teatro verdi di busseto, festival verdi 2014: “la traviata”

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teatro verdi di busseto, festival verdi 2014: “la traviata”
TEATRO VERDI DI BUSSETO, FESTIVAL VERDI 2014: “LA
TRAVIATA”
“LA TRAVIATA”
Dramma lirico in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry SONIA CIANI
Alfredo Germont FABRIZIO PAESANO
Giorgio Germont MANSOO KIM
Flora Bervoix ANASTASIA PIROGOVA
Annina MARIANNA MENNITTI
Gastone OTAR JORJIKIA
Il barone Douphol ANDREA PELLEGRINI
Il marchese D’Obigny NICOLÒ DONINI
Il dottor Grenvil ANDREA PATUCELLI
Giuseppe LUCA VISANI
Un domestico di Flora MAURO MARCHETTO
Un commissionario SANDRO PUCCI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Stefano Rabaglia
Maestro del coro Andrea Faidutti
Regia Henning Brockhaus
Scene Josef Svoboda
Adattamento scenografia e video design Benito Leonori
Costumi Giancarlo Colis
Luci Henning Brockhaus, Andrea Borelli
Multimedia Mario Spinaci
Coreografie Valentina Escobar
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Bologna, Fondazione Teatro Regio di Parma,
Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, in collaborazione con Comune di Busseto, Teatro Giuseppe
Verdi di Busseto, Concorso Internazionale Voci Verdiane “Città di Busseto”, Scuola dell’Opera Italiana
– Fondazione ATER Formazione. Allestimento di proprietà della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi
dai bozzetti scenografici di Josef Svoboda
Busseto, 26 ottobre 2014
Anche in presenza di cantanti adeguati ma non eccezionali (e non sempre i cantanti sono eccezionali,
specialmente oggi nel repertorio verdiano) è possibile offrire al pubblico un prodotto degno se c’è “lo
spettacolo”, se cioè l’opera viene interpretata non come una messa cantata ma come una forma di
teatro nella quale il canto è solo uno degli elementi (ancorché il principale). Disgraziatamente in Italia
l’idea prevalente fra molti direttori artistici e buona parte del pubblico è che la funzione del regista sia
quella di provvedere a scene e costumi il più possibile fastosi o che almeno risultino bene in foto. Le
fotografie sembrano essere infatti l’unico criterio con il quale vengono scelti i registi e gli allestimenti.
Così sono più di vent’anni (dal 1992) che, in mancanza di idee migliori, in Italia e in tutto il mondo
(ultimamente a Melbourne) si ricorre a questa regia di Traviata di Henning Brockhaus, forte della
spettacolare scenografia di Josef Svoboda, che soddisfa insieme la necessità dei teatri di spendere
poco e l’infantile bisogno di meraviglia barocca ritenuto tipico del pubblico d’opera. La scena consiste in
una serie di pannelli a specchio, che riflettono i cantanti e – quando negli ultimi minuti di spettacolo
cambiano di angolazione – anche il
pubblico, un
bellissimo effetto che ha una lunga tradizione, almeno dal 1822, quando un simile congegno destò
l’entusiasmo del pubblico del Royal Coburg Theatre di Londra. Naturalmente lo specchio riflettente è un
oggetto ricco di possibili significati metaforici, ma, a parte le frasi ad effetto pubblicitarie, in questo
allestimento noioso e superficiale nessuna idea viene sviluppata e lo specchio rimane semplicemente
una trovata scenografica. I pannelli, posti a 45 gradi circa con il palcoscenico, riflettono delle immagini
proiettate sulla superficie del palcoscenico che fungono da scenografia (inizialmente si trattava di tele
dipinte). Nel secondo atto, ad esempio, si tratta della facciata di una casa di campagna. Il pubblico
vede così contemporaneamente Alfredo davanti alla casa e, nel riflesso, Alfredo che si
arrampica come un ramarro sui muri della casa.
L’esistenza di questo specchio gigante non sembra essere ignota ai personaggi, i quali, entrando in
scena, gli rivolgono tutti un’eloquente occhiata stupefatta, come a dire: “Toh! Uno specchio gigante!”.
Nemmeno le proiezioni sul pavimento sfuggono alla loro attenzione. Durante “Pura siccome un angelo”
la facciata della casa di campagna si riempie per qualche motivo di margherite e Violetta, smettendo di
prestare attenzione a Germont, ne rimane incantata come l’Alice disneyana (forse ricordando i tempi in
cui, prima di diventare Violetta, era stata Margherita?). Allo stesso modo, durante “Di Provenza il mare
e il suol”, la proiezione si trasforma in una collezione di foto di famiglia, che vengono accarezzate (sul
pavimento) da Alfredo. In fondo però La Traviata è un’opera psicologica e sociale. Queste goffaggini
scenografiche sarebbero facilmente dimenticabili in presenza di un lavoro sugli attori. Purtroppo è
questo ciò che tragicamente manca del tutto in questo allestimento, che si avvale di cantanti inesperti,
tra i quali vincitori e finalisti del 52° Concorso Internazionale Voci Verdiane “Città Di Busseto”, cantanti
della Scuola dell’Opera Italiana di Bologna e coristi del Comunale di Bologna. La più completa assenza
di recitazione è stata crudelmente enfatizzata dalla dimensione cameristica del teatro di Busseto, che
(purtroppo) permette di vedere da molto vicino le espressioni dei cantanti.
Sonia Ciani è una bella ragazza con una bella voce da soprano leggero,
apprezzabile soprattutto nei momenti più lirici e cantabili (“Dite alla giovine”, “Alfredo, Alfredo, di questo
core”, “Addio del passato”, “Parigi, o cara”…) e (unica nella compagnia) è un’attrice abbastanza
spigliata. È un’ottima Violetta per un teatro piccolo di provincia, ma sarebbe preferibile ascoltarla
piuttosto come Nannetta in teatri importanti. Fabrizio Paesano (Alfredo) è un tenore leggero dal timbro
piacevole, ancora acerbo e discontinuo sotto alcuni aspetti ma sicuramente sulla buona strada. La sua
scena del secondo atto lo ha visto un po’ in difficoltà, soprattutto la cabaletta “O mio rimorso! o
infamia!”, ma si è fatto apprezzare in “Parigi, o cara”. Anche nel suo caso, ci si augura che per il
momento mantenga la sua carriera su ruoli più leggeri. Non
manca invece di voce il baritono coreano Mansoo Kim, ma i centri sono occasionalmente ingolati, la
vocale “I” è un problema e gli acuti non sono sicurissimi, due difetti entrambi molto esposti dalla fine del
cantabile “Di Provenza il mare e il suol”. Molti suoni emessi da Mansoo Kim sono belli in sé, ma il
legato è assente. Soprattutto, da un punto di vista teatrale è una presenza incolore nei momenti migliori
e macchiettistica in quelli peggiori, soprattutto per una sua bizzarra tendenza ad assumere una
posizione del corpo rigida e pendente in avanti. Vocalmente adeguati e scenicamente impalati i
comprimari, fra i quali si segnala il Giuseppe misteriosamente accecato dall’ira ed incongruamente
eroico di Luca Visani. L’unico vero spunto di interesse
teatrale lo ha offerto però il soprano Marianna Mennitti che con le sue reazioni melodrammaticamente
eccessive ha trasformato Annina in un ruolo smaccatamente comico, di una comicità meta-teatrale
sullo stile di Anna Marchesini. È difficile dire se questo sia derivato da un’incredibile naïveté
dell’interprete o piuttosto da una sua protesta contro tutti i ridicoli cliché da filodrammatica di paese
presenti nello spettacolo. O si tratta invece di una scelta provocatoria del regista? Quello che è certo è
che ogni ingresso di Annina ha portato ad uno spettacolo mortalmente noioso una gradita, ancorché
assurda, vena di pazzia. Esilarante ad esempio la sua resa della scena con Alfredo nel secondo atto in
cui Annina entra diretta allo scrittoio in cui spera di trovare qualche soldo, si spaventa a morte per la
presenza di Alfredo che – non si sa perché – non aveva visto e finisce per venire quasi alle mani con
lui. Stefano Rabaglia ha diretto con grande pesantezza una svogliatissima e irriconoscibile Orchestra
del Comunale di Bologna. Ottima invece la prova del Coro del Comunale di Bologna. Il colpo di grazia a
questa produzione da dimenticare lo ha dato poi la decisione dissennata di eseguire lo spartito senza
nessun taglio, con tutti i pertichini e tutte le cabalette ripetute due volte. Sicuramente è importante
permettere al pubblico di ascoltare le architetture verdiane come le ha scritte l’autore, ma con un
Alfredo e un Germont già in difficoltà a finire i cantabili, con questa regia e con questo direttore, questa
scelta è stata invece la maniera migliore per convincere il pubblico della sacrosanta giustezza di quei
tagli di tradizione. Foto Roberto Ricci