LA BOUGANVILLE ARANCIO

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LA BOUGANVILLE ARANCIO
Anna Bertuccio
LA BOUGANVILLE ARANCIO
Anna Bertuccio, La Bouganville arancio
Copyright© 2015 Edizioni del Faro
Gruppo Editoriale Tangram Srl
Via Verdi, 9/A – 38122 Trento
www.edizionidelfaro.it – [email protected]
Prima edizione: dicembre 2010 – UNI Service
Seconda edizione: giugno 2015, Printed in Italy
ISBN 978-88-6537-256-2
In copertina: Senza titolo, Samantha Torrisi, olio su tela, 2010
Progetto grafico di copertina: Samantha Torrisi
Ismene
“femmine siamo, e non tali da lottar con gli uomini;
Assai più forti son quelli che imperano;
E obbedire dobbiam dunque ai loro ordini,
(dall’Antigone di Sofocle)
LA BOUGANVILLE ARANCIO
Capitolo I
È
denso questo suono. Rintocco colmo di battiti, di anni, di
ricordi, di volute e angoli, di volti, di quella che, trascorso
appena un soffio, è oggi la mia vita.
Profumo di cuoio, il divano ricco in questa stanza, dove la sonorità distante di una campana nella bruma penetra ovattata, si
scalda, affievolisce, appoggio le mani sui vetri. In fondo, dove la
luce di un lampione si dissolve nel buio di un vicolo, un uomo,
un ragazzo forse, passa rapido, curvo sulla sua bici, chissà dove
va, magari dalla sua innamorata, che ha appena finito il lavoro e
lo aspetta perché non vede l’ora di abbracciarlo, di dirgli quanto
lo ama.
Mi concedo il tempo di un caffè, il fruscìo del liquido caldo, il
quieto frugare del cucchiaino, tre sorsi aspri e bollenti, il pacco
dei temi mi aspetta. Devo riprendere. Alberto verrà alle otto.
Un’altra ora di lavoro e mi preparerò. Formichine nere sulle righe delle pagine s’inseguono. Quella carovana di simboli alla
ricerca di un senso non riesce a penetrare la mia attenzione. La
mente adesso preferisce riflettere sull’uomo-enigma che mi vive
vicino da anni, sul suo modo di guardarmi, sulle sue sparizioni improvvise, la sua dolcezza, la sua presenza ormai essenziale.
Guardo ancora fuori. Un’intuizione mi attraversa come una fol9
gore, l’unica risposta che so dare alle domande che la vita mi ha
posto è solo un “perché?”
Adesso, indolente, lascio che la mente si faccia intrappolare dal
fluttuante ectoplasma nel quale riconosco, tra la foschia serale,
l’imponente sagoma della Loggia. Intravedo silhouette di uomini a cercare, dentro quel perimetro, un riparo. Barboni, immigrati. Un brivido mi fa immaginare l’umido penetrante, quella
forzata assenza dell’idea di casa, di rifugio caldo.
Mi pare di sentire più mia questa casa piena di oggetti, di libri,
e di tanto altro, forse anche inutile.
“Omnia mea mecum fero”, “Porto tutte le mie cose con me” rispose il saggio Simonide di Kòs secoli fa. Senza troppo dolore ho
già perso la mia battaglia per la saggezza! Mentre quelle inconsapevoli sagome nel buio devono riuscire a vincerla, testimoni
come sono di necessaria rinuncia. Ascolto quelle voci. Ridono,
parlano. Ognuna avrebbe una sua storia da raccontare. Racconterebbe del luogo che ha lasciato, forse l’Oriente, l’Africa, degli
astri che non vede più, in cambio di altri; dei perché di un addio.
Testimonierebbe su come dietro l’angolo di una fuga, stia quasi
sempre una ricerca. Svelerebbe desideri e speranze, radici salvifiche di questa umanità dispersa per il mondo. Umanità centrifugata e respinta, pericolosa e immane, innocente e predatrice.
Corpo immenso che si snoda come un serpente da terra a terra,
da mare a mare, da sogni a sogni. Uomini-atomi. Schegge di silicio di questa immensa intelligenza da gestire e sfamare. Trilioni
di amori, congiungimenti. Morsi dati a un cibo qualunque. Battere di ciglia.
Migrazione inarrestabile. Energia potente.
Quanto appartengo a tutto questo?
Quando agli angoli delle strade mi sorprendono musiche, esotiche per lo più, e poi, rinserrati contro muri si materializzano i
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suonatori e i loro strumenti, mi ritrovo a pensare che il Fato ha
voluto che io fossi l’umano che passa e non quello che suona. Allora questo pensiero diventa un filo fra me e l’altro che mi vede,
a volte mi sorride, e continua a suonare, anche per me. Poi mi
allontano portandomi via un capo di quel filo che per un istante
o per sempre ci ha legati.
Anch’io sono stata per un tempo “venuta da altri luoghi”, prima che questa terra piatta mi adottasse. Sono stata di confine. Il
confine impalpabile, non segnato, che attraversa i modi, le parole, i gesti, fra i popoli del mondo, fra le usanze e le credenze che
sono i colori e i profumi del pianeta che ci ospita.
Anche tu, Pankaj, sei stato di confine.
Abbiamo vissuto “nelle terre di mezzo” ideali, fluide, immaginate. Di chi raccorda le proprie radici a luoghi nuovi che l’accolgono, mescolando, nel quotidiano e nei sogni, parole, linguaggi,
visi, ambienti. Nuove patrie, naturali. Dove sono barriere gli
sguardi di ostilità per lo straniero, le asperità di parlate diverse e
incomprensibili, il pregiudizio esibito con volgarità.
Anche per questo ci siamo “riconosciuti in un istante”.
Ci accomunava il dolore nascosto di una nostalgia irrimediabile. Nostalgia di luoghi lontani, ormai incuneati in un mito.
Nostalgia di affetti lasciati e, per me, forse anche traditi. Nostalgia di un futuro chissà quanto raggiungibile in questo labirinto
aspro chiamato “integrazione”.
Pankaj. Sono approdata ancora al tuo ricordo e mi lascio risucchiare nell’aura remota della tua voce, del tuo viso, del tuo
corpo. Li ho reinventati miliardi di volte, aggiungendo particolari, rievocando sensazioni, mentendo tanto a me stessa, nel
tentativo disperato di cancellare quella che nella tua e nella mia
esistenza è rimasta incancellabile: la traccia oscura della violenza
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assoluta. Ti ho cercato per le stradine di questa città, nella piazza immensa dove eravamo nati uno per l’altro. Ti ho trovato in
Ylenia, in certi suoi momenti, doni che l’altra vita, quella nata
da noi, ha deciso all’improvviso di farmi. In silenzio.
Ylenia che mi guarda da una istantanea scattata a Pasqua, in
Piazza Bra, davanti alla massiccia sagoma dell’Arena. Sembra
inconsapevole del mondo mentre gli occhi scuri sorridono immensi, nel suo pullover blu che ne scolpisce la bellezza, complice
il vento che le spinge indietro i capelli.
Con lei il dolore e la gioia dentro di me riescono a stemperarsi,
inventando toni mai visti, sentimenti che vivificano. Posso guardare i suoi occhi: la figlia dei nostri mondi. La vita che si fa beffe
dei nostri pregiudizi ottusi e prende le forme di nuovi corpi. Il
profumo dei fiori che si aprono dopo tempeste distruttrici.
«Piccola mia, già prima che tu abitassi il mio corpo e ne varcassi la soglia ti ricostruivo. Come un mosaico. Vedevo i tuoi
minuscoli arti, la pelle, gli occhi, sentivo il respiro vitale. Erano un consolidarsi di secoli di saggezza, di lotte, di iniquità, di
tutto il caos di energia del divenire umano. I tuoi colori, il tuo
sorriso, perfino il tuo pensiero, avrebbero riassunto in un attimo
modelli di vita, sentimenti, emozioni e fatiche, sudore, amplessi
distillati nel tempo. Così ho parlato a questo miracolo, scintillato dal corpo del nostro amore, Pankaj, quando l’ho ricevuto fra
le braccia.»
Mi scuote la perentoria chiamata del mio cellulare A fatica lo
sguardo rintraccia sul display il nome che i miei pensieri avranno evocato.
«Ylenia?»
«Ciao, mamma. Mi senti bene?»
«Sì, sì…»
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«C’è casino, sono all’aeroporto, a Liotra. Ho sentito Paola,
sta per arrivare, c’era traffico in autostrada.»
«Bene, tienimi informata.»
«Mamma…»
«Dimmi?»
«Sei più tranquilla su questo viaggio? Mi sei sembrata apprensiva ieri sera a cena, che c’è?»
«Invecchio – rido – è l’apprensione di chi teme le novità e
vede più pericoli di quelli che esistono, soprattutto per le persone che ama. Ormai sei lì ed è importante solo che tutto vada
bene. Sono più tranquilla, sì, la nonna non vede l’ora di abbracciarti, anche Paola e Grazia. Andrà tutto bene e gli spettacoli a
Gortigia saranno meravigliosi.»
«Ci sei stata da ragazza, vero?»
«Ai tempi del liceo, lo ricordo con emozione.»
«Non vedo l’ora di esserci. Adesso vado. Ti voglio bene.»
«Ti voglio bene.»
Il clic interrompe la magia del cellulare restituendomi alla mia
stanza. Adesso Ylenia è in Sicilia. Il fascino della sua giovinezza
e la bellezza dell’isola che s’incontrano. Socchiudo gli occhi. Respiro. Sensazioni. Presentimenti. Ricordi.
Guardo l’ora, manca un quarto alle otto. Ho solo il tempo della doccia e infilarmi qualcosa. Lavorerò al rientro, penso rassegnata, e domattina ho la terza ora.
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Capitolo II
«H
o prenotato al Bersagliere.» L’annuncio e il sorriso mi
arrivano insieme, mentre salgo sull’accogliente BMW.
Alberto è elegante nella sua giacca firmata, morbido nei mocassini di pelle. L’abitacolo profuma di lusso. Colgo il suo profilo, mentre guida per le stradine vicino al fiume. Silenziosa accanto a lui, mi sorprendo ad ammirare i rami dei salici che sfiorano
l’acqua. A quell’immagine, inaspettatamente, la mia mente sovrappone le luci dello Stretto, la terra di fronte all’isola, il mare.
Una frecciata di nostalgia, che mi coglie impreparata. Appena
finito con gli scrutini partirò anch’io, penso commossa e stranamente appassionata.
La voce di Alberto mi riporta alla realtà.
«Parto per Pechino, fra cinque giorni. Insieme con una delegazione governativa. Dobbiamo firmare dei contratti. Mio padre ha altri impegni qui in Veneto, quindi vado io.»
«La Cina è di moda. Beijing…»
«È la quarta volta che mi tocca andarci. L’ultima volta è stato
a Shangai…»
«Com’è Shangai?»
«È un’esplosione di modernità con un cuore di bellezza antica.»
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«Mi piace. Ti invidio.»
«Vuoi venire? Guarda che se ti va…»
«No, no, ho il lavoro. Magari qualche altra volta, sapendolo
prima, potrò organizzarmi…»
Mancavo da molto in questo locale. I camerieri in giacca rossa
schierati in fondo alla sala, il tavolo ricco di bottiglie dai nomi
prestigiosi. Il sommelier si avvicina compìto, ma Alberto con un
breve cenno gli lascia intendere che servirà lui.
Mentre versa il prosecco nel mio bicchiere, la manica della
giacca si discosta quanto basta a mostrarmi sul suo avambraccio
dei segni scuri, viola, piccoli lembi di pelle bruciata. Gli occhi
gli rivelano subito il mio disagio e una domanda muta. Guarda
anche lui le piccole ustioni, come le vedesse per la prima volta,
sigaretta? e riassetta la giacca.
Reclina la testa indietro, accenna un sorriso, infine abbassa lo
sguardo.
«Perché Alberto? – ed è quasi una preghiera la mia – Potrei
capire tutto, ma perché questo? E non è la prima volta…»
Lui versa del vino per sé, ne beve un lungo sorso, poggia il bicchiere.
Gesti distaccati, eleganti e precisi. Anche prendere tempo può
diventare un’arte.
«Non hai mai pensato che potrei averne bisogno?» risponde
come parlando a se stesso.
«Bisogno… Abbiamo bisogno d’amore, tutti, di carezze, di
emozioni erotiche anche, forse. Ma quanto è lontano dall’amore
tutto questo? Un eros divorante. O forse riesco a dirti solo banalità? Ti vedessi almeno felice, nonostante tutto.»
«Non credo tu dica banalità, questa almeno non lo è – ironizza – segui solo altre linee di pensiero. Eros, sì, e questo segno
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sul braccio fa parte del gioco. Divorante, sì, punitivo, ma che io
amo giocare! Non ho più energie per l’Amore, non è più nelle
mie capacità, o almeno non per quel tipo di amore cui alludi.
Son cresciuto, purtroppo forse, ci sono la vita, gli affari, i viaggi,
i miei amanti. L’Amore è morto, come il tuo, ricordi?»
L’affondo è brutale e mi ferisce, come sempre.
Queste sue incursioni nei miei ricordi più intimi potrebbero
ridestare un barlume di quel rancore, forse gelosia che la scoperta di lui, della “sua verità”, in altri momenti mi avevano suscitato. Ma non avviene. Non può più avvenire. Dalla conoscenza di
quasi venti anni, sono cresciuti un affetto profondo, gratitudine.
So con chiarezza quanto io ed Ylenia facciamo parte delle sue
necessità di vita.
«Ylenia è partita?» La sua domanda, che sembra evocata dal
mio pensiero, interrompe quel dialogo spinoso, risolto ormai in
un mio monologo mentale.
«Sì, da Venezia stamattina, ed è già arrivata. A quest’ora sono
già a Gortigia. Stasera rappresentano l’Antigone. Fra le tragedie
è quella che mia madre ama di più!»
«Al mio ritorno mi piacerebbe che veniste un po’ tutte a Cortina, potresti invitare anche tua madre. Credi che le andrebbe?»
«Glielo chiederò, ma penso di sì.»
«E Ylenia? Pensi che verrà con tutti questi anzianotti?»
«Ama molto la montagna, le passeggiate, lo sai bene. Zio Alberto l’ha viziata in questo.»
«E a te?»
«Mi hai viziata?»
«Questo certo che sì, – strizza l’occhio – a te fa piacere venire,
intendevo?»
La presenza discreta ma impellente del cameriere ci richiama
al nostro dovere di clienti.
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