Cavaliere vuole
restare in scia a Renzi che fatto il lancio ha ritirato la mano. Ha precisato che l’elezione
diretta del presidente della Repubblica «non è una pregiudiziale», che «manterremo gli
impegni», e che «sono certo che l’accordo si troverà». Sarà un accordo verosimilmente
suggellato da un nuovo incontro la prossima settimana, esteso anche alla legge elettorale
— Grillo arriva tardi — e all’elezione dei due giudici costituzionali. Renzi fa sapere che «ci
siamo» come ormai ogni settimana da due mesi, ma stavolta le posizioni sono davvero
vicine. Anche perché la Lega di Calderoli ha tirato dentro Forza Italia, e i due senatori
contrari che potevano condizionare l’esito sono stati cacciati dalla commissione affari
costituzionali. Poi in aula si vedrà. L’ultima spinta è arrivata dalla conferenza dei
capigruppo di palazzo Madama, che ha già fissato la data dell’approdo in aula del disegno
di legge costituzionale — il 3 luglio — quando ancora non è stato votato un emendamento.
Anzi, quando ancora non si conoscono nel dettaglio gli emendamenti della relatrice
Finocchiaro (li leggeremo forse domani, forse martedì).
Alcuni possono considerarsi scontati, si tratta delle correzioni agli svarioni che il governo
ha volutamente lasciato nel testo Renzi-Boschi per far toccare palla ai senatori: la
riduzione dei 21 senatori di nomina presidenziale, il riequilibrio dei pesi delle regioni sulla
base della popolazione, l’ampliamento della platea dei grandi elettori del presidente della
Repubblica (così da non far decidere tutto alla camera) e l’aumento delle competenze
della nuova camera, che si chiamerà ancora senato della Repubblica. Quanto ai sindaci,
che nel primo progetto di Renzi avrebbero dovuto comporre la quasi totalità
dell’assemblea e nel secondo almeno la metà, scenderanno probabilmente ancora sotto la
quota di un terzo, avvicinandosi al numero di uno per regione. Troppi in ogni caso, a voler
seguire la logica: gli amministratori comunali non sono neanche lontanamente dei
legislatori come i consiglieri regionali, ma la bandiera del campanile Renzi e Delrio
dovranno pur sventolarla.
E così i consiglieri regionali sceglieranno al proprio interno e tra i sindaci della regione i
nuovi senatori — «per un’istituzione leggera», dice Delrio. Forza Italia, che a conti fatti è in
minoranza anche nei consigli regionali, sta cercando una meccanismo per sterilizzare
l’effetto della leggi elettorali regionali maggioritarie, ma non è facile. Renzi sa che l’alleato
Berlusconi lo seguirà comunque e la prova sta nel modo con il quale ha liquidato la sortita
presidenzialistica: «Aprire la questione adesso è inopportuno e intempestivo». Non che
l’argomento lo disturbi.
L’ultimo ostacolo è quello al solito velenoso dei dettagli. Ma il cuore, cioè la volontà di
Renzi di scolpire il suo segno e di Berlusconi di non perdere il treno — «sono le riforme
che abbiamo sempre voluto» — è già oltre l’ostacolo. L’ultima conferma è arrivata dalla
giunta per il regolamento che doveva occuparsi della destituzione di Mario Mauro dalla
prima commissione, ordinata da Renzi ed eseguita da Casini. Per Forza Italia uno
scandalo, fino all’altrieri. Ma il voto dei forzisti unito a quello di Sel e M5S avrebbe finito
per riportare in commissione il senatore contrario al testo del del governo. E allora fermi
tutti, meglio rinviare.
del 19/06/14, pag. 1/2
E Matteo dice: ognuno rinunci a qualcosa
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FRANCESCO BEI
ADDIO al Senato, «la svolta» finalmente è arrivata. «Ognuno di noi dovrà rinunciare a
qualcosa», ha chiarito Matteo Renzi a tutti gli interlocutori sondati anche attraverso il
ministro Boschi. E, alla fine, anche sul punto più complicato, ovvero sulla composizione
della nuova assemblea, la quadra è stata trovata.
TUTTI i tasselli stanno andando al loro posto e persino sull’Italicum il lavoro è ormai
avanzatissimo, tanto da far ipotizzare a Renzi di vederlo approvato a palazzo Madama
entro la pausa estiva.
Ma intanto la riforma costituzionale. «L’accordo è vicino», conferma Giovanni Toti a denti
stretti. Il nuovo Senato della Repubblica, disegnato dagli emendamenti messi a punto dai
relatori Finocchiaro e Calderoli, recupera molte funzioni, pur perdendo quella
fondamentale di poter dare o togliere la fiducia al governo. Insomma, non è più un
«dopolavoro per sindaci», per dirla con Berlusconi. Ha competenza sulla legislazione
regionale e su quella europea, co-elegge il presidente della Repubblica, il Csm e i giudici
costituzionali, ma soprattutto recupera voce sulle leggi elettorali e su quelle costituzionali.
Crescendo le funzioni, cambia anche la composizione. Renzi ha dovuto rinunciare al suo
Senato dei sindaci. I primi cittadini saranno invece pochi, circondati da una stragrande
maggioranza di consiglieri regionali- senatori. Il premier ha trattato partendo da 1/3 di
sindaci e 2/3 di consiglieri regionali, ma alla fine Forza Italia è riuscita a strappare la quota
simbolica di un sindaco per ogni regione (non sarà automaticamente il primo cittadino del
capoluogo di regione, a Roma andrà invece un sindaco eletto dai suoi colleghi). Il cocktail
finale è dunque più vicino a 1/4 di sindaci - una ventina - e 3/4 di rappresentanti regionali,
un mix che rassicura il centrodestra, preoccupato di un’eccessiva rappresentanza del Pd
nella Camera alta.
Comunque nella notte si tratta ancora. Sono tornati ad esempio i senatori di nomina
presidenziale scelti nella società civile, anche se non quanti ne avrebbe voluti il capo del
governo. «Siamo all’ultimo, delicatissimo, miglio», si lascia sfuggire a tarda sera Debora
Serracchiani. Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli, e dopo averci lavorato così a lungo
anche a palazzo Chigi qualche timore resta. «Sono abbastanza ottimista —
ha detto Renzi ai suoi — ma con quelli là è sempre un’incognita ». Certo, la conferenza
stampa di Berlusconi ha confermato il premier nella sensazione di avercela fatta davvero.
Che il leader di Forza Italia abbia presentato le sue proposte sul presidenzialismo non è
stato considerato un ostacolo. A colpire di più è stata l’affermazione, ripetuta da
Berlusconi, che l’accettazione del presidenzialismo non era «assolutamente» una conditio
sine qua non per chiudere l’accordo sul Senato e sul Titolo V. Quanto al merito della
proposta forzista, Renzi per il momento non ritiene di poterla accogliere: «Ora bisogna
completare il percorso su cui c’è accordo. Per cui aprire la questione del presidenzialismo
è inopportuno e intempestivo. Siamo a un passo dalla chiusura, inutile infilarci in un
dibattito sul presidenzialismo ». Più avanti si vedrà, non ci sono pregiudiziali.
Se l’intesa c’è perché dunque non annunciarla subito? In realtà l’incontro di oggi tra Paolo
Romani e Maria Elena Boschi — oltre ai ripetuti contatti di Denis Verdini con palazzo Chigi
— servirà a stabilire con precisione come dovranno essere scelti i futuri senatori. Il
problema su cui si stanno scervellando gli sherpa in sostanza è questo: visto che ogni
regione ha una legge elettorale con un premio di maggioranza che schiaccia le minoranze,
come garantire che le opposizioni siano rappresentate adeguatamente nel futuro Senato?
La soluzione, suggerita da Roberto Calderoli, sta nel «voto limitato». Ovvero i consiglieri
regionali avranno una scheda con un numero di opzioni inferiore al numero dei senatori da
mandare a Roma. In questo modo, giocoforza, anche le opposizioni potranno avere i loro
rappresentanti ponderati sul voto reale preso in regione.
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Al di là dei tecnicismi, quello che conta è che Renzi è convinto di aver strappato l’intesa
solo dopo aver mostrato i muscoli. Non solo il sorprendente risultato elettorale, ma anche
«la determinazione che abbiamo avuto con i casi Mauro e Mineo» hanno fatto la
differenza. Da ultimo, per blindare l’accordo, Renzi ha voluto chiamare a sé tutto il Pd. È
successo la sera di martedì, quando a palazzo Chigi il premier ha siglato quello che,
scherzando, definisce «un patto di sangue dentro il partito». Assicurate le retrovie, è
potuto andare avanti. tenendo per sé la regia della trattativa finale.
«Con Calderoli abbiamo fatto un gran lavoro — racconta la presidente Anna Finocchiaro
— e siamo pronti a presentare i nostri emendamenti. Abbiamo registrato l’apprezzamento
di tutti. Ora aspettiamo che Renzi sciolga gli ultimi nodi politici e poi li depositiamo in
commissione ». L’intenzione del premier è arrivare all’approvazione del pacchetto più
presto che mai. «A questo punto prendere
o lasciare, o mangiano questa minestra o si buttano dalla finestra... ». Per palazzo Chigi il
nuovo traguardo è arrivare al voto finale in commissione entro il 2 luglio, ovvero prima che
Renzi si presenti a Bruxelles avviare il semestre italiano di presidenza. «Andare lì con la
riforma approvata — ha spiegato il premier durante il vertice con i dem — per me cambia
molto. Quando vado in Europa a dire che abbiamo cancellato le province e che
supereremo il bicameralismo, rimangono tutti a bocca aperta. Questa partita in casa ci
consentirà di vincere anche la partita in Europa».
Del pacchetto fa parte anche l’Italicum, che il capo del governo vorrebbe vedere approvato
dal Senato «entro la pausa estiva ». L’intesa anche su questo sarebbe molto avanti, con
alcune significative correzioni: soglie di sbarramento portate al 4% sia per chi si coalizza
che per chi resta fuori; soglia alzata al 40% per aggiudicarsi il premio di maggioranza. Ma
la vera novità sarebbe il superamento delle liste bloccate con l’introduzione delle
preferenze o dei collegi. Su questo però si tratta ancora.
del 19/06/14, pag. 1/11
Senza soldi pubblici partiti in profondo rosso
ETTORE LIVINI
MILANO
È ALLARME rosso per la politica in Italia. E i comunisti, per una volta, non c’entrano. Il
rosso, profondissimo, è quello in cui sono precipitati i bilanci dei partiti dopo la sforbiciata
al Bancomat del finanziamento pubblico.
I NUMERI parlano da soli: Pd, Forza Italia, Pdl e Lega — il Movimento 5 Stelle, che ha
rinunciato ai contributi, non presenta rendiconto economico — hanno chiuso il 2013 in
passivo di 55 milioni. E tutto lascia prevedere che la voragine sia destinata ad allargarsi: i
290 milioni di aiuti di stato incassati nel 2010 sono un ricordo del passato. Oggi sono scesi
a 91 milioni e nel 2017 spariranno del tutto. La raccolta di fondi privati, destinata a tappare
il buco, non ingrana (quella della Lega è scesa addirittura da 6,8 a 3,8 milioni). E a tradire
sono pure i parlamentari: il 30-40% degli onorevoli di Forza Italia — per la rabbia dell’exCav. — si sarebbe “scordato” nel 2013 di versare la quota di finanziamento al movimento.
Risultato: in attesa del decollo del 2 per mille, l’unico modo per tamponare l’emergenza è
tagliare i costi.
Tutto l’arco costituzionale si è messo così a dieta: il Pd ha ridotto del 40% le spese per le
forniture. Via Bellerio ha abbassato del 66% i costi delle auto di proprietà. E il Popolo della
libertà, destinato a estinzione causa divorzio tra Silvio e Angelino, ha addirittura licenziato
a 41 dipendenti. Ma la medicina, per ora, dà scarsi risultati.
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IL PD IN SPENDING REVIEW
Il Pd di Renzi ha affidato al tesoriere Francesco Bonifazi, un fedelissimo del premier, il
compito di sistemare i conti del partito. Il percorso è però in salita: il 2013 si è chiuso in
rosso di 10,4 milioni.
Colpa, dicono i consulenti di Dla Piper, del costo eccessivo dei servizi (1,14 milioni di
consulenze, 762 mila di manutenzioni), degli affitti d’oro di via Tomacelli e via del Tritone e
delle spese-monstre per segreteria (oltre un milione) e per le elezioni politiche (6,9 milioni).
Nel 2014 i contributi al Pd scenderanno da 24 a 12 milioni ma l’obiettivo — assicura
Bonifazi — è quello di arrivare al pareggio. Come? Tagliando le forniture del 40%
(«obiettivo già raggiunto »), riducendo le diarie per le trasferte e spendendo meno per le
elezioni. Le europee di maggio sono costate 3,3 milioni contro i 13,5 pagati nel 2009. I
contratti per Tomacelli e Tritone sono già stati disdetti «e si sta trattando per la risoluzione
anticipata».
Sperando — garantisce il neo-tesoriere — «di non toccare i livelli occupazionali».
LE SPINE DEL CARROCCIO
Altro che «Basta euro». Gli euro, alla Lega, servirebbero eccome. Il piatto, in via Bellerio,
piange: i finanziamenti pubblici nel 2013 sono scesi da 8,8 a 6,5 milioni. Le quote
associative sono a — 30%. Tre milioni se ne sono andati per le cause legali del dopoBelsito, malgrado siano già stati spesati 881mila euro di perdite per «assegni emessi a
favore di persone sconosciute» e 417mila euro «per prelievi non giustificati».
Souvenir dei tempi gloriosi in cui i quattrini del Carroccio finanziavano le lauree del Trota e
hit come “ Kooly Noody”, indimenticabile canzone del fidanzato della pasionaria Rosy
Mauro. Oggi queste cose non succedono più e gli organici del partito sono stati ridotti da
80 a 73 dipendenti. Il 2013 però si è chiuso in rosso per 14,4 milioni e il patrimonio è
crollato a 16 milioni. «Abbiamo due anni di vita» ha vaticinato un po’ funereo Stefano
Stefani, segretario amministrativo del movimento. «Chiederemo soldi ai privati», ha
aggiunto Matteo Salvini. Il collegio sindacale è meno ottimista: «Per garantire la
sostenibilità del movimento — scrive nella sua relazione — serve senza indugio una
riorganizzazione per il risanamento dei costi di gestione”.
UNA COOP DI NOME BERLUSCONI
Dalle stelle alle stalle. Per anni Forza Italia ha campato grazie al portafoglio di Silvio
Berlusconi che per il partito ha impegnato la bellezza di 102 milioni. Ora la pacchia è finita:
«La nostra unica Coop era Silvio Berlusconi e la sinistra ha fatto una legge per impedirgli
di finanziare Fi», recita lo slogan sulla home page del sito. I risultati si vedono: il 2013 è in
rosso di 15 milioni, i debiti sono 88 milioni. «Siamo con l’acqua alla gola, servono soldi» ha
detto l’ex — premier, scottato dai 15 milioni che ha appena speso per saldare i debiti di
Forza Italia con il Pdl e dagli 87 milioni di fideiussioni con cui ha garantito la sua
esposizione. E a San Lorenzo in Lucina è scattata la caccia ai Giuda, i parlamentari che
non versano la quota associativa al partito. Nel 2011 questo fuoco amico aveva sottratto 4
milioni alle casse Pdl, l’anno dopo sei e ora le cose andrebbero ancora peggio.
LA BAD COMPANY PDL
Il Popolo della libertà è oggi la “bad company” del centro-destra. Politicamente è una
scatola vuota che però ha perso 14 milioni nel 2013 e vanta 18 milioni di debiti. Dei suoi
113 ex dipendenti, 54 sono stati assorbiti da Forza Italia. Poi si è proceduto a chiudere il
sito internet, a rottamare i contratti a tempo determinato, a disdire la sede di via
dell’Umiltà. Le sforbiciate hanno garantito 5,8 milioni di risparmi. Una goccia nell’oceano
delle perdite. E così sono partite le lettere di licenziamento.
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del 19/06/14, pag. 4
La linea del Colle: camere silenziate sulle
spese militari
Andrea Fabozzi
ROMA
«Il ministro della difesa invierà le linee guida ai presidenti delle commissioni esteri e difesa
dei due rami del parlamento, affinché ne possano eventualmente venire valutazioni e
suggerimenti utili alla definizione del Libro Bianco, di cui il governo si è assunto l’iniziativa
e la responsabilità». Il veleno va cercato in coda al comunicato ufficiale del Quirinale,
diffuso ieri al termine della riunione del Consiglio supremo della difesa.
Il Libro Bianco è quel documento con il quale la difesa ha in programma, entro la fine
dell’anno, di fare il punto sugli impegni e sulle risorse — «ci dirà quello che effettivamente
ci serve», ha detto la ministra Pinotti. In questo modo le autorità politiche e militari
immaginano di aggirare le conclusioni dell’indagine sui sistemi d’arma che la commissione
difesa della camera ha approvato recentemente e che prefigurano una riduzione fino al
dimezzamento del programma di acquisto degli F-35.
In quell’atto parlamentare (proposto dal gruppo Pd), oltre a rivendicare l’ultima parola delle
camere sui programmi di investimento in sistemi d’arma, si individuano una serie di
risparmi possibili. E si mettono le mani avanti rispetto alle intenzioni degli stati maggiori:
«È intenzione della commissione (difesa, [/ACM_2]ndr) interagire attivamente anche alla
redazione della proposta definitiva di Libro Bianco, che dovrà essere votata dal
parlamento». Niente affatto, risponde il Consiglio supremo con la regia di Napolitano. Alle
commissioni parlamentari tutt’al più, ed «eventualmente», spetteranno «valutazioni e
suggerimenti». La possibilità di un voto parlamentare, che pure la legge 244 del 2012
prevede esplicitamente, al Quirinale non è presa neanche in considerazione. Il Libro
Bianco è affare del governo e il confronto più che con deputati e senatori andrà cercato
con «accademici, esponenti dell’industria ed esperti di economia e finanza». E va ricordato
che le conclusioni dell’indagine parlamentare indicavano, invece, l’urgenza di istituire
anche in Italia un’autorità indipendente di controllo sulla spesa militare per i sistemi
d’arma.
Anche in un altro passaggio del comunicato diffuso dalla presidenza della Repubblica si
può leggere tra le righe la polemica con la commissione difesa di Montecitorio, che ha
proposto un taglio agli F-35 ma anche ad altri programmi assai costosi come il cosiddetto
«soldato del futuro», Forza Nec. «Per una riforma delle Forze Armate resta centrale il
problema delle risorse che, pure nella ricerca di ogni possibile efficienza ed economicità,
non dovranno comunque scendere al di sotto di livelli minimi invalicabili», sostiene il
Consiglio supremo. Il punto è: dove fissare questi limiti? Per il Quirinale la risposta spetta
alla «responsabilità e iniziativa» del governo, e degli stati maggiori. Non del parlamento.
del 19/06/14, pag. 6
Csm, pesano le parole di Napolitano Verso
l’«assoluzione» di Bruti Liberati
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Caso Robledo – Bruti Liberati. Polemica per la lettera di Napolitano che
Vietti non ha voluto leggere al plenum
Virginia Piccolilli
ROMA — «Non ostensibile». Il vicepresidente del Consiglio della Magistratura, Michele
Vietti, non ha voluto leggere davanti al Plenum del Csm la lettera «riservata» inviatagli dal
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a «tutela della credibilità» dell’ufficio
giudiziario di Milano, guidato da Edmondo Bruti Liberati, «indebolito dall’eccesso di
polemiche» sull’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo. Un richiamo severo,
affinché «si tenga conto del ruolo e delle responsabilità che la legge sull’ordinamento
giudiziario attribuisce al capo dell’ufficio».
Il monito ha pesato nella stesura finale delle relazioni, che oggi, salvo imprevisti,
arriveranno alla votazione finale, con esito pressoché scontato: l’archiviazione delle
accuse a Bruti Liberati di aver compiuto violazioni nell’assegnazione e nella gestione delle
inchieste Ruby, Sea, Expo. Sia pure con l’invio degli atti ai titolari dell’azione disciplinare
per valutare se nel comportamento del capo, ma anche dell’aggiunto Robledo, ci siano
illeciti.
Una raccomandazione che ha scatenato polemiche interne ed esterne al Consiglio. «Un
diktat» l’ha definito, il forzista Maurizio Gasparri avanzando il dubbio che «abbia stoppato
la procedura disciplinare per Bruti». Mentre al plenum del Csm si levavano critiche per la
scelta di Vietti di non rendere pubbliche le parole del capo dello Stato. «Una pagina oscura
del Csm» accusava il togato di Magistratura Indipendente (Mi), Angelantonio Racanelli,
autore di una relazione di minoranza che chiedeva di riaprire l’istruttoria «lacunosa». «Né
letta, né consegnata ai consiglieri? Una scelta surreale» attaccava il laico di centrodestra
Nicola Zanon. «Capisco la prudenza raccomandata dal Papa, ma significa amputare il
dibattito con una pressione implicita», aggiungeva il togato indipendente Nello Nappi.
Firmatari, gli ultimi due, della proposta di archiviare le accuse a Bruti e di trasferire
Robledo, che dopo l’esposto sarebbe diventato incompatibile con quell’ufficio.
Proposte oscurate nel dibattito proprio dall’arrivo del richiamo del presidente della
Repubblica, scritto nel solco di un suo intervento del 2009. Un vero e proprio altolà per
«evitare che il Consiglio assuma ruoli impropri dilatando, in via paranormativa, i propri
spazi di intervento».
Un richiamo che rimarca come «la riforma dell’ordinamento del 2006 (tradotta nel decreto
legislativo del 20 febbraio e sul punto non sottoposta a censure di illegittimità) abbia
abrogato l’articolo 7 ter introdotto nell’ordinamento nell’89. E in tal modo ha differenziato lo
status della indipendenza «interna del sostituto rispetto a quello del giudice». «I poteri di
organizzazione dell’ufficio sono divenuti prerogativa del capo della procura — prosegue
l’intervento del presidente —. Quindi al Csm non è più dato approvare progetti
organizzativi del tipo di quelli che operano per gli uffici giudicanti, prevedendo financo
sanzioni incidenti professionalmente e disciplinarmente sui capi degli uffici».
«La procura non è una caserma — protesta Racanelli nell’assemblea del Plenum —. Lo
stesso Bruti Liberati difese il principio di specializzazione dei sostituti. Invece ora pensa di
essere il padre-padrone della procura». E la discussione si fa animata. «Non si tratta di
volere un procuratore legibus solutus , ma al contrario ispirato al senso di responsabilità»,
spiega la presidente della VII commissione Giuseppina Casella, chiarendo perché la sua
relazione non ha più previsto la segnalazione disciplinare: «Nessuna retromarcia — tiene
a precisare —. Lo ha già fatto la prima commissione evitando sovrapposizioni. E poi
episodi come la “deplorevole dimenticanza”, ammessa da Bruti sul fascicolo Sea rimasto
nel cassetto, non riguardano l’organizzazione dell’ufficio». Ancora più esplicito il
presidente della prima commissione Mariano Sciacca: «Questa era una pratica
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delicatissima. Abbiamo cercato di evitare bombe ad orologeria contro una procura che
svolge un ruolo cruciale».
Virginia Piccolillo
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 19/06/14, pag. 2
IOVINE PARLA: “ECCO I GIUDICI AL
SERVIZIO DI GOMORRA”
IL PENTITO HA RACCONTATO AI PM LA “STRUTTURA NEL
TRIBUNALE DI NAPOLI”
PER AGGIUSTARE LE SENTENZE: “HO PAGATO DUE VOLTE PER
AVERE ASSOLUZIONI”
di Vincenzo Iurillo
Napoli
Giudici a libro paga del clan. Una “struttura” per aggiustare i processi. Un avvocato scelto
perché amico del magistrato che emetteva la sentenza. Di assoluzione. Antonio Iovine
alza il tiro. Materiale esplosivo emerge da tre nuovi verbali del boss pentito del clan dei
Casalesi. Iovine si autoaccusa di alcuni omicidi per i quali è stato condannato in primo
grado a 30 anni e all’ergastolo e poi assolto in appello, e dice: “In tre processi il clan ha
pagato per ottenere l’assoluzione. Dai 200 milioni delle vecchie lire a 250.000 euro”.
Accuse tutte da verificare, da non prendere come vangelo. Indaga la Procura di Roma,
competente per i magistrati di Napoli, che ha già ricevuto le carte provenienti dalla Dda
partenopea e sentirà Iovine. L’ipotesi di reato è corruzione in atti giudiziari.
IN TRE DEPOSIZIONI del 13, 26 e 28 maggio raccolti dai pm Antonello Ardituro e Cesare
Sirignano e pieni di omissis, Iovine fa il nome del giudice Pietro Lignola, ex presidente
della Corte d’Assise d’Appello di Napoli oggi in pensione, e dell’avvocato Sergio Cola, ex
parlamentare di An. Tutto ruota intorno alla figura di Michele Santonastaso, l’avvocato
storico del clan dei Casalesi, imputato insieme a Iovine e a Michele Zagaria al processo
per le minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista- senatrice Pd Rosaria
Capacchione, al quale sono stati allegati i nuovi atti. I tre verbali sono un crescendo
rossiniano. Il 13 maggio Iovine dice: “Per il duplice omicidio Griffo-Stroffolino in cui era
imputato anche Zagaria l’avvocato Santonastaso mi aveva fatto sapere che c’era la
possibilità di ottenere una sentenza di assoluzione e per questo occorrevano 250.000 euro
per corrompere i giudici. Non si trattava di un episodio isolato perché in altre due occasioni
Santonastaso mi aveva chiesto soldi per corrompere giudici in cambio di una sentenza di
assoluzione per due miei processi sempre in corte d’appello di Napoli e mi riferisco
all’omicidio di Griffo Nicola e al duplice omicidio Scamperti per i quali mi chiese e ottenne
200 milioni (per il primo, ndr) e 200 mila euro”. Zagaria, sicuro che non sia stato
l’intervento di Santonastaso a farlo assolvere, “mi fece sapere che non voleva pagare
nemmeno una lira e da lì iniziò una sorta di freddezza tra noi due”.
Il 26 maggio Iovine inizia a fare i nomi: “Nell’occasione del primo processo Griffo (vittima di
lupara bianca, ndr), Santonastaso mi suggeriva nel grado d’appello la nomina
dell’avvocato Sergio Cola poiché aveva un rapporto con il presidente della Corte d’Assise
d’Appello, Lignola. Comunque devo dire che Santonastaso era sempre poco chiaro
affrontando gli argomenti sensibili con un modo particolare. La nomina di Cola era
collegata al suo rapporto con il Presidente. Me lo suggerì e io lo nominai senza
conoscerlo. Fatto sta che sono stato assolto e ho versato direttamente a Cola 100 milioni
di lire oltre i 200 versati al Santonastaso. Il Santonastaso conosceva delle persone a
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Napoli che avrebbero influito sull’assegnazione della causa in grado di appello. I
pagamenti sono sempre avvenuti dopo l’esito positivo del giudizio. In occasione della
prima condanna Griffo, il legale mi disse che c’era bisogno di far assegnare il processo
alla sezione del presidente Lignola, cosa che poi è avvenuta”.
“NEL CASO dell’omicidio Scamperti – prosegue il pentito – (Santonastaso, ndr) mi fece
capire che in primo grado a Santa Maria (Capua Vetere, ndr) non era possibile intervenire.
Anche Francesco Bidognetti (altro superboss, ndr) ha avuto un risultato processuale
favorevole. Per l’omicidio Scamberti nominai Martucci (l’avvocato Alfonso Martucci, morto
nel 2008, eletto deputato nel 1992 nel Pli, ndr) indipendentemente dall’intervento di
Santonastaso”. Il 28 maggio Iovine conferma e aggiunge: “Mi si chiede di chiarire se
l’avvocato (Santonastaso) si dichiarava ottimista da un punto di vista tecnico processuale
ovvero se faceva riferimenti ad interventi che nulla avevano a che fare con le carte del
processo. Le rispondo che il discorso era molto chiaro ed era collegato al fatto che mi
consigliò la nomina di Cola facendo chiaramente riferimento alla sua amicizia con Lignola”.
“I 100 milioni di lire che furono dati a Cola – precisa - furono richiesti direttamente
dall’avvocato a mia moglie e avevano la natura di onorario, che sebbene io giudicassi
esagerato, essendo stato assolto pagai senza problemi”. Storia analoga per il duplice
omicidio di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuto a San Tammaro nel 1985: “Quando
venni a sapere che il processo era stato assegnato a Lignola, mi tranquillizzai
molto…Fatto sta che in prossimità della conclusione del processo, Santonastaso mi fece
sapere che era tutto a posto e mi chiedeva la disponibilità a dargli 200.000 euro. Io diedi il
via libera ed effettivamente fui assolto”. Il pagamento avviene in due rate da 100.000 euro
a distanza di una settimana. Iovine infine ritorna sul caso Griffo-Stroffolino e l’assoluzione
di Zagaria. Modalità identiche, ma ora servono “250.000 euro”. Santonastaso avrebbe
organizzato un incontro “presso un bar di Caserta con una persona che a suo dire era
colui che si era interessato delle mie due precedenti assoluzioni e che avrebbe interceduto
per Zagaria. Questo incontro ci fu e questa persona consegnò a mia moglie un bigliettino
con un numero di telefono e l’indicazione della somma. Questa persona voleva che si
chiamasse a questo numero per una conferma nel caso in cui Zagaria avesse dato l’ok
definitivo”. La conferma arrivò. E pure l’assoluzione.
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SOCIETA’
del 19/06/14, pag. 4
Avere più di 50 anni e scoprirsi proletari
Roberto Ciccarelli
Censis. Dopo sei anni di crisi i disoccupati maturi sono aumentati del
146%. Nel 2008 erano 261 mila, oggi 438 mila. Sono un milione quelli
spinti a cercare un impiego per mancanza di reddito
Esuberi, prepensionati, esodati, staffettati, cassintegrati, disoccupati. Sono i lavoratori
ultracinquantenni che hanno perso una posizione da lavoratore dipendente e si trovano
nella zona grigia dove il precariato si confonde con la disoccupazione.
Per il Censis, oggi sono 438 mila i lavoratori dipendenti che vivono sospesi. Nel 2008
erano 261 mila. In sei anni solo i disoccupati in questa fascia di età sono aumentati in
termini assoluti di 261 mila persone e in termini percentuali del 146%. L’ultimo anno è
stato un ecatombe. L’area dei senza lavoro si è estesa a macchia d’olio coinvolgendo 64
mila persone: +17,2% tra il 2012 e il 2013. La recessione ha spazzato via le ultime,
residuali, tutele di questo lavoro dipendente e ha allungato a dismisura la durata della
disoccupazione. Dal 2008 al 2014 gli over 50 disoccupati di lunga data sono infatti quasi
triplicati, passando da 93 mila a 269 persone (+189%).
Nello stesso periodo c’è stato un aumento del 7,6% dei lavoratori autonomi e tende a
raddoppiarsi la componente degli occupati a tempo parziale, che nel 2013 diventano circa
un milione, con un incremento nei sei anni pari al 47,5%.
Al lungo elenco del disagio occupazionale si è aggiunto un elemento ancora più
inquietante. L’insicurezza economica, e la solitudine sociale, insieme all’erosione dei
redditi indotta da un lavoro sempre più intermittente o variamente precario, ha stritolato i
consumi, bruciato i risparmi e ha indotto un’altra categoria di over 50 a cercare lavoro.
Sono quelli che l’Istat ha definito gli «inattivi» che tuttavia si dichiarano disponibili a
lavorare. Considerando tutti questi casi, oggi in Italia la pressione esercitata sul mercato
del lavoro da parte degli ultracinquantenni supera un milione di persone. Questa cifra
dev’essere comparata al numero complessivo degli over 50 in Italia: 24,5 milioni. Tra loro
gli occupati sono poco più di un quarto, all’incirca 6,7 milioni: poco più di 4 milioni gli
uomini, 2,6 le donne. Poi c’è il milione indicato dal Censis, quella popolazione che sta
sperimentando tutte le gradazioni del grigio (e del nero) sul mercato del lavoro.
Una simile condizione è stata constatata a livello europeo dalla Commissione Europea in
un rapporto presentato dal commissario al lavoro Lázló Andor nel marzo scorso.La
disoccupazione in Europa da eccezione si sta trasformando in regola e coinvolge tanto gli
over 50 quanto i più giovani tra i 15 e i 34 anni. Per chi ha perso il lavoro in Italia nel primo
ciclo della crisi, le possibilità di trovarne un altro sono tra il 14% e il 15%, la quota più
bassa di tutti i 28 Stati membri.
Ovunque la disoccupazione di lunga durata viene accompagnata alla generalizzazione
della precarietà e del lavoro nero, con il rischio più che reale di perdere le competenze e le
esperienze accumulate in una vita di lavoro più o meno lunga. In Italia sono sempre meno
gli over 50 che partecipano ad attività formative, solo il 5% del campione analizzato dal
Censis. Questo accade anche per l’assenza di politiche in questo senso, o per il fallimento
della riqualificazione professionale.
Richiamando i dati resi noti dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), anche il
Censis rileva che la lievissima crescita occupazionale registrata negli ultimi sei anni ha
beneficiato i lavoratori più anziani, in particolare coloro che hanno tra i 55 e i 64 anni. Per il
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Censis questa sarebbe la prova di un conflitto latente tra giovani e anziani. Entrambi poco
– o affatto – tutelati si contenderebbero gli stessi posti di lavoro. I fattori che hanno portato
a questa situazione sono tuttavia molteplici e non riducibili ad uno scontro generazionale.
Quest’ultimo può essere stato l’effetto dell’aumento dell’età pensionabile imposto dalla
riforma Fornero (voluta da Pd e Pdl nell’era Monti), o del blocco del turn-over nella
pubblica amministrazione, ma non spiega la precarietà che colpisce in egual misura
giovani e anziani, autonomi o dipendenti. In questa condizione il rapporto di lavoro
dipendente, tutelato e regolamentato riguarda sempre meno persone, come ha
confermato a fine 2013 il rapporto sulla coesione sociale dell’Inps, Istat e ministero del
Lavoro. I lavoratori dipendenti sotto i 30 anni sono diminuiti dal 18,9% al 15,9%. Nell’ultimo
quadriennio dell’anno scorso, i «giovani» a tempo indeterminato sono passati dal 16,8% al
14%. Nel primo semestre 2013 il 67% dei rapporti di lavoro era a tempo determinato.
Gli over 50 che oggi formano un nuovo proletariato beneficiano degli ultimi scampoli di
protezione sociale che i loro figli probabilmente non conosceranno. Tra il 2010 e il primo
semestre del 2013 tra i beneficiari delle politiche attive del lavoro e della cassa
integrazione, escludendo dal totale gli apprendisti, sono aumentati tra gli over 50, passati
dal 12,4% al 15,5%: circa 100 mila persone.
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INFORMAZIONE
del 19/06/14, pag. 4
Il blog: “Evviva, chiude l’Unità”
RIVOLTA BIPARTISAN IN RETE CONTRO L’ATTACCO DELL’EX
COMICO AI GIORNALISTI
di Giulia Merlo
Il nuovo vento della Rete e della fine, lenta ma implacabile, dell’editoria assistita sta
producendo i suoi effetti: la scomparsa dei giornali. Un’ottima notizia per un paese
semilibero per la libertà di informazione come l’Italia”. Inizia così il post pubblicato sul blog
di Beppe Grillo, in cui il leader del Movimento 5 Stelle attacca frontalmente il quotidiano
l’Unità, la cui difficile situazione finanziaria è da giorni al centro delle cronache. Secondo
Grillo, che titola il messaggio con un ironico # unitastaiserena , la messa in stato di
liquidazione del giornale fondato da Antonio Gramsci è una buona notizia, perché “meno
giornali significa infatti più informazione”. Nel post, il comico snocciola i dati dei
finanziamenti pubblici all’editoria percepiti dal giornale e considera un “bacio della morte”
le dichiarazioni di Matteo Renzi sulla necessità di “tutelare il brand”. Immediata le replica
del Partito democratico, che definisce Grillo “uno sciacallo” che specula sui giornalisti, da
due mesi senza stipendio e che rischiano di perdere il posto di lavoro. Anche l’Unità
risponde al comico, prima con un lapidario “vergogna” via twitter, poi con una nota del Cdr.
“A un piccolo uomo senza memoria ricordiamo che la chiusura dell'Unità fu un obiettivo del
fascismo”, scrivono, aggiungendo che “gli insulti rafforzano la nostra determinazione a
batterci perché non si spenga una voce importante, libera e di sinistra nell’in - formazione
italiana”. La solidarietà al giornale arriva anche dal centrodestra, attraverso una nota della
responsabile comunicazione di Forza Italia Deborah Bergamini, secondo cui l’esultanza di
Grillo è “una pessima uscita” e “ironizzare sul destino dei giornalisti che potrebbero
perdere il proprio posto di lavoro è quanto di più lontano esista dal buon senso”.
LA SITUAZIONE ECONOMICA del giornale si è aggravata nelle ultime settimane, a causa
della messa in liquidazione della Nie, la società editrice. Nonostante le rassicurazioni del
socio di maggioranza Matteo Fago sul fatto che il quotidiano continuerà a essere
pubblicato e anzi è previsto un rilancio della testata, il consiglio di redazione ha denunciato
la mancanza di certezze sul futuro. Da giorni, poi, i giornalisti hanno ritirato la loro firma dal
giornale in segno di protesta. Il Cdr ha anche annunciato che l’Unità sarà presente alle
Feste dell’Unità, rilanciate nell’ultima assemblea nazionale dal segretario Pd Matteo Renzi,
e che da lì racconterà “la battaglia di una redazione che sta difendendo il patrimonio di
valore e di professionalità del giornale”. Il dibattito acceso dall’attacco di Grillo si è
scatenato soprattutto sui social network, e anche l’opinione pubblica si è divisa tra
applausi e sdegno. Il fronte pro-grillino ha twittato usando l’hashtag lanciato dal blog, #
unitastaiserenza , a cui hanno risposto i supporter del quotidiano con # iostoconlunita . Il
risultato finale, almeno per quanto riguarda il web, è tutto a favore del quotidiano vicino al
Partito democratico. L’hashtag di solidarietà è stato utilizzato più di 8mila volte, contro le
1900 di quello grillino.
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CULTURA E SCUOLA
del 19/06/14, pag. 28
La disfida di YouTube sulla musica oscura i
video di Adele e Radiohead
Non è semplicissimo sedersi al tavolo con un interlocutore che avrà anche come motto
aziendale non ufficiale «non essere malvagio» ma ha un fatturato 2013 di 42,62 miliardi di
euro contro i 36,96 del 2012. Perché Google non sarà anche «evil», come ammoniscono i
suoi fondatori, ma certo ha una spaventosa forza se finisce a fare braccio di ferro. Ultimo
esempio, rivelato ieri dal Financial Times in prima pagina: YouTube e le trattative sulle
royalties per i video mandati in streaming dal sito. Il nocciolo della questione: You- Tube
Music Pass — che sarà concorrente per esempio di Spotify — è un servizio che verrà
lanciato entro la fine dell’estate, nel quale non ci sarà soltanto il classico streaming di
YouTube ma anche la facoltà di scaricare video da guardare anche quando non si è
connessi. Ora Google, proprietario di YouTube, sta trattando con le case discografiche e si
trova davanti a un gruppo di cosiddetti «refusenik». Etichette più o meno indipendenti che
non gradiscono le condizioni offerte e rischiano di finire tagliate fuori dagli accordi per le
licenze. Robert Kyncl, capo delle operazioni di YouTube per i contenuti, ha detto al
quotidiano britannico che le tre major Universal, Sony e Warner hanno già firmato. Ma
circa il 10 per cento dell’industria discografica al momento è fuori dagli accordi. E finirebbe
scollegata. Tra questo dieci Sigur Ros, Jack White, Vampire Weekend e Arctic Monkeys.
Billy Bragg, il pasdaran del folk, uno che nelle canzoni di protesta si trova perfettamente a
suo agio, qualche settimana fa durante le prime avvisaglie di questo scontro commerciale
ha ammonito YouTube che «rischia di lanciare un servizio privo del valore innovativo e di
creatività che viene sempre portato dagli artisti indipendenti». Ma dall’altra parte è
evidente che artisti già per definizione di nicchia (il successo- monstre dei Radiohead ai
tempi di «OK Computer» negli anni 90 è ormai solo un nostalgico ricordo) corrono il rischio
concreto di perdere un treno molto utile, e di finire per abitare una nicchia sempre più
angusta. Ovviamente non è soltanto un problema per chi tratta con Google. Un altro
gigante, Amazon, è al momento impelagato in una querelle con l’editore Hachette del
gruppo francese Lagardère. I media americani inglesi hanno accusato l’azienda di Jeff
Bezos di ostacolare, interrompere o quantomeno rendere più difficoltose, come minimo di
disincentivare fortemente vendite e prevendite di alcuni libri Hachette. Come mai?
Hachette non è d’accordo con la strategia di sconti a oltranza (in questo caso per quanto
riguarda gli ebook) sulla quale Amazon ha basato buona parte della sua ascesa. Ecco
così che l’ultimo romanzo di J. K. Rowling (sotto pseudonimo: Robert Galbraith), il giallo «Il
baco da seta», e altri libri di autori di serie A come Michael Connelly, James Patterson,
Nicholas Sparks sono apparsi come non disponibili o in ritardo su Amazon. Il comico
Stephen Colbert che l’anno prossimo rimpiazzerà David Letterman è anche autore di bestseller umoristici: nel suo programma ha reso popolare l’adesivo «Non ho comprato questo
libro su Amazon » da applicare sui libri, diffonde in modo virale su Twitter l’hashtag
#CutDown- TheAmazon e ha trasformato in uno dei video più visti di questi giorni quello di
un doppio dito medio che sbuca dal famoso cartone dei pacchetti di Amazon. Ma quando
le gag finiscono, resta il problema di fondo che si ripresenta ogni volta che qualcuno deve
trattare sul prezzo con Google, Amazon o altri simili colossi: il successo ha dato loro un
potere se non monopolistico sicuramente schiacciante. E a chi non è d’accordo resta poco
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altro da fare che riderci sopra, o al limite togliersi la briga di fare un gestaccio: perché il
potere contrattuale di Google, o Amazon, è semplicemente troppo forte per ottenere di più.
Matteo Persivale
del 19/06/14, pag. 21
Doppio cd per i vent’anni del Mei
BAUSTELLE, PERTURBAZIONE, MARLENE KUNTZ. E ANCORA BLUVERTIGO, LE
LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA E DIAFRAMMA. Sono solo alcuni dei gruppi che
hanno fatto la storia del Mei, il Meeting delle etichette indipendenti che quest'anno celebra
20 anni di attività. Per festeggiare degnamente l'anniversario, oltre alla tre giorni in musica
dal 26 al 28 settembre a Faenza, ecco la compilation «Mei - Un viaggio nel miglior rock
indipendente italiano, 1994-2014» (Sony Music), un doppio cd con 38 brani che hanno
segnato la musica indipendente italiana.
Il doppio cd, curato da Renato Tanchis e Federico Guglielmi insieme a Paolo Maiorino e
Giordano Sangiorgi, raccoglie i brani di alcuni dei più grandi artisti che hanno partecipato
in questi anni alla manifestazione. «Nonostante la meticolosità del lavoro di scelta - ha
affermato però Guglielmi - ci sono assenze che mi fanno sanguinare il cuore,ma magari in
futuro si penserà ad un 'Volume 2', se non addirittura ad un cofanetto storico capace di
raccontare in modo totalmente esaustivo la sfaccettata e pirotecnica vicenda del nostro
rock indipendente».
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ECONOMIA E LAVORO
del 19/06/14, pag. 4
Ttip, sul negoziato Usa-Ue l’incognita del
consenso
Roberto Ciccarelli
ROMA
I negoziatori europei ed italiani impegnati nel negoziato in corso tra Unione Europea e
Stati Uniti d’America sul partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti
(TTIP–Transatlantic Trade and Investment Partnership) sono preoccupati. Il disagio è
emerso ieri a Roma nell’incontro nell’aula dei gruppi parlamentari alla Camera organizzato
dall’associazione Ego, che ha visto la partecipazione anche di Carlo Calenda, viceministro
dello Sviluppo Economico, Sandro Gozi, sottosegretario alle Politiche Comunitarie,
Kathleen A. Doherty, vice capo Missione Ambasciata Usa in Italia, Franco Frattini oggi
presidente del Sioi, un’associazione che opera sotto la vigilanza del Ministero degli Affari
Esteri da lui stesso già presieduto.
L’accordo commerciale che si propone di creare il più grande mercato del mondo, con
oltre 800 milioni di consumatori e la produzione di ricchezza pari a 120 miliardi di euro in
Ue e di 95 negli Usa sono giunti al quinto «round», presenta l’incognita del consenso. Con
un’opinione pubblica esasperata dall’austerità, sensibilizzata da posizioni critiche oppure
neo-sovraniste o populiste, un parlamento come quello francese — ad esempio –potrebbe
negare la ratifica del trattato dopo il 2015, quando secondo il calendario ufficiale
dovrebbero concludersi le trattative. In questo caso cadrebbe l’intero castello di carte .
L’altro rischio è rappresentato dalla disattenzione di Obama, impegnato nelle elezioni di
mid-term e ormai a fine mandato.
La preoccupazione degli europei impegnati nel negoziato a carte coperte («altrimenti non
sarebbe un negoziato commerciale» ha ribadito Calenda) è di «vendere meglio» un
accordo ispirato al credo liberoscambista, il principio costitutivo del governo Usa e della
Commissione Ue oggi piuttosto impopolare. Il Ttip segnerebbe a loro avviso il rilancio
dell’alleanza transatlantica e una seconda fase della globalizzazione incentrata
sull’«occidente» capitalista garante dell’equità contro le potenze economiche in ascesa
della Cina o della Russia. Un’equità, è stato precisato, garantita dalla libertà delle piccole e
medie imprese e da una potenza geopolitica ormai in declino.
Per Calenda l’opposizione al Ttip è ispirata da una «folle ideologia anti-americana». In
realtà, l’opposizione non è contro uno Stato, ma contro il potere che il Ttip darebbe alle
imprese private di smontare pezzi di legislazione nazionale nella sanità, nell’energia, nella
manifattura, sui beni comuni. Argomenti che torneranno nel semestre italiano a guida Ue.
Ad ottobre il governo Renzi organizzerà un incontro sul trattato.
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