Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Da un celebre romanzo di Emma Donoghue, da lei stessa sceneggiato e avvicinato in precedenza – ma
inutilmente – anche da altri registi, arriva una favola-thriller ad alto quoziente di claustrofobia, grazie alla regia
sobira e sapida dell'irlandese Lenny Abrahamson. Il diavolo a volte ha fattezze molto comuni e famigliari. Ed è
contro un diavolo di questo tipo che si devono scontrare un giorno il piccolo Jack e Ma' Joy.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musiche:
scenografia:
distribuzione:
118 MINUTI
IRLANDA
2015
LENNY ABRAHAMSON
EMMA DONOGHUE
EMMA DONOGHUE
DANNY COHEN
NATHAN NUGENT
STEPHEN RENNICKS
ETHAN TOBMAN
UNIVERSAL PICTURES
interpreti:
BRIE LARSON (Joy 'Ma' Newsome), JACOB TREMBLAY (Jack Newsome), JOAN
ALLEN (Nancy Newsome), TOM MCCAMUS (Leo), WILLIAM H. MACY (Robert Newsome), SEAN BRIDGERS (Old
Nick)..
premi e nomination (parziale): 2016, Premio Oscar, Miglior attrice protagonista, tre nomination (miglior film,
miglior regista, migliore sceneggiatura non originale); Golden Globe, Migliore attrice in un film drammatico,
nomination per il miglior film drammatico e per la migliore sceneggiatura; British Academy Film Awards,
Miglior attrice protagonista, nomination per la migliore sceneggiatura non originale a Emma Donoghue; 2015,
National Board of Review Awards, Migliori dieci film dell'anno, Miglior attrice a Brie Larson, Miglior performance
rivelazione maschile a Jacob Tremblay; Toronto International Film Festival, Film preferito dal pubblico; British
Independent Film Awards, Miglior film internazionale.
Lenny Abrahamson
Regista e sceneggiatore televisivo e cinematografico irlandese, nasce a Dublino il 30 novembre 1966 da una
tranquilla e borghese famiglia. Particolarmente dotato per gli studi in fisica, a venti anni, mentre studia ancora al
Trinity College, vince una borsa di studio per seguire il corso di filosofia alla Stanford University, ma col tempo la
motivazione allo studio scema e Abrahamson abbandona l'università. Così torna in Irlanda, dove tenta di lavorare
come regista, vista la forte passione per il racconto audiovisivo che lo aveva spinto a fondare con il suo amico Ed
Guiney una piccola casa di produzione di cortometraggi chiamata Trinity Video Society, nota per aver realizzato 3
Joes, vincitore del premio Best European Short Film Award al Cork Film Festival del 1991 e dell'Organiser's Award
del 1992 all'Overhausen Short Film Festival.
Riesce a trovare lavoro inizialmente nell'ambito della regia di spot commerciali, principalmente per la Carsberg, e
dopo essersi fatto un nome nell'ambiente e aver trovato i finanziatori giusti, debutta al cinema con il suo primo
film Adam & Paul, una commedia nera che ha per protagonisti due eroinomani. La critica lo adora. Il Galway Film
Fleadh lo insignisce dell'Audience Awards per il miglior primo film, lui ottiene l'IFTA Award per il miglior regista e
il Sofia International Film Festival gli offre il Grand Prix assieme al Premio FIPRESCI.
Forte di un ritrovato successo, nel 2007, dirige Garage con Pat Shortt nel ruolo di un goffo e ritardato benzinaio
della rurale Irlanda bigotta e feroce. Anche questa pellicola ottiene un IFTA Award. Ed è solo la punta dell'iceberg.
Arrivano il premio C.I.C.A.E. Award al Film Festival di Cannes e il Prize of the City of Torino. Si comincia così a
percepire quello che è lo stile autoriale di Abrahamson: pochissimi dialoghi, molti silenzi e una violenza insita nei
personaggi che rimane latente e che è la benzina della risata sardonica.
Per la televisione, dirige poi la miniserie Prosperity, scritta con la collaborazione di Mark O'Halloran,
sceneggiatore di Adam & Paul e di Garage, e focalizzata su un piccolo gruppo di persone della società irlandese,
fra alcolizzati e madri single.
Nel 2013, ancora un buon film con What Richard Did che si rivela essere uno dei più grandi successi del cinema
irlandese, nonché vincitore di un nuovo IFTA Award. Lo stesso anno, mentre firma l'adattamento del romanzo di
Emma Donoghue "Stanza, letto, armadio, specchio", dirige anche Frank (2014) che viene presentato in anteprima
al Sundance Film Festival. La pellicola, che tratta di un eccentrico musicista, ha per protagonisti Michael
Fassbender, Domhnall Gleeson e Maggie Gyllenhaal.
Torna dietro la macchina da presa per il thriller Room, interpretato da Brie Larson, vincitrice del premio Oscar (e
del Golden Globe) come miglior attrice alla sua prima candidatura.
La parola ai protagonisti
Intervista al regista
Com’è nata la sua collaborazione con Emma Donoghue?
Il libro di Emma è splendido. Dopo averlo letto le ho subito scritto una lettera implorandola di affidarmi la regia
del film (ride, ndr). A parte gli scherzi, le ho raccontato quanto il suo romanzo ha significato per me, come
genitore e come artista, sottolineando che sarei stato onorato di curarne la trasposizione cinematografica.
Perché ha sentito l’esigenza di raccontare questa storia?
Credo sia stata una combinazione di cose. Innanzitutto mi ha coinvolto a livello personale essendo padre di un
bambino di quattro anni. Dopodiché mi ha colpito molto la capacità di Emma di trovare la bellezza nell’inferno, di
esplorare l’aspetto funzionale di una tragedia e di non giocare sul catastrofismo. Il suo sguardo fanciullesco,
affidato a Jack, mi ha profondamente commosso.
Guardando il film viene subito in mente il caso Fritzl (la storia di una donna austriaca imprigionata in un bunker
dal padre per ben 24 anni durante i quali si sono susseguiti vari abusi sessuali e sette parti, ndr). L’avete tenuto in
considerazione?
Quel caso ha sicuramente ispirato Emma. Mi ha raccontato di aver scritto il libro immaginando i sentimenti del
bambino più piccolo che entrava in contatto per la prima volta con il mondo esterno dopo la liberazione. È stata
molto attenta a non far coincidere nessun dettaglio della storia con i fatti realmente accaduti. Ho ammirato la sua
scelta di coglierne gli aspetti più universali.
Fondamentalmente è la storia di Emma, è lei ad aver scritto sia il romanzo che la sceneggiatura del film. Com’è
riuscito a renderla anche sua?
Da regista ho lavorato molto sul linguaggio cinematografico rendendo più specifica la relazione madre-figlio, che
nel libro viene raccontata sullo attraverso la voce fuori campo di Jack.
Quali sono stati i suoi dilemmi durante la lavorazione del film?
Non volevo in alcun modo risultare intrusivo. Prima di me alcuni registi avevano proposto ad Emma degli
espedienti per rendere più efficace la voce di Jack, come ad esempio l’inserimento di immagini d’animazione. A
mio parere una trasposizione di questo tipo sarebbe stata eccessiva e inappropriata, in un film del genere
l’artificio deve scomparire ed è più giusto lavorare in sottrazione per rispetto alla storia. In questo modo abbiamo
rifuggito anche la strada più facile che era quella del melodramma.
Sembra che uno dei temi che le stanno più a cuore sia l’esclusione sociale…
In generale sicuramente ma in questo caso, oltre alla terribile vicenda che segue, il film esplora il lato oscuro
dell’essere genitori. Talvolta la nostra relazione con i figli più essere sana e insostituibile, altre diventare talmente
claustrofobica da trasformarsi in un incubo, come una gabbia senza via d’uscita. La protagonista Ma' non è solo
vittima di una lunga prigionia ma deve anche confrontarsi con il doloroso percorso di crescita. Da teenager qual
era si vede catapultata bruscamente nel mondo degli adulti.
Nel film ho letto anche una forte critica all’approccio cinico dei media quando esplodono casi di questo genere. La
scena della prima intervista dopo la prigionia non era presente nel libro, perché inserirla?
Per quella scena mi sono ispirata ad un’intervista rilasciata da una donna vittima dello stesso tipo di abuso
andata in onda sulla tv americana. Ricordo che rimasi attonito dinanzi all’ipocrisia della giornalista che le rivolse
una domanda sull’abuso sessuale non precedentemente concordata. Era come se quella donna continuasse ad
essere molestata.
Brie Larson ha vinto l'Oscar per il suo ruolo da protagonista in Room. Questo riconoscimento ha avuto
ripercussioni anche su di lei?
Sì, Room è senz’altro il film più importante della mia carriera, il progetto più ambizioso. Mi ha aperto molte porte
facendomi ottenere la fiducia dei produttori. Credo che d’ora in poi le mie idee saranno prese più in
considerazione, basterà solo avere le motivazioni giuste per portarle sul grande schermo.
Recensioni
Francesco Alò. Badtaste.it
Ci stiamo interrogando sull’eccezionalità del piccolo film sorpresa del 2016 presentatosi a questo Oscar con la
forza indy del Whiplash del 2015. Room è stato candidato a Miglior Film, Regia, Sceneggiatura Adattata (da
romanzo di Emma Donoghue, anche sceneggiatrice) e ovviamente come sapete Attrice Protagonista, con la
bravissima ventiseienne Brie Larson unico membro della squadra Room a uscire dalla Notte delle Stelle del 28
febbraio scorso con una statuetta effettivamente in mano. Il regista Lenny Abrahamson e il produttore Ed Guiney
(...). Quali possono essere dunque i segreti di questa gemma cinematografica e perché alcuni possono perdere
letteralmente la testa per uno stranissimo drammone che sembra tutto tranne che un drammone?
Prima di tutto… Room è uno shock da cronaca nera del quotidiano travestito da favola leggera eterna. E questo è
cinematograficamente astutissimo. Come è possibile che la storia di madre e figlio segregati in una stanzetta di
dieci metri quadrati possegga tale levità? Perché il punto di vista è quello di Jack (...), bambino di cinque anni così
convinto che la caverna platonica in cui vive sia in realtà il mondo reale, da permetterci di non provare più di
tanto uno sgomento nei confronti suoi e della mamma. Se lui è spensierato, noi siamo spensierati. Se a lui va
bene, a noi va bene.
L’Ohio della storia è un posto qualsiasi (...) ricostruito in Canada. E anche questo priva il film di una aggressiva
specificità geografica. L’orco rapitore non è un bogeyman bensì quasi un lavoratore che torna a casa la sera
stanco e contentissimo di levarsi al volo i pantaloni per saltare addosso alla mogliettina. D’altronde si chiama solo
Old Nick, pare uno di quelli che ci viene a fare il controllo della caldaia a casa e quando il piccolo Jack sembra
avere la febbre alta lui, Old Nick, pare preoccuparsi sinceramente. Come un affettuoso papà qualunque. Joy,
invece, non sembra un’affettuosa mamma qualunque. Gli occhi sono cisposi (Brie Larson pare abbia convinto il
regista a filmarla senza trucco) e quasi ferini mentre quei violenti cambiamenti di umore ci mettono più paura
della presenza blanda di Old Nick, il quale sono anni che torna a casa senza parlare con il suo bambino, venuto
per caso e probabilmente non voluto (ma a quanti figli più “normali” può capitare la stessa cosa?).
Tutte queste contromosse o sovvertimenti dei cliché cinematografici ci tengono letteralmente incollati a Room.
Ecco perché non ci sentiamo più di tanto depressi vedendo qualcosa sulla carta così deprimente.
Poi… cosa è successo tra Ma’ Joy (da La Furia Umana a Il Clan dei Barker, “Ma” è il diminutivo delle mamme
gangster o dei gangster) e Old Nick durante tutto il tempo precedente i titoli di testa? Proviamo a ricostruire
qualcosa: lui l’ha rapita quando lei aveva 17 anni. Dopo due anni lei ha avuto Jack e ora, quando il film comincia,
la nostra mamma è pronta da ventiquattrenne a festeggiare il quinto anno di vita del piccolo, il quale non sa
quanto grande sia il mondo fuori da quei dieci metri quadrati. Il regista è così bravo a nasconderci il bogeyman
(anche quando compie atti tipici della segregazione pare impacciato e fuori ruolo) che dopo pochi minuti non ci
pensiamo più e ci concentriamo solo ed esclusivamente su Ma’ Joy e Jack e su una cosa che al cinema ha sempre
funzionato e sempre funzionerà.
(…) Come il piccolo Superman di Zack Snyder (ma quanto era bella quella idea di bambino sopraffatto dalla
spaventosa potenza cacofonica di una realtà percepita da sensi supersviluppati?), Jack dovrà combattere non
solo contro Old Nick ma contro un mondo fatto di prati, camioncini, stop stradali, cani al guinzaglio, nuove
creature simili a Old Nick e, dopo, una pericolosissima trasformazione.
Fuori dalla caverna platonica il prigioniero deve affrontare quegli elementi della vita che prima hanno creato le
ombre sul muro dentro l’anfratto (Jack aveva una tv da cui vedeva qualcosa dal segnale molto disturbato). Ma’
Joy passa da creatura mitologica e madre guerriera dell’eroe a Joy Newsome, ex ragazza qualsiasi il cui padre
naturale non vuole più guardare negli occhi il bambino innaturale dell’orco Old Nick. Joy prima era padrona della
stanza (almeno nel momento del racconto in cui Donaghue e Abrahamson ci fanno arrivare all’inizio), mentre ora
viene fottuta da tutto e tutti: senso di colpa, tendenze suicide, giornaliste televisive ingannatrici (grande
momento di cinema), divorzio dei genitori e una casa dove la camera da letto è rimasta quella di quando aveva
17 anni. Jack può essere più malleabile (“plastic” in originale nel gergo medico di un dottore) e in grado di
recuperare dal trauma perché meno “scritto” dall’esistenza.
Ma la vecchia Joy Newsome, invece, ce la farà a resistere alla nuova stanza del mondo dove pare non esserci in
un primo momento nemmeno quell’amaca di cui parlò tanto a Jack (essenziale la sua iniziale assenza)?
Room è un grande film perché nella prima parte è lei che salva lui mentre nella seconda è lui che salva lei. Ci ha
ricordato la potenza del rapporto madre-figlio attraverso una storia semplice frutto di un cinema complesso in
cui il gioco di squadra biologico tra colei che genera e colui che viene generato da quel corpo non può poi non
portare a un vincolo di natura mentale più forte di qualsiasi difficoltà esterna.
È anche un film che ci ricorda quanto siamo forti da piccoli. Ecco che torna la fiaba e i suoi tanti eroici bimbi da
Pollicino a Hansel e Gretel passando per Cappuccetto Rosso. (...)
Mauro Donzelli. Comingsoon.it
Il regista irlandese Lenny Abrahamson è reduce dalla commedia malinconica Frank, in cui il protagonista
indossava perennemente una maschera per affrontare il mondo, mentre la giovane protagonista di Room non
può permettersi questo lusso. Le atmosfere del film sono completamente differenti, visto che seguiamo le
vicende di una giovane donna rinchiusa da sette anni all’interno di una stanza chiusa. Rapita da un uomo che la
tiene prigioniera, vive con il suo bambino di cinque anni. Il mondo per il piccolo Jack si limita a questa stanza.
Così gli ha detto la madre, Ma', per proteggerlo dalla drammatica situazione in cui sono costretti a vivere. L’ha
cresciuto in un mondo immaginario, limitato nello spazio, ma in cui si ritagliano molti momenti di gioia.
L’unica avvertenza è quella di chiudersi nell’angusto armadio quando la porta blindata si apre e un uomo entra
nella stanza per venire a trovare Ma'. In alto c’è una piccola finestra, da cui filtrano la luce, i rumori dell’esterno, il
vento che scuote gli alberi del giardino e la pioggia che diventa una distrazione con la quale impiegare ore di
quelle giornate sempre uguali. Il mondo al di fuori, che per Ma' è utile a mantenere viva la speranza che in un
modo o nell’altro riusciranno a fuggire.
Room è un film di spazi interiori, ben più che esteriori, in cui Brie Larson dà un’altra dimostrazione delle sue
grandi capacità. (…) La sua capacità di interiorizzare il dramma che sta vivendo è una dimostrazione di rara
intensità dell’amore assoluto di una madre per il proprio figlio; entrambi costruiscono la loro coreografia
quotidiana misurando gli spazi di comunicazione e di fuga. Ma' è vittima di una delle dimostrazioni di perfidia più
atroci che un uomo può infliggere a un altro essere umano: costringerlo a confidare nell’assenza di libertà come
stampella emotiva. Tanto che quando finalmente riescono ad uscire dalla stanza, mentre Jack rimane sconvolto
alle prime, ma poi conquistato, da un mondo che assume dei confini sterminati, per Ma' il rinculo emotivo del
libero arbitrio e il non dover più indossare i panni della regina in un mondo fiabesco inventato per il suo piccolo
principe, le procurano un crollo.
Gli anticorpi necessitano di un lungo e doloroso percorso di genesi quando per sette anni ci si è convinti di non
averle neanche certe ferite. Sanguinano tutte insieme, quando il loro mondo si popola di una famiglia soffocata
dal mondo al di fuori della “stanza”, dai media in caccia della storia strappalacrime. Abrahamson adatta il libro di
Emma Donoghue - uscito da Mondadori col bel titolo Stanza, letto, armadio specchio - con rispetto e sensibilità,
senza mai cedere all’eclatante, al morboso. Room si aggiunge a un filone di cinema post traumatico, indagine
autoptica sulle tracce rimaste dopo un dramma, più che racconto del dramma in sé. Alla sempre più affollata
schiera delle performance da notare di bambini al cinema bisogna poi aggiungere Jacob Tremblay, stupefacente
Jack, fra ingenuità e coraggio.
Paolo D'Agostini. Repubblica.it
La storia narrata nel film dell’irlandese Lenny Abrahamson e nel libro dell’irlandese-canadese Emma Donoghue
dal quale è tratto, si ispira a un caso di pochi anni fa (il caso di Josef Fritzl, 2008, ndr). (…) Nel film una giovane
donna vive rinchiusa con il suo bambino di cinque anni ricevendo le regolari visite dell’uomo che l’ha rapita e
dalla cui violenza il bimbo è nato. La ragazza ha allevato il figlio, ignaro che esiste altro dall’angusto locale,
compiendo ogni sforzo perché il piccolo si senta protetto e amato (come Benigni con il piccolo Giosuè). Con uno
stratagemma riuscirà a far uscire il bambino e a interrompere l’incubo. Ma sono le scelte di regia il pregio del
film. Senza introduzioni o spiegazioni dapprima veniamo interamente calati nell’universo claustrofobico, e poi
altrettanto repentinamente avviene lo scioglimento che però prelude alla seconda parte in cui madre e figlio
devono fare i conti con la ripresa di una difficile normalità.
Marianna Cappi. Mymovies.it
Jack vive nella stanza. La stanza è la sua casa. (…) Quando compie cinque anni, però, la mamma lo sorprende con
una rivelazione sconcertante: c'è un mondo al di là della porta blindata di cui non conoscono il codice, fatto di
cose e persone reali, e loro devono uscire da lì e devono ad ogni costo tornare a casa, quella vera.
È un film potente, Room , di una potenza sfaccettata, che può rimare col disagio, anche estremo, che prende lo
spettatore alla primissima sequenza, quando gli viene chiesto di credere con Jack che la prigione di pochi metri in
cui un maniaco ha rinchiuso una ragazza di diciassette anni e poi suo figlio fin dalla nascita, sembri ampia e
accogliente, una vera casa, che non manca di nulla. Oppure può rimare con tensione, speranza, paura, gioia
immensa o immenso sollievo, come accade nella scena sul furgone, una delle più emozionanti del cinema
recente, così forte da lasciare in apnea. Merito della scelta del punto di vista, quello di Jack, appunto, il più
inconsapevole tanto del male quanto del bene, ma anche della regia ad immersione e della sceneggiatura ad
opera della stessa scrittrice del romanzo di partenza, Emma Donoghue, che conosce quei personaggi meglio di
chiunque altro.
La stessa scena del furgone segna una cesura importante: da quel momento la stanza non è più il luogo fisico in
cui si muovono (per così dire) Jack e Ma', ma diventa un luogo mentale e le sue dimensioni subiscono
un'ulteriore distorsione. Una sorta d'istinto di autodifesa spinge a questo punto lo spettatore a sussurrare
idealmente nelle orecchie di Abrahamson: "fermati qui, o rovinerai tutto", imboccando un'altra storia, un altro
film. Invece il regista ci sorprende, rivelando un progetto più completo e complesso rispetto al thriller emotivo di
partenza: un dramma psicologico che ritaglia, in realtà, con grande sapienza la porzione di racconto che pone
sotto l'obiettivo, una porzione in cui la seconda metà è speculare alla prima, in una continuità perfetta di tono e
di tocco, nonostante la radicale diversità del setting.
Brie Larson e Jacob Tremblay si rimbalzano il testimone di una maratona attoriale ad alto tasso di emozione,
optando sempre con grande giudizio per la soluzione in levare. Dal loro legame dipende l'intera impalcatura del
film e loro sanno reggerla con grazia e solidità.
Roy Menarini. Mymovies.it
Il cinema claustrofobico rappresenta probabilmente una delle sfide più intense per i cineasti. A osservare le foto
di scena e i making of di Room, si possono gustare tutte le strategie utilizzate da Lenny Abrahamson per piazzare
la macchina da presa dietro le pareti, sotto il pavimento, in mezzo alla stanza in cui i due protagonisti sono
rinchiusi da anni. Molti di noi, guardando il film appena premiato per la migliore attrice protagonista (Brie
Larson), hanno vagato con la fantasia e con i ricordi cinefili, compresi quelli dalla storia del videoclip - chi
rammenta il formidabile video che Tim Pope diresse per i The Cure, Close to Me, in cui la band suonava chiusa in
un armadio?
Questo cinema di esperienze sconvolgenti, maturazioni improvvise, fantasie a fin di bene, sopravvivenze al limite
ci dice evidentemente qualcosa di noi, delle nostre fobie, dei nostri adattamenti a una realtà sempre meno
leggibile, e forse a un mondo globale che viene a bussare alle nostre case.
Dirigere in spazi stretti è dannatamente difficile, e diventa una sfida di enorme valore cinematografico. Una sfida,
questa, che pare eccitare parecchio il cinema più recente, se è vero che abbiamo visto in pochi anni film girati
principalmente in spazi stretti, dentro abitacoli di automobile (Locke), dentro una bara (Buried), dentro un
ascensore (Devil), in una cabina telefonica (Phone Booth), in un crepaccio (127 ore), e così via. Persino l'idea
stessa della vita in cattività, preda di un maniaco, vede Room affiancato da Chained di Jennifer Lynch. Gli esempi
potrebbero continuare ma ha più senso chiedersi il motivo di tanta claustrofobia, se non fosse che poi ci
accorgiamo che al tempo stesso il cinema contemporaneo è anche affascinato e spaventato dagli spazi aperti e
sconfinati (...). Possibile che due sentimenti estetici così opposti possano convivere? Forse sì, almeno se
pensiamo al cinema di oggi come a un "cinema dell'esperienza estrema", dove ad avvincere gli spettatori sono
racconti di sopravvivenza, survival movies che mettono i personaggi in condizioni radicali, di un tipo o di un altro,
troppo esposti alla natura o troppo costretti da un impedimento meccanico.
Tornando a Room, di cui non sveliamo i colpi di scena, vogliamo sottolinearne la forza emotiva centrata sul
rapporto tra madre e figlio, cui Brie Larson e Jacob Tremblay danno una credibilità sorprendente (facendo anche
capire che forse andavano premiati entrambi e insieme, vista la prova del bambino, da stropicciarsi gli occhi).
Anche in questo caso, ad affascinarci è il ruolo genitoriale del favolista, che cerca di formare una realtà in forma
di racconto per occultare al figlio ciò che di terribile sta accadendo: lo stesso meccanismo di La vita è bella e,
mutatis mutandis, anche di Babadook, dove a finire in cantina alla fine sono i lutti e i traumi di una mamma e di
un bambino. (…)
Questo cinema di esperienze sconvolgenti, maturazioni improvvise, fantasie a fin di bene, sopravvivenze al limite
ci dice evidentemente qualcosa di noi, delle nostre fobie, dei nostri adattamenti a una realtà sempre meno
leggibile, e forse a un mondo globale che viene a bussare alle nostre case. Come se volessimo esorcizzare il senso
di colpa di un occidente che guarda con terrore (e forse stupore) a ciò che sono pronti ad affrontare altri esseri
umani che in condizioni estreme ci vivono davvero, quotidianamente.
Crediamo che Room parli anche di questo, insieme a tutta la costellazione di titoli e suggestioni che abbiamo
elencato, senza timore di eccedere in interpretazione. In fondo, anche la seconda parte del film (quella del nuovo
adattamento) è un esempio di quanto complicato e lungo sia il viaggio verso una vera integrazione psicologica
con l'altro, sia esso la famiglia, la comunità o una costruzione di fantasia che chiamiamo vita.
Federico Pontiggia. Cinematografo.it
(…) Premio del Pubblico a Toronto, è Room di Lenny Abrahamson, tratto dal romanzo omonimo di Emma
Donoghue, qui sceneggiatrice. Quello di Jack è un mondo forzatamente a parte, un mondo che esclude gli altri,
ridotti ad alieni, un mondo che ha proprie regole, una propria lingua e, purtroppo, alcun sistema aperto: che
succederà quando e se Jack e Ma usciranno da quella tana, da quell’hortus conclusus?
Make Room for your love, fate spazio per i vostri sentimenti, perché grazie alla bravura e all’empatia di Larson e
la new entry Tremblay il coinvolgimento emotivo vien da sé: prima la trepidazione per la sorte dei due prigionieri,
poi altra suspense per il processo di riabilitazione, ovvero di venuta al mondo. Il film non lesina battiti, ma cerca
di tenere a bada il ricatto: se di ricatto si può parlare, non è nell’enfasi, bensì nell’ambiguità del racconto, che
distilla i passaggi più critici della storia di Ma (e Jack) e ne scadenza l’eventuale esplicitazione con una punta di
sadismo.
Poca roba, comunque, perché l’alfabeto affettivo della prigionia e della liberazione di Jack apre all’emozione
cinematografica: più per il pubblico che per la critica, ma Room è film più che discreto. Avercene.
Giulia D'Agnolo Vallan. Il Manifesto
Liberamente ispirato al caso dell’austriaco Joseph Fritzl, che tenne prigioniera sua figlia per ventiquattro anni,
nell’arco dei quali la costrinse a concepire sette figli, Room (in Italia Stanza, letto, armadio, specchio), della
scrittrice irlandese Emma Donoghue, è un libro sul potere trasformativo dell’immaginazione e del racconto, un
incubo che, filtrato attraverso gli occhi di un bambino, assume i contorni di una fiaba. Un luogo della realtà in cui
una stanzetta fatiscente, crudelmente sigillata dal mondo esterno, diventa un intero pianeta, misterioso, ricco di
avventura, rituali, personaggi, gioie, paure e affetti.
Affidandosi a una sceneggiatura della stessa Donoghue, il regista Lenny Abrahamson (irlandese anche lui, già
autore di Frank e Garage) ci trasporta in quel pianeta quasi con bruschezza. Fin dai primi momenti del film siamo
immersi nell’universo di Ma' (Brie Larson, premiata l’altra sera con l’Oscar di miglior attrice protagonista) e di suo
figlio Jack (Jacob Tremblay, straordinario), un bambino di cinque anni, con i capelli bruni lunghissimi, lo sguardo
paziente e saggio – quasi troppo per la sua età. È un universo dove gli oggetti – lampada, lavandino, tv e il
riquadro blu di un abbaino, ritagliato in alto sul soffitto- sono apostrofati come personaggi, compagni di gioco.
Complici dell’incantesimo in cui Ma', rapita da uno sconosciuto, mentre tornava dal liceo, sette anni prima, e da
allora rinchiusa in quella prigione, ha cresciuto suo figlio. La stanza è un buco di pochi metri quadrati, con i muri
di cemento, un filo per la biancheria quasi sopra al fornello elettrico, un piccolo televisore decrepito che
trasmette da qualche twilight zone, un armadio. Ma, nei piccoli movimenti di macchina di Abrahamson, nelle sue
inquadrature ravvicinate, a tratti spiazzanti, quella «stanza» sembra effettivamente magica; si allarga e si
restringe come una fisarmonica, piena di angoli, sorprese, significati.
Per Jack la stanza è tutto, l’unica realtà che conosce, e quindi che esiste. La vive con l’adesione totale e la
cocciutaggine di un bimbo, che fa il muso perché non ha la torta di compleanno e accoglie con entusiasmo
l’arrivo di un topolino. Ma l’incantesimo mostra segni di logorio sul volto di sua madre, che si fa più triste e più
preoccupato a ogni nuova apparizione di Old Nick (Sean Bridgers), un uomo che viene a violentarla
regolarmente, portando con sé come un Babbo Natale malefico, cibo e regali per le sue vittime. Durante quelle
visite, Jack viene chiuso nell’armadio, un mondo ancora più piccolo, da cui lui sbircia attraverso uno spiraglio.
Room trae la forza delle sue immagini dal microcosmo emotivo viscerale, intensissimo, del rapporto tra madre e
figlio e nel magico equilibrio di lenti distorte da cui dipende la loro sopravvivenza nella stanza. Lo spazio chiuso,
claustrofobico, gli si addice. (...)
Claudio Trionfera. Panorama.it
La realtà vista dall’interno di un tappeto arrotolato. Lassù, come attraverso un oblò, alberi fuggenti, immagini
strappate, cavi elettrici che corrono fra un traliccio e l’altro. E il cielo. Le nuvole. La nuova percezione del
movimento nel mondo “esterno” scoperto per la prima volta.
Gli occhi sgranati sono quelli di Jack, protagonista con la mamma Joy, per lui solo e sempre Ma’, di Room diretto
da Lenny Abrahamson, sessantenne regista irlandese di Dublino. Joy è appena riuscito a scappare, chiuso in un
tappeto, dalla Stanza. Quella del titolo. Dove è stato rinchiuso per cinque anni, cioè da quando è nato, con la
madre rapita sette anni prima da un aguzzino, abusata, segregata in quella camera scura e sporca, pallidamente
e vacuamente illuminata da un piccolo lucernario quadrato, fonte di un parziale, monotono, ossessivo panorama
verticale.
Eccoli, madre e figlio, prigionieri in tutta la prima parte del racconto. Lei e lui, lui e lei. Il cielo in una Stanza. Vita
rigorosamente a due, riboccante di amore reciproco e quasi ferino, interrotta di tanto in tanto dalle “visite” del
rapitore che riscuote la sua quota di sesso con il piccolo Jack tappato nell’armadio lurido. Tutto si consuma
nell’apertura e la chiusura della porta blindatissima. E tutto ricomincia, tra Jack e Ma’, che ancora, qualche volta,
allatta il figlio al seno. Ma viene il momento della fuga, si può immaginare quanto pericolosa, quando lei
comprende che Jack, ormai cresciuto, incomincia a farsi – e a farle – delle domande, a costringerla a rivelargli la
verità, divenuta troppo ingombrante, sulla loro condizione.
(…) I problemi nascono anche fuori dalla Stanza, perché il confronto sociale, non solo famigliare, non è facile e la
libertà sembra solo una parola. Quasi peggio di prima. Uno choc. (...)
Claustrofobico nella prima metà, apparentemente en plein air nell’altra metà, il film privilegia nel concreto una
linea psicologica (senza psicologismi) molto profonda e coerente che, per così dire, lo stabilizza in termini di
continuità stilistica. L’azione, che non si nega invece a coinvolgenti dinamiche, si sviluppa in equilibrio tra
sentimenti, suspense, perfino passaggi thrilling nella complessiva, intensa dimensione drammatica. Dove
brillano, naturalmente, i due poli principali splendidamente recitati. Brie Larson ha meritato il premio Oscar nella
parte di Ma’, che nel rapporto con Jack, il delizioso Jacob Tremblay che per gran parte della storia comunica solo
con lei, non si risparmia le migliori simbiotiche infiltrazioni materne nei confronti del figlio; il quale poi, nel
passaggio delicatissimo dallo stato infantile alla crescita consapevole, rappresenterà la sua “salvezza”.
Infiniti piani di racconto e di senso. In superficie l’amore assoluto e complesso tra madre e figlio, senza limiti,
senza condizioni, neppure ostacolato dalla vita orribile condotta nella Stanza. La quale, nonostante l’oggettiva
disperazione provocata da quelle mura scrostate, invalicabili e invariabili, sollecita riflessioni squisitamente
cinematografiche sulla dimensione dello spazio, del tempo, delle differenti soggettive forme della realtà e della
felicità. Può sorprendere: Jack e Ma’ sono “felici” nella Stanza, chiusi nella loro unicità biologica, più che fuori,
almeno all’inizio della loro esperienza di persone libere.
(…) È il film dei punti di vista, delle angolazioni prospettiche, nella più pura vocazione della macchina da presa:
che conduce il racconto in forma spirale e sinfonica, concedendo ad ogni scena l’energia di spinta al passaggio
successivo, alla sua sezione consecutiva e prossima, in un insieme di straordinaria unità. Opera, in questo, molto
raffinata nella sua struttura formale e nella costruzione dell’intreccio. Ma allo stesso tempo agile, forte,
avvincente, fatta per emozionare e commuovere. Non è un caso che piaccia così tanto