Profili processuali tributari dell`abuso del diritto

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Profili processuali tributari dell`abuso del diritto
Profili processuali tributari dell’abuso del diritto
di Christian Attardi
1. Premessa
Affrontare il tema dei rapporti fra l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis dello Statuto
dei diritti del contribuente e il processo tributario significa, essenzialmente, esaminare tre tematiche
fondamentali:
1) In merito alla delimitazione della materia del contendere, si tratta di esaminare se sia
immaginabile una rilevabilità d’ufficio dell’abuso nei giudizi relativi a questioni di
evasione fiscale.
2) Delimitata la materia del contendere, in ordine al giudizio di fatto occorre soffermarsi sulla
ripartizione dell’onere della prova nei processi sull’elusione fiscale.
3) Infine, con riferimento ai rapporti fra il processo tributario e la riscossione dei tributi,
emerge la questione delle modalità e delle forme della riscossione in pendenza di giudizio.
2. La rilevabilità d’ufficio dell’abuso nei giudizi tributari d’impugnazione
La prima questione che si pone all’attenzione riguarda la possibilità che un tema elusivo possa
entrare
nel
giudizio
indipendentemente
dai
contenuti
dell’avviso
d’accertamento
ed
indipendentemente dai motivi di ricorso del contribuente.
Si tratta di capire se, nel solco delle teorie che ricostruiscono il processo tributario non come
giudizio impugnatorio puro, bensì come processo d’impugnazione-merito (cfr. giurisprudenza di
cassazione) o merito del rapporto obbligatorio d’imposta (teoria dichiarativa), l’abuso del diritto
possa comparire nella materia del contendere a prescindere dalle allegazioni e deduzioni della parti.
È la questione della rilevabilità d’ufficio dell’abuso che affonda le proprie origini nell’esperienza
giurisprudenziale domestica risalente al 2008, ossia nel periodo in cui la Suprema Corte,
preoccupata di ancorare il principio generale del divieto di abuso nel diritto nazionale e in
particolare nel referente costituzionale del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.),
affermava il corollario della rilevabilità d’ufficio dell’abuso.
Si trattava di un’impostazione fortemente condizionata dalla ideologia che vuole il processo
tributario come giudizio sul rapporto obbligatorio d’imposta e non come giudizio di annullamento
di provvedimenti impositivi.
All’epoca la critica commentò quest’orientamento giurisprudenziale sottolineando due aspetti
fondamentali: 1) la pericolosità rispetto all’esigenza di certezza dei rapporti che una rilevabilità
d’ufficio dell’abuso poteva recare; 2) la compromissione del principio del contraddittorio che
derivava da queste “sentenze a sorpresa” o “sentenze della terza via”.
La critica all’indirizzo giurisprudenziale del 2008 che ammetteva la rilevabilità d’ufficio dell’abuso
si basava, ad esempio, sulla circostanza che la materia del contendere nel nostro processo è fissata
dalla combinazione dell’atto impugnato e dei motivi di ricorso, con la conseguenza che il giudice,
in ossequio al principio della domanda e al principio dispositivo, non può esorbitare da quel
perimetro, né introdurre in quel confine materiale alieno che finirebbe per costituire un travaso nel
contesto del processo di parti di materiale proveniente dalla scienza privata del giudice.
Altri commenti, invece, non escludevano in linea teorica il potere del giudice di rilevare d’ufficio il
carattere elusivo di un’operazione, non tanto perché il giudizio tributario, secondo questi commenti,
sarebbe un giudizio sul merito del rapporto, quanto piuttosto perché decidere se qualificare come
elusiva od evasiva un’operazione è operazione di qualificazione giuridica dei fatti processuali che
sarebbe sempre consentita al giudice, il quale è libero di applicare norme e qualificazioni giuridiche
in ossequio al principio jura novit Curia di cui all’art. 113 c.p.c.
Questa dottrina, tuttavia, consapevole delle frizioni recate dalla rilevabilità d’ufficio rispetto al
principio del contraddittorio, proponeva una soluzione di bilanciamento predicando l’applicabilità,
in simili evenienze, dell’art. 101, comma 2, c.p.c. – tramite la valvola di entrata nel nostro processo
di cui all’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 546/1992 – in base al quale se il giudice ritiene di sollevare
questioni rilevabili d’ufficio ha l’obbligo di provocare il contraddittorio sul punto, ammettendo il
deposito di osservazioni entro un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a quaranta
dalla comunicazione di una specifica ordinanza alle parti.
In questo contesto giurisprudenziale e dottrinale si colloca oggi l’art. 10-bis, comma 9, Statuto, che
afferma lapidariamente il divieto di rilevabilità d’ufficio.
Ciò, a ben guardare, è una logica conseguenza della dimensione fortemente procedimentale
dell’abuso, che si concretizza attraverso un procedimento amministrativo aggravato che vede una
fase di contraddittorio obbligatorio e che sfocia nell’emanazione di un apposito atto di accertamento
parziale dotato di motivazione rinforzata.
Ne deriva che l’abuso può allora emergere o in sede di autoliquidazione del tributo, oppure in sede
amministrativa, esclusivamente tramite la procedura dell’art. 10-bis, mentre non può emergere
autonomamente, ex abrupto, in fase processuale, se l’atto impugnato non è stato confezionato
secondo le forme e i contenuti richiesti dall’art. 10-bis.
Sulla base del divieto di rilevabilità d’ufficio dell’abuso, parte della dottrina – e anche Assonime dà
conto di questo problema nella sua circolare – ha manifestato un “timore” che condividiamo possa
essere ritenuto “eccessivo”, ossia il timore di un recupero (attraverso la finestra) del rilievo d’ufficio
dell’abuso (espulso dalla porta) attraverso l’uso strumentale delle difese del ricorrente.
Parte della dottrina ha paventato il rischio che qualche frase improvvida nel ricorso del contribuente
relativo a un caso di evasione fiscale, da cui si possa evincere la riconvertibilità dell’evasione in
elusione/abuso, possa legittimare il giudice ad accertare l’esistenza dell’elusione; posto che, in
questo caso, non si incorrerebbe nel divieto di rilievo d’ufficio perché il tema dell’elusione sarebbe
stato introdotto nel giudizio dallo stesso ricorrente.
Altra parte della dottrina ha appunto negato questo rischio, argomentando in base alla già descritta
dimensione procedimentale dell’abuso che rappresenta la ragione prima del divieto di rilevabilità
d’ufficio: non si intende limitare i poteri cognitivi del giudice, si intende valorizzare l’importanza
della “costituzione” procedimentale dell’abuso come sede elettiva del contraddittorio fra le parti.
Semmai il rischio è che l’Ufficio che abbia emesso un accertamento per evasione, sulla base delle
argomentazioni difensive del ricorrente, rinunci alla pretesa per evasione ed emetta invece, in
autotutela sostitutiva, un nuovo atto volto a contrastare l’abuso, nel rispetto delle garanzie e dei pesi
prescritti dall’art. 10-bis.
Parte della dottrina ha anche negato che possa anche accadere l’inverso, ossia che a fronte di un
accertamento per abuso ex art.10-bis, possa essere riqualificata la fattispecie in termini di evasione
da parte del giudice.
Certo, l’affermazione così lapidaria, in quell’inciso del comma 9 – “non rilevabile d’ufficio” – può
fare sorgere il dubbio che allora, in mancanza in tutto l’ordinamento di una disposizione espressa di
divieto, l’evasione fiscale possa essere rilevata d’ufficio.
Tuttavia sembra preferibile la tesi volta a negare tale possibilità e la soluzione negativa deriverebbe
dal carattere residuale dell’abuso.
L’art. 10-bis, comma 12, stabilisce che “In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere
configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di
specifiche disposizioni tributarie”. Ciò significa che l’Ufficio ricorre all’abuso se ha escluso
l’elusione. Allora il giudice che non riscontra i presupposti dell’abuso nel caso concreto, in ossequio
alla domanda di annullamento, deve annullare l’atto e non può a rigore porsi il problema del
carattere
evasivo
dell’operazione,
perché
così
facendo
il
giudice
si
sostituirebbe
all’Amministrazione in valutazioni che la legge (comma 12) assegna all’ufficio competente
all’accertamento.
Il discorso forse si complica invece un po’ ragionando sul processo penale in materia tributaria: qui
è più difficile scorgere vincoli ai poteri di cognizione e qualificazione del giudice penale, rispetto
all’accertamento tributario, stante il doppio binario e l’assenza di qualsivoglia pregiudiziale
tributaria (a differenza che nel passato, sotto il vigore della legge n. 4 del 19291 .
Nel contesto penale, in cui il giudice è signore dell’accertamento del fatto e della qualificazione
penalistica di esso, in ossequio al doppio binario non si può escludere che una generica informativa
di fatti che sembrano riconducibili fiscalmente all’abuso possano essere considerati fatti d’evasione
dal giudice penale, con i connessi corollari in ordine alla irrilevanza della circostanza che le
operazioni abusive non diano luogo a fatti punibili secondo le leggi penali tributarie.
Né può escludersi il contrario, ossia che un procedimento penale che nasce per evasione sia invece
“riqualificato” dal giudice penale come relativo a fatti elusivi, non rilevanti ai fini delle sanzioni
penali tributarie.
3. Onere della prova
Precisato che l’abuso esiste nei limiti in cui il contribuente lo auto-dichiari o l’Ufficio lo accerti a
titolo definitivo, anche a seguito di giudicato, occorre ragionare sulla distribuzione dell’onere della
prova nelle liti che riguardano gli atti emessi dall’Agenzia ai sensi dell’art. 10-bis, allo scopo di
verificare se qualche elemento relativo alla ripartizione degli oneri probatori sia contenuto nel
predetto art. 10-bis.
A prima vista, una disposizione che può regolamentare l’incombenza della prova è contenuta nel
comma 9, a mente della quale l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza
della condotta abusiva in relazione ai suoi elementi costitutivi di cui ai commi 1 e 2; mentre il
contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3.
A ben guardare, in termini di inquadramento generale e classificatorio, gli “oneri dimostrativi”
hanno una latitudine maggiore degli “oneri probatori”.
Mentre l’onere della prova attiene agli elementi di fatto e quindi alla questione di fatto del giudizio,
gli oneri dimostrativi disciplinati dal comma 9 sono più ampi e si estendono fino alle
argomentazioni, ai ragionamenti, alle qualificazioni, alle valutazioni.
Quindi il comma 9 riguarda l’onere della prova così come esso è ricompreso nel più ampio “onere
di dimostrazione” espressamente disciplinato nel contesto dell’art. 9.
1
Cfr. art. 21: «Per i reati previsti dalle leggi sui tributi diretti l'azione penale ha corso dopo che l'accertamento
dell'imposta e della relativa sovrimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti tale materia».
A questo proposito, riguardando la distribuzione degli oneri dimostrativi compiuti dal Legislatore
nel comma 9, può sorgere un momento di immediato imbarazzo perché sembra che una circostanza
sia posta a carico di entrambe le parti sotto il profilo probatorio.
Ad una prima lettura, infatti, il comma 9 produce il rischio di una contraddizione e di un conflitto
logico, laddove pone sull’Amministrazione l’onere di provare, fra gli elementi costitutivi
dell’abuso, anche l’assenza di sostanza economica e, allo stesso tempo, pone sul contribuente
l’onere di provare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali, non marginali.
Si tratta di una preoccupazione eccessiva.
Sembra che la distribuzione dei pesi probatori possa svolgersi secondo la seguente logica
funzionale:
-
L’Amministrazione, in assolvimento dell’onere di provare i fatti costitutivi dell’abuso, con
riferimento al requisito della assenza di sostanza economica ha l’onere di provare i fatti
costitutivi negativi che esprimano una sintomatologia in tal senso. Occorre che il Fisco
fornisca elementi indiziari che manifestano la mancanza di sostanza economia.
-
Il contribuente, raggiunto dall’onere di provare, in via di eccezione, i fatti impeditivi
dell’abuso, ha l’onere di provare i fatti impeditivi positivi che rivelino e siano espressione di
esistenza, in positivo, di valide ragioni extrafiscali non marginali.
Cosa accade dunque se l’Amministrazione prova l’assenza di sostanza economica e il contribuente
prova l’esistenza di valide ragioni extrafiscali non marginali?
La dinamica funzionale potrebbe essere ricostruita nei termini che seguono.
-
Se la legge stabilisce (comma 9) che “l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare
la sussistenza della condotta abusiva (…) in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2”,
orbene, fra quegli elementi v’è in modo molto netto la assenza di sostanza economica, che è
citata nel comma 1 e che è oggetto di specifica previsione nel comma 2, lettera a).
-
Ciò tradotto in termini probatori, significa che l’Ufficio ha anche, non solo, l’onere di
provare tutte le circostanze di fatto che rivelino, in negativo, che le operazioni siano prive di
sostanza economica. L’Ufficio deve dare conto di una specifica sintomatologia in tal senso.
-
Il giudice, nel verificare il corretto assolvimento dell’onere della prova, se ritiene che non
sia stata fornita la prova circa l’assenza di sostanza economica, potrebbe a quel punto
annullare l’accertamento per infondatezza della pretesta tributaria.
-
Nell’ipotesi in cui l’amministrazione abbia fondatamente assolto ai propri oneri probatori
circa tutti i caratteri costitutivi dell’abuso, ivi compresa l’assenza di sostanza economica,
ecco riemergere il ruolo della controparte privata: il contribuente ha, a quel punto, l’onere di
fornire la dimostrazione, quindi anche la prova dei fatti, circa l’esimente del comma 3, ossia
circa la presenza di valide ragioni extrafiscali non marginali.
-
Se il ricorrente riesce ad offrire la prova di tali circostanze di fatto impeditive, la fattispecie
antiabuso è disinnescata, per effetto della prova dell’esimente.
-
Viceversa, in presenza del pieno assolvimento degli oneri della prova da parte del Fisco, il
mancato assolvimento dell’onere di provare i fatti impeditivi da parte del contribuente
dovrebbe condurre ad una pronuncia di rigetto del ricorso e conferma della fondatezza
dell’accertamento anti-abuso.
Il comma 9 in definitiva porta a dire che la prova sulle valide ragioni economiche/extrafiscali non è
tutta e solo a carico del contribuente, come aveva finito per sostenere la prevalente giurisprudenza
di cassazione negli ultimi tempi circa l’abrogato art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973.
L’assenza di sostanza economica è in prima battuta oggetto degli oneri probatori del Fisco; assolti
questi, la dimensione dimostrativa extrafiscale è oggetto anche di controprova impeditiva da parte
del contribuente con effetti sterilizzanti e neutralizzanti sulla pretesa.
In questo senso, questo comma 9 sembra proprio ispirato dal desiderio di porre argini alle decisioni
della Corte di cassazione che non solo avevano affermato la rilevabilità dell’abuso, ma che avevano
anche sostenuto che è onere del contribuente fornire prova delle valide ragioni economiche.
L’assetto impresso dal comma 9 appare come una matura applicazione del principio di vicinanza
della prova già da tempo affermato dalla Corte di cassazione, tale per cui l’onere di provare i fatti
non è collocato in base alla posizione sostanziale nel giudizio (attore: fatti costitutivi; convenuto:
fatti modificativi, impeditivi, estintivi), bensì in base alla prossimità alle fonti di prova. In tale
contesto, può essere accettabile che alcune circostanze di fatto siano poste a carico di entrambe le
parti del processo: ad una come fatto costitutivo negativo e a un’altra come fatto impeditivo. Ciò
che sfugge all’Amministrazione e che coglie come sintomo di assenza di sostanza economica,
perché nulla di diverso il Fisco ha potuto reperire con gli ordinari poteri istruttori amministrativi,
può invece essere offerto sull’altare del processo dal ricorrente, il quale, prossimo alle fonti di
prova, può disporre di elementi inaccessibili alla sfera conoscitiva dell’Ufficio.
4. Riscossione frazionata in pendenza di giudizio e titolo esecutivo in tema di abuso
Nella marcia di avvicinamento dell’atto verso il processo, un problema che si pone riguarda la
riscossione, posto che come è noto ordinariamente la proposizione del ricorso comporta il
pagamento di un terzo del tributo accertato e dei relativi interessi, a norma dell’art. 15 del D.P.R. n.
602 del 1973.
A tale proposito, la disciplina specifica contenuta nell’art. 10-bis, comma 10, deroga al modello
ordinario di riscossione frazionata in pendenza di giudizio: la riscossione del tributo, degli interessi
e della sanzione è rimandata alla sentenza di primo grado che, se favorevole al contribuente,
comporterà il recupero di due terzi degli importi accertati. E così via, in base alle misure di recupero
stabilite dall’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992 e dall’art. 19 del D.Lgs. n. 472/1997 (le intere somme in
caso di sentenza di appello favorevole all’Ufficio).
In questo, l’art. 10-bis recupera la medesima disciplina contenuta nell’abrogato art. 37-bis.
Un elemento di riflessione nuovo è però il seguente: l’accertamento anti-abuso segue il modello di
riscossione a mezzo ruolo? Oppure segue il modello di riscossione tramite accertamento esecutivo
di cui all’art. 29 del D.L. n. 78/2010?
Non vi sono tracce risolutive nel testo dell’art. 10-bis, se non nel fatto che il comma 10 non parla di
somme iscritte a ruolo ma, più genericamente, di importi “posti in riscossione”.
Ora, sembra che non vi siano ostacoli per affermare che l’apposito accertamento parziale ex art. 10bis è un accertamento esecutivo.
Con una particolarità, però, rispetto al comune accertamento esecutivo: esso non può contenere
l’intimazione al pagamento della frazione dovuta in caso di ricorso, perché l’art. 15 del D.P.R. n.
602 del 1973 non si applica.
In questo caso, pertanto, il precetto è solo modulato sulle intere somme dovute in caso di mancata
impugnazione. Se il contribuente non propone ricorso, l’accertamento diventa esecutivo decorso
inutilmente il termine per il ricorso giurisdizionale e le intere somme dovute saranno affidate
all’esattore da parte dell’Agenzia delle entrate.
La circostanza che l’accertamento anti-abuso sia un “apposito atto” agevola la sua conformazione
come atto complesso con precetto integrale e senza intimazione delle somme frazionate in caso di
ricorso.
D’altro canto, sotto il vigore dell’art. 37-bis, l’Agenzia aveva già riconosciuto (nota prot. n.
2011/141776) la possibilità che l’accertamento esecutivo potesse contenere un intimazione ad
adempiere all’obbligo di pagamento degli importi dovuti a titolo provvisorio che fosse relativa agli
altri recuperi diversi da quello elusivo.
In sostanza, secondo l’Agenzia, le fattispecie di cui all’art. 37-bis “costituiscono eccezione alla
riscossione a titolo provvisorio, con particolare riguardo agli importi oggetto di intimazione ad
adempiere”.
L’accertamento rimane titolo esecutivo, ma non per le somme che sarebbero dovute in caso di
ricorso, rispetto alle quali l’art. 10-bis, comma 10, vale ad escludere l’obbligo di pagamento e
quindi la possibilità di formare oggetto di intimazione ad adempiere.
Pertanto, in caso di sentenza di primo grado favorevole, le somme dovute di due terzi dell’accertato
non saranno recuperate a mezzo ruolo, ma formeranno oggetto di atto di rideterminazione, con
intimazione ad adempiere, da notificare da parte dell’Agenzia delle entrate ai sensi dell’art. 29,
comma 1, lettera a), del D.L. n.78/2010. Lo stesso discorso vale rispetto alla sentenza di appello o
di cassazione, se favorevole.