Gwenever il bacio eterno

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Gwenever il bacio eterno
Selene Eulalia Cabras
Gwenever
Il bacio eterno
© 2011 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatrosilfilo.it
ISBN 978-88-567-XXXXX
I edizione marzo 2011
stampato da Digital Team sas, Fano (PU)
Distribuzione per le librerie Mursia s.p.a.
Gwenever
Il bacio eterno
A noi che siamo legati da un bacio eterno.
PARTE I
“Come on baby blue
Shake up your tired eyes
The world is waiting for you
May all your dreaming fill the empty sky”
(Oasis, Let there be love)
capitolo I
Due grandi occhi scuri come un bosco in penombra si spalancarono.
«Belit, si è svegliata!».
Cinque figure si precipitarono nella piccola stanza di Berta,
riempiendola di facce sconosciute e curiose. Un gatto nero
con il muso bianco che dormiva ai piedi del letto, si stiracchiò
e uscì disturbato.
«Buonasera, Joy! Hai fame?».
Joy ci mise un po’ a capire che la signora grigia e grassoccia,
con una vestaglia variopinta e grosse collane di fiori di plastica, parlava proprio con lei. Berta, la ragazza bionda che aveva
annunciato il suo risveglio, le sedette accanto. Profumava dolcemente di vaniglia.
«C’è un po’ di brodo di pollo, ti farà bene!».
«Che ne dite di andare di là? Quando ne avrà voglia verrà lei,
così la stiamo solo spaventando» propose un ragazzo pallido
e perfetto. L’attenzione di Joy si concentrò per un attimo su
di lui, per poi spostarsi sulla ragazza con la pelle color caffè e
i capelli rosso fuoco che parlò in quel momento.
«La tua sensibilità mi commuove, Ettore!» poi si avvicinò a
Joy e le porse la mano.
«Io sono Ortensia, ben arrivata».
A quel punto si fecero avanti anche i due ragazzi che erano
rimasti in disparte. Il primo, mingherlino e pieno di riccioli
castani, si chiamava Giona e non aveva smesso di sorridere a
Joy da quando era entrato ─ anche se lei non lo aveva notato
─ l’altro, più alto e con gli occhi un po’ a mandorla, era Leo.
«Dove sono?» sussurrò Joy.
Tutti sapevano il suo nome e le sorridevano amichevolmente
come se non facessero altro che aspettarla da tempo, lei invece non aveva idea di come fosse arrivata lì e cosa ci facesse.
«Ora fai parte di questa famiglia, ma ti assicuro che adesso è
meglio cenare. Le spiegazioni sono lunghe e complicate, non
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è questo il momento» disse dolcemente Belit, la strana signora, accarezzandole i capelli neri e lisci, poi uscì dalla stanza
invitando tutti a seguirla. Finalmente Joy rimase sola. Sentiva
voci e rumore di piatti provenire dalla camera accanto alla sua
ma si sforzò di non farci caso, voleva assolutamente capire
cosa le stava succedendo. In quel momento si rese conto che
le uniche cose che sapeva erano il suo nome e quello di chi
le si era appena presentato. La sua testa era vuota e dolente,
non aveva ricordi ma solo un vortice di confusione che la frastornava. Stare sola la angosciava ancora di più, così si alzò.
Indossava una lunga vestaglia di mille colori che le ricordava
quella di Belit, e quasi sicuramente le apparteneva, vista la
misura, e dei calzini di spugna blu. Seguì la luce e le voci ed
entrò in cucina. Anche quella stanza era piccola, ordinata e
colorata. Ogni parete era pitturata in modo diverso: una gialla,
una arancione, una verde e una viola. Al centro c’era un tavolo
rettangolare apparecchiato con una tovaglia a quadri rossi e
un servizio a fiori. Fra Ettore e Berta c’era un posto per lei.
Joy si sedette e proprio quando Belit mise a tavola una grossa
pentola piena di brodo di pollo si ricordò di avere uno stomaco, o qualcosa che gli somigliava. Di fronte a lei c’era Giona
che per tutta la sera la osservò in modo discreto e gentile. Joy
scrutò attentamente i suoi commensali, uno ad uno. Cercava
in loro qualcosa di familiare e conosciuto, senza nessun risultato. Solo quando il suo sguardo incontrò quello di Giona
guizzò in lei un’emozione strana, ma nient’altro.
Mentre tutti scherzavano e chiacchieravano, la sua angoscia
si placava. Era come guardare la TV da un divano comodo, si
sentiva un’estranea in un contesto accogliente che le piaceva.
Dopo il brodo arrivarono due teglie di patate e molto vino.
Ettore le riempì il bicchiere poi alzò il proprio in aria.
«Un brindisi per la nostra nuova sorella, benvenuta a casa
Joy Hallett!».
Tutti alzarono i bicchieri pieni, esultarono e le sorrisero, a
quel punto timidamente sorrise anche lei. Belit mise in tavola
un vassoio di biscotti fumanti che sparirono nel giro di pochi
secondi. Il vino continuava a girare da un bicchiere all’altro,
solo Belit e Giona erano ancora sobri.
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«Giona, portala in camera sua!» esclamò Belit iniziando a
sparecchiare.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, liberò Joy da un
monologo di Ortensia e la accompagnò al suo letto tenendola
per mano.
«Ti va di vedere un film?» le chiese avvicinandosi allo scaffale dei film di Berta.
«Solo se si tratta di una commedia».
Giona ne scelse una, accese il vecchio televisore e si sdraiò
accanto a Joy. Il torpore che le asfissiava il cervello iniziava a
liberarla lentamente e Giona, che le stava vicino in silenzio,
la faceva sentire meglio. Prima che la commedia terminasse,
con gli stomaci pieni, si addormentarono sfiorandosi delicatamente.
***
Passarono alcuni giorni prima che Joy si sentisse totalmente
lucida e che le sue giornate perdessero i contorni sfumati del
sogno. Una mattina si svegliò presto, pronta a chiedere spiegazioni.
«Buongiorno cara, va meglio oggi?».
La voce di Belit era calda come i biscotti che aveva appena
sfornato. I suoi occhi piccoli e blu le sorridevano. Aveva il
grembiule sporco di farina e le mani forti, sembrava una nonna affettuosa pronta a coccolarla. Joy si sedette accanto a lei
e non rispose. Aveva voglia di piangere e sussultava per spingere le lacrime indietro. Belit si sfilò il grembiule, le sedette
accanto e le porse un biscotto.
«Lo so perché piangi... vorrei aiutarti ma ancora, dopo tanto
tempo, non sono brava in questi momenti... e poi ho promesso a Giona che sarebbe stato lui a spiegarti tutto. Però una
cosa voglio dirtela, qui sei al sicuro, sei a casa. So che è la tua
prima volta a Gwenever ma ti abituerai, presto capirai tante
cose e ti dico anche che un giorno ci tornerai!».
Ascoltare Belit era come bere una camomilla, riusciva a calmare e rilassare. Joy si asciugò il viso con il dorso della mano
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e, anche se effettivamente aveva capito poco, stava meglio. Le
sorrise per ringraziarla.
«Cos’è quella faccia, Joy? Abbiamo appena deciso di organizzare un torneo di nascondino, levati quella vestaglia e fatti
dare un paio di jeans da Berta!» ordinò Ortensia prendendola
per le mani e tirandola su. Berta aveva già preparato dei vestiti
puliti per lei.
Il sole era alto e forte, il vento lieve e piacevole. Era la prima
volta che Joy metteva piede fuori e rimase sconvolta quando vide cosa c’era in giardino. Un cancello bianco e scolorito
divideva l’ingresso di casa da un cimitero sterminato. Tutti
risero della sua faccia.
«Nessuno ti ha spiegato niente? Belit è una guardiana di anime dannate, ma buone! Tutte quelle anime che sono state maledette o non battezzate nel periodo della caccia alle streghe
e dell’Inquisizione! Ma è anche custode di anime di passaggio
come le nostre, in giro troverai la tua lapide» disse Leo, con la
naturalezza di chi sta osservando il tempo. Joy si sentì mancare. Fu investita da un conato di vomito all’idea di essere a
pochi passi dalla sua tomba e credette di trovarsi prigioniera
in un covo di pazzi. Anche se aveva perso la memoria, era
sicura che nei suoi ricordi non ci fosse niente che riguardasse
guardiani di anime, streghe o simili.
«Ma cosa le stai dicendo? La stai sconvolgendo e spaventando, prima di spiegarle queste cose dobbiamo fare un discorsetto! Joy, dimentica tutto quello che hai sentito, siamo in
un cimitero abbandonato e dobbiamo giocare a nascondino,
ok?» disse Giona in tono rassicurante dandole una pacca sulla
spalla. Joy si sforzò di restare in piedi, ma le sue gambe cedettero.
Ettore la prese al volo, cercò di non ridere e la adagiò a terra,
poi le soffiò in faccia per rianimarla.
«Gwenever chiama Joy!».
Tutti risero, pochi secondi dopo lei si rimise in piedi.
«Ok, giochiamo».
«Tu in coppia con me, sola potresti perderti!» le disse Ortensia prendendola a braccetto e schiacciandole un occhiolino.
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«Dato che Joy gioca per la prima volta non la faremo contare, si annoierebbe!».
«Ortensia, quanto sei furba! Ma al prossimo giro Joy viene
con me» disse Ettore con tono mellifluo. Ortensia gli rispose
con un gestaccio. Tutti, tranne Joy e la sua accompagnatrice,
si disposero a cerchio.
«Buttiamo un numero!» esclamò Berta.
Al centro del cerchio vi erano quattro mani, Berta contò
fino a diciotto.
«Conta Giona!».
Giona sbuffò, odiava contare, ma andò a poggiarsi con le
spalle contro un albero morto e bruciacchiato.
«Arrivo fino a cento!» urlò, ma erano già spariti tutti.
«Guarda dove metti i piedi, stellina» avvertì Ortensia. In
quel momento Joy abbassò lo sguardo e notò le radici esplosive che smuovevano la terra insieme a blocchi di marmo malmessi. La voce di Giona echeggiava fra le tombe, era arrivato
a quarantasette.
«Ti porto nel mio nascondiglio preferito, ma non dire a nessuno dov’è!» esclamò Ortensia, continuando a correre con un
bel sorriso stampato in faccia. Joy, ansante, cercò di biascicare
un sì, ma riuscì solo ad emettere un rantolo e a evitare una
storta. Il cielo si era ingrigito. Ortensia si infilò in un cunicolo
di tombe monumentali: erano angeli monchi a misura d’uomo, donne in lacrime e bambini tristi. Ortensia frenò davanti
a una lapide di marmo annerito su cui erano adagiati due angeli paffuti, sormontata da un cespuglio spinoso.
«Cento! La caccia inizia!» urlò Giona.
«Aiutami a spingere, Joy».
«Cosa?».
«Spostiamo la lapide!».
«Che schifo, sei pazza?».
«Qui nelle tombe non trovi cadaveri, solo anime scorbutiche, se sei sfortunata, ma non è il nostro caso. Sei a Gwenever,
stellina, ma forse ogni tanto lo dimentichi! Le tombe come la
tua, che sarà qui da qualche parte, sono... dei mausolei, insomma. Sono i luoghi della memoria della nostra vita oltre la
vita. Quando vorrai potremo andare a cercare la tua, e capirai
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meglio... e comunque questo è solo un vecchio nascondiglio
per ladruncoli» aggiunse Ortensia sbuffando, perché Joy non
si decideva a darle una mano e dovette fare tutto da sola, poi
senza darle il tempo di ribattere la tirò giù e insieme richiusero
la lapide.
«Berta trovata!».
«Di solito ci mettiamo di meno a trovarla, sta migliorando»
ridacchiò Ortensia.
Si udirono passi rapidi sul terreno accidentato, poi nell’aria
scoppiò la risata divertita e soddisfatta di Giona.
«Ovviamente Berta non ha fatto “libera”» spiegò Ortensia
facendo spallucce.
Nel frattempo Ettore si fiondò giù da un ramo, ruzzolò in
una pozza di fango ma si rialzò in tempo per buttarsi con tutta la forza che aveva contro l’albero bruciacchiato.
«Libera!».
«Con lui è noioso giocare, vince sempre» commentò Ortensia.
«E tu sei brava?».
«Abbastanza, spero di non dover rallentare a causa tua!».
«Non ti assicuro niente» disse Joy, un fianco le faceva ancora
male per la corsa di prima.
«Visto Leo!».
Giona correva spingendo al massimo della sua velocità, anche se non era necessario perché Leo non era esattamente
uno sportivo, anzi, ogni tanto l’ombra di una piccola pancia
faceva capolino dalla cintura dei suoi pantaloni. Naturalmente
Giona arrivò per primo e si sedette sulla lapide smossa dalle
radici dell’albero-casa. Senza toccarlo, aspettò che Leo fosse
a pochi passi da lui, poi con una faccia da sbruffone puntò
l’indice contro la corteccia bruciata. Leo si lasciò cadere sulle
ginocchia e sdraiato sulla terra brulla, sfinito, iniziò a riprendere fiato e il rosso fuoco dalle sue guance lentamente svanì.
«Ortensia e Joy, ora sono tutto per voi!».
Ortensia spostò la lapide, aiutò Joy a tornare all’aria aperta e
la richiuse. Raccolse delle pietre abbastanza grosse e le lanciò
con alcuni secondi di distanza l’una dall’altra, dal lato opposto
rispetto al suo nascondiglio. Joy la imitò.
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«Mentre Giona penserà che siamo da quella parte, noi andiamo dritto».
Ortensia si arrampicò, agile come una scimmia, su un albero dal tronco possente. Anche questa volta Joy la imitò ma si
graffiò uno zigomo, le mani e la schiena. I rami erano robusti
come vecchi pontili, le ragazze vi camminarono facendo attenzione e poi provarono a saltare sull’albero successivo. Joy
piombò a terra con un tonfo sordo, strozzando un urlo di
dolore. Ortensia si mise una mano in bocca per non scoppiare
a ridere, con un balzo arrivò a terra e la aiutò a rimettersi in
piedi.
«Per me questa è la strada più veloce, ma con te arriveremmo nella prossima vita, su corriamo!».
Giona conosceva un falso nascondiglio di Ortensia, esattamente nella direzione in cui lei aveva lanciato le pietre. Mentre
si acquattava fra una lapide e l’altra, le due ragazze avevano
raggiunto l’albero-casa.
«Libera per tutti!» urlò Ortensia. Joy intanto era a terra, trafelata. L’ultima volta che aveva corso fingeva di essere una
ladra, aveva avuto circa dodici anni. Quando il suo respiro
tornò regolare realizzò che quello era il primo ricordo che le
veniva in mente, sorrise a se stessa. Nascondino era davvero
un bellissimo gioco. Qualcuno le sfiorò il collo, lei sobbalzò.
«Ehi, calma... sono io! Alzati, ora giochi con me».
Era Ettore che le sfiorava la schiena con tocchi delicati. Joy
sentì un fremito attraversarle la spina dorsale come una scossa
elettrica.
«Forza, buttate un numero!» strillò Leo.
«No! Conto io» disse Berta, dispiaciuta.
«Fantastico, ci vediamo domani mattina» sbuffò Ortensia.
«Arrivo fino a centotre» disse Berta, con indifferenza, portandosi indietro i capelli corti e sudati. Finché poteva, evitava
qualsiasi discussione. Un attimo dopo era sola con il tronco
bruciato.
«Con Berta che conta possiamo farci una bella passeggiata»
disse Ettore in tono di scherno.
Joy gli stava dietro evitando di toccarlo. Anche di spalle era
bellissimo e statuario, le sue braccia erano disegni armoniosi.
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Distratta dai movimenti sinuosi di Ettore, non si accorse di
avere davanti a sé un piccolo burrone.
«Aggrappati alla mia schiena».
«Non mi sembra necessario».
Ettore la prese da un braccio e la tirò a sé, il naso di Joy
arrivava alle sue labbra.
«A me sì».
Senza ribattere Joy gli strinse le gambe intorno ai fianchi,
si tenne alle sue spalle forti e affondò il viso nei suoi capelli
castani e lisci che avevano un profumo secco e aromatico.
Ettore fece qualche passo indietro, poi saltò.
«Ora puoi scendere se vuoi».
I due avanzarono di pochi metri, poi il ragazzo scostò una
tenda di radici e foglie secche che pendeva dal terreno sovrastante, rivelando una piccola caverna.
«Entra e non dire a nessuno che questo è il mio nascondiglio!».
«Ci sono serpenti o vermi?» chiese Joy titubante.
«Chissà, ma tanto al buio non si vedono!» rispose Ettore
spingendola dentro e lasciando ricadere la tenda. I loro corpi
erano premuti contro la terra umida. Joy tremava all’idea che
qualche animale viscido e molle potesse entrarle nei vestiti e
schiacciarsi sulla sua pelle.
«Avanti principessina, vieni qui» disse Ettore sbuffando e abbracciando Joy in modo che potesse poggiarsi sul suo petto.
«Ora va meglio, grazie».
«Quando sentiremo arrivare qualcuno saliremo sull’albero
proprio sopra di noi, da lì prenderemo la mia scorciatoia e
avremo un leggero vantaggio rispetto a Berta».
«No, niente alberi! Prima con Ortensia sono arrivata a terra,
mentre provavo a saltare da un ramo all’altro!».
Ettore cercò di trattenersi ma poi iniziò a ridere senza contegno, Joy gli mollò una gomitata.
«Non preoccuparti, ci penso io».
Non passò molto e si sentirono passi incerti muoversi verso
la piccola caverna.
«C’è qualcuno?» era la voce mielata di Berta.
Senza preavviso Ettore spinse Joy fuori dal nascondiglio e
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come se fosse un sacco di patate se la caricò sulle spalle, poi
agile come un gatto saltò sull’albero più vicino e superò la rete
che divideva il territorio delle lapidi su cui avevano giocato
fino a quel momento, da uno più solitario che Joy non aveva
notato. Si ritrovò in un prato immenso disseminato di croci
bianche. Si perdeva a vista d’occhio, leggermente pettinato da
un venticello leggero che tra le lapidi monumentali e i grossi
alberi non riusciva ad arrivare.
«Il terreno è in pendio ma tu fatti forza con le croci e corri!» tagliò corto Ettore, senza darle modo di guardarsi ancora
attorno.
Joy, in pendenza e zigzagando fra le croci, non riusciva a
tenere il passo. Dopo circa sei metri, Ettore, facendo leva su
una staccionata di metallo nero, balzò dentro un recinto. Joy
invece di farsi forza sulla staccionata, vi si lasciò andare facendo penzolare le braccia in avanti e cercando di recuperare una
respirazione normale. Dopo qualche minuto riuscì a scavalcare e finalmente i suoi piedi poggiarono su un terreno piano.
La terra recintata era poca e custodiva vecchi alberi morti, tutti stretti e aggrovigliati intorno a un masso piantato nel fango,
su cui si sedette immediatamente. Ettore ridacchiò.
«Che hai da ridere?».
«Niente, ancora per poco!».
In quel momento Joy sentì una folata di aria gelida sul collo.
«Tu, zombie idiota, togli il tuo sedere tracotante dalla mia
lapide!» urlò una voce isterica e ghiacciata. Joy terrorizzata
schizzò a nascondersi fra due arbusti, tremante come una foglia.
«Non ci sono lapidi qui» bisbigliò a Ettore. Poi spostando
timidamente lo sguardo sul masso si sentì mancare. Una figura di fumo, evanescente, e circondata da luce bianca e flebile,
fluttuava a mezz’aria fissandola con aria minacciosa. Era una
ragazza magra e lentigginosa, dai tratti spigolosi e i capelli
rossi e lunghi fino ai fianchi, come quelli di Joy.
«No, stupida idiota! E cosa ti sembra questa?».
Ettore rideva tenendosi la pancia, Joy gli lanciò una ghianda
marcia in fronte e poi cercò nel masso qualcosa che lo facesse
somigliare a una lapide. Fondendosi con il vento la ragazza
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inconsistente si fiondò su Joy e la strinse per la collottola,
poi la trascinò verso la pietra. Ettore smise di ridere e iniziò
a soffiare e aiutandosi con le mani pulì la facciata del masso,
svelando un’incisione consumata dal tempo:
“Ad Anna,
il mio unico amore.
Ci ritroveremo presto, ti cercherò ovunque,
Mattia”.
Joy sentì una lacrima rigarle il viso, era sempre stata romantica.
«Scusa, Anna, ma io non lo sapevo...».
«Sei perdonata per questa volta, ora andate via! E tu, caro
Ettore, sei il demone bianco più odioso che esista!».
I due tornarono alla tana senza fretta, erano tutti lì tranne
Berta.
«Libera per tutti!» urlò Ettore.
Joy si sedette per terra con le gambe incrociate e la faccia
stravolta.
«Che è successo a Joy?» chiesero tutti.
«Ha solo conosciuto Anna!».
«Mi hai portata lì per farmi spaventare, per ridere di me! Sei
davvero odioso, ha ragione Anna» disse Joy, poi si alzò e si incamminò verso casa. Ortensia provò a fermarla ma lei si chiuse
la porta alle spalle, senza nemmeno voltarsi a guardare indietro.
Quando la sera dopo cena Ettore propose di andare a giocare
a nascondino, Joy filò nella sua stanza sbattendo la porta con
violenza. Ortensia fece per seguirla ma Belit la fermò.
«Non credo che il cimitero di notte sia il posto migliore per
lei, adesso. Andate pure, riposarsi non le farà male».
Uscirono tutti, quando Joy sentì che il gioco era iniziato uscì
anche lei. Si sedette sulla soglia dell’uscio di ingresso e chiamò
Queeny, il gatto nero.
«Ti insegno un gioco» disse, mentre Queeny si acciambellava sulle sue ginocchia. Vicino a un vaso di gelsomino c’era
una pallina di gomma verde e nera. Joy la mostrò al gatto poi
la lanciò.
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«Vai a prenderla!» esclamò, incitando il gatto a correre con
un buffetto sul sedere, ma Queeny la guardò con i suoi occhioni gialli e pacifici, le strofinò il muso sulla guancia e tornò
a ronfare.
«Vuoi insegnare il riporto a un gatto?».
«Ce l’ho fatta con un coniglio» era il secondo ricordo che le
tornava in mente.
Giona le sedette accanto e le sfiorò dolcemente una spalla.
«Ettore oggi è stato molto stupido, ma forse sono stato stupido anche io perché dovevo venire a parlare con te prima».
L’aria fredda della sera era piena del canto dei grilli, in lontananza, oltre il recinto bianco di casa di Belit, si vedeva il
profilo di un campo di grano mosso dal vento e illuminato
dalla luna pallida.
«Sono pronta, parla».
«Be’, io non so proprio da dove cominciare. Gwenever è
il luogo dei non morti e dei morti. Delle persone che sono
morte sulla terra e ora sono qui in attesa della loro prossima
vita e di chi invece facendo del male ha consumato la propria
anima ed è condannato a passare qui l’eternità. Noi siamo
demoni bianchi, vuol dire che siamo state persone buone. Poi
ci sono i demoni neri, quelli che hanno commesso qualche
errore, non troppo grave. Demoni bianchi e neri sono a Gwenever di passaggio. Infine ci sono le anime che passeranno qui
l’eternità, i dannati. Anche loro, come i demoni, si dividono in
due categorie. I primi sono quelli che dormono qui nel nostro
cimitero o in altri simili, come Anna. Lei è stata accusata di
stregoneria nel 1307 ed è morta bruciata viva, maledetta dal
suo popolo. Fa parte di quella schiera di fantasmi che la gente viva crede di sentire nelle vecchie case abbandonate o nei
castelli antichi. I secondi sono molto pericolosi, sono quelli
che hanno perso ogni possibilità di riscatto commettendo in
vita crimini atroci. Sono mostri costretti a vagare senza mèta
nell’eternità, non devi mai fidarti di loro. Potrebbero rubarti
l’anima perché leggende antiche e oscure narrano della possibilità di appropriarsi del soffio vitale di qualcun altro... non
so se questo sia vero, ma so per certo che se un dannato ti
strappasse l’anima faresti la loro stessa fine! E sta’ lontana
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dal quartiere Kirkoff, e lì che vivono. Ah, c’è un’ultima cosa
che devo dirti... quando a Gwenever arriva una nuova anima
vengono convocati tutti coloro che in vita la conoscevano,
parenti e amici, se viene convocata più di una famiglia queste
discutono per decidere chi accoglierà il nuovo arrivato».
Joy era perplessa, a tratti sconvolta e terrorizzata. Si palpava
il viso e le braccia e li sentiva caldi sotto le dita. Eppure era
morta.
«E chi mi ha voluta qui?» chiese, anche se una mezza idea
già l’aveva.
«Io... non so come ci siamo conosciuti, ma quando ti ho
vista il tuo volto mi è subito tornato alla mente».
«Come sarebbe a dire che non sai come ci siamo conosciuti?».
«Non sono per niente bravo con le spiegazioni. A Gwenever non abbiamo ricordi delle nostre vite passate, ciò che siamo stati lo sanno solo i custodi come Belit. Ogni custode ha
un gruppo di anime in affido, una famiglia come la nostra, e
si dice anche che conservino i ricordi non so dove... in stanze
grandi come dei musei forse! Tutto questo giro di parole per
dirti, quindi, che da vivi ci siamo conosciuti, ma non posso
sapere né come, né dove.
«Ma io ho dei ricordi, a volte! Sono banali, ma appartengono a me, da viva...».
«Nella nostra anima resta tutto scritto, è come se fosse un
diario segreto, quindi può capitare che una situazione ne richiami un’altra ma si tratta solo di immagini o sensazioni».
«E... che mi dici della mia tomba?».
«Questo è ancora più complicato da spiegare, è meglio che ti
porti a vederla direttamente» rispose Giona, in imbarazzo.
Joy gli sorrise e lo abbracciò.
«L’idea di essere morta non mi piace molto, ma grazie per
avermi voluta con te».
«Ma tu qui non sei morta! È la prima volta che vieni a Gwenever, non hai la minima idea di cosa ti aspetta! I veri morti,
qui, sono i dannati, quelli senza speranza a cui non resta altro
che farsi schiacciare dall’eternità. Una cosa muore quando è
finita. Tu non sei ancora finita!».
Joy ammise a se stessa di essere stordita e confusa, forse
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anche spaventata, ma non aveva voglia di sentire altro né di
mettere Giona in difficoltà e per questo lo seguì in silenzio
senza fare altre domande.
«Libera per tutti!» gridò Ortensia non molto lontano.
«Per stasera basta, fa troppo freddo» disse Berta.
Giona prese Joy per mano e la guidò lungo uno stretto sentiero di selciato nascosto da rovi e arbusti, che scorreva lungo
la linea di recinzione del cimitero. Camminarono per qualche
mimuto che a Joy sembrò infinito, finché non si fermarono a
pochi passi da una piccola piazza cinta da uno steccato di legno chiaro e chiusa da un cancelletto in ferro battuto decorato con grosse rose nere. Al suo interno custodiva sette lapidi
tutte uguali. Erano lisce e bianche, ordinatamente conficcate
nel terreno, separate da file di fiori notturni aperti alla luce
della luna. Sotto ogni lapide c’era una ciotola d’argento, e al
suo interno riluceva una fiammella.
«Vuoi entrare?» chiese Giona.
Joy annuì.
La sua tomba era in prima fila accanto a quella di Berta.
Quando sfiorò la propria foto con l’indice sentì il flusso del
sangue fermarsi e il calore della sua pelle diventare ghiaccio
bruciante.
QUI GIACCIONO I RICORDI DI
JOY HALLETT
CUSTODITI DALLA GUARDIANA BELIT
CHE DI LEI SI PRENDERÀ AMOREVOLMENTE CURA.
GWENEVER: X
ANNO TERRESTRE DELLA MORTE: 2009
«Che vuol dire “Gwenever X”?».
«Che è la prima volta che vieni a Gwenever, sei un’anima
giovane! Il più vecchio di noi è Ettore» disse Giona accompagnando l’amica alla lapide di Ettore e sottolineando la dicitura
finale dell’incisione:
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GWENEVER: XXXX
ANNO DELLA MORTE TERRESTRE: 1343 - 1532 - 1796 - 1998
Joy si sentì mancare. Impallidì e dovette sedersi sul selciato
perché le gambe le tremavano.
«Si può stare a Gwenever tutti questi anni?».
Giona ridacchiò.
«Non esiste il tempo qui!».
«Sono l’unica ad essere stata a Gwenever per la prima volta
nella nostra famiglia?».
«Sì. Le anime nuove come la tua sono rare. Potresti anche
essere stata concepita proprio qui a Gwenever quindi tecnicamente saresti già stata qui, ma quella volta, ammesso che sia
così, non vale. La conta parte dalle morti».
Joy deglutì, quella cosa era sicura di non averla capita davvero.
«Giona, ti ringrazio davvero. Avevo proprio bisogno di parlare con te, ma forse è meglio che io ora vada a letto».
«Ti accompagno».
Tornati a casa Joy lo baciò su una guancia, cercò Queeny
perché si sentiva meglio quando dormiva con lui, ed entrò
nella sua stanza. Sul termosifone era piegato il suo pigiama
rosa. Era caldo e soffice, indossarlo fu un sollievo. Queeny
era già sotto le coperte e Joy lo raggiunse subito. Stava per addormentarsi quando qualcuno aprì la porta, ma non vi badò,
convinta che fosse Berta. Quel qualcuno invece si sedette sul
suo letto e le scostò i capelli dal viso.
«Scusami per stamattina».
«Lasciami in pace, voglio dormire!» esclamò Joy riconoscendo la voce di Ettore e voltandosi dall’altro lato.
«Non pensavo che ti saresti spaventata così, dai guardami
un attimo».
«Solo se dopo mi lasci dormire».
«Va bene».
Joy prese Queeny in braccio e si mise a sedere.
«Togli questo gattaccio!» esclamò Ettore scacciando il gatto.
Queeny gli diede una zampata su un ginocchio e si andò a
sdraiare sul letto di Berta soffiando e digrignando i denti.
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«Volevo perdonarti ma ora ho cambiato idea» disse Joy infastidita dalla sua prepotenza.
Si fissarono per un attimo, poi Ettore poggiò la testa sul
cuscino a pochi centimetri dalla sua e iniziò ad accarezzarla...
finché Berta non aprì la porta, ma la richiuse subito, rossa per
l’imbarazzo.
«Forse dobbiamo salutarci per stasera» disse lui stampandole un bacio in fronte e dileguandosi. Joy riprese Queeny fra le
braccia e Berta entrò.
«Scusa» mormorò.
«Tranquilla, è anche la tua stanza ora!».
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capitolo II
Joy, Giona e Leo erano impegnati con Queeny: volevano a
tutti i costi insegnargli a fare il riporto. Così da qualche settimana tutte le sere, dopo cena, si sedevano davanti casa e costringevano il povero gatto a rincorrere la sua vecchia pallina.
Quando Queeny riusciva a scappare, esausto e nervoso, loro
rimanevano fuori, a volte fino all’alba, a parlare e ridere. Ogni
tanto Ettore spiava Joy da una finestra della cucina nascosta
da una tendina verde e un panciuto vaso di gerani, la osservava per un po’ e poi tornava a guardare la TV o a giocare
a carte con Belit. Quando Joy rientrava lui dormiva già da
qualche ora.
Un pomeriggio Joy legò la pallina a un filo di spago e chiamò Leo e Giona per andare a sperimentare la sua nuova idea.
Contro la sua volontà, trascinarono Queeny con loro.
«Ho pensato che tenendo la pallina legata possiamo muoverla a distanza e, magari, Queeny, vedendo che si muove,
avrà la voglia di prenderla».
Joy lanciò la pallina ma il gatto rimase immobile a guardarla
con aria annoiata. Dopo alcuni secondi Joy iniziò a strattonare
il filo e quello catturò subito l’attenzione di Queeny che tirò
fuori gli artigli e vi si fiondò sopra.
«Non ha riportato la pallina, ma almeno siamo riusciti a
smuoverlo!» esclamò Leo.
«È già un passo avanti» disse Giona mettendo un braccio
intorno alle spalle di Joy.
«Piccioncini, la cena è pronta».
Quel tono acido e scorbutico era di Ettore, nessuno riusciva
a essere terribilmente irritante pronunciando solo poche semplici parole in modo impeccabile e sempre azzeccato come ci
riusciva lui.
«Ok, Queeny, hai mezz’ora di libertà!» esclamò Joy, ignorando Ettore alle sue spalle.
Come sempre Giona si sedette vicino a Joy che era seduta
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vicino a Ortensia. Quella sera Ettore si sedette di fronte a
lei e per buona parte della cena la fissò con aria visibilmente
arrabbiata.
«Chi vuole un’altra fetta di torta?» chiese Belit.
Tutti le misero davanti il proprio piatto, Ettore invece si alzò
spostando la sedia rumorosamente, lanciò a Joy uno sguardo
sdegnato e uscì. Joy aveva ben capito che Ettore voleva parlarle, ma prima finì il suo pezzo di dolce poi lo raggiunse in
giardino.
«Che hai?» gli chiese a bruciapelo.
«Ti piace Giona, vero?».
«Non sono affari tuoi. Comunque Giona è un amico, anzi,
il mio migliore amico».
«Non credo che se facessi questa domanda a lui avrei la stessa risposta».
«Ettore, fatti gli affari tuoi. Devi dirmi altro?».
«No. Volevo solo stare un po’ con te, ultimamente il gatto e
Giona sono i tuoi unici interessi...».
«Ma non è vero, stupido! E poi non sono mai da sola con
Giona, c’è anche Leo con noi» ribatté lei, sorridendogli. Non
succedeva da molto tempo.
«Entriamo a vederci un film? Lascia stare Queeny per una
sera».
Joy ci pensò su, poi decise di accettare. Rientrando in casa
trovò Leo e Giona che avevano già catturato Queeny.
«Ettore mi ha chiesto di vedere un film stasera, venite anche
voi?» chiese Joy un po’ imbarazzata.
«Perché no, che film?» ribatté Leo, sempre innocente e smaliziato, ma Giona smorzò subito il suo entusiasmo.
«No, grazie. Sei davvero gentilissima».
Afferrando Leo per un braccio uscì.
«Vedi che avevo ragione? Un amico non se la sarebbe presa
così tanto» sibilò Ettore soddisfatto.
«O la smetti o me ne vado» sillabò Joy fissandolo negli occhi
con aria seria e dura.
Scelsero un film d’azione, abbastanza violento, e Joy iniziò
molto presto a sbadigliare e a sentire freddo. Ettore prese una
coperta dal suo armadio poi si sistemò bene, abbracciò Joy
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e incastrò la testa fra il suo collo e la sua spalla. Si strinsero
finché non si riscaldarono. Fuori si era alzato un vento freddo
che imprecava contro le finestre e filtrava da ogni fessura. Joy
sperò che Giona e Leo fossero rientrati, poi si addormentò.
Aprì gli occhi all’alba, si liberò dall’avvinghio di Ettore e
corse in camera sua cercando di non svegliare nessuno e sperando che Berta non avesse notato nulla. Riprese sonno e non
si svegliò finché Belit non sfornò i biscotti per la colazione.
Quando Joy entrò in cucina si accorse che Giona aveva
cambiato posto ma accanto aveva ancora una sedia libera che
lei occupò subito.
«Buongiorno, ragazzi!».
Giona le voltò le spalle e andò a buttarsi sulla poltrona di
Belit per starle il più lontano possibile. Leo le fece cenno di
stare zitta e la bloccò quando lei provò ad alzarsi per raggiungerlo, offesa e indispettita. Ettore arrivò per ultimo con aria
trasognata e rilassata.
«Che facce ragazzi, tutto ok?».
Ortensia gli mollò una gomitata nello stomaco e gli infilò un
biscotto in bocca. Giona lottò contro se stesso per reprimere
l’impulso di lanciargli contro la tegola decorata di Belit appesa
alla sua destra, infine reputò saggio tornare nella sua stanza.
«Ha dormito male?» sussurrò Berta, la solita stralunata, a
Leo.
«Malissimo!» rassicurò lui, per evitare che il discorso potesse
avere un seguito.
«Io l’ho detto che ieri sera ha mangiato troppo, voi non mi
ascoltate mai ed ecco i risultati!» esclamò Belit con aria dispiaciuta.
Tutti risero, tranne Berta che ancora vagava con la mente
nel suo mondo parallelo. Dopo il terzo panino con la marmellata, Leo chiese a Joy di appartarsi un attimo.
«I miei sospetti sono realtà» bisbigliò quando furono lontani
da orecchie indiscrete.
«Che sospetti?».
«Sveglia, Joy!» strillò lui «Pensa a un solo motivo plausibile
che gli abbia procurato questa reazione!».
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«Parli di Giona?».
«Ci sei o ci fai?».
Joy iniziò a roteare gli occhi all’infinito come faceva sempre
quando rifletteva o parlava animatamente.
«C’è un solo motivo che mi viene in mente, ma non sono
così presuntuosa da affermare che sia questo».
«E allora vai a parlare con lui, così vedrai che la tua intuizione è quella giusta!».
«No! Devo avere qualcosa da dirgli, anzi, io non devo dirgli
proprio niente, è lui che mi deve delle spiegazioni».
Dopo prediche e giri di parole Leo convinse Joy ad andare
a cercare Giona. Lo trovarono nell’angolo più selvaggio del
cimitero, seduto su un arbusto, chiuso in un recinto nero, intento a parlare apparentemente solo...
«Giona ama parlare con Anna, si somigliano».
Alla luce del sole così forte, la ragazza allampanata era quasi
invisibile. Bisognava sforzare la vista per riconoscere i suoi
tratti fluttuanti nell’aria. Anna doveva averli visti arrivare perché Giona si voltò guardandoli in cagnesco. Ma Leo era un
abile persuasore, Joy non si fece intimidire e andò a scavalcare
il recinto.
«Ciao Anna».
«Ciao gatta morta».
Joy sentì uno spruzzo gelido sul collo che le fece svolazzare
i capelli.
«Non mi piace che mi schivi senza una ragione» disse Joy
prendendo Giona dal mento e costringendolo a guardarla negli occhi.
«Faccio quello che mi pare».
«No, ho passato ogni sera, da quando sono qui, con te e una
mattina tu decidi che non merito nemmeno il tuo saluto?».
Giona le spinse via la mano e si alzò, erano faccia a faccia.
«Ettore è un cretino, Joy. E tu, come tutte le ragazzine stupide, sei caduta ai suoi piedi! Non voglio che qualcuno giochi
con te».
«Non sono una bambina. Sono felice che tu ti preoccupi per
me ma non devi reagire così. Sei il mio migliore amico, Giona,
conto sempre su di te».
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Giona iniziò ad accarezzarle i capelli, mentre Anna alle sue
spalle gli rivolgeva una sequela improponibile di gestacci. Joy
ci pensò su per un attimo, poi decise di non chiedergli niente
di quello che aveva stabilito con Leo e tornarono da lui.
Per quella sera abbandonarono l’idea di costringere Queeny
a fare un gioco da cane, e rimasero dentro a guardare un film
molto simile a quello scelto da Ettore la sera prima.
«Pessima scelta» sentenziò Giona all’ennesimo sussultò di
Joy. Leo però non era tanto più coraggioso, durante le scene
più cruente si copriva fino alla fronte. L’unico stomaco di ferro era Giona, quello con l’aspetto più dolce e innocuo.
«Che ne dite di una partita a carte?» chiese Ortensia, spalancando la porta della camera, armata di un sorriso smagliante.
«Veniamo subito!» esclamò Giona, non vedeva l’ora di spegnere la TV.
«Il prossimo film sarà una commedia!» dissero all’unisono
Joy e Leo. Belit fu felice di vedere di nuovo il trio seduto
insieme e di sentire che l’armonia nella sua casa era tornata
quasi subito.
Ettore provò a barare molte volte ma Giona era determinato a scoprirlo subito, sembrava davvero accanito contro di lui.
Berta e Joy giocavano sempre in coppia ma nessuno era abile
come Ortensia e Belit. Queeny invece si rilassava sul divano,
si puliva le zampe e si grattava l’orecchio, pronto a fuggire se
qualcuno gli si fosse avvicinato.
«Questi sono gli ultimi giorni di libertà che avete!» esclamò
Belit.
Joy guardò Giona con aria interrogativa.
«Tra qualche giorno inizia il campus! È come un’università,
ti divertirai tantissimo!» spiegò subito Leo.
«Noi saremo insieme, anche io devo iniziare dal primo anno»
disse Berta a Joy.
«Facciamo l’ultimo giro e poi tutti a letto» tagliò corto Belit
mescolando le carte.
Vinse Ortensia, si salutarono e si avviarono ognuno nella propria stanza. Berta e Joy camminavano nel corridoio al
buio. La loro stanza era l’unica da quel lato della casa, era
la più vicina al bagno e allo studio; il corridoio opposto era
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quello più rumoroso, lì c’erano le altre quattro camere. Da
quella di Belit uscivano miagolii e musica classica, ma da quelle di Ettore, Ortensia, Giona e Leo uscivano musica a tutto
volume, risate e altro ancora. Joy e Berta invece erano le più
tranquille. Loro quando erano da sole preferivano disegnare,
scrivere o leggere. A volte passavano ore a immaginare una
storia, disegnare i personaggi e tracciarne la trama.
«Vado un attimo in bagno» disse Joy.
Prima che accendesse la luce del bagno sentì qualcuno che
le strinse un braccio e la spinse dentro chiudendo la porta a
chiave.
Poi la luce si accese.
«Ettore, adesso mi fai anche gli attentati?».
«Devo fare questo per poter parlare con te, visto che il tuo
amichetto mi tiene sott’occhio».
Joy rise, non aveva tutti i torti.
«Io volevo dirti una cosa. Non è giusto che tu sia costretta
a scegliere me o lui. Devi poter stare con chi vuoi, o meglio,
con chi vuole stare con te».
«E vuoi stare con me proprio adesso in questo bagno?»
chiese Joy ironicamente.
«Mi sta bene ovunque».
Gli occhi dolci di Ettore erano fissi in quelli divertiti di Joy,
per la prima volta lei si accorse che li aveva verdi e molto scuri, quasi come i suoi.
«Sei adorabile, Ettore. Ma ora credo che sia meglio uscire
dal bagno, qualcuno potrebbe averne bisogno».
Ettore chiuse gli occhi e sospirò, le prese il viso fra le mani e
la baciò in fronte, poi spense la luce e al buio uscirono.
«Sei tornata finalmente!» esclamò Berta.
«Sì ma... non sono riuscita a fare pipì, c’era Ettore in bagno
con me, adesso che è chiuso nella sua stanza posso andare!».
«Ettore e Giona stanno un po’ esagerando».
«Io non so che fare, si offendono troppo facilmente» bisbigliò Joy dirigendosi verso la porta.
«Fa’ presto, ti aspetto sveglia».
33
***
Una ragazza con i capelli unti e il viso imbruttito dalla rabbia si allontanava scalciando come un cavallo imbizzarrito.
Anche quella sera i suoi piani diplomatici si erano rivelati un
vero fiasco. Lui non voleva saperne, non era affatto malleabile
come aveva creduto. Offesa e delusa temette che il suo progetto potesse fallire. Se la diplomazia con Romeo Wilton non
funzionava, bisognava usare le maniere forti. Avrebbe fatto
qualunque cosa per riuscire nel suo intento e avrebbe schiacciato senza pietà chiunque si fosse intromesso rallentando o
deviando il suo proponimento. Il tempo stringeva e il pericolo
che anche quel ciclo si potesse concludere come i precedenti
la gonfiava di rabbia e frustrazione. Non le andava più di essere considerata una clandestina e una reietta dal suo popolo,
solo perché nessuno accettava di unirsi alla sua famiglia. Era
arrivato il momento di imporsi, di dimostrare a tutti di cosa
fosse capace per raggiungere i suoi obiettivi, adesso non era
più importante farsi Romeo amico, potevano anche essere
acerrimi nemici. Ciò che contava era che lui, consenziente o
no, passasse dalla sua parte.
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capitolo III
Joy e Berta tornarono a casa molto tardi dopo il loro giro di
shopping sfrenato.
«Vi sono bastati i soldi?» chiese Belit vedendole cariche di
pacchi e buste.
«Sì, grazie! Abbiamo comprato anche qualcosa per te!» esclamò Joy, estraendo da un sacchetto una collana di conchiglie e
perline azzurre.
«Non dovevate» disse Belit, si emozionava molto facilmente.
Berta e Joy andarono nella camera di Ortensia e scaricarono
lì la loro spesa.
«Vuoi vedere cosa abbiamo comprato? Abbiamo trovato
vestiti bellissimi per domani sera» disse Berta iniziando a rovistare e a tirare fuori scarpe, pantaloni e abiti.
«Certo!» rispose Ortensia aiutandole a svuotare le buste.
Il suo letto si riempì di stoffe dai colori e le consistenze più
svariate, adesso bisognava solo stabilire cosa fosse di Berta e
cosa di Joy.
«Domani alla festa conoscerai tutti i nostri amici, c’è un ragazzo che è arrivato a Gwenever due giorni dopo di te!» disse
Ortensia.
«Parlatemi un po’ di loro, non sapete come mi imbarazza
l’idea di conoscere tanta gente nuova tutta in una volta!».
«Cominciamo da Abigail, che di solito chiamiamo Abby, e il
suo gemello Tobia. Li riconoscerai subito anche se Abby è più
bassa di Tobia hanno la stessa faccia rubiconda e gli occhi piccoli e scurissimi. Abby è fidanzata con Eddy, lo riconoscerai
sia perché sono sempre fastidiosamente incollati e poi perché
lui è il ragazzo più strano, se vogliamo usare un eufemismo,
che abbia mai visto e...».
«Ortensia, come sei cattiva!» intervenne Berta dandole un
buffetto in testa.
«Ok, vado avanti. C’è un’altra coppietta che è quella di Alvin
e Diana, lui lo riconoscerai dalle cravatte improponibili che
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usa, l’ultima volta che ci siamo visti ne aveva una verde acido
e fucsia, lei è molto carina, ha i capelli ricci sempre legati. La
testa del gruppo è Greta, una dei demoni più belli che abbia
mai visto. Ha un viso di porcellana, i capelli lunghissimi e
biondi e gli occhi dolci e grigi. L’ultimo arrivato era legato a
lei in vita. Di lui non so altro. E poi c’è il loro tutore, il signor
Manlio, un vecchio amico di Belit. Contenta?».
«Sì, adesso ho una mezza idea di chi mi troverò davanti».
***
Giona aveva stabilito che alle nove in punto sarebbero dovuto salire in macchina, ma alle nove esatte tutte le ragazze
erano ancora accalcate in bagno tra spazzole, profumi e rossetti.
«Aspetto cinque secondi, poi vado via e se vogliono vengono in metro» disse Ettore.
«Io ti seguo!» esclamò Giona, per la prima volta dopo molto
tempo erano d’accordo.
«Come siete esagerati, si sa che le donne fanno sempre
aspettare!» intervenne Leo.
«Ha ragione Leo, siate più pazienti!» disse Belit dalla sua
poltrona. Mezz’ora dopo arrivarono le ragazze. Ortensia era
la più eccentrica. Il corpo scolpito e nero sembrava ricoperto da una pioggia di diamanti, il suo vestito argentato non
passava inosservato. Berta era moderata come sempre, con il
suo vestito bianco e corto, ricamato di fiori neri. Joy aveva un
tubino rosa, che le scopriva la schiena, coperta comunque dai
capelli lunghissimi.
«Sei stupenda» le sussurrò Giona porgendole il suo cappotto viola. Joy arrossì.
Nel frattempo arrivò Leo con il furgoncino bianco e rombante di Belit.
Le finestre della casa del signor Manlio pulsavano per la musica sparata a tutto volume, Ettore dovette suonare più volte
prima che qualcuno gli aprisse. Infine arrivò Abigail.
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«Sei l’ultima arrivata? Io sono Abby!» esclamò una ragazza
formosa con il viso incorniciato da boccoli biondo cenere.
Joy rispose timidamente alla sua vigorosa stretta di mano.
«Su, entrate».
«Non ricordo se ho chiuso il furgoncino, arrivo subito. Fammi compagnia Joy» disse Ettore, dopo aver salutato Abigail.
Joy lo seguì, per non sembrare scortese.
Il furgoncino era chiuso.
«Entriamo, fa freddo!».
«Volevo solo guardarti bene».
«Mi fai sempre vergognare!».
«Senti Joy, c’è una cosa che voglio fare da un sacco di tempo...».
Prima che Joy riuscisse a scappare Ettore la prese dai fianchi, non le diede il tempo di ribattere e la baciò.
Joy sentì il cuore partirle a mille battiti al minuto, non per
l’emozione. Pensò di respingerlo, ma non lo fece perché non
voleva ferirlo. Poi pensò alle conseguenze di quel bacio, al
freddo che le mordeva le gambe e sperò che nessuno venisse
a saperlo. Finalmente Ettore si staccò, sorrideva, sembrava il
ragazzo più felice del mondo. Joy ricambiò il sorriso, anche se
il suo era forzato e titubante. Sperava solo che il suo compagno non si mettesse strane idee in testa e che tutto finisse lì.
Quando suonarono, aprì la porta Giona.
«Joy, aspettano tutti te!».
«Oh, no! Non potete presentarmeli uno ad uno in stanze
separate?».
«Non sei la sola ad essere così restia alla gente nuova, Romeo si sente in imbarazzo come te» la consolò Giona.
Romeo era il nuovo ragazzo, Joy lo individuò subito perché
non corrispondeva a nessuna delle descrizioni che le aveva
fornito Ortensia. Era seduto su una poltrona nell’angolo più
buio del salotto, illuminato solo da due lampade. Indossava
una camicia bianca che faceva risaltare la sua pelle ambrata.
Aveva uno sguardo malinconico e orientale e i capelli nerissimi e spettinati.
«Ciao Joy!» un coro ridente la investì, seguito da tante mani
che stringevano la sua. Joy cercò di rispondere gentilmente a
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tutti senza impappinarsi e quando la folla si disperse arrivò
Romeo.
«Mi sento un po’ fuori posto, ma dalla tua faccia credo di
non essere l’unico».
Quella fu la conoscenza che Joy gradì di più e che le strappò
un sorriso.
«Anche lui è nuovo come te, ci conoscevamo in vita, sai?»
esclamò Greta abbracciandolo. Romeo rimase rigido come
un palo, poi sotto lo sguardo minaccioso di Greta, ricambiò
l’abbraccio. Erano tutti troppo concentrati su Joy e Romeo
per accorgersi di cosa succedeva in fondo al salotto, dove era
tutto avvolto nell’ombra.
«E noi non siamo inclusi nelle presentazioni di famiglia?»
sibilò una voce inquietante. Tutti si voltarono verso la grande
finestra in fondo alla stanza. Una ragazza con gli occhi piccoli
e maligni, i capelli oleosi appiccicati al viso squadrato, la bocca
larga e il corpo mascolino li osservava con aria impertinente,
reggendosi a un angolo della libreria. Al suo seguito tre uomini oscuri e cavernosi quanto lei.
«Frida non sei gradita» ringhiò Greta.
«E nemmeno i tuoi amici» aggiunse Alvin.
«A Romeo fa piacere la nostra visita, vero?» chiese Frida con
un sorriso mellifluo avanzando verso il centro della stanza.
«Solo se fa piacere a tutti».
«E questi chi sono?» chiese Ortensia sconvolta.
«Nessuno di importante» rispose Greta con aria di sfida.
Il quartetto rise, latrò. Joy sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene.
«Non puoi pretendere che sia tutto per te» intervenne il demone più alto, aveva una dentatura perfetta e capelli ispidi e
neri.
«Ma posso pretendere che voi usciate subito da casa mia,
Demiro» ruggì la ragazza.
Giona spinse Joy su un divano, Tobia fece lo stesso con
Romeo.
«Che succede?» farfugliò Joy intuendo che le cose si mettevano male.
Le due famiglie si schierarono con i pugni serrati davanti al
quartetto.
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«In questa casa i demoni neri non sono ammessi, non fatevelo più ripetere» disse Alvin.
Le espressioni gradasse sul volto di Frida e dei suoi scagnozzi sparirono e comparvero occhi di fuoco e denti serrati.
«Se Romeo si alza ed esce con noi non succederà nulla» disse un demone biondo con una guancia segnata da impercettibili cicatrici.
«Boris, le tue minacce non spaventano nessuno» ribatté Eddy.
Lui sì che faceva paura. Era alto e massiccio il doppio di Demiro, con il volto segnato dalla rabbia era quasi animalesco.
«Non finché non avremo stabilito un patto» disse l’ultimo
demone, il più piccolo e magro, con la faccia lunga e il sorriso
furbo.
«Cesare, parli anche tu?» scherzò Ettore.
Il demone ringhiò.
«O scendiamo a compromessi o non ci muoviamo da qui»
tagliò corto Frida.
In quel momento Greta scattò. Con un balzo fulmineo e le
mani a mo’ di artigli si avventò su Frida. Da quell’istante Joy
non distinse più nulla. Lei e Romeo si tenevano per mano sul
divano accucciati e terrorizzati, sussultando a ogni gemito di
dolore senza sapere nemmeno a chi appartenesse. Regnava
la totale confusione. I mobili venivano sbalzati via per non
intralciare il passaggio, dietro un tavolo volante si nascondeva
Boris che soccombeva a Ettore, a pochi passi da loro Frida
riuscì a bloccare un colpo di Greta e a immobilizzarla.
«Demiro, vieni!» gridò contratta per lo sforzo. Il demone
lottava contro Berta ma per liberarsi velocemente di lei la prese dalle spalle e la scagliò contro un muro. Ettore lasciò Boris
a Diana e Giona, e con Abby e Tobia accerchiarono Frida
e Greta impedendo a Demiro di raggiungerla. Leo, Alvin e
Eddy si lanciarono contro Cesare che aveva tentato di attaccare Ortensia alle spalle. Quando il passaggio fu sgombero,
Joy e Romeo gattonarono dietro un divano per raggiungere il
corpo di Berta svenuto.
«Trasciniamola su un divano» disse Joy mentre la prendeva
dalle braccia. Romeo la afferrò dai piedi e sempre attenti a
non farsi vedere troppo, cercarono di tornare al loro posto.
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«Boris, prendi Romeo e portalo qua!» urlò Frida, la sua voce
sembrava un rantolo proveniente da una caverna.
Quando Boris si avvicinò a Romeo con aria sbruffona, Joy
lasciò Berta per un attimo e gli lanciò in faccia un vaso mezzo
rotto.
«Schifosa ragazzina!» ringhiò il demone coprendosi un occhio e indietreggiando. Sanguinava copiosamente e per un attimo Joy temette di averlo accecato, ma quando Boris si ripulì
con il dorso della mano vide che i suoi occhi erano sani, gli
aveva solo squarciato il viso dallo zigomo al labbro.
«Grazie» disse Romeo caricandosi Berta sulle spalle. Con
Joy che gli copriva la schiena arrivarono al divano e la fecero sdraiare. I demoni neri erano in netto svantaggio, Boris
era fuori gioco perché il taglio sul viso era fresco e il sangue
gli scivolava viscosamente in bocca provocandogli nausea e
impedendogli di respirare bene. Era meglio tagliare la corda
prima che la situazione peggiorasse.
«Non finisce qui» disse Frida, scagliando una gomitata sui
denti ad Alvin e tuffandosi fuori dalla finestra. Con la stessa
velocità sparirono anche i suoi scagnozzi.
«Tu me la pagherai!» urlò Boris prima di correre via.
Per pochi istanti rimasero tutti pronti all’attacco temendo
una finta uscita di Frida e un ritorno a sorpresa, ma quando si
resero conto che ormai il pericolo era passato si rilassarono.
«Manlio ci ucciderà» borbottò Greta, sfiancata.
«Ti aiuteremo tutti a sistemare ma prima dovresti darci delle
spiegazioni» disse Ettore, ed era anche abbastanza infuriato
ma cercava di non farlo vedere troppo.
«Avete ragione, è colpa mia se è scoppiato l’inferno e siete
stati travolti anche voi» si scusò Romeo, mortificato.
«Lascia stare, ci penso io a spiegare tutto...».
«Quando siamo stati convocati per il riconoscimento di Romeo, non eravamo soli. Con noi, nella sua camera, è entrata
Frida presentandosi come una sua vecchia amica, ed effettivamente è così. Il controllore ha preso la sua lista dei convocati
ma Frida non c’era, dopo una discussione accesa Romeo si è
svegliato e l’ha riconosciuta subito, ma il controllore non ha
voluto lasciarli andare senza vedere i suoi documenti. Lei non
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voleva mostrarli perché, come sapete, un demone bianco non
può essere affidato a un demone nero, quindi alla fine Romeo
è venuto con me. Da quel giorno Frida e i suoi compari ci
perseguitano, ma sapete cosa vogliono in realtà? Hanno bisogno di un quinto elemento, perché in quattro sono considerati
come demoni randagi e non possono essere catalogati come
famiglia dalla loro congrega».
«Romeo, tu devi stare attento, è molto pericoloso! Non sei
ancora in grado di fronteggiarli, evita di uscire solo e non
accettare mai di incontrarli se non c’è qualcuno con te!» gli
raccomandò Ortensia.
«Ma tu Joy cos’hai fatto? Perché Boris ce l’aveva con te?»
chiese Greta.
Joy e Romeo si guardarono e ridacchiarono.
«Gli ho tirato un vaso in testa, se no si sarebbe avventato su
Romeo!».
«Fantastico Joy, li abbiamo distrutti!» esclamò Abby.
«Ora basta chiacchiere, andiamo a prendere le scope» disse
Eddy.
«Qualcuno deve andare di là a intrattenere gli ospiti o inizieranno a chiedersi cosa sia successo».
«Diana, nessuno si chiederà niente, gli ospiti sono ubriachi come spugne, prendi una scopa anche tu e fa’ qualcosa»
ordinò Greta. Diana le dava sempre sui nervi. Abby e Eddy
tornarono carichi di palette, pezze e scope e non lasciarono
nessuno a mani vuote. Diana prese una pezza e iniziò a farla
svolazzare su alcuni ripiani, gli unici in cui non c’era nulla
di rotto, poi iniziò a starnutire vigorosamente e a stringersi
il petto con aria dolente. Alvin mollò la sua scopa e corse a
sorreggerla.
«Amore mio, tranquilla, ci sono io qui! Ti porto subito a
letto!».
Diana annuiva con la faccia contratta dalla disperazione, aveva gli occhi umidi come quelli di un cane bastonato. Mentre
Alvin la accarezzava come se fosse in punto di morte, Joy sentì
l’impulso di lanciargli qualcosa sulla nuca e farli smettere.
«Fanno sempre così?» chiese a Greta.
«Sì, insopportabili, vero?».
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Alvin e Diana sparirono incuranti dei commenti di Joy e Greta, anche quella volta erano riusciti a evitare un po’ di fatica.
«Greta ha trovato la sua compagna di polemiche» disse Diana a voce così alta che la sentirono tutti.
«Finalmente!» ribatté Greta.
Il salotto tornò decoroso che era quasi l’alba. Qualcuno
aveva spento la musica, un ragazzo dormiva sul tavolo della
cucina, altri due uscirono barcollando. Abby lasciò una busta
piena di cocci all’ingresso, vicino ad altri sacchi tutti pieni dei
resti di quella notte.
«Portali il più lontano possibile, prima che torni Manlio!»
disse a Eddy, poi andò a svegliare il ragazzo sul tavolo.
Quando tutto fu in ordine si sentirono Diana e Alvin scendere le scale.
«Si sono svegliati, i principi» borbottò Ortensia.
«Per dargli il buongiorno abbiamo preparato una sorpresa
tutta per loro!» esclamò Greta, scambiando un’occhiata complice con Joy.
«Che bello, finalmente è tutto pulito!» esclamò Diana stiracchiandosi.
«Non tutto» ribatté Joy, con uno sguardo serpentino che
nessuno le aveva ancora visto.
«Venite con me» disse Greta.
Diana e Alvin la seguirono borbottando, Greta aprì la porta
dello stanzino e accese la luce.
«Ci sono le scope e gli stracci da lavare, fate presto perché
fra poco torna Manlio, buon lavoro!».
Diana chiuse la porta sbattendola violentemente e mormorò insulti irripetibili.
«Spero che la prossima volta che ci vedremo non verrà nessuno a farci visita!» disse Greta tornando dagli altri. Le mani
di Joy e Romeo si sfiorarono quando si salutarono sotto gli
occhi vigili di Giona.
Pochi minuti dopo il pulmino rombante di Belit partì verso
casa.
42
***
Una sera Romeo prese coraggio. Era da un paio di giorni
che un pensiero lo tormentava e lui, concreto e risoluto, lo
scacciava, ma mai definitivamente. Quella sera ci rifletté un
po’ e infine inventò una scusa banale, disse a Greta che voleva
visitare il cimitero dei dannati custodito da Belit e uscì di casa
prima di cena. A Telica scese, cercò un fioraio e acquistò una
rosa rossa. Da giorni meditava di fare una sorpresa a Joy. Era
bravo a orientarsi, sapeva sempre trovare dei punti di riferimento e aveva uno spiccato sesto senso per riconoscere le
strade giuste. Seguendo le confusionarie informazioni che gli
aveva fornito Alvin trovò la villa della signora Belit. Rimase
un po’ a fissare la porta sperando con tutto se stesso di non
trovarsi Giona davanti, poi suonò.
«Ciao Romeo, vuoi entrare?» chiese Ortensia aprendogli.
«Preferirei che uscisse un attimo Joy».
«A tavola!» strillò Belit.
«Dovete cenare, torno un altro giorno, salutami Joy...» farfugliò imbarazzato.
«Dai, rimani a cena con noi!» esclamò Ortensia tirandolo
dentro, e quando gli prese il braccio vide la rosa che nascondeva dietro la schiena.
«Oh! Aspettami qui, ti mando subito Joy» bisbigliò con un
tono complice.
«Joy, ti cercano!» urlò socchiudendo la porta ed evitando di
dire chi la cercasse nella speranza che Giona non andasse a
controllare.
Romeo si nascose dietro lo stipite meditando di fuggire per
l’imbarazzo, ma Joy fu più veloce.
«Ehi... perché non entri?» chiese uscendo e socchiudendo la
porta, palesemente sorpresa e felice di averlo lì.
«Volevo solo darti questa...» disse Romeo porgendole la rosa.
Le fontanelle nascoste dietro gli occhi felici di Joy entrarono
in azione, e lei non riuscì a fermare una lacrima emozionata.
«Piangi troppo facilmente, lo sai?».
«Sono emotiva!» si difese Joy annusando il fiore rosso e lucido come la buccia di una mela fresca.
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«È bellissima!» aggiunse abbracciandolo.
«Io ora vado, devi cenare».
«Aspetta, non scappare così. Cosa vuol dire questa rosa?».
«Niente!» disse subito Romeo sulla difensiva. Joy ci rimase
male.
«Ok, scusami... io credevo fosse un modo per dirmi qualcosa... per definire i nostri ruoli».
Romeo la guardò con gli occhi strabuzzati, Joy volle sparire
credendo di aver travisato tutto e di aver detto la stupidaggine più grande della sua vita, soprattutto perché era solo la
seconda volta che si vedevano, anche se averlo lì le aveva fatto
capire di essere stata molto presente nei suoi pensieri, come
lo era stato lui per lei.
«Allora, io vado...» mormorò triste.
«Aspetta, non credevo che saresti stata così veloce a capire,
io a parole non sarei mai riuscito a dirtelo perché è ancora
così presto...» sussurrò Romeo passandole una mano sul collo. Erano vicini, Joy sentiva il profumo caldo del suo respiro
sul viso. La rosa li separava e Joy la adagiò sul tappeto. I loro
corpi si toccavano, le loro teste erano poggiate l’una contro
l’altra, socchiusero gli occhi...
«Joy, devi venire a tavola» disse Giona apparendo da dietro
la porta e ignorando Romeo e il loro momento.
«Lo so, grazie».
«Sarebbe educato da parte tua non farci aspettare ed evitare
di perdere tempo quando siamo a tavola. Devi rispettare gli
orari del pranzo e della cena soprattutto quando non hai nulla
di importante da fare».
Joy era paonazza dalla rabbia, Giona si allontanò ignorandola e calò il silenzio.
«Ci vediamo domani, se vuoi» disse accennando un sorriso
per smorzare la tensione.
«Salutami il tuo amico, forse non si è accorto che sono qui.
Faglielo notare».
«Mi dispiace, Romeo. Sono sicura che Giona voleva solo
avvertirmi che mi aspettavano a tavola... se sei libero domani
usciamo...».
«Domani è il primo giorno di campus».
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«Possiamo vederci dopo, se ti va».
«Ne parliamo domani, ora è meglio che vada».
Joy aveva voglia di piangere per l’imbarazzo. Era una furia.
Si appoggiò allo stipite incapace di dire qualsiasi cosa potesse
fermare Romeo e aspettò che si fosse allontanato prima di
chiudersi la porta alle spalle.
Il suo piatto era già pieno, prese posto fra Berta e Ortensia
e per tutta la cena non degnò Giona di uno sguardo e si dileguò appena poté. Solo la sua vista la innervosiva. Ortensia la
seguì e la dirottò nella sua stanza, lì avrebbero potuto parlare
liberamente.
«È successo qualcosa?».
«Giona» sibilò Joy.
«Immaginavo. Devi solo ignorarlo».
«Ci provo ma non ce la faccio».
Leo entrò senza bussare e si buttò sul letto accanto a Joy.
«Di nuovo problemi? Tu e Giona siete la coppia più simpatica che esista!».
«Non siamo una coppia. Non scherzare, Leo. Giona ha fatto scappare Romeo offeso. Molto offeso. Per rimediare gli ho
chiesto di uscire domani e come risposta ha mormorato delle
scuse, alla fine gli ho strappato un flebile “poi vediamo”...».
«Ehm... be’... sì, ti capisco Joy e ti do perfettamente ragione!
In effetti Giona ha un po’ esagerato. Vuoi che provi a parlargli
io?».
«Grazie, Leo. Cerca di farlo ragionare perché se andassi a
parlargli io finirei col mettergli le mani addosso».
«Tranquilla Joy, proverò a fare qualcosa io...».
«Ecco, bravo. Devi dire chiaramente a Giona che deve darsi
una calmata, Joy deve frequentare liberamente chi vuole» tagliò corto Ortensia.
«Cosa dirò a Romeo quando ci rivedremo? Se vorrà rivedermi...».
«Certo che vorrà rivederti, capirà che quello che è successo
non è colpa tua!».
«Lo spero, Ortensia. Che figuraccia!».
«Io vado a letto, su col morale Joy» disse Leo, abbracciandola.
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«Buonanotte» dissero all’unisono le ragazze e quando il loro
compagno uscì si infilarono sotto le coperte.
«Domani al campus cerca Romeo e sii simpatica e naturale,
fingi che non sia successo nulla! Dammi retta, ok?» suggerì
Ortensia pizzicandole affettuosamente una guancia.
«Ci provo».
Le due amiche si abbracciarono e si addormentarono come
ghiri.
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capitolo IV
«Sveglia!» esclamò Giona entrando nella camera di Joy e
Berta. Per costringerle ad alzarsi spalancò la finestra e alzò la
serranda. Il sole invase la piccola stanza calda e ingoiò rapidamente il buio che la avvolgeva.
«Giona, sparisci o potrei tirarti qualcosa addosso» gracchiò
Berta coprendosi la faccia con il cuscino. Joy passò all’azione
scagliandogli contro una delle sue ciabatte di peluche rosa.
«Che vuoi?» gli urlò mentre lui schivava il colpo.
«Dobbiamo andare a iscriverci ai corsi per il campus! Avete
mezz’ora per prepararvi!».
Dopo l’iniziale fase di confusione nevrotica, Joy e Berta passarono rapidamente dalla cucina al bagno.
«Oggi vedrai molte cose nuove, Joy» annunciò Giona quando uscirono di casa. A passo svelto imboccarono un sentiero
che tagliava per un parco, da lì scesero le scale di un tunnel
nero. Giona si avvicinò a un cubicolo e posò dei soldi sul bancone, poi tornò dalle ragazze con un biglietto per ciascuna.
«Dove siamo?» chiese Joy.
«In metro. Il campus è abbastanza lontano» spiegò Berta.
Seguendo la folla svoltarono a destra e arrivarono a un binario
annerito... su cui fluttuavano dei seggiolini gialli. Mostrarono i
biglietti a un uomo in divisa e tre seggiolini arrivarono subito
galleggiando all’altezza della loro pancia. Berta e Giona si sedettero, Joy rimase immobile a fissare il seggiolino volante.
«Veloce, ragazzina! Non vedi che c’è tanta gente che aspetta?» tuonò l’uomo in divisa.
«È nuova, è la prima volta che prende la metro» la giustificò Giona tirandola su e ridendo della sua faccia sconvolta.
Sul bracciolo c’era una piccola tastiera, lì bisognava digitare la
destinazione.
«Allaccia le cinture e non ti sporgere» raccomandò Giona a
Joy sfiorandole una guancia. I sedili imboccarono un cunicolo
con le pareti blu, ingrigite dal tempo. C’era molta gente e l’aria
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era piena di brusii e parole. Le fermate distavano circa quindici metri l’una dall’altra, ognuna era annunciata da un varco
seguito da un atrio di posteggio per i sedili e da un grosso
cartello scritto con colori vivaci. Joy si teneva stretta con la
schiena irrigidita contro lo schienale leggermente imbottito. I
piedi che penzolavano nel vuoto la innervosivano. Il seggiolino svoltò di nuovo, adesso viaggiava fiancheggiato da una
corsia che andava in direzione opposta. In mezzo alla folla
che sembrava venirle addosso, Joy riconobbe un viso che le
accelerò i battiti del cuore.
«Romeo!».
«Joy!».
Quando furono abbastanza vicini Joy e Romeo si slacciarono le cinture e con un salto si buttarono giù dal seggiolino in
movimento.
«Sei pazza?» urlò Giona afferrando il seggiolino di Joy per
evitare che le finisse in testa.
«Volete suicidarvi qui?» inveì un uomo baffuto virando agevolmente per non decapitarli.
Berta e Greta, nella corsia opposta, digitarono qualcosa e i
cinque seggiolini si spostarono sul marciapiede più vicino.
«Abbassate le teste!» urlò Greta.
Una vecchia signora passando li ricoprì di improperi. Romeo e Joy erano ancora al centro dei binari, prima che un
seggiolino sfrecciasse proprio sopra di loro si coprirono e con
le schiene ricurve si buttarono sul marciapiede.
«Siete due incoscienti!» sbraitò Greta infuriata.
«Andiamo adesso, per favore?» chiese Giona, era rosso di
rabbia. Romeo stava per dire qualcosa ma si zittì subito sentendosi lo sguardo iroso di Giona addosso. Lui e Joy si sorrisero timidamente poi ognuno riprese il suo posto.
«A stasera» sillabò Giona rivolgendo un cenno di saluto a
Greta. Berta li salutò con la mano.
La fermata per il campus era una delle ultime. Usciti dalla
metro il sole e l’aria fresca li investirono. La rabbia dal viso di
Giona non si affievolì nemmeno quando arrivò il loro turno
per prendere i moduli dell’iscrizione. L’atrio della segreteria
brulicava di ragazzi impazienti.
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«Cosa ti serve?» biascicò una donna ossuta e giallognola.
Degli occhialetti fucsia le scivolavano continuamente sul naso
adunco, e lei li ritirava su nervosamente.
«Un modulo per il terzo anno e due per il primo».
La signora iniziò a rovistare in una pila infinita di carte, le
imprecazioni dei ragazzi stanchi di stare in fila la mandavano
su tutte le furie.
«Consegnali compilati correttamente allo sportello accanto» disse, sbattendoli con veemenza sul bancone su cui era
appoggiato Giona che, con gli stessi modi sgarbati, li passò a
Berta e Joy. Nella fredda camera di marmo grigio non c’erano
né sedie né leggii liberi, le ragazze si poggiarono sulle rispettive schiene per scrivere.
«Scegliamo gli stessi corsi?» propose Joy, l’idea di affrontare
troppa gente nuova da sola la angosciava.
«Certo! Ma, ora che Giona si è allontanato, mi spieghi che
gli è preso?».
«Vorrei saperlo anche io, non è la prima volta che si comporta così... ma ne parliamo meglio a casa».
Berta e Joy, di comune accordo, scelsero di seguire costituzione di Gwenever, arte, letteratura ─ cosa scrivono i mortali
sulla vita nell’aldilà ─ ailuromanzia ─ divinazione del comportamento dei gatti ─ e infine astragalomanzia ─ divinazione dei dadi. Si voltarono per cercare Giona nella folla e lo
trovarono già in fila al secondo sportello.
«Consegnagli i nostri moduli, se mi avvicino io potrebbe
strapparmeli in faccia» disse Joy porgendo a Berta anche i suoi
fogli attentamente compilati. Joy notò la faccia scura di Giona
quando prese i moduli, ma per non innervosirsi gli diede le
spalle.
«Giona dice di aspettarlo alla fermata» le disse Berta raggiungendola.
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***
Greta stava finendo di apparecchiare il tavolo, era sola in
cucina, quando sentì un tonfo provenire dal bagno. Trasalì ma
prese coraggio e spalancò la porta.
«Chi c’è?».
In risposta ebbe un rantolo. Accese la luce. Incastrato con
una gamba nel gabinetto e sorretto da un mobiletto a fiori,
c’era Boris.
«Sei bellissima, il verde ti dona» farfugliò quando ebbe ritrovato i suoi occhiali e si fu rimesso in piedi.
«Va’ via da qui, Boris».
«Sono solo! Se ci fosse stata Frida credi che mi sarei potuto
permettere questa caduta?».
Greta iniziò a ridere ma si ricompose subito.
«Non importa, devi uscire da casa mia».
«Volevo solo salutarti».
«Sai che non mi fido di te» disse Greta indietreggiando. Un
bidet li separava.
«Non mi serve la tua fiducia adesso».
Gli occhi di Boris, piccoli e scuri, la scrutavano in modo
caldo, quasi invadente.
«E invece ti serve, se vuoi mettere piede in casa mia».
«Con chi parli Greta?» strillò Abigail dal piano di sopra.
«È la TV!» rispose Greta lasciando Boris in bagno e correndo a cercare il telecomando. Accese e mise un canale a caso,
poi tornò da Boris.
«Adesso scendo a farti compagnia io!» strillò di nuovo Abigail.
«Devi andare».
«Alla prossima Greta» disse il demone liberando la propria
gamba dalla trappola di ceramica bianca e uscendo dalla finestra, gocciolando acqua dappertutto.
«Come ti sembra la mia torta?» chiese Abby interrompendo
la contemplazione del water che impegnava Greta.
«Fantastica Abby! Non ne rimarrà nemmeno una fetta» rispose ammirando una stella di morbido cioccolato. Quando
Abigail tornò in cucina Greta si chiuse in bagno e iniziò a
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tamponare la parete sperando che non rimanesse macchiata,
intanto il campanello suonò.
Dopo un coro di saluti, padroni di casa e invitati riempirono
la cucina.
«Alla carne ho pensato io!» esclamò Eddy mostrando a tutti
con orgoglio un vassoio fumante.
«Sedetevi, la pasta è pronta!» esclamò Greta mettendo in tavola un pentolone stracolmo di lasagne, pancetta e spezie. Joy
e Romeo si sedettero vicini ma la cena fu un incubo. Mentre
Abby non la smetteva di parlare e di raccontare nei dettagli la
sua giornata al mare con Eddy, Giona fissava Joy con aria di
rimprovero e commiserazione. Non la liberò del suo sguardo
nemmeno per un attimo. A fine cena Romeo ingurgitò la sua
fetta di torta, poi mormorando una scusa si alzò e uscì, non
sopportava più quello sguardo vigile che li controllava. Alvin
lo raggiunse.
«Che succede?».
«Non hai notato nulla?».
«Niente... a parte le lasagne di Greta...».
In quel momento uscì anche Joy, la sua faccia era una maschera di vergogna, fastidio e nervosismo.
«Scusami. So che Giona è intollerabile ma non so cosa fare...».
«Non scusarti, torna pure dentro dal tuo amico. Se ti fosse
dispiaciuto il modo in cui mi ha trattato gli avresti parlato,
ma dalle occhiate che mi ha lanciato stasera capisco che non
lo hai fatto» la interruppe bruscamente Romeo. Joy sentì le
lacrime pungerle gli occhi, alzò lo sguardo per trattenerle e
rientrò in casa. Le tremava la voce, ma si sforzò di sembrare
tranquilla.
«Non mi sento bene. Greta, se non è un problema vorrei
sdraiarmi, chiamatemi quando dobbiamo andare via» farfugliò. Aveva una mano sulle tempie per coprirsi gli occhi umidi
e fingere di avere mal di testa.
«Certo, va’ pure, la mia stanza è la prima che incontrerai nel
corridoio».
Mentre Joy era sdraiata in silenzio, umiliata e triste, Romeo
era ancora dove lo aveva lasciato.
«È successo qualcosa con Joy?».
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«Non proprio, il problema è il suo amico, le fa da cane da
guardia».
«Giona? Quello è innamorato perso di Joy, se non fosse secco e piccolo ti direi di stare attento» ridacchiò Alvin, lisciandosi la cravatta rossa a rombi marroni.
L’aria della notte era gelida, un cane ululava in lontananza.
«Qualcuno di voi vuole l’ultimo pezzo della torta di Abby?
Vi prego dite di sì o continuerà a supplicarci di mangiarla fino
a domani e io potrei volerle infilare un tappo in bocca!» bisbigliò Ortensia, con occhi che chiedevano pietà facendo uscire
la testa dalla finestra del bagno.
«Ci penso io!» esclamò Alvin. L’ultima fetta lo aspettava e lui
non si fece attendere.
«Joy posso entrare? Sono Abby».
«Certo, vieni».
Abigail si sedette sul letto di Greta.
«È tutto ok?».
«Non proprio».
«Riunione per sole donne?» cinguettarono Diana e Greta
entrando.
«Sì, venite. Joy ha davvero bisogno di ridere un po’».
Le ragazze si sdraiarono sul tappeto rotondo al centro della
stanza, le loro teste erano vicine, vicine.
«Allora, che succede?» bisbigliò Greta.
Joy respirò a fondo, aveva davvero bisogno di sfogarsi con
qualcuno.
«Giona è geloso» dichiarò Diana, quando Joy ebbe finito il
suo racconto.
«Ma Romeo è permaloso!» aggiunse Greta.
«Uomini, sono tutti uguali. Anche Alvin è geloso e permaloso!» disse Diana per confortarla.
«Con Eddy devo sempre pensare mille volte prima di dire una
frase, perché rischio che si offenda o si arrabbi inutilmente».
«Perché sono io l’unico cuore solitario?» si chiese Greta.
«Sei la mela sul punto più alto dell’albero, è difficile arrivare
a te» rispose Abigail sarcastica.
«Però se qualcuno non si sbriga rischio di finire male».
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Le ragazze risero.
«Anche io sono un cuore solitario» intervenne Joy.
«Ortensia mi ha detto di aver visto Romeo con una rosa per
te!» ribatté Diana.
«Sì, è vero, ma il nostro discorso è stato prontamente interrotto da Giona, quindi ufficialmente sono ancora un cuore
solitario».
«Fammi compagnia finché puoi, ai piani alti degli alberi!»
ridacchiò Greta.
«Ripensando alle frasi che rubo ai discorsi fra Romeo e Alvin, credo che Joy rimarrà lassù ancora per poco!» esclamò
Diana.
«Tu sai cosa pensa Romeo di Joy, e non ci hai mai detto nulla?!» chiese Greta strabuzzando gli occhi.
«Non ho mai sentito niente di particolarmente interessante,
quando mi vedono spuntare cambiano discorso!».
«Furbi...» commentò Abigail.
«Stronzi» sentenziò Greta.
«Non posso credere che Romeo a te non confidi nulla, dimmi la verità, Greta!» implorò Joy.
«Mi dice solo che gli piaci e che fra i suoi ricordi non c’è
niente che somigli a te, ma solo perché io lo bombardo di domande. Se non facessi così lui non spiccicherebbe nemmeno
mezza parola in proposito».
«E allora fagli più domande!» ordinarono perentorie Abigail
e Diana.
In quel momento la faccia assonnata di Ortensia fece capolino dalla porta.
«Ragazze, siete qui? Sotto parlano di fantacalcio e io non li
sopporto più».
«Berta dov’è?» chiese Joy.
«Si è addormentata su un divano, abbiamo provato a iniziare
una conversazione ma le mie speranze al riguardo sono state
subito violentemente ammazzate!».
«Siete tutti cattivi con Berta, lei non è noiosa come pensate
voi» disse Joy.
«Sta’ zitta, potrebbe svegliarsi!» la ammonì Ortensia chiudendo la porta e scivolando fra lei e Diana.
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«Diciamo che Berta è... un po’ distratta!» disse Abigail.
«E poi Joy, ti confido una cosa! Berta non è così buona e
dolce come sembra» bisbigliò Ortensia.
«Ma che dici?!».
«Ascoltami, Joy. La conosci ancora da poco tempo, vedrai
se ho ragione!».
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capitolo V
Primo giorno di Campus. Ignorando le suppliche di Leo,
Giona si rifiutò di accompagnare Joy e Berta alle lezioni.
«Verrò io con voi, sole vi perdereste!» esclamò Leo inseguendo le ragazze per strada. Stufe delle lagne di Giona, stavano andando via senza aspettarlo.
«Non lo sopporto più!» urlò Joy furente.
«Nemmeno io» aggiunse Berta.
«Dovete capirlo, ragazze».
«Cosa dobbiamo capire? Hai visto che figuraccia mi ha fatto
fare con Romeo l’altra sera?».
«Ok, ok. Cambiamo discorso. Che lezioni avrete oggi?».
«Prima astragalomanzia, poi letteratura» rispose Berta. Il
viaggio sulla metro questa volta fu tranquillo, senza incidenti.
Prima entrarono in segreteria.
«Dovete ritirare le tessere per entrare al campus» spiegò Leo.
La fila era più corta di quella di qualche giorno prima, c’erano
solo matricole.
«Documenti» sillabò annoiata la donna ossuta.
Berta e Joy li fornirono. La segretaria lesse i loro nomi.
«Berta Artois...» mormorò voltandosi verso una pila di
astucci bianchi; sulla cima, incollato sulla parete, c’era un quadratino di cartone con su scarabocchiate una A e una B. La
donna prese un astuccio e lo consegnò a Berta, poi ricontrollò
il documento di Joy.
«Joy Hallet... Joy Hallet...» si ripeteva mentre cercava nella
pila JH. Dopo qualche secondo consegnò un astuccio verde
lucertola a Joy.
«Ora siamo pronti per entrare!» esclamò Leo.
Uscendo dalla segreteria notarono una figura mingherlina e
riccioluta correre a passo svelto verso una muraglia di enormi
massi grigi così alta da impedire di vedere cosa vi fosse dentro.
«Guarda quell’idiota» disse Joy riconoscendo Giona.
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«Aspettiamo che entri, che ne dici?» propose Leo, perché
detestava litigi e incomprensioni.
Quando Giona non si vide più si incamminarono anche
loro. La muraglia era immensa e circolare, camminarono finché non arrivarono a un cancello di legno e ferro così grande
che guardarlo tutto faceva girare la testa.
«Si entra uno alla volta, basta inserire la vostra tessera, voi
che lo fate la prima volta dovrete anche scegliere un codice segreto. È importante che non lo diciate a nessuno! Se qualcuno
dovesse rubare all’interno del campus, entrando con la vostra
tessera, sareste arrestate voi!» spiegò Leo.
Berta inserì la tessera ma prima di digitare il codice ci pensò un po’ su. Poi quell’enorme portone rimase chiuso ma si
aprì una porticina ad altezza d’uomo. Non appena Berta ebbe
messo anche il secondo piede nel terreno del campus, la porticina si richiuse non lasciando passare nemmeno una mosca.
Toccava a Joy. Dopo molti ripensamenti digitò il suo codice
ed entrò. Leo le raggiunse immediatamente. Il campus sembrava un borgo medievale. Ovunque c’erano grandi tende variopinte che Leo indicò come aule-studio e oasi di panchine
all’ombra di antichi alberi poderosi. Al centro c’era un castello
di pietre rossicce, si ergeva su una base quadrata e si divideva
in quattro torri esagonali sormontate da una cupola di vetro,
ognuna risplendeva di un colore diverso: rosa antico, blu zaffiro, verde smeraldo, rosso rubino.
«È bellissimo...» mormorò Joy incantata.
Gente di tutte le età entrava e usciva dalle tende e dal castello
centrale, il sole luccicava sulle cupole, sembrava un dipinto vivo.
«Andiamo, vi accompagno alla vostra aula».
La classe di astragalomanzia era confusionaria, piccola e
calda. Lungo tutto il perimetro, come un ricamo profumato
e luminoso, erano disposti incensi e candele. I banchi formavano un semicerchio intorno alla cattedra, su ognuno erano
ordinatamente posati due libri e due gruppi da tre dadi in giada colorata. Pochi posti erano liberi, Joy e Berta occuparono
un banco in terza fila. Nel momento in cui suonò la campana
entrò una strana signora. Era alta e secca, con un cespuglio
biondo in testa e una pesante collana di dadi di vari colori e
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dimensioni che le pendeva dal collo oblungo. Indossava una
gonna ampia e leggera ricamata di rombi e cerchi, che riprendevano tutte le tonalità del giallo e del marrone.
«Salve ragazzi, io sono la professoressa Nilaja» squittì.
Tutti si alzarono in segno di rispetto, poi tornarono ai loro
posti cercando di fare meno rumore possibile.
«Spero sinceramente che la scelta di questa materia sia stata
consapevole! Perché molti la scelgono credendola semplice,
ma non sanno che la mia è un’arte per pochi!» iniziò la professoressa, per poi continuare in una disquisizione storica della
sua materia.
«Il termine “astragalomanzia” deriva dall’unione di due parole greche: astragalos, che indica un’articolazione o una vertebra di cui erano originariamente fatti i dadi, e manteia che vuol
dire proprio divinazione. Questa pratica risalirebbe all’antico
Egitto e nel corso dei secoli se ne sono elaborate molte varianti. Secondo un mito greco conosciuto grazie ai Proverbi di
Zenobio, parliamo del I secolo dopo Cristo, fu la dea Atena
a inventare il gioco divinatorio degli astragali. Inoltre, è certo che questo tipo di divinazione era praticato dagli indovini
del Tempio di Eracle a Bura, in Acaia. Probabilmente furono
gli astragali a inventare i kiboi, cioè i cubi, vale a dire i dadi
numerati, da cui deriva il termine “cubomanzia”. Abbiamo
numerose raffigurazioni, su vasi attici del VI-IV secolo avanti
Cristo, di soldati greci intenti a giocare a dadi. Ciò vuol dire
che la cubomanzia si trasformò, già in epoca antichissima, in
un gioco d’azzardo. Come arte divinatoria l’astragalomanzia
era diffusa anche nella penisola italica, tanto che l’imperatore
Tiberio si recava spesso a consultare il cosiddetto “oracolo
di Gerione” presso le Terme di Abano, dove un sacerdote
prevedeva il futuro per mezzo di tre dadi d’oro. Si sa pure che
l’imperatore Claudio era talmente esperto di cubomanzia che
scrisse un trattato di cui non è rimasta traccia. I sistemi in uso
in epoca romana si sono poi tramandati nel medioevo. Il metodo più semplice comportava l’uso di tre dadi. Oggi impareremo quali siano le combinazioni di numeri fondamentali».
La professoressa Nilaja riprese fiato e spostò la propria cattedra in avanti, appiccicandola al primo banco.
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«Prendi i tuoi dadi» disse al ragazzo che si ritrovò davanti.
«Ora lanciali».
Il ragazzo obbedì. I suoi dadi bianchi formavano un triangolo, sulla faccia del primo c’era un sei, sul secondo un due e
sul terzo un tre.
«Questo è ancora troppo complicato, modifichiamo qualcosa» disse la professoressa disponendo i dadi in ordine, tutti
con lo stesso numero: sei, sei, sei.
«Sei, sei, sei: questo è il colpo di Venere, è un sì netto! Vuol
dire che ciò che avete chiesto si realizzerà. Adesso prendete
questi numeri: sei, sei, due. Anche questa è una risposta positiva, ma il due finale indica la presenza di ostacoli e difficoltà
superabili. Appuntate tutto! Andiamo avanti con i numeri sei,
quattro, quattro! Questa risposta è un avvertimento, se compaiono questi numeri è meglio abbandonare subito il progetto che avete in mente. L’ultimo esempio che faremo oggi è
quello che vi auguro non vi esca mai! Il colpo del cane: uno,
uno, uno. Niente di ciò che volete potrà mai avverarsi!» squittì
Nilaja con enfasi, poi si rigirò i dadi del ragazzo fra le dita
inanellate e glieli posò sul banco.
«Trovate tutto quello che vi ho detto nel primo capitolo del
libro. Esercitatevi con un compagno nell’arte della divinazione e trascrivete sul vostro quaderno la domanda posta e la
combinazione ottenuta poi cercate nel libro, capitolo due, i
significati di tali combinazioni che analizzeremo insieme nella
prossima lezione. Buon lavoro».
«E meno male che questa non è una materia semplice, dobbiamo solo imparare dei numeri a memoria!» bisbigliò Joy.
«Dai inizia tu, cosa vuoi sapere?» chiese Berta.
«Mmm... cosa succederà nella mia vita nei prossimi giorni?
Mi aspettano novità belle o brutte?».
Berta lanciò un’occhiata allo specchietto tracciato nel suo
libro e seguì attentamente le istruzioni. Tenne i tre dadi stretti
fra le mani che fece ruotare tre volte in senso orario e tre volte
in senso antiorario, poi alzò le mani sulla proprio testa, agitò
un’ultima volta i dadi e li lanciò: sei, cinque, tre.
«Chissà che vuol dire...» mormorò Joy trascrivendo la sua
domanda e il risultato.
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«Tocca a me, voglio sapere se ho scelto le materie giuste per
me» disse Berta.
Joy ripetè il rituale e tirò i dadi: quattro, tre, uno.
Le ragazze continuarono finché non suonò la campana di
fine lezione. Raccogliendo tutte le sue cose la professoressa
corse via. Fuori dall’aula Leo le aspettava puntuale. Era di
fretta perché aveva una lezione.
«Com’è andata?».
«Bene... ma non è una materia interessante come immaginavo» disse Joy con aria annoiata.
Leo slittava veloce come un furetto fra i corridoi, dopo
qualche minuto si fermò.
«Quando finite tornate a casa da sole perché io ho lezione
anche oggi pomeriggio, a stasera!» le salutò.
«Grazie, Leo. Buona lezione!» dissero all’unisono le ragazze.
L’aula di letteratura era polverosa, non si vedeva nemmeno
un angolo di parete perché ogni centimetro era ricoperto da
scaffali in legno massiccio carichi di scartoffie e vecchi libri. Il
professore era già alla sua cattedra, prima ancora che suonasse
la campanella. Era un uomo elegante, calvo e baffuto.
«Forza, prendete posto e cominciamo!» esclamò vedendo
tanti ragazzi fermi sulla soglia. La classe si riempì subito.
«Benvenuti nella mia classe, io sono il professor Christopher.
Qui si chiacchiera poco e si legge tanto. Studieremo i testi dei
letterati che, senza essere mai stati qui o essendoci stati ma
non avendo ricordi completi, parlano del nostro mondo».
Il professore iniziò facendo appuntare su un quaderno le
regole a cui attenersi per poter rimanere nella sua aula.
«Ho il polso distrutto» bisbigliò Joy all’orecchio di Berta.
«Signorina, vuole rileggerci la regola numero tre?» tuonò
Christopher.
Joy sentì le guance infiammarsi.
«Vietato sbadigliare, bisbigliare, lamentarsi e fiatare quando
il professore parla» farfugliò mentre gli occhi della classe erano puntati su di lei.
«La impari a memoria, perché la prossima volta che sgarra
finisce fuori».
59
Joy si risedette anche se le sue gambe volevano portarla
fuori da lì. Nervosa e offesa attese impaziente il suono della
campana.
«Inizieremo dall’opera più importante di tutta la letteratura
mondiale, quella di cui sarebbe cosa buona che ogni anima
serbasse il ricordo, la Divina Commedia. Chi è Dante lo troverete nel libro, adesso passiamo alla lettura del primo canto del
Paradiso».
L’ora passò con le letture appassionate del professore e degli allievi da lui chiamati, quando finalmente la campanella
suonò, Joy schizzò via dall’aula nervosa per la figuraccia che
ancora le bruciava.
«Se avessi conosciuto questo professore prima non avrei
mai scelto la sua materia» borbottò sulla metro.
«Non ci pensare, è solo autoritario e prepotente».
***
Joy era seduta sulla poltrona di Belit e guardava la TV con
Queeny sulle ginocchia. Qualcuno suonò il campanello.
«Sarà Leo» disse Giona andando ad aprire.
Quando aprì, però, non trovò il suo amico. Senza nemmeno
salutare, Giona socchiuse la porta e tornò dentro.
«Di’ alla tua amica che è per lei» disse a Berta ignorando la
presenza di Joy.
«Posso entrare?» chiese timidamente una voce che Joy riconobbe subito.
«Romeo, vieni. Non fare caso a quel cafone!» esclamò Belit
andandolo ad accogliere.
Joy cercò di togliersi i peli di Queeny dal maglione, ma prima di aver finito si ritrovò Romeo davanti.
«Volevo chiederti scusa per l’altra sera, me la sono presa con
te senza motivo» bisbigliò.
«Per questa volta ti perdono» ribatté lei accennando un sorriso.
«Andiamo fuori» aggiunse.
Non era molto tardi ma il sole era tramontato da un bel po’.
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Il cielo era striato di rosso e dorato ancora per poco, nuvole
nere ingoiavano lentamente i colori.
«Io... io non so perché Giona faccia così e mi dispiace davvero» iniziò a farfugliare Joy.
«Lascia stare, non è importante. Credo di aver capito la situazione».
Romeo e Joy si guardavano imbarazzati, senza trovare nulla
da dirsi.
«Forse ti ho disturbato».
«No, assolutamente. Stavo solo guardando la TV».
«Sei stata a lezione oggi?».
«Sì, tu?».
«Anche io, cos’hai seguito?».
«Astragalomanzia e letteratura, ma non farmi pensare alla
letteratura!».
«Io ho seguito geografia di Gwenever e sociologia».
«Se vuoi qualche volta ci vediamo al campus...».
In quel momento arrivò Leo, sorridente e rilassato come
sempre.
«Ciao ragazzi, la cena è pronta? Muoio di fame!».
«Credo di sì, Belit ha già apparecchiato».
«Ceni da noi?» chiese a Romeo.
«No, stavo proprio andando».
Leo li lasciò di nuovo soli.
«Io torno a casa, ci vediamo presto».
«Certo» farfugliò Joy. Sentiva mille emozioni rimescolarsi
nello stomaco. Dall’imbarazzo, all’euforia.
«Allora a presto» disse di nuovo Romeo.
«Certo... mi ha fatto molto piacere questa visita» disse Joy,
ma entrambi rimanevano fermi ai loro posti, indecisi sul da
farsi.
«Sì, solo che scelgo sempre i momenti sbagliati!».
«Non siamo mai riusciti a passare insieme più di dieci minuti...».
«Dovremmo... dovremmo uscire qualche volta!».
Gli occhi di Joy si illuminarono come due stelle.
«Quando vuoi!».
«È pronta la cena!» urlò Ortensia dalla cucina.
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«Be’, adesso vado davvero» disse allora Romeo. Si tennero
un attimo per mano, si sorrisero, poi lei rientrò e lui andò
via.
«Ci sono novità?» bisbigliò Ortensia a voce così bassa che
Joy faticò a sentirla.
«Mi ha chiesto di uscire, solo che tutte le volte che iniziamo
a parlare c’è sempre qualcosa o qualcuno che ci interrompe».
«Forse dovreste essere più bravi a trovare i momenti giusti!».
«Su, sedetevi!» esclamò Ettore affamato mentre Belit stava
mettendo in tavola un pentolone di minestrone.
«Giona, volevo dirti due paroline. Non so perché quel povero ragazzo non ti piaccia, ma qualsiasi sia il motivo quando
qualcuno suona a casa mia, nessuno deve permettersi di essere così sgarbato!» disse Belit mentre versava il minestrone nel
suo piatto.
«Scusa» sillabò lui.
Tutti mangiavano, Giona invece spiluccò qualcosa svogliatamente, poi si dileguò in silenzio.
62
capitolo VI
Romeo si era perso fra i cunicoli semibui della biblioteca
del campus. Era partito per una semplice ricerca di geografia e ora vagava fra trattati di filosofia di provenienze varie.
Nomi di filosofi riaffioravano fluidamente nella sua mente,
man mano che si muoveva tra gli scaffali. La biblioteca era
immensa e ordinata, l’unico difetto era la poca luce. Per poter leggere bisognava trovare un tavolo munito di lampada.
Gli ultimi scaffali dell’ultima fila dell’area di filosofia erano
completamente al buio. Romeo si avvicinò e prese un volume
a caso per cercare di capire quale corrente di pensiero fosse
conservata lì. Il libro che prese aveva la copertina scolorita
e illeggibile, fece per riposarlo ma gli scivolò sollevando una
nube di polvere.
«Tieni» disse una voce nel buio. Qualcuno prese il libro e
glielo porse.
Romeo per un attimo ebbe paura, poi riconobbe quella voce
e rimase rigido e gelido. Dal buio uscì Frida.
«Mi spiavi?».
«In un certo senso sì, ma solo perché volevo evitare di avere
i tuoi amici fra i piedi. Ci sono dei tavoli appartati più in fondo, ci sediamo?».
«Ho solo dieci minuti, poi ho una lezione».
Frida scelse il tavolo più isolato di tutti e abbassò il collo
della lampada per limitare la luce.
«Perché non vuoi venire con me? Ti propongo una permanenza a Gwenever libera, senza condizioni, senza pensieri...».
«Ti ringrazio, ma sto benissimo a casa mia».
«Cosa ti trattiene lì?».
«Smettila di riempirmi la testa con questi discorsi. So benissimo cosa vuoi. Fra poco più di un mese c’è la cerimonia
per l’ingresso delle nuove famiglie nella congrega dei demoni
neri, e senza un quinto elemento non puoi essere accettata».
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Frida inspirò nervosamente, le sue narici si dilatarono come
quelle di un toro davanti a una bandiera rossa.
«Quando sei arrivato qui ero felice, credevo di aver ritrovato
un vero amico» disse, cercando di calmarsi.
«Lo credevo anche io, prima di averti visto prendere a botte
la mia famiglia. Ciao Frida».
«Romeo, aspetta! Devi darmi l’opportunità di parlare!».
Senza considerare le sue parole Romeo si alzò e si allontanò
velocemente dalla zona solitaria della biblioteca.
«Giochi con il fuoco, mio caro. Ho provato a cercare delle
soluzioni pacifiche, ma adesso dovrò agire senza tener conto
della tua volontà» ringhiò Frida, raggiungendolo.
Quando si ritrovò circondato da ragazzi e professori, Romeo si sentì al sicuro. Il demone nero era sparito. Prima del
suono della campanella aveva ancora un po’ di tempo libero
e decise di fare un giro e dimenticare l’incontro spiacevole.
In una delle panchine del giardino, sotto un albero maestoso, c’era Joy. Era seduta con le gambe incrociate e gli occhi
bassi, intenta a leggere un libro. Senza pensarci due volte la
raggiunse.
«Avevo proprio bisogno di una faccia amica».
Joy lo salutò con un sorriso sorpreso e posò subito il libro
nella sua borsa.
«Siediti, giornata storta?».
«Ho appena scoperto di essere stato pedinato. Ero in biblioteca e dal nulla è spuntata Frida, voleva parlarmi».
«Voleva raggirarti! So che non avrei nessun diritto di dirti
queste parole, ma te lo dico lo stesso. Non ti azzardare a farti
convincere da quella fattucchiera a seguirla! Se a Gwenever i
demoni bianchi e i demoni neri non sono la stessa cosa, un
motivo ci sarà! E ci sarà un motivo anche perché tu sei bianco
e lei no!» esclamò Joy, infervorata. Il pensiero di Frida che si
avvicinava a Romeo la nauseava.
«Tu puoi dirmi tutto quello che vuoi» ribatté lui sfiorandole
il mento.
La sua reazione infuocata lo divertiva.
«È finita finalmente!» esclamò Berta arrivando, aveva la faccia stravolta.
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«Cosa?» chiese Romeo.
«La lezione di letteratura. Io nell’aula di quel nevrotico non
metterò più piede» disse Joy. Se ripensava alla sua prima lezione si vergognava ancora.
«E perché?» chiese Romeo ridacchiando.
Quando Joy glielo spiegò, rise ancora di più.
«Il professor Christopher sta venendo proprio in questa direzione» sillabò Berta battendo un colpo sulla spalla di Joy.
«Non dire cavol...».
L’uomo baffuto, con la faccia più burbera del solito, si piazzò a pochi centimetri dal naso di Joy.
«Posso sapere quale illustre motivo l’ha costretta a mancare
dalla mia lezione, signorina?».
«Io... io stavo male» farfugliò Joy in preda al panico. Se non
avesse avuto lo schienale a sorreggerla sarebbe svenuta.
«A ME SEMBRA CHE SIA IN PERFETTA FORMA,
BUGIARDA!» tuonò il professore. Mezzo cortile si girò a
guardarla.
Joy Hallett non poteva sopportare tanto, un attimo dopo era
svenuta con la testa sulle gambe di Romeo e un braccio penzoloni. Il professore si allontanò con aria soddisfatta, mentre
tutti gli allievi scappavano al suo passaggio. Quando l’uomo
fu abbastanza lontano, Berta e Romeo scoppiarono a ridere,
Joy si alzò di scatto con gli occhi lucidi.
«Che avete da ridere? Quello stronzo mi ha fatto fare una
figura terribile» disse con la voce tremula.
«È stato divertente, ti hanno guardata tutti!» esclamò Berta.
«Ma sei scema?» urlò Joy, e senza pensarci due volte le voltò
le spalle e si allontanò.
Romeo la inseguì e aspettò che fossero lontani da Berta per
fermarla.
«Devi ridere di me?».
«No, Joy... io volevo solo chiederti di uscire stasera...».
La rabbia dal viso di Joy svanì.
«Certo! A che ora vieni?».
«Verrò a ora di cena, andiamo a mangiare fuori».
«Va bene!».
Joy stava per buttargli le braccia al collo, quando arrivò Berta.
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«Andiamo a casa, sono stanca».
«A più tardi, allora» disse Romeo sfiorando la schiena di
Joy.
Quando le ragazze rientrarono a casa Joy si fiondò subito in camera e spalancò l’armadio. Era appena passata l’ora
del pranzo ma per lei il tempo volava freneticamente, doveva
sfruttarlo tutto al meglio. Dopo un’occhiata critica e severa ai
suoi vestiti andò a stabilizzarsi in bagno. I capelli le sembrarono sciatti e orrendi. Doveva fare qualcosa, ma era troppo
elettrizzata così decise che era meglio iniziare da un bagno
caldo. Il tempo scorreva davvero più velocemnte quel giorno,
e quando Romeo arrivò, Joy doveva ancora mettersi le scarpe.
Scelse delle scarpe classiche e nere, in perfetto stile con l’abitino color glicine.
«Pensavo ti fossi dimenticata che avevamo un appuntamento!» esclamò Romeo quando la vide comparire.
Joy gli sorrise, salutò in fretta Belit e i suoi compagni e
uscì.
«Hai pensato a dove potremmo andare?».
«Sì... ma non sono sicuro che ti piacerà. Sono a Gwenever
da troppo poco tempo per conoscere i posti giusti così ho
pensato che stasera potremo cenare da me e poi uscire. Siamo
soli, o meglio, quasi soli... c’è Manlio che tanto fra poco andrà
a dormire. Ti va?».
«Certo che mi va. Ma gli altri dove sono?».
«A un concerto, se ti va li raggiungeremo dopo».
«Hai avuto un’idea fantastica».
Come aveva ipotizzato Romeo, Manlio già dormiva. La casa
era tutta per loro che non avevano ancora deciso cosa cucinare. Quella sera faceva caldo così optarono per un’insalata e
formaggi freschi.
«Forse ti aspettavi una cena migliore...» disse Romeo quando il suo piatto fu vuoto.
Avevano mangiato in silenzio, lanciandosi di tanto in tanto
occhiate imbarazzate ed emozionate.
«Non farti problemi. Mi va tutto benissimo!».
«Ti va di uscire un po’ in giardino prima di andare? Sono
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particolarmente irritabile se non mi riposo almeno qualche
minuto dopo aver mangiato».
Joy scoppiò a ridere, lo prese per mano e lo seguì fuori.
L’aria era tiepida, il cielo trapunto di perle illuminava i profili
degli alberi. In fondo c’era un vecchio dondolo sgangherato su cui si sdraiarono. Lo schienale cigolante era allo stesso
livello del sedile. Le loro spalle e le loro teste si sfioravano,
erano troppo vicini per potersi guardare negli occhi, così entrambi guardavano in alto.
«Bello il cielo, vero?» chiese Romeo per rompere il silenzio.
«Sì, mi piacciono molto le stelle e stasera si vedono benissimo».
«È... è tutto molto romantico» farfugliò Romeo, a voce così
bassa che Joy non lo sentì.
«Che hai detto?».
«È tutto molto romantico».
«Sì, c’è un’atmosfera perfetta per due innamorati».
Per la prima volta si voltarono a guardarsi, erano vicinissimi.
Romeo la accarezzò, Joy sentì un brivido lungo la schiena,
fino al collo, sulla punta delle dita e lui la strinse più forte credendo che avesse freddo.
«C’è una cosa che vorrei dirti...» disse Joy, raccogliendo tutto
il coraggio che aveva.
«Anche io dovrei dirti qualcosa, ma inizia tu...».
Joy sentì la confusione attanagliarle il cervello, era come se
avesse dimenticato tutte le parole che conosceva.
«No, ti prego, parla tu» si arrese quasi subito.
Romeo sentì l’impulso di alzarsi e correre a nascondersi da
qualche parte proprio come quando le aveva portato la rosa,
ma invece rimase lì, chiuse gli occhi fingendo che fosse tutto frutto della sua immaginazione e la baciò. Intorno a loro
sparì ogni cosa. Il tempo sulle loro labbra sembrava eterno e
immobile. Joy sognava quel momento dalla prima volta che
aveva visto Romeo. Rimasero uniti per un tempo dolcemente
indefinito mentre le loro mani si avvinghiavano. Poi rumori e
colori tornarono piano piano, come quando un sogno finisce
e arriva l’ora del risveglio.
«Be’, Joy... ora credo che sia tutto chiaro fra noi, giusto?».
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«Giusto!» esclamò Joy sfiorandogli il viso.
«Allora ora raggiungiamo gli altri, ci staranno aspettando»
disse Romeo alzandosi e porgendole la mano. In metro raggiunsero velocemente la fermata del campus, quando scesero
lì, Joy lo guardò con aria interrogativa.
«È un concerto di studenti! Ho dimenticato di dirti di portare la tua scheda per entrare, ma non credo sia un problema
perché Greta mi ha spiegato che in situazioni come questa la
sorveglianza per entrare è meno serrata!» spiegò Romeo.
Non erano ancora arrivati al campus ma si sentiva già musica rock impregnare allegramente l’aria. Quando arrivarono
fu difficile trovare subito Alvin e gli altri perché la confusione era tanta. C’erano ragazzi di tutte le età che affollavano il
giardino e si scalmanavano sotto il palco su cui suonava una
band esagitata. Romeo abbracciò Joy per evitare che la folla
li dividesse. Girarono per un po’ prima di scorgere Eddy che
camminava verso una panchina con due birre in mano, lo seguirono e trovarono tutti.
«Ciao ragazzi, volete?» salutò Greta porgendo la sua bottiglia di birra.
«C’avete messo molto a trovarci?» chiese Diana facendo
spazio a Joy per sedersi accanto a lei.
«No, quando ho visto tutta questa gente credevo che non
sarei mai riuscito a trovarvi!» rispose Romeo fra un sorso e
l’altro.
Joy passò la serata a parlottare con Abby, Diana e Greta che,
avendola vista arrivare mano nella mano con Romeo, avevano
già capito tutto.
«Avete parlato di... su insomma... mi hai capita!» bisbigliò
Diana con aria complice. Joy la guardò con aria corrucciata,
non aveva capito proprio nulla.
«È la prima volta per entrambi, questo discorso è molto
importante, mi raccomando, ragionate prima di prendere decisioni affrettate, ok?» si raccomandò Greta.
«Ma cosa volete dire?! Basta con queste domande imbarazzanti, qualcuno potrebbe sentirci» si difese Joy. Intimidita da
tutta quella curiosità e confusa dalle vaghe parole delle sue
amiche, cercò lo sguardo di Romeo sperando che lui andasse
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a salvarla. Adesso che anche loro erano una coppia ufficiale, e
che non c’era Giona a fissarli e controllarli, Romeo prese il suo
posto fra Abigail e Diana e la fece sedere sulle sue gambe.
«Ho interrotto qualcosa?» chiese con aria divertita.
«No, caro. Tranquillo. Resta pure qui, non hai interrotto nulla... solo i nostri discorsi!» rispose Greta sarcastica.
La serata durò fino a notte fonda, finché i ragazzi brilli e
allegri decisero di tornare a casa.
«Romeo, è molto tardi quindi se non vi dispiace verremo
con te ad accompagnare Joy» propose Alvin.
Il gruppo prese la metro, scese a Telica e salutò Joy a pochi
metri di distanza dal cancello di casa sua.
«Ti aspettiamo qui» disse Tobia a Romeo.
«È stata una bellissima serata» bisbigliò Joy, prendendo il viso
di Romeo fra le mani e avvicinando le labbra al suo orecchio.
«Anche per me» disse lui baciandola, nascosto da un vecchio albero.
«Vai, non farli aspettare».
«Ci vediamo domani».
Quando furono a casa Romeo raggiunse subito Greta che
era nel suo letto al buio e non riusciva a dormire. Abigail,
come tutte le sere, era andata a dormire nella stanza di Eddy
e lei aveva la stanza tutta per sé.
«Sei sveglia?» sussurrò Romeo prima di entrare.
«Sì, soffro di insonnia ultimamente».
«C’è una cosa che oggi non ho avuto il tempo di dirti, ma
credo sia importante».
«Vuoi parlarmi di Joy?» chiese Greta con un sorriso raggiante.
«No» tagliò corto Romeo e si sbrigò a raccontare il suo incontro con Frida prima che Greta lo interrompesse di nuovo.
«Come hai fatto a non accorgerti che Frida ti seguiva? Adesso tutte le volte che uscirai solo sarò terrorizzata».
«Non credo che mi farebbe del male».
«Certo che no, gli servi intero! Potrebbe solo rapirti e infilarti in qualche caverna in mezzo ai boschi per i prossimi trenta
giorni».
«Prima o poi la smetterà di braccarmi, oggi sono stato chiaro con lei».
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«Lo spero. E con Joy, invece, come va?».
La loquacità di Romeo si esaurì in quel momento.
«Che vuoi dire?» disse, dopo averci pensato bene.
«Si vede che ti piace, a me puoi dirlo. Che avete fatto oggi?
Spero niente che non si possa più cambiare!».
«Buonanotte Greta, a domani».
Le proteste di Greta non servirono, Romeo le diede il bacio della buonanotte e tornò nel suo letto, due minuti dopo
dormiva già. Greta invece si rigirava nel letto, ma prendere
sonno era impossibile, si sentiva ansiosa e agitata. Qualcuno
bussò. Istintivamente pensò che Romeo avesse cambiato idea
e volesse parlarle di Joy, poi si rese conto che il rumore veniva
dalla finestra alle spalle del suo letto. Tremò immaginando un
attacco notturno di Frida, ma quando scostò la tenda si ritrovò la faccia di Boris appiccicata contro il vetro.
«Sono solo, apri!» bisbigliò giungendo le mani a mo’ di preghiera.
Greta rifletté. Era annoiata e angosciata e non aveva nessuna voglia di prendere sonno. Chiuse a chiave la porta della sua
camera e tornò da Boris.
«Aspetta, non vorrei che ti rompessi il collo proprio ora» gli
disse. Dopo aver spinto un comodino proprio sotto la finestra gli aprì e lo fece entrare.
«Cerca di non distruggerlo».
«Con chi credi di parlare, tesoro?».
Quando sembrava che fosse tutto apposto, l’orlo dei suoi
pantaloni si impigliò contro il pomello di un cassetto. Un secondo dopo, Boris era con la faccia per terra e il cassetto era
volato sullo stomaco di Greta.
«Tu sei un inetto» ringhiò lei facendogli cadere il cassetto in
testa.
«Dammi una mano, strega!».
«Strega lo dici alla tua amica» disse gelida Greta, poi si sedette comodamente sul suo letto osservandolo mentre si rimetteva in piedi.
«Lascia stare Frida».
«Dille di non seguire più Romeo o io la strozzo con le mie
mani, a costo di finire a fare la ladra per l’eternità con i dannati».
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«Non puoi vietare al tuo amichetto di vedere una sua vecchia amica, è come se qualcuno ti impedisse di vedere me».
«Gliene sarei debitrice a vita».
«Eppure non sembra, visto che mi hai fatto entrare».
Lei non ribatté. Ci furono istanti di silenzio imbarazzante.
Boris la fissava con uno sguardo da talpa innamorata.
«Ce l’hai scritto in faccia che vuoi che resti con te».
«Sulla mia faccia deve esserci un errore».
Boris ignorò il suo tono acido e si sedette accanto a lei iniziando a massaggiarle il collo e le spalle. Greta si rilassò sotto
le sue mani grandi e lisce, chiuse gli occhi e non parlò più.
«La tua reazione non sembra quella di una persona infastidita» la stuzzicò lui sedendosi con un movimento fulmineo
davanti a lei e risvegliandola bruscamente.
«Zitto o urlo» disse lei tappandogli la bocca con una mano
e spingendolo via.
«Ho un modo per non farti urlare» sussurrò lui tornando a
ridurre la distanza.
Greta era combattuta. Da una parte era serena, credeva nella simpatia fra lei e Boris. Dall’altra era agitata, consapevole
che se Boris era lì, il motivo non era lei.
«Se cerchi di creare un legame con la mia famiglia baciandomi,
ti sbagli. Il mio bacio eterno l’ho già dato un bel po’ di vite fa».
«Non sapevo che avessi un compagno».
«E non ce l’ho infatti. È stato un bacio dato per caso, perché non sapevamo cosa fosse il bacio eterno. Non siamo mai
stati insieme ma nelle nostre precedenti vite ci siamo sempre
ritrovati».
«Posso sapere chi è?».
«Ettore, ma non dirlo in giro».
Come Greta aveva immaginato, Boris non tentò più di baciarla. Era arrabbiata e delusa, gli avrebbe scagliato qualunque
cosa addosso.
«Dopo questo tentativo fallito non ci torturerete più?» chiese Greta ritrovando la sua aria polemica e indifferente. Doveva farsi vedere forte e risoluta, nemmeno per un istante Boris
avrebbe dovuto pensare che anche solo la parte più piccola e
ingenua di lei gli aveva dato fiducia.
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«Devi smetterla di parlare sempre di questa storia quando
siamo insieme».
«Mi dispiace, ma non trovo nessun altro argomento da poter condividere con te. E poi sono davvero stanca...».
«Vuoi che me ne vada?».
«Sì, ma per favore esci dalla porta d’ingresso».
***
Quella notte sembrava insonne per tutti, nemmeno Joy riusciva a dormire e costringeva Leo a vegliare con lei. Erano
accucciati su un divano della cucina coperti da tre plaid, uno
sopra l’altro, che ammortizzavano i loro bisbigli.
«Hai parlato con Giona?».
«Sì, ma quando ti nomino o va via o cambia discorso».
«Perché mi odia così tanto?».
«Se ti odiasse davvero non ci sarebbero tutti questi problemi. Belit è molto giù per questa storia, i nostri pranzi e le
nostre cene sono dei veri mortori, la tensione che c’è fra voi
si taglia con un coltello!».
Senza chiedere permesso, Queeny si infilò nella loro tana.
«Cosa posso fare?» chiese Joy esasperata.
«Devi cercare di chiarire!».
«Ma cosa?».
«Le vostre posizioni».
«La mia è chiarissima».
«Perché non gli dai una possibilità?».
Joy guardò Leo con la stessa faccia di chi vede un asino
volare.
«Non fare questa faccia, sei stata con lui ore e ore. Adesso
arriva Romeo e la tua vita si sconvolge. Giona, che prima era
al centro dei tuoi pensieri, ora si ritrova all’ultimo».
«Non è come pensi! L’importanza di Giona per me non è
cambiata, ma non devi paragonarlo a Romeo, si tratta di sentimenti diversi...».
«Invece a volte sembra proprio che tu voglia ignorarlo!».
«Stai scherzando, spero? È lui che mi ignora. Forse è meglio
72
chiudere qui questa conversazione, non voglio litigare anche
con te!» esclamò Joy abbracciandolo.
«Come vuoi... ma pensa a quello che ti ho detto!».
«Ci proverò».
«Non ho voglia di dormire, guardiamo un film?» propose
Leo.
«Va bene. Sui film siamo sempre d’accordo!».
73
capitolo VII
La tovaglia bianca era macchiata ovunque di rosso, sette bottiglie di vino erano sparse per la cucina: sul tavolo, sul divano
e sul pavimento. Eddy e Abigail erano spariti. Diana, l’unica
sobria, cercava di condurre una conversazione normale con
Greta e Ortensia che però a ogni sua parola scoppiavano a
riderle in faccia, l’unica che le dava un po’ di retta era Berta,
sempre parca di parole e concetti. Giona, Ettore e Leo erano
stati coinvolti da Alvin in un gioco con le carte che aveva
appena ideato e anche se le regole non erano chiare a nessuno, tutti si sforzavano comunque di giocare. Joy e Romeo,
ignorando la festa di baccanti intorno a loro, sorseggiavano
l’ultima goccia di vino rimasta.
«Usciamo fuori? Qui c’è troppa confusione» propose Romeo.
«Solo se mi dai una mano!» ridacchiò Joy. Aveva le gote rosse e lo sguardo vacuo di chi ha bevuto qualche bicchierino di
troppo.
Romeo le porse un braccio e la guidò in giardino. Era una
serata calda e silenziosa.
«Raggiungiamo il dondolo, mi gira la testa».
«Buona idea» ribatté Romeo.
Quel cielo di velluto sgombro da nuvole e puntellato di
stelle visto dal vecchio dondolo, ricordava la sera di qualche
giorno prima. Joy si strinse a Romeo desiderando che lui la
abbracciasse.
«Frida si è fatta rivedere?».
«Per fortuna no. Ma da quello che mi ha detto è chiaro che
non mi libererò facilmente di lei».
«Mi fa paura quel demone...».
«Non ci pensare. Non può farmi del male, la mia famiglia
mi protegge».
«Ok... per adesso non ci penserò anche perché c’è qualcosa
di più interessante proprio qui, a pochi centimetri da me...» bi74
sbigliò Joy avvicinando il viso a quello di Romeo, che le passò
una mano fra i capelli e la strinse a sé.
«Ragazzi, siete lì?» chiese Greta. Solo dopo focalizzò l’immagine che aveva davanti e tornò in casa correndo sconvolta.
«Forse è ora di andare» disse Joy, allontanandosi bruscamente da Romeo dopo aver sentito la porta chiusa con violenza.
Greta li aspettava con una faccia a metà fra lo sconvolto e
l’euforico.
«Venite subito con me!» esclamò quando rientrarono in
casa, prendendo Joy per mano.
Dopo aver scavalcato Ortensia che russava sul pavimento
arrivarono alle scale, ma li attendeva un altro ostacolo. Eddy e
Abigail si baciavano con troppa passione e troppi risucchi.
«Oh mio Dio» biascicò Greta schivandoli e tenendo la testa
sollevata. Finalmente raggiunsero un divano isolato e tranquillo.
«Non pensate che voglia farmi i fatti vostri» esordì Greta.
Calò il silenzio.
«Ho visto che vi siete baciati».
Joy e Romeo continuavano a non fiatare. Greta rischiava di
innervosirsi, rendevano tutto più difficile.
«Io non ho mai parlato di questo a Romeo, e non so se
tu, Joy, ne sai già qualcosa. È un discorso un po’ complesso,
qui siamo a Gwenever, la città eterna, dove molte cose sono
eterne».
«Ma... non è la prima volta che ci baciamo!» la interruppe
subito Joy, in evidente imbarazzo.
Greta era attonita, ma si riprese e continuò il suo discorso:
«Quando due persone si baciano per la prima volta qui, sigillano la loro unione. Voi sarete legati per sempre. Anche se un
giorno non vorrete più stare insieme, vi ritroverete in ogni
vita e in ogni morte».
Greta si aspettava facce stravolte e preoccupate, invece Romeo accarezzava serenamente la mano di Joy.
Greta tirò un sospiro di sollievo ma in quel momento Joy si
coprì il viso con entrambe le mani.
«Che succede?» chiese Romeo.
«C’è una cosa che non vi ho detto... qualche giorno fa Et75
tore mi ha baciata... prima del bacio con Romeo» mormorò
sentendosi crollare il mondo addosso.
Romeo si irrigidì all’istante. Greta si mise a ridere, era una
risata quasi isterica.
«Sapevo che lo avrebbe fatto, è da quando hai messo piede
qui che parla solo di te. E poi tranquilli, quello non è un bacio
eterno! Il bacio è eterno solo se per entrambi è la prima volta
e il primo bacio a Gwenever. Ettore il suo bacio eterno l’ha
dato qualche vita fa!».
«Ma perché hai baciato Ettore?» chiese Romeo con un tono
gelido.
«Non è stata colpa mia... è stato lui ad avvinghiarsi a me» si
giustificò Joy.
«Puoi crederle. Ettore ha una tecnica molto rude e brusca
per provarci con le ragazze!» lo rincuorò Greta.
Romeo e Joy si rilassarono e si ripresero per mano.
«State scherzando, spero».
Una voce che Joy conosceva bene si intromise rabbiosamente nei loro discorsi. In piedi, sulle scale, c’era Giona. Tremava
per la collera.
«No, non scherzano» disse Greta.
Giona scagliò un calcio contro la ringhiera. Avrebbe voluto
urlare qualcosa contro Joy ma la guardò solo con occhi di
fuoco, poi tornò sotto.
Quando Leo fu in grado di guidare la macchina, Joy ridiscese al piano di sotto pronta per tornare a casa e seppe che
Giona era andato via a piedi. Salutò Romeo con la promessa
che si sarebbero visti al più presto, e salì in macchina aiutando
Ettore a non accasciarsi su se stesso mentre camminava.
«Joy, immagino che tu sappia perché Giona è andato via
infuriato, a me non ha voluto spiegare nulla» disse Leo, tanto
tutti dormicchiavano, era come se fossero soli.
«Ha ascoltato una conversazione che non gli interessava»
ribatté Joy dura.
«Se hai bisogno di parlargli ti cedo la stanza».
Joy preferì non dire nulla e aspettò in silenzio di arrivare a
casa.
«Proverò a svegliare Giona ma ti lascerò la stanza libera.
76
Preferisco uscire fuori per parlare con lui, potrebbe alzare la
voce» bisbigliò Joy a Leo mentre girava la chiave nella toppa.
Dopo aver aiutato Ortensia a mettere il pigiama, Joy si inginocchiò accanto al letto di Giona e iniziò a chiamarlo con
sussurri delicati. Dopo molti tentativi Giona si svegliò. Inizialmente la squadrò con gli occhi pesanti di sonno e quando
il suo cervello iniziò a carburare si irrigidì.
«Cosa vuoi?».
«Esci un attimo a parlare con me».
Per la prima volta Joy usò un tono autoritario e duro. Lui si
alzò, la scansò e si infilò una giacca.
«Andiamo».
L’aria della notte era fredda e Joy affondava il viso nella sua
soffice sciarpa rosa.
«Hai qualcosa da dirmi?».
«Tu hai qualcosa da dirmi, perché non tollero più il tuo atteggiamento!».
«Non c’è niente da dire che tu non possa già aver capito da
sola» tagliò corto Giona. Fece per rientrare ma Joy lo afferrò
da una spalla e lo tirò indietro.
«Non posso dare per certe le cose che immagino senza averne conferma da te».
«Va bene, Joy. Vuoi proprio sentirtelo dire? Sono innamorato di te dal primo momento in cui ti ho vista. E anche se
non è lo stesso per te, speravo che avrei avuto la possibilità di
vivere almeno un momento speciale con te. E stasera questa
speranza è morta. Tu hai preferito un altro legame al nostro.
Lo hai reso eterno senza pensare a me nemmeno per un attimo. Volevo che tu scegliessi di suggellare il nostro legame, poi
avresti potuto baciare Ettore o Romeo e non me ne sarebbe
importato più di tanto. Ma ho perso. Adesso se mi vuoi un
minimo di bene stammi lontana».
Questa volta Joy non se la sentì di fermarlo e rimase sola
con le sue lacrime. Aspettò di calmarsi, si asciugò con il dorso della mano e poi rientrò. Prima di chiudere la porta un
rumore fra le lapidi la fece spaventare, guardò attentamente
ma al buio non riuscì a vedere nulla. Chiuse bene a chiave con
diverse mandate e andò a letto. Intanto Cesare correva alla
77
velocità della luce verso la locanda in cui lo aspettavano i suoi
compagni. Frida era nervosa, Romeo non voleva nemmeno
ascoltarla e il tentativo di Boris di legarsi a Greta era fallito.
«Manca un mese alla cerimonia e se non troviamo questo
stramaledetto quinto elemento saremo fuori anche quest’anno!» ringhiò. I suoi lineamenti già duri, quella notte erano anche animaleschi e minacciosi. La sua faccia larga e schiacciata
era un dipinto di frustrazione e rabbia. Quando Cesare spalancò la camera della stanza senza bussare, ansimava trafelato
per la lunga corsa.
«Ci sono novità».
«Parla» lo incitarono tutti.
«Ho ascoltato una discussione fra Joy e un suo amico, litigavano perché lei ha dato il suo bacio eterno. Non è stato però
specificato a chi, ma il ragazzo ha fatto due nomi: Ettore e
Romeo. E a me è venuta un’idea... se Romeo si fosse legato a
Joy, potremmo usarla per ricattarlo!».
Frida sferrò un pugno al tavolo in segno di gioia.
«Finalmente la situazione si smuove, bel lavoro Cesare. Speriamo che questa volta la fortuna giri dalla nostra parte».
«Ci basterà minacciare l’incolumità della sua Joy, per farlo
crollare» disse Demiro, i suoi denti bianchi e perfetti brillavano nella penombra.
«Non cantate vittoria troppo presto. Cos’hai sentito esattamente, Cesare?» chiese Boris.
«Le parole di un ragazzo geloso, arrabbiato perché la sua
bella non ha voluto suggellare con un bacio il loro legame».
«Si parlava proprio di bacio eterno?».
«Si intuiva. Nessuno lo ha mai specificatamente nominato,
ma si parlava di un legame eterno... e si sa come nasce un legame di questo tipo!».
«Perché tutte queste domande?» chiese Frida digrignando i
denti.
«Sono solo curioso!» si giustificò Boris. In realtà sapeva
bene che trattandosi di bacio eterno era sicuro che Joy avesse
baciato Romeo. Non c’era nulla da scoprire, ma decise di non
rivelare la confessione che gli aveva fatto Greta e lasciare nel
dubbio i suoi compagni.
78
«Allora Boris, tocca di nuovo a te. Hai tempo fino a domani
notte per farmi sapere se questo bacio ci può servire o no!».
***
L’ultima volta in cui Boris andò a trovare Greta la trovò
sdraiata sul prato con le braccia aperte, un’espressione molto
rilassata e un mucchietto di cicche poco più sopra della sua testa. Fu così silenzioso che lei non si accorse di averlo accanto.
Come ogni volta che andava a trovarla era notte fonda.
«Se fossi un malintenzionato ti avrei già rapinata e neutralizzata, cos’hai fumato?».
Greta trasalì.
«Niente di troppo pesante. È da un po’ che non ci vediamo,
credevo che ormai Frida avesse smesso di braccarci» rispose
dopo averlo riconosciuto.
«È rassegnata, ma questo non c’entra con noi».
«Se avessi gli anni che dimostro, con i tuoi modi affascinanti
e persuasivi avresti già ottenuto tutto da me, anche la casa!»
esclamò Greta, accompagnando le sue parole con un sorriso
triste. L’idea che Boris tramasse qualcosa la perseguitava.
«Sei così furba e diffidente che potresti essere benissimo un
demone nero!».
«Cosa vuoi, Boris?».
Lui ignorò la sua domanda, le sedette dietro e iniziò a intrecciare i suoi lunghi capelli biondi, giocarci lo rilassava.
«Questo periodo è molto stressante. Frida non pensa a niente
che non sia la cerimonia e non troviamo nessuna soluzione».
«I vostri quattro cervellini hanno bisogno di molta concentrazione».
Boris le tirò una treccia, poi continuò a lamentarsi dei suoi
compagni, accampando scuse su scuse.
«Ho capito che hai qualcosa da dirmi, va’ al punto, Boris.
Non mi interessano le tue bugie» disse Greta bloccandolo
bruscamente.
La sua aria premurosa e mansueta svanì, afferrò Greta dalle
spalle e la sbatte sull’erba umida.
79
«Volevo essere gentile con te, ma non tollero più la tua presunzione. Cesare ha assistito...».
«Origliato vorrai dire...».
«Non interrompermi. Cesare ha assistito a una conversazione fra Joy e un suo amico, il rosso. Parlavano di un bacio, chi
ha baciato Joy? Si tratta di Romeo, vero?».
Greta iniziò a ridere, avrebbe dovuto capire subito che Boris era lì per quello. Si liberò dalla sua presa, si alzò e si pulì i
vestiti con le mani.
«Te lo dico solo perché la mia risposta farà innervosire Frida
più del mio silenzio. Sì, Joy ha baciato proprio il suo desiderato Romeo» gli sibilò all’orecchio con un’aria soddisfatta e
divertita.
«Mi dà fastidio il tuo atteggiamento sbruffone. Ti dico una
cosa. Ho capito subito che Joy ha baciato Romeo perché si
parlava di un bacio eterno, e so benissimo che con Ettore non
sarebbe stato possibile. Ma non ti ho tradito, non ho detto
nulla ai miei compagni e infatti sono qui per rispettare l’ordine
che mi ha dato Frida.
«Come potrei crederti?».
«Mi hai stancato. Ciao Greta».
«Ciao Boris. Salutami quella strega».
Nello stesso momento i due si voltarono le spalle e si allontanarono in direzioni opposte.
80
capitolo VIII
Frida digrignava i denti come un cane a cui hanno strappato
l’osso, solo Demiro riusciva a calmarla un po’.
«Siediti, Frida. Perché ti lamenti?».
«Quella gatta morta me la deve pagare per essersi messa in
mezzo!».
«Cos’hai pensato di fare?» chiese Boris.
«Ovviamente toglierla di mezzo, venite con me».
I demoni si misero le loro giacche nere e uscirono dalla locanda in fila come soldati ben addestrati. Presero la metro e
scesero a Kirkoff, furono gli unici a fermarsi lì. Frida si tirò
su il colletto della giaccia lasciando scoperti solo gli occhi.
Nel tunnel della metro aleggiava puzza di alcool e urina, era
deserto, con qualche cartaccia qua e là.
«Ho qualche idea sulle tue intenzioni, qui puoi trovare solo
quello che penso io».
«Ed è proprio quello che cerco, Boris» disse Frida.
Kirkoff era il quartiere dei dannati, le anime di chi in vita
aveva compiuto crimini terribili e per questo era stato espulso dal ciclo della rinascita. Solo la vicinanza di un dannato
incuteva angoscia e terrore. Erano condannati a girovagare
nei mari del male per l’eternità, terrorizzando i vivi e i morti,
senza nessuna possibilità di riscatto. Frida cercava la Locanda
dello Stalliere, uno dei suoi posti preferiti. Era vicino al porto
e non ci misero molto ad arrivare. Dentro i soffitti erano bassi
e le luci rossastre, si respirava odore di birra. I clienti erano
quasi tutti uomini dalle facce rozze e le poche donne presenti
erano scimmiesche e mascoline.
«Il solito per tutti e quattro, Rosmunda» ordinò Demiro sedendosi su uno sgabello davanti al bancone. La barista era una
donna con le spalle così larghe da fare invidia a un muratore,
le mani callose, l’espressione arcigna e i capelli tirati.
«Come mai da queste parti?» chiese sbattendo quattro boccali sul bancone.
81
«Cerchiamo Oscar» rispose Frida.
«Siete fortunati, riparte proprio dopodomani».
Il “solito” di Demiro e gli altri era un liquore ambrato così
forte da non avere sapore e ustionare la lingua e la gola.
«È sul retro, potete andare» disse Rosmunda quando i boccali furono vuoti.
Frida e i suoi compagni sorpassarono il bancone e infilarono la porta scorrevole con su scritto “VIETATO ENTRARE”.
Oscar giocava a carte con un vecchio sgangherato e ridevano
come due iene eccitate.
«Guarda un po’ mio vecchio amico, un fresco quartetto venuto apposta per me!» esclamò l’uomo che Frida cercava.
«Buonasera Oscar. Se la vostra partita può essere interrotta,
vorremmo parlarvi di affari» disse Frida, saltando i convenevoli. A quelle parole il dannato prese l’amico dalle spalle e lo
scaraventò fuori dalla stanza. Masticava tabacco, sminuzzandolo con gli incisivi. La sua pelle bruciata era unta quanto i
suoi capelli brizzolati.
«Spero sia qualcosa di interessante, sedetevi».
«Rosmunda ci ha detto che fra due giorni partite».
«Esatto, ragazzina. Vuoi venire?».
«Oh, no! Ho qualcosa di più interessante della mia presenza
da proporvi».
La faccia corrucciata di Oscar si distese in un ghigno.
«Va’ avanti» disse riempiendo quattro bicchierini di rum.
«Diciamo che questo è uno scambio fra amici, a noi eliminerete un problema e voi avrete una schiava in più. Ve la
cediamo a qualunque prezzo».
«È giovane e in salute?».
«Sì».
«Mille denari».
«Affare fatto».
«A quando la consegna?».
«Domani notte al molo abbandonato nel bosco di Gwenever, saremo lì al terzo rintocco della campana del paese.
Oscar si alzò, i suoi pantaloni erano lerci, aprì il cassetto di
un mobile antico e maltenuto e tirò fuori due sacchetti di iuta.
«Cinquecento adesso, il resto alla consegna» disse lancian82
doli sul tavolo e investendo due bicchierini che si frantumarono sul pavimento.
«Un’ultima cosa. Domani con noi sarà presente un ragazzo
al quale diremo che un giorno la sua bambolina tornerà a casa,
non dite nulla che possa far vacillare la sua convinzione».
Oscar iniziò a ridere, il suo era un latrato catarroso.
«Geniale, piccola Frida».
«Ora andiamo» disse Cesare.
«Siate puntuali».
Frida infilò i sacchetti sotto il cappotto e ordinati come erano entrati, i quattro andarono via.
«Mi sembra troppo» obiettò Cesare quando la metro fu ben
lontana da Kirkoff.
«E allora stanne fuori» ribatté Demiro.
«Non potete vendere un’anima ai dannati per un gioco che
si è spinto troppo oltre. Venderla significa che Joy Hallet non
potrà più tornare indietro. Vagherà per l’eternità con le anime
più nere che l’umanità abbia mai visto e farà la loro stessa fine,
non potrà più riscattarsi».
«Senti Cesare, non fare il maestrino dal cuore d’oro, o stai
con noi o te ne vai e non torni più» tagliò corto Frida in tono
scocciato.
«Non mi permettereste mai di lasciare la famiglia, sareste di
nuovo punto e a capo».
«Appunto, ora sta’ zitto o finisce male» ringhiò Demiro colpendolo alle spalle, buttandolo a terra e scavalcandolo. Anche
Frida lo ignorò continuando a camminare svelta lungo il corridoio della metro. Solo Boris si fermò.
«Sono d’accordo con te ma per ora non possiamo far niente.
Domani lascia che le cose vadano come vuole Frida, poi ci
penseremo noi».
«Chi mi dice che posso fidarmi di te?».
«Nessuno, ma non hai altra scelta».
Quando arrivarono alla locanda Frida era troppo eccitata
per dormire.
«Allora, chi è d’accordo?».
Quando Cesare esitò prima di alzare la mano, Boris gli mollò una gomitata nelle costole.
83
«Faremo così: condurremo Joy e Romeo nel bosco, devono
essere soli. Li inseguiremo fino a farli arrivare dove non sapranno più come orientarsi, lì saranno obbligati a seguirci fino
al molo da Oscar. Consegneremo la “gatta morta” e diremo
a Romeo che l’unico modo di riaverla è entrare nella nostra
famiglia, se accetterà, Joy tornerà dopo la cerimonia.
«Come faremo, secondo te, a convincere Joy e Romeo a
seguirci spontaneamente nel bosco in piena notte?» chiese
Cesare interrompendola bruscamente. Frida gli lanciò contro
una bottiglia di vino piena, che lui schivò e si spaccò contro
una parete. La stanza fu invasa da un odore aspro.
«Tu, anima pia, penserai alla piccola Joy. La strapperai con
la forza dal suo letto. Io penserò a Romeo. Ci incontreremo
nella radura prima del molo».
«Andrò io con lui» si intromise Demiro.
«Ora buonanotte».
Incurante del vetro e del vino sul pavimento, Frida spense le
torce appese al muro e si mise a letto.
***
Quando Joy uscì dalla classe di letteratura trovò Romeo ad
aspettarla.
«Com’è andata oggi?».
«Ci siamo ignorati» rispose Joy con tono serio e drammatico.
«Adesso hai da fare?».
«No, aspetto che Berta finisca di copiare degli appunti e poi
torniamo a casa».
«Volevo chiederti se ti va di venire a pranzo da me, oggi»
propose Romeo prendendola per mano.
Joy accettò subito e gli stampò un bacio sulle labbra.
«Però prima accompagniamo Berta a casa».
Per tutto il tragitto in metro Joy e Romeo si tennero per
mano, ogni volta che lei si voltava a guardarlo stentava ancora
a credere che lui fosse davvero lì con lei, che finalmente non
fosse più solo un suo desiderio. Quando arrivarono a casa del
signor Manlio il pranzo era già pronto.
84
«Ciao, Joy. Belit mi ha parlato di te, mi fa piacere conoscerti!» esclamò Manlio accogliendola con un abbraccio.
«Ciao Joy!» esclamarono Greta e Abigail entrando in cucina.
«Romeo mi aveva detto che avrebbe voluto invitarti, così ho
cucinato io. In questa casa ci sono tre belle donne, ma nessuna è in grado di mettersi ai fornelli senza rischiare di incendiare la casa o di avvelenare anche un cane» dichiarò l’uomo,
riempiendole il piatto di ravioli bollenti.
«Be’, anche io ho molto da imparare!».
Eddy e Abigail erano i più affamati della tavolata. Mangiavano con gusto e finirono per primi. Greta non la smetteva di
lanciare occhiate disgustate verso i loro piatti.
«Ehi Joy, hai lezione domani?» chiese Diana fra un boccone
di bistecca e l’altro.
«Sì, domani inizio ailuromanzia, il corso con i gatti!».
«Anche tu sei fissata con i gatti come Belit?! Belit e tutti quei
gattacci! Saranno almeno tredici vite che le dico di liberarsene!» esclamò Manlio.
Dopo pranzo Romeo e Joy si dileguarono.
«Siediti sul mio letto, ho una cosa da farti sentire».
«Suoni? Non me lo avevi detto!» esclamò Joy, quando Romeo estrasse una chitarra classica da un angolo fra il suo armadio e la scrivania.
«Questa canzone è solo per te».
Joy si distese sul letto e si rilassò, chiuse gli occhi e si lasciò
cullare dolcemente dalla musica generata dalle dita affusolate
di Romeo che si muovevano agili sulle corde della chitarra.
«ROMEOOO, io voglio dormire!» strillò il signor Manlio dal
piano di sotto.
Joy sobbalzò e la musica si interruppe bruscamente.
«Manlio non è un amante della chitarra» spiegò Romeo riposandola al suo posto.
«Allora non ci resta che fare silenzio» bisbigliò Joy.
Romeo si sfilò le scarpe e si accucciò sul letto accanto a lei
passandole una mano intorno ai fianchi. Erano faccia a faccia, si
guardarono intensamente per qualche minuto, poi Joy gli passò le
dita fra i capelli e si avvicinarono sempre di più, fino a raggiungere quella distanza che poi sfuma irrimediabilmente in un bacio.
85
capitolo IX
La classe di ailuromanzia era rotonda. Sembrava un salotto
arabo. Il tetto era un mosaico di frammenti di specchio che
in alcuni punti copriva con sottili strisce anche la parete. Lunghi teli di stoffe leggere e translucide dal soffitto ricadevano
leggere sulle pareti riempiendo, con i loro colori preziosi, gli
spazi tra una striscia di mosaico e l’altra. I banchi, disposti
in semicerchio, erano tavoli bassi e intarsiati a cui si arrivava
stando seduti sui tappeti orientali che ricoprivano tutto il pavimento. In diversi punti c’erano sofà di velluto bianco. Una
donna affascinante con voluminosi capelli scuri che le incorniciavano gli zigomi alti, e gli occhi grandi di un castano quasi
dorato, era soavemente accomodata su una poltrona damascata al centro dell’aula, contornata da un fiume di gatti di
tutti i colori e tutte le dimensioni. Parlava con una voce sottile
e sinuosa come i suoi movimenti.
«Benvenuti, ragazzi» disse, quando tutti i banchi furono occupati. Gli animali, liberi di andare dove volevano, iniziarono
ad acciambellarsi sui sofà sparsi in giro o a saltare da un banco
all’altro.
«Sono la professoressa Lucrezia Yang» continuò, ignorando
lo stupore generale di chi entrava per la prima volta nella sua
classe.
Un micino grigio iniziò a mordicchiare le stringhe delle
scarpe di Joy, poi si mise a giocare con i suoi capelli cercando
di afferrarli con le unghie.
«Guarda che carino!» bisbigliò prendendolo in braccio.
«Signori, l’ailuromanzia può essere praticata con tutti i gatti,
anche con uno che non avete mai visto prima, ma perché sia
più semplice e accessibile è bene che ci sia un legame fra voi
e un gatto in particolare. Questa prima lezione sarà più un
gioco che un momento di studio perché ognuno di voi deve
scegliere il proprio compagno, quello con cui studierà durante
tutto il nostro percorso.
86
Berta e gli altri ragazzi della classe si alzarono e iniziarono a
guardarsi intorno.
«Non scegliete il vostro animale in base alla bellezza» consigliò Lucrezia Yang, accarezzando il suo soriano bianco e infiocchettato.
Joy era concentrata sul pancino grigio del suo micio, quando
Berta arrivò seguita da una gatto tigrato.
«Ti presento Middy!».
«Vero! Non ho ancora pensato a un nome...».
«È maschio o femmina?».
«Femminuccia» rispose Joy dopo aver controllato, poi si
mise un attimo a riflettere.
«Che ne pensi di Apple?».
«Bene, ragazzi, prendete posto con il vostro gratto!» esclamò la professoressa, interrompendo tutto l’allegro movimento nella classe.
Intanto sul banco di Berta arrivò strisciando un biglietto.
Era del ragazzo del banco vicino che le fece l’occhiolino.
“Andiamo a prendere un caffè dopo la lezione? Mat”.
Berta si girò a guardarlo un po’ sconvolta, non era abituata
a quel genere di attenzioni. Mentre lui attendeva una risposta
lei passò il biglietto a Joy.
«Chi è Mat?».
«Quello che ci sta osservando proprio in questo momento,
quello con le orecchie da elfo».
«Rispondigli di sì! Io ti aspetterò in biblioteca».
“Ok”.
«Magari scrivigli anche il tuo nome!» suggerì Joy.
“Ok, Berta”.
«Il vostro animale fa parte del corredo scolastico. Per questo
motivo lo porterete a casa con voi, dovrete studiarlo, capirne
le esigenze e i movimenti. L’ailuromanzia è un’arte delicata e
spesso diffusa impropriamente al popolo che l’ha mediocrizzata e stereotipata. Prendete pagina tredici!».
L’aria fu invasa dal fremito delle pagine sfogliate velocemente.
«L’elenco che avete davanti è quello delle credenze popolari
dal quale voi dovrete estrapolare gli aspetti validi e dimenti87
care quelli totalmente inventati. Durante la prossima lezione
faremo un dibattito al quale interverrete tutti, quindi studiate!
Fuori dall’aula troverete un mio collaboratore che vi darà una
borsa per portare il vostro animale in giro per il campus. Se
verrete trovati a tenerlo fuori dalla portantina, dentro o in
giardino, riceverete una nota. Potrete liberarlo solo nell’aiuola
di ailuromanzia, la riconoscerete dal cartello. Trattate bene il
vostro gatto, non sono previsti cambi».
Lo sciame di gatti senza padrone seguì ordinatamente Lucrezia Yang attraverso una porticina dietro la sua poltrona.
«Abbiamo già finito?» si chiese Joy cercando di fermare Apple che tentava di arrampicarsi sul suo maglione come se si
trattasse di un albero. Un uomo barbuto e nerboruto distribuiva delle borse di patchwork imbottito all’uscita dalla classe.
Joy prese la sua e vi infilò dentro Apple.
«Ehi, Berta! Mi fa piacere che tu abbia accettato il mio invito» disse Mat poggiato con le spalle al muro dopo aver messo
il suo gatto rosso nella portantina.
«Ci vediamo dopo!» esclamò Joy allontanandosi.
Apple si dimenava nella borsa, infastidita dalla confusione.
«Sta’ buona!».
«Con chi parli, Joy?».
Una voce familiare la colse di sorpresa.
«Ciao Diana! Parlo con il mio nuovo gatto!».
«Voglio vederlo!».
«Sai dove si trova l’aiuola di ailuromanzia?».
«No, ma posso accompagnarti a cercarla».
La mattinata era grigia e nuvolosa, il giardino era deserto e
silenzioso. L’aiuola per i gatti, spaziosa e recintata da una fittissima rete in metallo verde, era dietro il castello. Lì Joy liberò
la gatta inferocita.
«Si chiama Apple e credo che non le piaccia viaggiare in una
borsa».
«È bellissima!».
Dopo aver scalato un albero e aver provato a distruggere il
recinto Apple si buttò, sfinita, ai piedi di Joy.
«Hai lezione?» chiese Diana, cercando di raccogliere tutti i
capelli ricci e ribelli in una treccia.
88
«No, aspetto Berta. Ha un appuntamento galante con un
ragazzo! Tu hai lezione?».
«No, io aspetto Alvin, è a epistemologia dei numeri» rispose
Diana, solo pronunciare il nome di quella materia la confondeva.
«Allora andiamo in biblioteca? Berta sa che la aspetto lì».
Dopo una lotta con Apple, Joy riuscì a rinchiuderla nella
portantina, ma i suoi miagolii strazianti erano insopportabili.
«Se non la smette ci butteranno fuori dalla biblioteca!».
Diana si sfilò un bracciale tintinnante pieno di ciondoli a
forma di rana.
«Dalle questo, si calmerà!».
«Ma lo distruggerà...».
«Non fa nulla, ne ho altri a casa».
Quando Joy lasciò cadere il bracciale Apple si zittì. Prima lo
annusò, poi lo colpì con una zampata, infine inizio a mordere
le rane, una per una.
«Grazie!» esclamò Joy con un sospiro. La biblioteca era semivuota, le ragazze scelsero un tavolo tranquillo vicino alla
macchinetta delle bevande calde.
«Allora, come ti trovi a Gwenever?» chiese Diana mescolando la sua cioccolata bollente.
«Sarebbe tutto perfetto se non fosse per Giona...».
«Sì, immagino. Alvin mi ha accennato qualcosa».
«A volte mi sento in gabbia con lui in casa, non posso nemmeno pronunciare la parola “Romeo” senza dover subire la
sua faccia che mi accusa...».
«Perché tu e Romeo non venite al lunapark con me e Alvin
stasera? C’è una nuova attrazione, il tunnel dei dannati, così ti
distrai un po’!».
«Sarebbe perfetto!».
«Ti passiamo a prendere dopo cena. Ora devo scappare, Alvin mi starà aspettando, a più tardi!».
Joy rimase in biblioteca a sfogliare il libro di ailuromanzia.
Era pieno di figure, ma i caratteri della stampa erano piccoli
e stretti, leggerne più di due righe era stancante. Berta non si
vedeva e Joy iniziò a leggere l’elenco delle credenze popolari
a pagina tredici.
89
“Se il gatto si pulisce le orecchie vi è pioggia in arrivo. Se
il gatto si pulisce le orecchie per tre volte arriverà una visita
dalla direzione in cui guarda...”.
“... se vi segue arriverà del denaro, se il gatto sale sui mobili
arriverà della pioggia. Se il gatto abbandona improvvisamente
la casa in cui vive, catastrofe imminente. Se un gatto nero entra in casa vostra porterà fortuna. Se un gatto nero attraversa
la strada vi porterà sfortuna. Se un gatto bianco attraversa la
strada, malattia. Se un gatto nero passa sotto una scala porterà
sfortuna al primo che vi salirà. Se un gatto starnutisce la sera
prima di un matrimonio, sfortuna per la sposa (ma questa è
una credenza soprattutto italiana). Se vi appare un gatto sulla
soglia di casa e la porta è semiaperta, formulate una domanda.
Se avanza con la zampa destra avrete risposta affermativa, se
con la sinistra negativa. Se incontrate tre gatti neri consecutivamente avrete fortuna. Se il gatto dorme con la schiena rivolta verso fonti di calore significa che arriverà maltempo...”.
«Ehi, Joy!».
«Berta, Pensavo ti fossi persa!».
«Abbiamo parlato tantissimo, è simpaticissimo!».
«Vi rivedrete?».
«Credo proprio di sì!».
***
Joy era pronta. Aveva dovuto chiudere Apple in camera sua
per tenerla lontana da Queeny e dalle stringhe dei suoi stivali
scamosciati, un gioco irresistibile, e aspettava che la venissero
a prendere chiacchierando con Ortensia.
«Sei troppo impaziente!».
«Mi capita sempre quando posso passare una serata con
Romeo senza avere davanti Giona che mi incenerisce con lo
sguardo!».
Ortensia si mise a ridere.
«Vedi il lato positivo della situazione, puoi ritenerti una ragazza super ricercata!».
«Non prendermi in giro».
90
«Tutte le ragazze sognano uno come Giona, atletico, possente,
duro...» disse Ortensia, con enfasi, ridendo come una matta.
«Chi disprezza compra» ridacchiò Joy.
«Nemmeno se fosse l’ultimo uomo di Gwenever!».
La serata era fredda e il vento sibilava dalle fessure.
«Joy, hanno suonato, è per te!» urlò Belit dalla cucina.
«Domani mattina raccontami tutto!».
«Come sempre» disse Joy schioccandole un bacio, poi prese
la borsa e corse via.
Alvin aveva preso in prestito la macchina del signor Manlio,
un’utilitaria rossa. Romeo la aspettava sul sedile posteriore.
«Ciao ragazzi!».
«Come sta Apple?» chiese subito Diana.
«È incontrollabile! Ho dovuto rinchiuderla nella mia camera, stava distruggendo la poltrona di Belit!».
«Chi è Apple?» chiesero all’unisono Alvin e Romeo.
«La mia gattina, è per il corso di ailuromanzia».
«Perché non ti dedichi a materie più serie? Io seguo solo
corsi molto interessanti» disse Romeo.
«Anche le mie materie sono interessanti» ribatté Joy, un po’
offesa.
«A cosa serve studiare il futuro attraverso un gatto o un
dado? Lo trovo molto stupido».
«Io non seguo questi corsi perché spero di poter prevedere
il futuro, ma solo perché sono arti antiche, scienze di popoli
che non ci sono più e mi incuriosiscono. Non è necessario il
tuo tono da “so tutto io”!».
«Voi ragazze avete le farfalle in testa!» esclamò Alvin.
«Voi nemmeno quelle, ora guida!» disse Diana, dandogli un
buffetto in testa.
Il lunapark era stellare. Era a cielo aperto, ma c’erano così
tante luci da riscaldare l’aria.
«Andiamo subito alla nuova attrazione!» esclamò Diana saltellando, non riusciva a star ferma e il sorriso le arrivava agli
zigomi.
I ragazzi si fermarono a osservare un gioco per niente interessante. C’era un sacco rosso che si doveva colpire, più era
forte il pugno, più saliva il punteggio.
91
«Quanto scommetti che arrivo a ottanta con il primo colpo?» chiese Alvin con aria di sfida a Romeo.
«Ho capito, è meglio se al tunnel dei dannati ci andiamo da
sole! Amore, quando finite di giocare con questo sacco rosso
cercate il tunnel, ci vediamo lì» disse Diana prendendo Joy
sottobraccio.
«Va bene, ragazze. Ci vediamo fra poco» rispose Romeo,
perché Alvin era troppo impegnato a preparare il colpo.
“TUNNEL DEI DANNATI”.
Diversi cartelli indicavano la via per raggiungere la novità
del lunapark.
«Mi hanno detto che è fantastico!».
«Io adoro i lunapark, non avrei mai pensato di trovarne uno
qui» disse Joy.
«Guarda questo!» esclamò Diana indicando un’enorme altalena meccanica che roteava come una centrifuga nel cielo.
«Potremmo passarci più tardi, quando saremo sicure di aver
digerito».
Ogni giostra era piena di gente di tutte le età, ma quella con
la fila più lunga era proprio il tunnel dei dannati.
«Dovremmo salire su quei gommoni neri» disse Diana indicando un gruppo di ragazzi che prendeva posto e si preparava
a entrare nel tunnel.
La fila scorreva lentamente, così che arrivarono anche Romeo e Alvin.
«Sei ancora offesa con me?» bisbigliò Romeo prendendo Joy
per mano.
«No... non più» disse lei abbracciandolo.
Finalmente era quasi arrivato il loro turno.
«Joy, fra poco tocca a noi! JOY, FRA POCO TOCCA A NOI!»
urlò Alvin per ben due volte, notando che lei aveva lo sguardo
perso nella folla.
«Oh, sì, scusami...» disse prendendo tre monete.
«Che succede?».
«Niente amore mio, mi era sembrato di vedere uno di quei
demoni che ti danno la caccia, là in fondo, ma sono sicura di
essermi sbagliata».
Le due coppie presero posto e si allacciarono le cinture. Ro92
meo volle mettersi nel posto da pilota per essere lui a manovrare il gommone con un enorme sterzo. Joy gli sedeva
accanto.
«Al mio tre premete il pulsante rosso!» strillò l’uomo che li
aveva fatti sedere.
Al suo tre Romeo premette e partirono. Il tunnel era al buio,
sembrava un buco nero. Per il primo tratto di strada non si
vide nulla, si sentivano solo lamenti e voci disumane uscire da
ogni direzione. Poi si iniziarono a vedere luci rosse e verdi in
lontananza. Il gommone scivolava su un sottile corso d’acqua
che lo faceva sbandare lungo le pareti lisce del tunnel, Romeo
doveva mettere molta forza per non farlo ribaltare. Le luci
lontane si accendevano e si spegnevano, quando le raggiunsero si sentì un “bip” e furono accecati da una luce rossa fortissima, lo sterzo diventò pesante come una pietra e Romeo perse il comando del gommone che si lanciò in avanti. Erano su
delle rotaie in discesa, correvano così veloci da avere il cuore
schiantato in gola. Diana, Alvin e Joy urlarono con tutto il fiato che avevano in gola. Romeo era impassibile come sempre.
Improvvisamente la corsa si fermò. Sulle pareti fiocamente
illuminate si stagliavano ombre sinistre. Al loro passaggio, dal
soffitto cadde un velo nero che gli impedì di vedere. Quando
il velo fu sollevato si ritrovarono al buio in un tunnel più largo
in cui scorreva di nuovo acqua e il gommone iniziò a sbandare
ma Romeo ne riprese rapidamente il comando. Si accesero le
luci, di nuovo torce con fiamme di stoffa alle pareti.
«È una taverna!» disse Joy. Il gommone zigzagava fra tavoli
e sedie a cui erano seduti finti dannati dalle espressioni terrificanti.
«Siete finiti!» disse una voce meccanica. Alvin e Romeo risero. Joy si guardava intorno con gli occhi sgranati.
«Hanno davvero queste facce, i dannati?».
«Sì, ma il loro problema non è la bruttezza. Quando sei vicino a un dannato senti il terrore che ti invade le vene, inizi a
respirare la paura, è una sensazione di finito e di soffocamento» rispose Alvin.
Il gioco era finito.
«Contenta, Diana?» chiesero tutti scendendo dal gommone.
93
«Non era proprio come me lo aspettavo! Adesso che si fa?».
«Andiamo tutti a casa?» propose Romeo.
«No! Guarda quanti giochi che ci sono!» ribatté Joy prendendolo per mano.
«C’è la ruota, così vedrete Gwenever dall’alto!» propose
Diana.
Per la ruota panoramica la fila era più breve, c’erano solo
coppie. Alvin e Diana salirono su un seggiolino giallo, Romeo
e Joy su uno blu. La ruota era tutta illuminata e girava lentamente. Lì sopra faceva freddo. I lampioni dal basso e le stelle
dall’alto illuminavano i profili delle case e le strade, il paesaggio sembrava una foto antica sfumata di arancione.
«Guarda quante luci» disse Joy tremante.
«È molta bella la città vista da quassù» ribatté Romeo stringendola a sé. Sul punto più alto della ruota rimasero fermi più
a lungo.
«Quando Greta l’altra sera ci ha spiegato quelle cose sul bacio eterno ho avuto paura...» mormorò Joy.
«Paura di cosa?».
«Paura di vederti scappare terrorizzato!».
«E perché avrei dovuto? La prima volta che ti ho vista è stato come trovare una persona che aspettavo da tempo».
Joy sentì l’euforia pulsarle nelle vene, per la prima volta lo
baciò senza aspettare che fosse lui ad avvicinarsi per primo.
Rimasero stretti, finché la ruota non finì il suo giro e Diana
dovette richiamarli alla realtà.
«Torniamo a casa?» chiese Alvin.
«Per me va benissimo!» rispose Romeo.
«Aspettate! Andiamo almeno a comprare le caramelle!
Guardate quante bancarelle...» implorò Diana facendo gli occhi dolci ad Alvin, e lui non resistette.
Le bancarelle erano strapiene di ogni tipo di dolce. Dal torrone alle mele caramellate, dal cioccolato alle liquirizie. I profumi zuccherosi e tiepidi e le voci dei bambini impazienti, impregnavano l’aria fredda della notte rendendola meno ostile.
Diana riempì un sacchetto ficcandoci dentro tutto quello che
riusciva a entrarci, Romeo e Joy scelsero insieme, anche se alla
fine mangiò tutto lei.
94
«Ora possiamo tornare a casa?» supplicò Alvin.
«Ma c’è ancora il tappeto volante!» sputacchiò Diana, con la
bocca piena di mela caramellata.
«Vi prego, ragazzi! Quello e basta!» si aggiunse Joy.
La faccia di Romeo era afflitta e sconsolata, quella di Alvin
pure. Ma alla fine si lasciarono convincere. La fila era breve
perché era già molto tardi e la giostra era semivuota. Joy e
Romeo si misero nella fila a sinistra, Diana e Alvin di fronte
a loro, a destra.
«Voglio vedere le vostre facce!» esclamò Diana eccitata.
Il grande tappeto di metallo iniziò a oscillare e ondeggiare, poi sbattendo da un lato all’altro si ritrovò a mezz’aria.
Guardare in basso faceva girare la testa, la ruota panoramica
in confronto sembrava la ruota di una bicicletta. Di botto il
tappeto si lanciò verso il basso, Joy sentì lo stomaco che si
appiattiva, Diana urlò così forte che Alvin dovette allontanarsi. Per altri venti minuti fecero un continuo su e giù, quando
scesero sembravano quattro uova strapazzate.
«Ok, ora torniamo a casa» biascicò Joy, mentre le caramelle
che aveva ingurgitato si ribellavano nella sua pancia.
Per strada non c’era nessuno, il tragitto fino a casa di Belit
fu rapido.
«Posso scendere un attimo ad accompagnarla?» chiese Romeo quando arrivarono.
«Fa’ pure» rispose Alvin.
«Grazie per la serata, buonanotte ragazzi!» esclamò Joy
scendendo dalla macchina.
«Era da tempo che non mi divertivo così!» disse Romeo
quando furono davanti l’uscio di casa.
«Davvero? Dalla tua faccia sempre uguale non si direbbe...».
«Che antipatica!».
Si tennero per mano e si osservarono alcuni istanti, erano
armonici e sintonizzati, perfetti come pezzi di un puzzle che
finalmente si uniscono.
«Devo andare, non posso farli aspettare».
«Hai ragione, se vuoi domani pomeriggio passa a trovarmi».
95
«Verrò dopo le lezioni, buonanotte Joy».
Con un bacio, si salutarono.
***
Joy dormiva profondamente, Apple era aggrappata alla felpa
del suo pigiama e dormiva con lei. Quando furono svegliate
bruscamente non c’era più nulla da fare. Berta era imbavagliata e legata, mani e piedi, al letto. Anche lei aveva la bocca
coperta di nastro adesivo e si sentiva i polmoni scoppiare.
Cesare e Demiro erano nella sua camera.
«Saluta la tua amica, Joy. Ti portiamo a fare un viaggetto!»
esclamò Demiro. Mentre le legava i polsi, Apple lo minacciava
con le unghie e con i suoi piccoli denti. Infastidito, il demone
la schiantò contro il muro con un ceffone. La gatta gemendo
si infilò nella sua portantina. Berta e Joy urlavano con gli occhi, si guardavano e piangevano ma dalle loro bocche serrate
non usciva nemmeno un lamento.
«Aprimi la finestra, veloce» ordinò Demiro.
Cesare velocemente afferrò la portantina di Apple e ne chiuse la cerniera, poi aprì la finestra.
«Cos’hai preso?».
«Il suo gatto, almeno le farà compagnia».
«Idiota» ringhiò Demiro, e senza volere il suo aiuto, si abbarbicò sulla finestra e ne balzò fuori. Joy si dimenava come
un’anguilla, sbatteva i piedi cercando di colpirlo e agitava le
braccia stirandosi i polsi ma senza risultato.
«Smettila o finisce male».
Fregandosene del monito, continuò a dimenarsi e riuscì a
colpirlo in testa con una ginocchiata, Demiro la lasciò cadere
a terra sul terreno accidentato. Joy sbatté la guancia contro
una pietra appuntita e sentì la carne aprirsi e il sangue rigarle
il viso, poi Demiro la colpì nella schiena con un calcio. Un
dolore acuto e secco si diramò lungo la spina dorsale fino al
collo.
«Smettila Demiro, questi calci non erano nei patti» disse Cesare.
96
«Fatti gli affari tuoi».
«Sono anche affari miei».
Per la prima volta Cesare attaccò Demiro. Lo colpì al torace
e all’altezza dello stomaco con una violenza che non sapeva di
avere. Demiro tossì e smise di rispondere ai suoi colpi.
«Faremo tardi se non andiamo via subito».
Con la faccia divertita, mollò altri due calci a Joy che stordita
dal dolore perse i sensi.
Si risvegliò con un tonfo che destò anche i dolori del suo
corpo, e sentì subito una voce terrorizzata che la chiamava e
che riconobbe immediatamente. La nausea le attanagliava la
gola, sforzandosi cercò di girare la testa, con la coda dell’occhio vide Romeo, era immobilizzato da Boris.
«Finalmente la famiglia è al completo, cosa c’è in quella borsa, Cesare? Dammela subito» disse Frida, e senza aspettare
una risposta gliela strappò dalle mani. Una belva inferocita le
saltò in faccia, con gli artigli puntati contro di lei.
«Cos’è, uno scherzo?» urlò afferrando Apple dalla coda e
lanciandola via come se fosse di pezza.
«No, è il gatto di Joy».
«Toglilo da davanti a me o lo schiaccio con i miei piedi. Demiro, libera Joy».
Cesare rimise Apple nella portantina. Era stordita, non riusciva a tenere gli occhi aperti né a camminare bene, come la
sua padrona. Quando Joy fu libera corse da Romeo, gli buttò
le braccia al collo ma le sue gambe cedettero al dolore lancinante della schiena. Boris liberò anche lui e lasciò che la
sorreggesse.
«Cosa le avete fatto?» urlò vedendo il sangue incrostato sul
volto della ragazza e il fango a chiazze sul pigiama rosa.
«Che succede?» biascicò Joy. Aveva paura.
«Non lo so» rispose Romeo, era teso e spaventato e la stringeva forte per farsi coraggio.
«Ve lo spiego io cosa succede» intervenne Frida.
«Succede, cara Joy, che il tuo amato Romeo ha avuto una
richiesta pacifica, non ha accettato e allora adesso gli proporremo un patto».
97
Romeo si sentì mancare. Sapeva che quello non era uno
scherzo, che Frida lo avrebbe colpito e affondato e Joy sarebbe stata il tramite.
«Tra poco arriveranno dei miei amici a cui ho gentilmente
chiesto di portarti a fare un giro per Gwenever, su una nave.
Ti sembrerà una crociera!».
Demiro scoppiò a ridere.
«Mentre tu sarai via» riprese Frida «Romeo avrà tutto il tempo di decidere se venire con noi, e permetterti di tornare qui,
o restare a casa della cara Greta e lasciarti con i miei amici!».
«No, Frida! Questo non puoi farlo. È un ricatto sporco!»
urlò Romeo. Tremava di rabbia. Joy si sentì mancare. L’idea
di partire con “amici di Frida” la angosciava quanto quella di
abbandonare Romeo con quei mostri. Non riusciva a parlare.
Confusione, orrore e sgomento la soffocavano.
«Va bene, verrò con te adesso, ma lascia stare Joy».
«Troppo tardi ormai. Dovevi pensarci prima».
Il fischio di una nave aumentò il batticuore di Joy.
«Legateli» ordinò Frida.
«Qualunque cosa succeda, sta’ tranquilla. Torneremo insieme. Ti amo, Joy» sussurrò Romeo dandole un bacio veloce
prima che Demiro gliela portasse via.
Joy era irrigidita dal terrore, si lasciò legare i polsi e non si
dimenò più. Cesare le mise la portantina a tracolla, Apple era
dentro, si sentiva dal peso, ma era immobile. Joy pensò che
potesse essere morta.
«Possiamo andare» disse Demiro quando anche Romeo fu
legato. La quiete del bosco era insudiciata da vocii, urla, imprecazioni sempre più vicine. Frida guidò il gruppo lungo un
breve sentiero che terminava sul mare. C’era un vecchio molo
a cui era attraccata una nave brulicante di uomini massicci
e sporchi, uno di questi appena li vide arrivare si staccò dal
gruppo per raggiungerli.
«Perfettamente puntuali» esclamò. Subito dopo la sua attenzione fu catturata da Joy. Iniziò a studiarla attentamente. Il
suo odore di tabacco e sudore la nauseava.
«Come ti chiami?».
La testa di Joy ciondolava silenziosa, cercando di concen98
trarsi su qualcosa che potesse farle dimenticare la puzza e la
paura.
«Come ti chiami?» urlò Oscar. Il suo alito catarroso, fetido
di tabacco la stordì.
«Si chiama Joy Hallett, e non devi toccarla» disse Romeo.
«Tu non mi interessi, non intrometterti».
Un uomo tarchiato e unto arrivò con un sacchetto di iuta
in mano.
«Signore, la somma che aveva chiesto».
«Bene. Frida è stato un piacere fare affari con te. Bob, prendi questa ragazzina e portala in cucina, più tardi la sistemeremo».
Il marinaio si avvicinò a Joy ma Romeo liberandosi dalla
presa di Boris le si parò davanti per proteggerla.
«Cosa le farete?».
«Niente, le daremo un lavoro!» latrò Oscar.
«Spostati o sarò costretto a farti del male» disse meccanicamente il marinaio.
Boris tirò Romeo a sé. Joy si voltò a guardarlo, nei loro occhi c’era solo disperazione. Senza fiatare si lasciò trascinare
via dal marinaio.
«Aspetta Joy!» urlò Romeo.
«Sono sicura che manterrai la tua promessa, ti amo tanto
anche io» disse lei e con un sorriso rassegnato lo salutò.
«Quanto devo aspettare per rivederla?».
«Il tempo che Oscar finirà il suo viaggio e tornerà a casa,
solo se tu sceglierai di venire con me» disse Frida.
Oscar iniziò a ridere, le sue fauci annerite e il suo divertimento inquietarono Romeo, sentiva che non gli era stata detta
tutta la verità.
«Andiamo, ti riportiamo a casa» disse Cesare.
«Buon viaggio» disse Frida nascondendo bene i soldi nel
suo cappotto.
Demiro con una corda dura e ruvida legò il polso di Romeo
al proprio e si incamminarono verso casa.
Per tutto il tragittò Romeo non fiatò. Era animato da una
rabbia cieca e violenta. Arrivarono che era quasi l’alba e abbandonarono Romeo sul tappeto di benvenuto.
99
PARTE II
“I limiti esistono soltanto nell’anima
di chi è a corto di sogni.”
(Philippe Petit)
capitolo X
Il signor Manlio bevve il suo caffè e si mise il giornale sottobraccio. Era pronto per la solita passeggiata al parco, come
ogni mattina.
Quando uscì, per un istante credette di aver avuto un’allucinazione. Si strofinò gli occhi, ma Romeo livido e sporco, era
ancora lì disteso sull’asfalto.
«Eddy, Alvin! Venite, presto!» urlò lasciando cadere il suo
giornale e prendendo fra le braccia il ragazzo privo di sensi.
Quando lo appoggiò su un divano in salotto, erano già arrivati
tutti. Il cuore di Greta perse un colpo alla vista del suo braccio
tumefatto che pendeva inerme. Abigail non si fece prendere
dal panico e portò dalla cucina una pezza bagnata con cui gli
rinfrescò il viso.
Romeo iniziò a riprendersi.
«Cos’è successo? Ti ho lasciato nel tuo letto stanotte» farfugliò Alvin.
«Boris e Frida mi hanno rapito. Mi hanno condotto nel bosco, poi sono arrivati Demiro e Cesare con Joy... e Frida l’ha
consegnata ad un uomo, il proprietario di una nave che stava per partire proprio da lì. Quest’uomo le ha dato dei soldi
in cambio...» Romeo fece una pausa poi riprese «e mi hanno
detto che Joy tornerà solo quando accetterò di andare con
loro».
Greta sbiancò. Il suo viso divenne uno straccio ingiallito,
cercò una sedia, le ginocchia tremanti non la reggevano.
«Quest’uomo partiva dal molo del bosco?» chiese, respirando profondamente per mantenere una voce calma.
«Sì, sembravano un branco di pirati».
«E lui ha dato dei soldi a Frida, in cambio di Joy?».
«Sì».
Calò un silenzio straziante.
«Ma tornerà se accetto di andare con Frida» aggiunse Romeo, accennando un sorriso speranzoso.
105
In quel momento Greta decise che sarebbe stato inutile nascondergli la verità.
«Romeo, Joy non tornerà. Frida ha venduto la sua anima ai
dannati. Non c’è nulla che possiamo fare».
***
Frida era soddisfatta. Soppesava i suoi bei soldi e vi immergeva dentro le mani come se fossero acqua fresca sotto
il sole.
«Ora dobbiamo solo decidere che giorno andare a prendere
Romeo!» esclamò.
«Io credo sia meglio farlo il prima possibile, ma mi piace
l’idea di lasciarlo un po’ macerare nella sua angoscia» latrò
Demiro ridendo.
Ora si sentivano sicuri, fra meno di un mese sarebbero stati
finalmente accolti dalla congrega dei demoni neri, come una
vera famiglia. Bisognava solo iscrivere Romeo al loro albo, ma
quelle erano questioni burocratiche. Bastava fare una gitarella
a Kirkoff e sarebbe stato tutto fatto.
«Cesare, Boris, non mi sembrate contenti del risultato della
nostra piccola missione» disse Frida.
«Sbagli, scoppio di gioia» ribatté Boris con un sorriso falso.
«Se siete così contenti, perché non andate ora a Kirkoff a
informarvi? Non sappiamo bene con chi dobbiamo parlare
per il cambio di stato di Romeo» suggerì Demiro.
Cesare ingoiò il rospo, Boris annuì, prese il suo cappotto e
ne passò un altro all’amico.
«Cercheremo tutte le informazioni utili» sibilò Boris.
Kirkoff, anche al sole, era un quartiere infernale. Le baracche annerite dal fumo e dal tempo si affacciavano sulle strade
deserte, sembrava che fosse tutto abbandonato.
«Dove andiamo?» chiese Cesare.
«Chiediamo a Rosmunda, è l’unica di cui possiamo fidarci».
La trovarono nel suo bilocale adiacente alla locanda dello
106
Stalliere. Anche la sua casa da fuori sembrava una baracca disabitata. Quando Rosmunda aprì, furono investiti da un odore fetido di birra e muffa.
«Cesare, Boris! Che ci fate qui? C’è qualche problema? Mi
sembra strano vedervi da queste parti, so che voi non siete
amanti della zona».
«Dobbiamo parlarti di una cosa delicata... possiamo entrare?» chiese Cesare.
La barista li accolse nella sua topaia e li pregò di accomodarsi su un vecchio divano cigolante. Il salotto sembrava un
vecchio deposito pieno di scatoloni colmi di cianfrusaglie.
C’erano pochi mobili, un tavolino illuminato da sottili strisce di luce che filtravano da una serranda chiusa, una sedia
coperta da una fodera con grossi fiori sbiaditi e una vetrina
a tre scomparti, nel secondo mancava il vetro, in cui erano
disordinatamente ammassati boccali di birra colorati e piccoli
oggetti di ceramica.
Un vecchio gatto rosso e spelacchiato miagolò entrando nel
salotto e si andò a sedere ai piedi della padrona.
«Hai fame, Lisca?» domandò Rosmunda, con la voce più
dolce e quasi femminile che le avessero mai sentito.
Lisca, in risposta, iniziò a strofinarsi contro le sue gambe.
«Scusate, questa è l’ora della pappa».
La donna sparì nella stanza accanto seguita dal suo micio
felice.
«Ho la nausea, questo divano mi fa ribrezzo!» bisbigliò Boris.
«Sta’ zitto. I commenti lasciali per quando saremo fuori di
qui!» lo ammonì Cesare.
«Eccomi, ditemi tutto, cari».
Prese la parola Boris, amava farsi portavoce di tutto ed esercitare le sue abilità retoriche. Rosmunda lo ascoltò con attenzione, massaggiandosi il mento con le dita tozze e ruvide.
«Frida sarà pazza di gioia! Io però non saprei come aiutarvi
direttamente, ma so dove mandarvi. Aspettatemi».
La barista li lasciò di nuovo soli. Cesare capì che Boris stava
per dire qualcosa che poteva essere sconveniente, e gli mollò
una gomitata nelle costole per fermarlo in anticipo.
107
«Questo è l’indirizzo di un vecchio amico, non so che lavoro
faccia esattamente ma io mi rivolgo a lui per qualunque problema, ha tante conoscenze... saprà come aiutarvi».
Sul post giallo, che Rosmunda porse a Boris, erano scarabocchiati un indirizzo e un nome.
«Possiamo dire che ci mandi tu?» chiese Cesare, alzandosi
dal fetido divano e avviandosi all’uscita.
«Sì, certo. Ma non dite di lui a nessuno. Non è proprio una
persona raccomandabile».
«Grazie, Rosmunda. Ci sei stata davvero utile» dissero i demoni chiudendosi alle spalle la porta della topaia.
«Oh, aria pura!» esclamò Boris, inspirando a pieni polmoni.
«Urla un po’ di più, così è sicuro che Rosmunda ci sentirà»
ringhiò Cesare.
«Scusa, scusa. E poi anche se ci dovesse sentire, ormai sappiamo dove andare» ribatté Boris con un sorriso ebete. La
casa di K. Brown era al confine di Kirkoff, vicino alla fermata
della metro. Era un piccolo appartamento grigio, meno scrostato e diroccato di quelli vicini. Cesare e Boris dovettero suonare più volte prima di avere una risposta. Quando K. Brown
aprì ebbero un attimo di esitazione. I suoi tratti neri e ostili
indugiarono per eterni istanti sui nuovi arrivati.
«Chi vi manda qui?».
«Rosmunda. Possiamo parlare?».
«Vi faccio entrare solo perché vi manda lei» acconsentì K.
Brown, aprendo uno spiraglio per farli passare.
«Ditemi, veloci. Ho da fare».
«C’è un demone bianco che vorrebbe passare dalla nostra
parte. Bisogna cancellarlo dal suo albo e iscriverlo al nostro»
spiegò Boris rapidamente.
«Non è una procedura veloce, ci vorrà un po’ di tempo».
«Abbiamo meno di un mese!» esclamò Cesare, guardandosi
intorno. La casa era semibuia, ma più ordinata di quella di Rosmunda. Sembrava che i dannati non amassero la luce. Erano
creature oscure e temibili che si mimetizzavano nel buio. Sul
tavolo erano abbandonati una tazzina da caffè e una brioche
morsicata. Il lavello però era vuoto, c’era solo uno strofinaccio consunto appeso al pomello della credenza.
108
«Io posso cercare di velocizzare le procedure, ma più sarò
veloce, più vi costerà».
Boris e Cesare si scambiarono uno sguardo divertito.
«Non è un problema! Dacci una data e un prezzo» disse
Boris.
«Ci vediamo qui fra due settimane, con il ragazzo. La cifra
sarà pattuita in base al mio lavoro. Ora andate, non fate mai
il mio nome».
«Grazie» disse Boris, porgendo una mano che non venne
corrisposta.
La porta fu chiusa sgarbatamente e loro furono di nuovo
all’aperto.
«Andiamo via da qui» disse subito Cesare.
«Spero che Brown sia davvero costoso. Sarà molto divertente vedere Frida che spende tutti quei soldi... per niente!»
esclamò Boris.
«E ora che si fa?».
«Prima andiamo da Romeo, poi torniamo da Frida».
La fermata per Olimpia era a dieci minuti di strada da Kirkoff.
Le tende a casa del signor Manlio erano tutte chiuse. In giardino non c’era nessuno.
«Pensi che sia saggio suonare?» chiese titubante Boris.
«Se vogliamo che Romeo ci creda dobbiamo avere un comportamento adeguato, non possiamo scassinargli una finestra
e poi dirgli che siamo venuti in pace!» gli fece notare Cesare.
«Rischiamo botte!» sottolineò Boris.
«Sarebbero meritate» ribatté Cesare, suonando il campanello. Furono attimi di tensione, ma nessuno venne ad aprire.
Risuonarono, ma nemmeno quella volta ebbero risposta.
«Torniamo un’altra volta, non c’è nessuno!» esclamò Boris
facendo spallucce.
«Domani lo cercheremo al campus, magari saremo più fortunati!».
Quando il campanello smise di suonare, Romeo, qualche
piano più sopra, tirò un sospiro di sollievo e tornò alla sua
quiete solitaria.
109
capitolo XI
«Sveglia! Una montagna di patate ci aspetta».
Joy aprì gli occhi e per poco non urlò. Aveva dormito su una
branda sconquassata ed era chiusa in uno stanzino disordinato e sudicio, con una perfetta estranea.
«Prima puoi lavarti, ti ho preparato un bagno caldo».
«Grazie» disse Joy. Ci mise un po’ a realizzare che quello
che credeva un sogno, era davvero accaduto. Non era a casa
sua, in camera con Berta, e possibilmente non ci sarebbe più
tornata. La rassegnazione inondò la sua mente con la violenza di un tornado, rubandole forze e idee. Svogliatamente
si alzò con l’espressione di chi portava un macigno rovente
sulle spalle e sistemò Apple sul cuscino. La gattina malconcia
tremava. Sentendo il terreno oscillare sotto i suoi piedi, le fu
chiaro che si trovava proprio sulla nave in cui era stata spinta
qualche ora prima.
«Ti accompagno. Comunque io sono Jasmine Nahid».
«Joy Hallett».
Jasmine indossava un vestito vecchio, largo e consumato.
Enorme per il suo corpo scheletrico. Aveva la pelle dorata
come il miele, occhi orientali e capelli scuri e lunghi.
«Puoi spiegarmi cosa ci faccio qui? Cosa ci fai tu? Dove va
questa cazzo di nave?».
«Seguimi. Io sono una cameriera... sono salita qui come la
fidanzata di uno di loro, ora lavo cessi, preparo quintali di
cibo per quel branco di maiali e rassetto abiti» spiegò Jasmine,
guidando Joy attraverso un angusto corridoio con i tetti bassi
e interamente ricoperto di legno.
«E lui dov’è?».
«Me lo chiedo spesso. Una sera ha litigato con Oscar. Lo
hanno buttato in mare. Penso che sia salvo, eravamo vicini a
un porto».
«Io non ho ben chiaro cosa mi sia successo. Credo di essere
stata venduta a questo Oscar».
110
«Mi fa piacere sapere che non sono l’unico demone bianco su questa nave adesso! Per favore fatti abbracciare. Le
poche donne che ci sono qui sono peggio di Oscar e i suoi
scagnozzi!».
Per rispondere al suo abbraccio Joy le diede una titubante
pacca sulla spalla.
«Oscar ti ha assegnato quello stanzino, finché non avrai
quello che ti serve puoi venire nella mia camera. Ti lascio sola,
non hai molto tempo. Sul letto c’è un vestito per te, io vado a
dare una pulita alla tua nuova camera» disse Jasmine tirando
fuori una chiave dalla tasca del suo grembiule e aprendo una
porticina di ottone. Joy entrò in una stanza grande quanto la
sua, ma ordinata. C’era una branda con delle lenzuola bianche, sul cuscino era piegato un abito verde pastello. C’erano
anche un comodino con una foto e un mazzolino di lavanda
essiccato, un baule e una tinozza piena di acqua fumante e
profumata. Joy si avvicinò al comodino, la foto immortalava
Jasmine accoccolata fra le braccia di un ragazzo che le baciava
la guancia. La rimise esattamente al suo posto e si spogliò.
Dal suo pigiama rosa cadeva ancora terra, sui polsi e sulla
schiena aveva grossi lividi. L’immagine di Romeo che urlava
il suo nome balenò nella sua mente. Si immerse nell’acqua e
si bagnò il viso cercando di rimandare le lacrime indietro. Si
lavò velocemente e si vestì. L’abito era largo e logoro ma si
accontentò. Raccolse i suoi vecchi vestiti e richiuse a chiave la
porta della camera di Jasmine. Quando entrò nel suo stanzino
lo trovò completamente trasformato. Jasmine le avevo messo
delle lenzuola azzurre e fresche, aveva spazzato e spolverato e
aveva abbellito l’oblò con una tendina color lavanda ricamata
con delicate farfalle bianche.
«Ho fatto io questo ricamo!» esclamò orgogliosa, indicando
le preziose farfalle.
Vicino al letto adesso c’era un comodino vecchio e molto
usato, ma coperto con un centrino bianco. Nella parete ad angolo era incastrato un vecchio baule, accanto una tinozza per
il bagno e una cesta in cui dormicchiava Apple.
«Spero che così tu ti senta più a tuo agio!».
«Grazie non dovevi!».
111
«La tua gatta non sta molto bene, aveva alcune ferite, le ho
pulite con un disinfettante e le ho bendate».
Joy prese Apple in braccio e la accarezzò. Dal suo musetto
uscì un miagolio debole.
«Più tardi ti racconterò perché sono finita qua e anche perché Apple è ridotta così male».
«Dobbiamo cucinare il pranzo per ottantasette uomini affamati e dopo avremo tutto il tempo che vogliamo per parlare
fino all’ora di cena! Questa è la chiave della tua stanza, non la
perdere. La notte qui è meglio chiudersi bene a chiave. Andiamo, le patate ci aspettano!».
Joy sistemò Apple nella sua cuccia e la coprì, chiuse la porta
della sua nuova stanza e seguì la sua nuova amica.
«Ho dimenticato di dirti che non mangiamo con i pirati,
abbiamo una cucina riservata a noi che è questa» disse Jasmine aprendo una porta a pochi metri dalla sua camera. Joy vi
buttò dentro un’occhiata, vide un lavello roso dalla ruggine,
lo squarcio di un tavolo traballante, sentì squittire un topo e
tanto le bastò per sentire un conato di vomito.
«Ok, puoi chiudere».
«Sì, fa schifo, lo so! Ma purtroppo non è solo mio, qui ci
mangiano anche altre cameriere... ah, stavo per dimenticarlo!
Anche il gabinetto è lì dentro, anche quello è condiviso con le
altre. Non c’è porta, ma solo una tenda davanti quindi ti consiglio di andarci o al mattino presto o alla sera molto, molto
tardi».
«Fantastico».
La cucina era all’ultimo piano, quindi non c’era nessun oblò
ma solo luce artificiale e violacea. L’odore che aleggiava era
nauseabondo.
«È arrivata la ragazza nuova» latrò un armadio biondo platino vestito da donna, vedendo Joy e Jasmine entrare.
«Ciao Tarsilla».
«Buongiorno» disse educatamente Joy.
Da dietro una dispensa sbucò una donna massiccia e prosperosa. Il suo seno bovino traboccava da un corpetto nero e
fucsia troppo stretto. Sul suo faccione paonazzo era acconciata, con strass e fiori, una massa informe di ispidi capelli rossi.
112
Un po’ più sopra dei suoi labbroni impiastricciati di rossetto,
era dipinto un finto neo sbavato da un bordo.
«Adesso non ti lamenterai più quando ti toccherà pelare le
patate, perché da oggi in poi abbiamo la cameriera della cameriera, solo per te, Jasmine» disse con tono acido.
«A lei non devi rispondere, è la compagna di Oscar» sibilò
Jasmine in modo così rapido che solo Joy la sentì.
«Sì, Griselda. Non mi lamenterò più. Dove sono le mie patate?» disse poi a voce più alta.
«Ora siete in due, portatevele su da sole».
Jasmine, senza battere ciglio, prese Joy per mano e la tirò fino
a quello che sembrava un tombino dall’altra parte della cucina.
«Che strega» mormorò inginocchiandosi e cercando di
smuovere il chiavistello che chiudeva la botola. Joy le diede
una mano e insieme ci riuscirono.
«Scendi con me, ti faccio vedere la dispensa» disse Jasmine,
infilando una mano nel buco nero e accendendo una lucina
che illuminò una rampa di scale molto stretta.
«Fa’ attenzione. Scendo prima io».
Dopo che Jasmine fu arrivata, Joy scese. Quei gradini piccoli e scivolosi le facevano tremare le ginocchia. Quando ebbe
messo entrambi i piedi sul pavimento si rilassò e si guardò
intorno. Ogni centimetro di muro era ricoperto da scaffali
zeppi di scatolette, confezioni di pasta, carne essiccata e montagne di patate. Tutto impolverato, unto e disordinato.
«Dobbiamo portare su circa tre sacchi di patate, è faticoso.
Di solito è quella vacca di Tarsilla che me le prende, lei ha delle braccia più grasse e forti di quelle di un muratore».
«Ce la faremo».
Le ragazze riempirono tre sacchi di tela marrone. Jasmine
provò a caricarsene uno sulle spalle ma anche se Joy spingeva
da dietro, non riusciva a salire nemmeno un gradino. Provò
Joy, ma non ci riuscì nemmeno lei.
«Ho un’idea, non è un metodo veloce ma eviteremo di farci
male!» esclamò Joy appena vide un secchio pieno di scatolette. Fregandosene del contenuto lo svuotò buttando tutto sul
pavimento, prese una corda abbastanza spessa e lunga e fece
diversi nodi molto stretti intorno al suo manico.
113
«Prendi un’estremità della corda, i tre sacchi vuoti e sali con
il secchio. Io da qui lo riempirò un po’ alla volta e tu lo tirerai
su!».
«Grazie Joy, sei stata geniale! Per un attimo ho temuto di
dover chiedere aiuto a quelle streghe».
Jasmine con un sorriso strafelice seguì le istruzioni e quando
Joy riempì il secchio lo tirò su, iniziò a riempire il primo sacco
e lo rimandò giù. Ci misero più di mezz’ora per riempire tutti
e tre i sacchi ma ci riuscirono.
«Avete finito?» urlò Griselda.
«Non ancora» rispose Jasmine. Si erano appena sedute al
tavolo, stavano riprendendo fiato e avevano già i pelapatate
pronti.
«Ma se è la compagna di Oscar che ci fa qui?» bisbigliò Joy.
«Ci controlla! E poi riferisce tutto a Oscar».
«Fantastico. Abbiamo anche il cane da guardia».
«Se vuoi raccontarmi cosa ti è successo, ora puoi. Qui Griselda non verrà, e non verranno nemmeno Tarsilla, Zelinda
e Rufina, le cameriere che conoscerai fra poco. Nessuno osa
avvicinarsi al tavolo delle patate» disse Jasmine, con un tono
ironicamente cupo.
«Oh, sì. Ti racconto proprio tutto! Ho un bisogno esagerato
di confidarmi con qualcuno».
Joy iniziò a parlare a ruota libera, si fermava solo raramente
per riprendere fiato o quando pronunciava il nome di Romeo,
perché un nodo le stringeva la gola e sentiva le lacrime spintonarsi agli angoli degli occhi, e doveva sforzarsi per ricacciarle
indietro. Jasmine la seguiva con interesse e attenzione e più
Joy raccontava, più lei si intristiva ripensando alla sua vita lontano da lì.
«Ma io e Romeo ci siamo promessi che ci saremmo rivisti,
escogiterò presto qualcosa per andare via da qui, e sono sicura
che anche lui farà lo stesso. Lo rivedrò presto, farò di tutto
perché sia così. E poi Frida ha detto che se lui accetterà di
andare con lei io tornerò a casa... io non voglio che lui accetti
ma quando sarò a casa penseremo anche a questo».
A quelle parole il pelapatate di Jasmine si fermò a mezz’aria.
114
Anche se la conosceva da poche ore, Joy era la prima amica
che aveva dopo tantissimo tempo passato in solitudine, perciò
ci rifletté su e poi decise di essere sincera con lei.
«Frida e Oscar ti hanno preso in giro. Quando un’anima viene venduta ai dannati, non può più tornare indietro. Potrebbe
provare a fuggire, ma è impossibile. Mi dispiace avertelo detto
così amica mia, ma certe cose è meglio saperle subito».
Joy sentì che tutte le sue funzioni vitali erano morte. Il suo
cervello andò in tilt per qualche secondo e quando si riprese, le ultime parole pronunciate da Jasmine echeggiarono con
violenza nella sua mente. Con la stessa violenza piantò il suo
pelapatate sul tavolo.
«Io quel bastardo lo ammazzo».
Con il viso stravolto dalla rabbia, infuriata, gli occhi sgranati
offuscati da una voglia omicida Joy si alzò. Jasmine provò a
fermarla, ma fu ignorata.
«Joy, non fare pazzie. Non puoi ammazzare nessuno qui,
torna indietro».
«Dove sta andando?» urlò Griselda vedendola marciare verso l’uscita.
«In... in bagno» farfugliò Jasmine.
«Sto andando da quel maledetto di Oscar» ringhiò Joy.
«Cos’hai detto, piccola vipera?» urlò di nuovo Griselda, ma
Joy era già fuori dalla sua portata. Jasmine le stava dietro ed
era terrorizzata.
«Joy farai solo danni, ti prego fermati».
«Jasmine, tu sei adorabile! Non metterti in mezzo, non voglio che ti succeda niente. Aspettami in cucina, per favore».
Il tono di Joy era così calmo, serio e autoritario che Jasmine
non riuscì a far altro che obbedirle.
I corridoi della nave sembravano tutti uguali, tutti completamente ricoperti di legno dal soffitto al pavimento, e in giro
non c’era nessuno. Joy si fermò un attimo a riflettere. I piani
bassi erano riservati alla cucina e alle stanze delle cameriere, di
sicuro lì a quell’ora del mattino non avrebbe trovato nessuno,
soprattutto se cercava Oscar, il capo. Decise che doveva solo
salire e così si mise in cerca della strada che l’avrebbe portata
ai piani alti della nave.
115
«Che ci fai qui?» urlò il prodiere vedendo spuntare una cameriera.
«Cerco Oscar».
«Aspetta qui. Capitano, c’è una cameriera che vi cerca!»
esclamò l’uomo correndo verso il ponte di comando.
«Che vuole?» latrò una voce brusca.
«Non ne ho idea».
«Falla venire qui».
Quando Joy lo raggiunse, Oscar la squadrò con aria irriverente.
«Buongiorno, Joy Hallett. Sei venuta a dirmi che il pranzo è
pronto? È ancora presto!».
«Non scherzare. Sono venuta a dirti che voglio tornare a
casa».
Alle parole taglienti di Joy, seguì un’espressione di Oscar
ancora più divertita.
«Vuoi tornare a casa? Quando mi darai il doppio della cifra
che ho pagato per averti tornerai. Ora l’unico posto in cui
puoi tornare è la cucina» disse Oscar ridendo di gusto.
«Io non torno in cucina».
La faccia divertita di Oscar sparì. Con un movimento fulmineo il dannato afferrò Joy dal collo e la strinse così forte da
farle mancare il respiro.
«Qui decido io. O fai quello che ti dico o fai una brutta
fine».
Quando Oscar mollò la presa, Joy tossì e si massaggiò la
pelle arrossata, ebbe paura e decise che per il momento era
meglio non fare follie.
«Te la farò pagare» ringhiò, prima di voltargli le spalle e tornare da Jasmine.
Sulla porta della cucina la aspettava Griselda.
Aveva le braccia incrociate sul petto scoppiettante e l’espressione minacciosa. Allungando una mano, afferrò Joy da una
spalla e la tirò dentro.
«La prossima volta che ti permetti di lasciare il tuo lavoro
senza il mio permesso, finisce male» sibilò.
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«Avevo da fare».
Griselda le mollò un ceffone. Joy sentì la voglia di prendere
a pugni la sua pancia molliccia ma si trattenne, non doveva più
fare mosse stupide e affrettate.
«Non lo farò più» disse in tono monocorde tornando al tavolo delle patate.
«Sei tutta rossa» sussurrò Jasmine dispiaciuta.
«Tranquilla, passerà» disse Joy prendendo il suo pelapatate e
ricominciando il lavoro.
Dopo più di due ore iniziò a non avere più le dita sensibili ma continuò in silenzio a pelare, voleva aiutare Jasmine.
Quando tutte le patate furono sbucciate le tagliarono velocemente in tocchetti con cui riempirono un pentolone, così
grande che avrebbe potuto contenere un bambino accovacciato, e lo misero in forno.
«Se vuoi prendere qualcosa da mangiare per Apple fallo
adesso, prima che arrivino Zelinda e Rufina».
Joy scese nella dispensa e nascose nella tasca del grembiule
due pezzi di carne essiccata e un tubetto di latte condensato,
velocemente risalì e richiuse la botola. Pochi minuti dopo arrivarono due donne che non aveva ancora conosciuto.
«Buongiorno. Lei è Joy, quella nuova» disse Jasmine, per rispondere ai loro sguardi interrogativi.
«Piacere, io sono Zelinda» disse la prima cameriera porgendo la mano alla ragazza. Aveva le dita callose, era magra come
uno spillo e quando sorrise Joy notò che le mancavano molti
denti, e i pochi che ancora resistevano erano marci. Rufina
non si premurò di presentarsi ma le lanciò un’occhiataccia,
che Joy ricambiò. Il suo aspetto da mastino rabbioso, peggiorato dai capelli grigi tirati in una crocchia, la intimoriva.
«Ci vediamo all’ora di pranzo» disse Jasmine e, con la sua
nuova amica, uscì dalla cucina.
Quando Joy entrò nella sua stanza si sentì meglio. Apple la
raggiunse miagolando, aveva un’aria più vivace rispetto a poche ore prima, e non appena vide la carne ci si avvento contro
e la divorò in pochissimo tempo.
«Fai tutti i giorni questa vita?».
«Non hai ancora visto nulla! Il peggio non è la cucina, ma
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servire i dannati. Sono sgradevoli alla vista e all’olfatto e sono
irriverenti, volgari e maleducati!».
«Io qui non ci resto».
«Joy, te lo dico come se fossi tua sorella. Non c’è niente
che tu possa fare. So che ti manca Romeo, e ti capisco, ma
su questa nave le uniche cose che dipendono da noi sono le
patate».
118
capitolo XII
Romeo da giorni non mangiava. Vegetava nella sua stanza
con gli occhi persi nel vuoto accarezzando una sciarpa rosa
confetto, che Joy aveva dimenticato nella macchina di Alvin
l’ultima sera che avevano passato insieme. Anche quel giorno
Greta andò a implorarlo con un piatto di pasta in mano, ma
lui non aveva nessuna intenzione di mangiare.
«Quando avrò fame, verrò» ripeté laconicamente, come faceva ultimamente ogni volta che qualcuno spingeva la porta
della sua camera.
«Devi smetterla Romeo, così Joy non torna».
«Non può essere vero che non c’è nulla da fare».
Greta sentì la rabbia cingerle il cervello. Quando Romeo si
voltò dandole le spalle, scaraventò il piatto sul pavimento. La
pasta schizzò ovunque macchiando una parete giallo ocra e
una giacca marrone, che pendeva da una sedia girevole incastrata sotto il tavolo della scrivania disordinata.
«Ora basta. Io non posso aiutarti, non farmelo pesare. Alzati da questo maledetto letto e scendi a mangiare con noi».
Romeo si sentì terribilmente in colpa. Joy non c’era più a
causa sua e Greta dimostrava di essere ogni giorno più offesa
dal suo atteggiamento passivo. Facendosi forza si alzò per seguirla come un automa.
Ignorando le chiacchiere che si smorzarono quando lui apparve come un fantasma e i sorrisi accennati dei suoi compagni, prese posto fra Alvin e Abigail, ingurgitò due forchettate
di pasta e poi tornò nel suo letto dalla sciarpa di Joy. Le sue
giornate si susseguivano così, lente e malinconiche, piatte e
tristi. Non vi era nulla che potesse dargli la voglia di riscattarsi
o di riprendere a vivere in modo normale.
Finalmente un giorno Romeo uscì dal suo torpore e decise
che sarebbe andato al campus. Si preparò un panino e prese
la metro. Stare immobile a pensare e ripensare, a rivedere e
119
analizzare ogni attimo passato con Joy, lo stava lentamente
spegnendo e logorando. Aveva ragione Greta, doveva distrarsi. Rivivendo ogni passaggio dell’ultima sera con Joy, gli erano
tornate alla mente parole che quella volta gli erano sembrate
solo dettate dalla paura, che invece avrebbe dovuto ascoltare.
Se avesse dato retta a Joy forse non l’avrebbe lasciata a casa
da sola. E probabilmente sarebbe rimasto a dormire con lei...
e avrebbe avvisato Belit e il signor Manlio che qualcosa non
andava. E i piani di Frida sarebbero falliti miseramente.
“Che succede”.
“Niente Romeo, mi era sembrato di vedere uno di quei demoni che ti danno la caccia, là in fondo, ma sono sicura di
essermi sbagliata”.
Vedendo la sua faccia risoluta, Joy aveva lasciato cadere i
suoi timori e lui non l’aveva presa sul serio, convinto che le
ragazze lavorassero sempre troppo con la fantasia.
Mancava poco alla sua fermata quando con la coda dell’occhio vide due figure familiari salire sulla sua stessa corsa. Il
panico lo assalì, Boris e Cesare lo seguivano. Sapere che in un
luogo affollato e controllato come il campus non avrebbero
potuto fargli del male lo fece saltare giù dal seggiolino e correre. Solo quando ebbe digitato il suo codice si ricordò che
Frida era entrata, e se sapeva farlo lei, sapevano farlo anche i
suoi compagni. Pensando che dopo avergli strappato via Joy
non potevano fargli altro, si calmò, si avviò verso la sua aula
e aspettò di incontrarli evitando sforzi inutili per evitarli. Lo
raggiunsero all’ora di pranzo, mentre si sforzava di ingoiare il
suo panino, e si sedettero con lui all’ombra di un salice.
«Ciao Romeo» disse Boris.
«Qualunque cosa vogliate, la mia risposta è no. Mi avete preso in giro».
«Non siamo venuti a chiederti una risposta, a quello ci penserà Frida. Vogliamo parlarti» intervenne Cesare.
«E ascoltarci va solo a tuo favore, noi da questa storia non
rischiamo altro che guai!» aggiunse Boris.
«Povere vittime... potrei quasi impietosirmi, se non fosse
che io non parlo con bestie infernali come voi» disse Romeo
e fece per alzarsi, ma Boris gli si parò davanti.
120
«Per favore ascoltaci. Vogliamo aiutarti! Tra due mesi la nave
di Oscar tornerà qui, e noi abbiamo deciso che cercheremo
di liberare Joy».
«Dopo il danno, la beffa? Non continuate a prendervi gioco
di me».
«La sera in cui Frida ha deciso di vendere Joy ai dannati, io
sono stato picchiato per aver detto che non lo trovavo giusto,
ma lei e Demiro avevano deciso e non potevo fare niente.
Forse però quando la nave tornerà, se Frida non si accorgerà
dei nostri piani, potremo fare qualcosa» disse Cesare.
«Come pensi che possa crederti? Sei stato tu a rapirla».
«Non avevo altra scelta».
«È inutile stare qui e cercare di convincerti, ci rivedremo.
Tra qualche giorno verrà a cercarti Frida, di questo incontro
non devi dire nulla, ma dovrai stare al gioco».
«Quale gioco?».
«Fra due settimane Frida ti verrà a trovare, presumiamo che
ti farà firmare delle scartoffie. Sii docile, sta’ al gioco. Poi ci
penseremo noi» disse Boris.
«Io non firmerò nulla!».
L’urlo di Romeo si perse nel vuoto perché i due demoni si
dileguarono nella folla, e in pochi minuti sparirono dalla sua
vista.
Rimase solo con il suo panino e la sua rabbia. Se non fosse stato lì al campus, e non avesse rischiato l’espulsione, si
sarebbe lanciato con tutta la violenza che aveva contro quei
due imbroglioni. Li odiava. Sentiva la bava schiumargli alla
bocca per il disprezzo e l’impotenza che lo animavano. Joy
era lontana, perduta e irrecuperabile. E loro, privi di qualsiasi sentimento umano, avevano il coraggio di andare da lui a
sbeffeggiarlo, fingendosi amici e pronti ad aiutarlo. Lo stomaco gli si era chiuso si avvicinò a un cestino dell’immondizia
e vi schiaffò dentro il panino ancora intero. Avrebbe atteso
Frida e quando l’avrebbe avuta davanti, non avrebbe risposto
delle sue azioni.
121
***
Mat Littlelf iniziava a credere che Berta non volesse più
saperne di lui. Eppure era convinto che insieme si fossero
divertiti... ma con le ragazze non ne azzeccava mai una. Il
suo primo appuntamento con la sua prima ragazza, era stato disastroso. Dopo averle rovesciato una coppa di gelato al
cioccolato sulla camicia arancione, e averle tirato una treccia
facendola impigliare nel cinturino del suo orologio, aveva deciso di lasciar perdere le ragazze per molto, molto tempo. Poi
aveva iniziato a uscire con una collega che lavorava con lui
in un negozio di dischi musicali. Erano stati al cinema. Mat
aveva pensato che non c’era posto più sicuro di uno in cui bisognava stare seduti, e infatti era andato tutto splendidamente... finché erano rimasti lì dentro. Arrivati alla metro, mentre
aspettavano due sedili liberi, aveva visto un vecchio amico.
Aveva alzato il braccio con tanta goffaggine da mollare una
gomitata sui denti alla sua collega. Poi aveva iniziato a chiacchierare con il suo amico, mentre lei sanguinava. Quando se
ne era reso conto, era già troppo tardi. Il giorno dopo lei non
si era presentata nemmeno a lavoro.
Mentre camminava distrattamente per il campus, immerso nei suoi imbarazzanti ricordi, una vocina flebile lo fermò.
Stentava a crederci ma era proprio Berta, seduta al bancone
del bar.
«Pensavo che non ti avrei più vista, che fine hai fatto?».
«Ho avuto dei problemi a casa».
Il sorriso di Mat svanì, quando colse una profonda tristezza
negli occhi di Berta.
«Spero sia qualcosa che si può sistemare».
Lei scosse la testa e tirò su col naso. Mat si morse la lingua.
«Io... io posso cercare di aiutarti se vuoi» balbettò lui, intenerito dai suoi occhi lucidi.
Berta gli buttò le braccia al collo, Mat sentì la propria faccia
che diventava rossa e calda. Non sapeva dove mettere le mani,
ma pensò che non fosse carino restare con le braccia tese e
rigide e la strinse a sé.
122
«Ti va di venire a studiare da me, oggi?» propose Berta, la
sua presenza la distraeva e le tirava su il morale.
«Se può farti stare meglio, certo».
Senza aggiungere altro, si presero per mano e lasciarono il
campus.
In cucina c’era solo Belit. Da quando Joy era scomparsa
mangiava più del solito, ma cucinava meno. Per occupare le
sue ore tristi, si chiudeva nei supermercati a riempire il carrello di dolci di ogni genere con cui si rimpinzava ogni volta che
le veniva voglia di piangere.
«Berta, sei tu?» chiese con voce roca, quando sentì l’uscio
che si apriva.
«Sì, sono con un amico».
Appena sentì quelle parole, Belit prese la scodella di cantucci al cioccolato e mandorle e la nascose nella credenza, poi
si sciacquò le mani e andò ad accogliere il nuovo arrivato, da
gentile padrona di casa.
«Belit, lui è Mat. Un mio compagno di campus».
«Buonasera, signora. È un piacere conoscerla».
«Pia... piacere... mio» balbettò Belit, intenta a capire i gesti
che le faceva Berta.
«Sei sporca di cioccolato» disse infine la ragazza, vedendola
in difficoltà.
«Oh, be’... facevo merenda!» ridacchiò con nonchalance,
passandosi il dorso della mano agli angoli della bocca.
«Se trovo il tuo nascondiglio, giuro che gli do fuoco» minacciò Berta, poi mantenendo un’aria severa, trascinò Mat con sé
nella sua stanza.
Il letto di Joy era ancora al suo posto. Berta aveva sistemato
i suoi pupazzi, e aveva poggiato il suo plaid preferito ben piegato sul cuscino.
«Dividi la stanza con la tua amica? A proposito, non l’ho più
vista al campus».
Sentendo quella frase, Berta non si trattenne. Le lacrime che
cercava di trattenere sgorgarono copiose dai suoi occhi dolci.
Erano così amare che le guance le pizzicavano.
«Che ho detto?» mormorò Mat. Un senso di colpa ingiustifi123
cato lo invase, disperdendosi rapido nel suo corpo, come una
nuvola di gas.
Berta iniziò a soffiarsi il naso e a fare grandi respiri per calmarsi, poi lo invitò a sederle accanto e gli raccontò tutto.
Parlò ingoiando le lacrime, e quando il racconto terminò
poggiò la testa sul petto di Mat e chiuse gli occhi per un po’,
finché non le bruciarono più. Mat le accarezzò i capelli e decise che non avrebbe mai più fatto un’osservazione, ma si sarebbe limitato a rispondere brevemente a ciò che gli veniva
chiesto.
«Oh, no... ti ho anche sporcato la maglietta di mascara! Scusami, Mat. Ti ho inzuppato la maglietta» disse Berta, soffiandosi fragorosamente il naso.
«Non fa nulla, tranquilla».
Una chiazza nera spiccava sul tessuto celeste.
«Vado a prenderti una maglietta pulita».
«Ma dove la prendi? Lascia stare, davvero».
«Chiederò a Leo, siete molto simili fisicamente».
Prima che Mat potesse fermarla, Berta era già sgusciata fuori dalla stanza. Tornò quasi subito.
«Ti va bene questa?» chiese, spiegando una felpa color aragosta.
«Credo che la misura sia perfetta, ma puoi portarla indietro!» esclamò Mat alzandosi e mettendo avanti le mani, a mo’
di scudo.
«Dai, sembra quasi che tu abbia paura che ti voglia dare una
felpa sporca! È appena stata lavata» sottolineò Berta, un po’
offesa.
«Non volevo intendere questo, non offenderti senza motivo» ribatté lui indietreggiando verso il letto di Joy.
«E allora, ti vergogni a spogliarti con me davanti? Se vuoi
esco...» disse Berta allungando la felpa.
«Ok, hai vinto, fa’ di me quel che vuoi».
Berta ridacchiò e quando Mat alzò le braccia, gli sfilò la maglietta inzuppata di lacrime, lasciandolo a torso nudo.
«Apri le braccia, se rimani così non riesco a metterti la felpa».
Mat iniziò a gesticolare impedendo a Berta di infilargli le
124
maniche color aragosta, Berta cercava di afferrarlo ma non
facevano altro che ridere e strattonarsi a vicenda, finché Mat
non la tirò troppo e ricaddero distesi sul letto di Joy, l’uno
sull’altra.
«E ora che fai?» bisbigliò Mat, stringendola dai fianchi.
«Non è ancora detta l’ultima parola».
I loro nasi si sfioravano, le loro labbra distavano pochi centimetri.
«Berta, puoi prendere questa felpa? Quella di Leo mi
serv...».
Le parole di Giona si stroncarono quando, spingendo leggermente la porta, vide i due corpi maliziosamente avvinghiati sul letto di Joy.
Il corpo di Berta divenne rigido come una tavola di legno,
per l’imbarazzo. Cercò di ricomporsi e si mise in piedi, afferrando la felpa che aveva lasciato cadere sul pavimento.
«Lascia perdere, Berta. Quella tienitela pure».
Giona andò via sbattendo la porta con rabbia.
«Che succede?» chiese Leo, vedendolo passare con la faccia
infuriata.
«Chiedilo alla cara Berta che prima piange per l’amica che
non c’è più, e due minuti dopo è sul letto di Joy con uno mezzo nudo. Forse credeva che così può onorarne la memoria».
«Che ha il tuo amico?» bisbigliò Mat, quando i passi di Giona si dispersero nel corridoio.
«Niente» sussurrò Berta tornando a braccarlo, immobilizzandolo sul letto «è solo ancora innamorato pazzo di Joy, spesso la sera viene a dormire qui. Ma adesso è andato via...».
Leo intanto rincorreva Giona.
«Puoi spiegarmi cosa è successo?».
«No, non mi va. Sappi solo che quando Berta uscirà da quella stanza, porterò il letto di Joy e tutte le sue cose nella nostra.
Così sarà sicuro che nessuno lo userà a sproposito, mentre lei
non c’è».
Qualche ora dopo, Mat si allontanò dalla casa di Belit saltando via dalla finestra. Temeva, uscendo dalla porta principale, di fare brutti incontri. Quando Giona lo vide correre
via come un coniglio, aveva già fatto lo spazio necessario per
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mettere il letto di Joy vicino al suo. Ignorando le proteste di
Berta portò via anche i suoi peluches.
«Se devi baciare qualcuno mezzo nudo, fallo sul tuo letto. E
nei cinque minuti precedenti evita di disperarti per Joy».
«Non hai il diritto di fare così!» urlò Berta, così forte che
Belit la sentì dalla cucina.
La vecchia signora lasciò l’impasto della sua pastafrolla, si
sciacquò le mani e li raggiunse.
«Perché state litigando? Giona, fai un trasloco?».
«Mi sta svuotando la stanza, questo presuntuoso isterico»
imprecò Berta, con i pugni serrati.
«Questa non è roba tua» rispose Giona con un tono calmo e
snervante, mentre si allontanava con le braccia cariche di libri,
sciarpe e cianfrusaglie varie.
«Belit, fermalo è impazzito!».
«Giona, puoi spiegarmi che succede?» chiese dolcemente
Belit, con il suo solito tono zuccheroso.
«Io sto solo portando nella mia stanza le cose di Joy, perché
le voglio vicine, se vuoi sapere altro devi chiedere proprio a
Berta, scommetto che non vede l’ora di darti qualche spiegazione» ridacchiò Giona, sfidando la compagna con uno sguardo vincitore e divertito.
«Va’ al diavolo» strillò Berta chiudendosi in camera e sbattendo la porta con vigore.
«Ciao, ciao» ribatté Giona portando via un plaid e un album
di disegni.
Belit rimase nel bel mezzo del corridoio, sconvolta e incuriosita.
126
capitolo XIII
Quella mattina Joy si svegliò tardi. Quando doveva servire il pranzo e non toccava a lei cucinare, poteva dormire di
più. Si preparò un bagno caldo e medicò Apple, le sue ferite
alle zampette non erano ancora completamente rimarginate.
Da qualche giorno iniziava ad abituarsi alla routine, ma l’idea
di fare qualcosa era ancora viva nella sua testa. Doveva solo
aspettare il momento giusto. Si asciugò i capelli, si vestì e andò
a bussare alla camera di Jasmine. Anche lei era pronta.
La tavolata di uomini affamati le attendeva, le chiamava a
gran voce pretendendo subito i piatti pieni. La sala da pranzo
era stretta e lunga. I tetti bassi e scuri, l’assenza di oblò e le
luci cupe la rendevano soffocante. Joy si muoveva evitando
qualunque contatto con loro e ignorando tutto quello che le
veniva detto. Dovette aspettare pazientemente che tutti i dannati fossero sazi, poi, insieme a Jasmine, passarono con dei
carrelli per portare via i piatti vuoti, toccava a loro lavarli. La
montagna di stoviglie sporche sembrava infinita, misero i carrelli al centro e ognuna si appostò davanti a un lavello.
«Quelle due streghe non hanno lavato le tazze della colazione e toccavano a loro!» ringhiò Jasmine, scagliando con
violenza una manciata di coltelli nel suo catino.
«Buon lavoro, amica mia» disse Joy con una faccia disperata.
«Grazie, anche a te».
«Io sto per morire di fame!».
«A chi lo dici, prima finiamo, prima mangiamo!» esclamò
Jasmine. Il senso del dovere la accompagnava sempre.
Quando i carrelli furono quasi vuoti e i pentoloni tutti lavati,
era già vicina l’ora di cena e Joy aveva i crampi allo stomaco
per la fame.
«Avete finito?» urlò Griselda spalancando le porte della cucina.
«No. Rufina e Zelinda hanno cucinato ma non hanno pulito nemmeno una forchetta, hanno lasciato a noi quello che
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avrebbero dovuto fare loro stamattina. Ci è toccato lavare anche le tazze della colazione» rispose subito Joy.
«Non ti lamentare, a me non importa cosa avete fatto. Mi
interessa solo che fra venti minuti la cucina sia pronta, siamo
in ritardo».
«Se hai tanta fretta, alzati le maniche e dacci una mano» ribatté Joy.
Jasmine buttò gli occhi al cielo, a volte avrebbe voluto tappare la bocca di Joy con un cazzotto.
«Sta’ zitta o ti toccheranno anche i piatti della cena» la minacciò Griselda, uscendo dalla cucina su tutte le furie.
I carrelli erano vuoti.
Joy aveva le dita intorpidite, quando Jasmine le mise fra le
mani una ciotola di zuppa bollente, iniziò a muoverle di nuovo. Erano così affamate che ingurgitarono tutto a cucchiaiate
fumanti senza aspettare che si raffreddasse nemmeno un po’,
sbrodolandosi e scottandosi. Prima che Tarsilla e Griselda arrivassero, presero delle teste di pesce per Apple e sparirono. Joy
chiuse a chiave la porta della sua camera e fece sedere Jasmine.
«Devo parlarti».
«Joy, quando inizi un discorso così mi viene la pelle d’oca.
Cos’hai sperimentato?».
«Ancora niente, ho bisogno del tuo aiuto, ma sei liberissima
di non accettare».
Jasmine si buttò a faccia in giù sul letto, sbuffando.
«Parla» bofonchiò.
«Tu conosci bene questa nave?».
«Credo di sì».
«Per iniziare dobbiamo cercare l’ufficio di Oscar, o la biblioteca, se questi stupidi mezzi commercianti ne hanno una! Mi
serve una cartina della nave. Devo sapere quante scialuppe
ci sono e dove sono. Andremo a cercarla subito, non appena
saranno tutti impegnati a mangiare.
«Fantastico, poi?» sillabò Jasmine con poca convinzione.
«Poi dovremmo sapere tutti gli orari di ogni singolo idiota
di guardia sul nostro corridoio e sulla strada che sceglieremo
per raggiungere le scialuppe. A quel punto potremo passare a
un’azione più concreta».
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«Non abbiamo le chiavi!».
«Intanto mi basta sapere dove sono le stanze che mi interessano».
«Hai letto troppi libri di avventura, cara».
«Tu troppo pochi. Vieni o no?».
«So dov’è l’ufficio di Oscar. Qui non c’è nessuna biblioteca
ma qualcosa di molto meglio. È una stanza in cui solo Oscar,
Griselda, un notaio e un uomo delle pulizie hanno accesso.
Lì falsificano documenti, mantengono i conti della nave e nascondono parte dei loro bottini. Tra dieci minuti saranno tutti
nella sala da pranzo e potremo uscire.
Jasmine fu precisa come un orologio, quando disse che era
il momento di uscire aveva ragione: in giro non c’era nessuno.
Quatte, quatte salirono di due piani. Nel corridoio degli alloggi di Oscar, Griselda e di alcuni uomini con ruoli importanti,
come il notaio o altri commercianti che di solito concludevano affari grossi, i soffitti erano alti, il pavimento era coperto
da moquette verde scuro e alle pareti bianche erano appesi
quadri di navi leggendarie, foto di Oscar e Griselda, disegni
di squali e balene.
«Questo è l’ufficio di Oscar» bisbigliò Jasmine indicando
una pesante porta di ottone annerito.
«E l’altro ufficio?».
«Da questa parte» disse Jasmine svoltando a destra.
La stanza che incuriosiva Joy era ben protetta. La porta era
di ottone pesante quanto quella dell’ufficio di Oscar, ma in
più era chiusa da un catenaccio.
«Qui dentro troveremo tante cose interessanti!».
«Sei completamente pazza, Joy Hallett. Il giro turistico è finito per stasera?».
Joy ci pensò.
«No, guarda dritto davanti a te!».
«Be’... è una porta!».
«Su cui è appeso un cartello con un teschio e due tibie incrociate!» esclamò Joy, tirandosi Jasmine dietro e puntando al
nuovo obiettivo.
La porta era aperta, dentro era buio pesto.
«Ok. Il gioco è finito, torniamo indietro».
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«Anche io muoio di paura, Jasmine, ma abbiamo ancora
molto tempo a disposizione, usiamolo!».
Joy entrò nella prima stanza, tastò la parete e trovò un interruttore, chiuse la porta e accese.
Per poco non urlarono. Dal tetto pendeva un neon verdognolo che illuminava teche piene di insetti e piante e scaffali
carichi di boccette, tutte ordinatamente catalogate. In un angolo c’era una scrivania piena di scartoffie.
«Vieni, ci sono quaderni pieni di appunti» disse Joy accendendo una vecchia lampada.
«Ma si tratta di veleni!» esclamò Jasmine dando una rapida
occhiata.
Le pagine erano tutte numerate, sulla prima era scarabocchiato un indice che divideva il quaderno in tre settori.
«Veleni debilitanti... veleni leggeri... veleni mortali» lesse Joy,
poi continuò a sfogliare il quaderno e a guardarsi intorno.
«Ogni boccetta è catalogata e ogni codice corrisponde a una
descrizione!».
«Adesso andiamo?».
«Va bene» rispose Joy ma prima di uscire si infilò il quaderno nel corpetto.
«Che devi farci con quello?» chiese Jasmine quando furono
al sicuro.
«Gli darò un’occhiata!».
Apple era saltata sul letto e Joy, vedendo le sue unghiette affilate come una minaccia, rapidamente tolse il quaderno dalla
sua portata.
«Vuoi avvelenare Oscar?».
«Oh, no! Non sopporterei il peso della sua coscienza sulla
mia... e poi non credo che basti un po’ di veleno per distruggere un dannato!».
Jasmine si rilassò.
«Ora mi sento meglio! Vado a dormire, ci vediamo domani... svegliati presto, la colazione tocca a noi».
«Notte, Jasmine. Ti voglio bene».
Joy nascose il quaderno sotto il materasso, si mise a letto
stringendo al petto Apple e si addormentò.
130
***
Frida camminava avanti e indietro da più di mezz’ora nella cucina del suo piccolo appartamento. Finalmente avevano trovato una casa adatta a lei e ai suoi compagni affittata
in nero a Kirkoff, con i soldi di Oscar. Ai demoni randagi
come lei non era consentita nessuna operazione lecita. Era
trepidante ed eccitata, non faceva altro che ripetere nella sua
testa le parole che poteva dire a Romeo. Infine si convinse ad
andare a cercarlo.
«Vengo con te» le disse Demiro. Inafferrabili come ombre
si infilarono le giacche nere e raggiunsero la metro. Era ora di
cena, le finestre delle case erano tutte illuminate. Aveva piovuto e per strada non c’era nessuno. Le loro orme sparivano
sull’asfalto bagnato. Velocemente raggiunsero la villetta del
signor Manlio ma esitarono davanti alla porta.
«Cosa hai intenzione di dire, adesso?» chiese Demiro.
«Non lo so ma devo calarmi nei panni dell’amica premurosa
e gentile, ho bisogno di concentrazione» rispose Frida massaggiandosi le tempie.
Demiro si chiuse in un silenzio rispettoso, lei rimase ferma
lì finché non sentì qualcuno aprire la porta. Entrambi ebbero
un tuffo al cuore.
Abigail mise un piede fuori ma non si accorse di quella presenza oscura che la osservava con occhi spiritati pronta ad
assalirla, se fosse stato necessario. Era troppo impegnata a
urlare qualcosa a qualcuno.
«Basta Greta, per stasera ci penso io all’immondizia! Non
devo pregarti ogni volta che ti chiedo un favore, e ora sta’
zitta o ti metto questo sacchetto in testa! Brutta cretina fannullona!».
Strillò così tanto da avvertire un leggero mal di gola e quando si decise a spalancare la porta e uscire si ritrovò faccia a
faccia con Frida. Strillò di nuovo, così forte che il demone
nero dovette lasciare la sua posizione di attacco e coprirsi le
orecchie, poi senza darle modo di parlare le sbatté la porta in
faccia e corse fra le braccia di Eddy, con il sacco dell’immondizia stretto fra le mani tremanti.
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«Romeo, c’è quella strega! È venuta a prenderti, chiudetelo
da qualche parte! E non è sola!».
Mentre tutti si allarmavano, Romeo sentì il brivido eccitante
della vendetta trapassargli la schiena.
«C’è Frida?» chiese Greta incredula.
«Sì, è davanti alla porta. Con lei c’è anche Demiro».
«Chiudete tutto!» ordinò il signor Manlio.
«No, aspettate, devo parlare con lei».
«Non se ne parla, Romeo. È pericoloso» tagliò corto il vecchio signore, accompagnando le sue parole con un gesto secco della mano.
«Non posso continuare a evitarla. Cosa dirò a Joy se un
giorno dovesse tornare? Che per lei non ho nemmeno tentato
di parlare con Frida?».
«Andrò io con lui» si propose Alvin.
Il signor Manlio capì che doveva farsi da parte. Gli occhi
rabbiosi e tristi di Romeo gli dissero più di mille parole, con il
cuore gonfio di paura lo lasciò andare.
Quando Romeo aprì la porta i demoni neri erano ancora lì.
«Speravo di vederti. Sia io che Demiro ci auguriamo di non
tornare a casa soli stasera, ma con te. Io e i tuoi futuri fratelli
abbiamo affittato una casa, nella mia stanza c’è un letto anche
per te» disse Frida, regalandogli un sorriso radioso.
«O sparite o giuro di farvi male con tutta la forza che ho in
corpo. Non mi importa che tu sia una donna, per me sei solo
un mostro. Sparite o non risponderò delle mie azioni».
La faccia angelica di Frida sparì.
«Se è così scordati di Joy. Tu non vieni con me, lei non torna
da te».
«Hai finito di prendermi in giro, mi hanno detto che non
rivedrò più Joy perché la sua anima è persa. Hai fatto un gioco
sporco, Frida, ma hai perso lo stesso».
«Cosa credi di poter fare contro di me, nanetto?».
Alle parole di Demiro seguì un istinto sordo e violento. Romeo si lanciò contro il demone atterrandolo e riempiendolo
di calci allo stomaco. Il viso animalesco di Frida si indurì e si
deformò in una smorfia rabbiosa, con le mani a mo’ di artigli si lanciò contro Romeo ma Alvin fu più veloce di lei e la
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afferrò dalle spalle scagliandola sull’asfalto bagnato. Demiro
gemeva immobilizzato da un dolore pulsante all’addome.
«Questo è per quello che hai fatto a Joy, schifoso animale»
urlò Romeo tirandogli un pugno in faccia, così forte che gli
occhiali di Demiro gli si spezzarono sul naso che iniziò a sanguinare a fiotti caldi e grumosi. Quando il demone iniziò a
non dimenarsi più, Romeo lo lasciò e si rivolse a Frida, ancora
immobilizzata da Alvin e urlante come una iena.
«Non ti prendo a calci solo perché non voglio sentirmi un
verme quanto te. Sparisci bastarda».
«Non finisce qui» ringhiò Frida scoppiando in un pianto
isterico e cercando di far rinvenire il suo compagno.
Senza nessuna pietà per il corpo tumefatto di Demiro, Romeo e Alvin tornarono dentro. Iniziò a piovere, sempre più
forte, ma i due demoni neri rimasero lì, uno privo di sensi.
L’altra che cercava di cancellare o almeno mitigare la dolente
sconfitta.
***
Jasmine entrò nella camera di Joy, aveva un’ala di pollo per
Apple nascosta nella tasca del grembiule. La gattina le corse incontro trotterellando, le sue zampe stavano finalmente
bene.
«Avevi fame, eh?».
Apple si avventò sul pollo divorandolo in pochi minuti, poi
si leccò i baffi, soddisfatta.
Prima di uscire Jasmine decise di sistemare il letto, Joy per la
fretta lo aveva lasciato disfatto. Stirò le lenzuola, ma quando
passò una mano per lisciare le pieghe più resistenti, sentì il
rumore di qualcosa che si stropicciava. Sbuffò perché avrebbe
dovuto risollevare le coperte perfettamente stese e trovò un
foglio minuziosamente compilato. Sembrava un elenco.
Benzodiazepine
BDZ ad azione breve da 1 a 7 ore:
Midazolam (somministrabile per via orale, azione immediata)
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Triazolam (polvere bianca di aspetto cristallino)
[MIDAZOLAM ─ TRIAZOLAM ─ BARBITURICI]
Barbiturici: solido biancastro, odore tenue.
Non ci volle molto a capire di cosa si trattava. Joy aveva
proprio voglia di giocare con il fuoco. Jasmine era infuriata,
per tutto il tempo che aveva trascorso da sola sulla nave, non
aveva mai avuto problemi con Oscar, né con Griselda. Adesso era arrivata quella pazza visionaria, che con le sue fantasie
rischiava guai molto seri. Senza pensarci due volte piegò per
bene il foglio e se lo infilò in tasca, si sbatté la porta alle spalle
e marciò infuriata da Joy.
«Cos’hai in mente?» le bisbigliò all’orecchio, prendendola da
un braccio, quando le fu alle spalle.
Joy la guardò perplessa.
«Ti stavo facendo il letto e ho trovato dei tuoi appunti fra
le lenzuola».
«Te ne avrei parlato, la mia ricerca sta andando benissimo!»
esclamò Joy, con un sorriso strafelice.
«Cosa ti sei messa in testa?».
«Quando saremo libere smetterai di lamentarti, ora restituiscimi il foglio».
«No, io lo butto. Non voglio finire nei guai per colpa tua».
«Nessuno dice che devi collaborare con me. Se ti piace questa vita resta qui, ma dammi i miei appunti».
«Ho detto di no!».
«Fa’ come vuoi, so tutto a memoria».
Jasmine, ancora più infuriata, uscì dalla cucina. Joy rimase a
girare il minestrone in un enorme pentolone di rame. All’ora
di pranzo, nella squallida cucina riservata alle cameriere Rufina riempì sei scodelle di minestrone, ma una rimase piena
perché Jasmine non venne a mangiare. Joy mangiò silenziosamente estraniandosi dai discorsi intorno a lei, nella sua mente
frullavano disordinatamente i nomi che aveva letto e riletto su
quel quaderno rubato.
«Tra quanto arriveremo al porto?» chiese Tarsilla, dopo aver
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risucchiato rumorosamente il liquido caldo dal suo cucchiaio.
«Tra circa due settimane, credo. Fra poco più di un mese
saremo di nuovo a casa perché questo è un affare facile. Oscar
mi ha detto che la maggior parte del lavoro è stato fatto via
posta, qui dovrà solo consegnare la merce e conoscere il suo
nuovo cliente» spiegò Griselda, con tono solenne. Era sempre
seria e orgogliosa quando parlava del suo amato compagno.
«Di che roba si tratta?» intervenne Zelina, riempiendosi la
scodella per la terza volta.
«Stoffe. Oscar ne ha comprate tantissime in un’isoletta a
est di Gwenever, durante l’ultimo viaggio che abbiamo fatto
insieme. Sono stoffe molte belle, decorate da alcune donne
di un piccolo villaggio. Le abbiamo pagate una vera miseria
per rivenderle a una fortuna! Ma sono davvero belle, ne vale
proprio la pena. Naturalmente a me è stato riservato un bel
campionario... quando rientreremo a Gwenever mi farò fare
qualche abito elegante o delle mantelle molto, molto chic.
Silenziosa come un’ombra, Joy posò la sua scodella nel lavello e si dileguò. Non appena fu sola nella sua stanza chiuse
la porta a chiave e prese il quaderno da sotto il materasso.
Non si perse d’animo e ricopiò i suoi appunti. Quel pomeriggio Jasmine non bussò alla sua porta, e lei rimase immobile
nel suo letto fino all’ora di cena. Apple le dormiva accanto e le
teneva compagnia. Per la prima volta Joy si sentì terribilmente
sola, il peso dell’assenza di Romeo e dei suoi amici la schiacciò
con tanta violenza da farle male, i ricordi la investirono, più
intorno a lei regnava un triste silenzio, più ricordava, più piangeva. Rivedeva Romeo che le andava incontro nel giardino del
campus, rivedeva i loro baci, i suoi occhi a volte malinconici
a volte entusiasti. I pettegolezzi innocui condivisi con Berta
e Ortensia. I litigi e gli abbracci con Giona. I consigli di Leo.
Le facce buffe di Diana. Le chiacchierate notturne con Greta
che iniziavano quando tutti andavano a dormire e finivano
all’alba. Le mani comprensive di Belit. La dolcezza infinita di
Abby...
E tutto le mancava dolorosamente.
Jasmine serviva la cena. Farlo senza Joy la intristiva.
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Era distratta. Per tutte le ore trascorse in solitudine si era
chiesta cosa fosse giusto: se accettare passivamente la sorte
o tentare tutto, anche una follia, per cambiare ciò che non
andava bene. Domande, dubbi e riflessioni si accatastavano
polverosamente nella sua testa, senza darle tregua. Quando
un uomo le palpò il sedere, Jasmine prese la sua decisione.
Sbatté con violenza il piatto sul tavolo, così forte che il sugo
della carne schizzò sulla camicia del vecchio notaio.
«Sei pazza?» urlò il dottor Orlando, così rispettosamente
chiamato dai suoi colleghi, strofinandosi un tovagliolo sulle
macchie rossastre.
«Mi perdoni, ma mi è... scivolata la mano!» disse Jasmine
con aria dispiaciuta, accennando un inchino per poi tornare a
servire gli altri uomini affamati.
Joy non era scesa per la cena, Jasmine prese il suo piatto
di arrosto e degli avanzi per Apple e andò a bussare alla sua
stanza.
«Chi è?» chiese una voce sonnacchiosa.
«Hai ragione Joy, dobbiamo andare via».
Quando Joy riconobbe la voce della sua amica spalancò la
porta con un sorriso radioso. Jasmine posò il piatto di carne
sul comodino e si abbracciarono, poi chiusero a chiave e si
concentrarono sugli appunti rubati dal quaderno dei veleni.
«Io non capisco nulla di quello che sto leggendo, cosa sarebbero questi BDZ?» chiese Jasmine, corrucciando la fronte.
«Ti prego non farmi domande! Mi sono affidata agli scarabocchi che ho letto... potrei aver scritto cose senza nessun
senso ma non importa! Faremo questa poltiglia per quei commercianti da quattro soldi e la berranno uno ad uno! Dormiranno il tempo necessario per farci prendere le chiavi che ci
servono e farci trovare quello che cerchiamo. Adesso dobbiamo solo sperare che tutta questa roba sia in quella stanza e
che il nostro super sonnifero sia efficace!».
«E quando Oscar si sveglierà?».
«Si accorgerà che ha un mazzo di chiavi in meno!» esclamò
Joy, ridacchiando entusiasta.
«Allora... andiamo!» incalzò Jasmine.
«Adesso?».
136
«Sì, chi ha tempo non aspetti tempo!».
Jasmine e Joy furono più veloci e sicure della prima volta.
Sgattaiolarono fino alla stanza con la strana luce verde e lì realizzarono che non era tutto facile come pensavano. Gli scaffali
erano pieni di boccette, e i nomi scarabocchiati sulle etichette a
volte erano illeggibili. Nelle teche ronzavano insetti raccapriccianti e solo vederli provocava in Joy un fremito di repulsione.
«Dovrebbe essere tutto ordinato per categorie, noi dobbiamo trovare la categoria dei BDZ, la prima fascia».
Sigle, numeri, colori, ronzii si confondevano nella testa di
Joy, più girava fra gli scaffali più lettere e numeri si fondevano
fra loro.
«Veloce amica, abbiamo poco tempo! Io posso cercare i
barbiturici, anche se non ho nessuna idea di dove possano
trovarsi».
«È inutile continuare a cercare così! Partiamo insieme da
qui, se non troveremo nulla, domani ricominceremo dal punto in cui abbiamo finito oggi. Tu guarda gli scaffali in basso,
io prendo la scaletta» tagliò corto Joy.
La scala era arrugginita e pesante, spostandola strisciò sul
pavimento provocando un cigolio nervoso.
«Cazzo».
«Tranquilla, figurati se quei beoti si accorgono di qualcosa,
in questo momento saranno già quasi tutti ubriachi» ridacchiò
Jasmine.
Joy posizionò la scala, vi salì e iniziò a controllare. La polvere le fece girare la testa, era nera e così folta sulla carta delle
etichette che per leggerle dovette strofinarsele sulla manica.
«È tardi, il lavoro è troppo lungo! Torniamo domani, ora è
meglio farci trovare in cucina!» biascicò Joy fra uno starnuto e
l’altro tornando a terra.
I vestiti era anneriti e unti, li appallottolarono sotto il letto
di Jasmine e indossarono rapidamente abiti puliti, poi filarono
in cucina.
Per molte sere andarono avanti così finché finalmente fra le
boccette appiccicose di polvere e unto, Joy trovò qualcosa.
«Barbiturici!» esclamò, tirando giù tutte le boccette etichettate allo stesso modo e infilandole nella tasca del grembiule.
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«E qui ci sono le altre cose strane che hai segnato!».
«Prendi tutto».
Sistemarono la scala, la sedia alla scrivania, rimisero le scartoffie nel loro disordine e rientrarono nella camera di Joy.
Soddisfatte posarono le boccette sul letto, erano circa venti.
Un nanosecondo dopo Apple era accovacciata ad annusarle.
«Forse è meglio che le tenga io nella mia camera» disse Jasmine, togliendole dalle grinfie della gatta.
«Hai idea delle dosi che ci serviranno?».
«C’è scritto tutto nel quaderno. Prenotiamo un turno per la
cena, poi inizieremo a preparare il nostro sonnifero».
Jasmine e Joy avevano due giorni per perfezionare il loro
piano. Non sapendo che sapore avessero le sostanze che dovevano mischiare al cibo, decisero di fare una pietanza dal
sapore forte e speziato.
Mancava poco all’ora della cena. Joy era sul ponte, il sole
iniziava a tramontare. Il mare sembrava una macchia di colore
brillante in cui oro e blu cobalto si fondevano. La brezza le
solleticava il viso, gonfiava la gonna del suo abito scuro come il
mare e animava i suoi lunghissimi capelli striati di rosso fuoco,
come i raggi del sole. Mancava poco all’inizio del suo piano
e nella sua testa si accavallavano immagini confuse prodotte
dalla sua immaginazione e dalla paura che tutto potesse andare storto. L’esito degli avvenimenti di quella sera era incerto.
Poteva andare tutto bene o tutto terribilmente male. Poteva
essere libera o rimanere schiava per sempre. Il suo ultimo pensiero, prima di scendere in cucina, andò a Romeo. Cercò di
immaginare cosa potesse fare, se la pensasse ancora e si rese
conto che gli mancava più di quanto avesse creduto fino a quel
momento. Il vento, il sole accecante e i ricordi costringevano i
suoi occhi a piangere ma si trattene, respirò a fondo e scese in
cucina. Il suo cammino verso la libertà era appena iniziato.
Jasmine e Joy avevano deciso di preparare un cous cous pieno di spezie, erbe, verdure, frutti di mare e tutto quello che
potevano aggiungere. Quando fu tutto pronto Jasmine simulò
una scivolata, nel frattempo Joy rimase ai fornelli.
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«Credo di essermi fatta molto male!» piagnucolò Jasmine
massaggiandosi il fondoschiena.
«Datele una mano per alzarsi!» esclamò Griselda.
Rufina e Tarsilla accorsero ad aiutarla, provarono a sollevarla ma Jasmine lanciò uno strillo acuto.
«No, no, no! Per favore non così!».
«Lasciate fare a me» disse sbuffando Griselda. Quando le
tre donne furono concentrate su Jasmine e sul punto che le
doleva, Joy buttò il suo impiastro. Mescolò bene tremando e
si nascose la bustina trasparente, ormai vuota, nel corpetto
del vestito. Quando le fece un cenno con la testa, Jasmine si
rimise in piedi.
«Grazie, va già meglio».
«Passa in infermeria, magari l’infermiere ha qualche crema
da suggerirti» propose Tarsilla.
«Che succede?» chiese Zelinda entrando.
«Oh, niente! Sono solo scivolata».
«Zelinda sei arrivata giusto in tempo! Ragazze, mi piacerebbe che siate voi ad assaggiare per prime il mio cous cous, vorrei un parere sincero prima di servirlo!» si intromise Joy con il
sorriso più falsamente amichevole che le riuscì. Griselda che
amava mangiare non si fece ripetere l’invito e prese posto a
tavola.
«Joy, io vado subito in infermeria, mettimene un piatto da
parte, mi raccomando!» esclamò Jasmine, incrociando le dita
dietro la schiena.
«Certo, fa’ presto prima che si raffreddi» ribatté Joy riempiendo quattro bei piattoni e rifilandoli alle sue colleghe con
un lieve tremolio nervoso che le scuoteva il corpo.
«Sta’ calma, Joy. L’aspetto e il profumo sembrano ottimi» la
rincuorò Griselda. La paura che il suo sonnifero fosse più un
veleno mal riuscito capace di uccidere qualcuno, era più forte
di quella di fallire. Pregando di aver seguito bene le istruzioni,
rimase lì a vedere l’effetto del suo miscuglio.
«Buonissimo!» esclamò Zelinda, con la bocca piena.
«Non mangiavo una cosa così buona da anni» rincarò Tarsilla.
«I miei complimenti, signorina Hallett!» intervenne Griselda.
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Mentre Joy sorrideva, rigida come un palo, la discussione sul
suo prelibato cous cous continuava animatamente, e i piatti
iniziavano a svuotarsi. Finalmente la voce tonante di Griselda
iniziò a diventare vacua e trascinata, i suoi occhi e quelli delle
altre iniziarono a far fatica a rimanere aperti, finché i loro faccioni non sprofondarono mollemente in mezzo al cous cous
e ai gamberetti.
In quel momento Jasmine, che aveva guardato tutto dalla
serratura, rientrò con un sorriso di trionfo stampato sulle labbra.
«Perfetto» disse Joy in un soffio, sospirando per il sollievo.
«Quanto durerà l’effetto di questo sonnifero?».
«Non ne ho idea».
«E allora cosa faremo?».
«Intanto sistemiamo loro!».
Sotto il tavolo delle patate c’erano le corde che avevano preparato prima, le presero e legarono per bene le donne, poi
trascinarono i corpi dormienti verso il lato più nascosto della
cucina. Subito dopo preparano il carrello per la cena e raggiunsero l’orda affamata che le attendeva.
«Sono molto orgogliosa del mio piatto, stasera!» esclamò
Joy, spingendo il carrello della cena fino ad Oscar.
«Be’, scopriamo subito se questo orgoglio è motivato, allora!».
Joy e Jasmine furono più svelte del solito a riempire i piatti. Volevano che tutti iniziassero a mangiare nello stesso momento, perché nessuno si accorgesse che succedeva qualcosa
di strano.
Quando i dannati ingoiarono il primo boccone iniziarono a
complimentarsi con Joy. Più si ingozzavano, più Joy rideva.
«Andiamo a prendere il secondo!» esclamò Jasmine, quando
si rese conto che il sonnifero iniziava ad agire. Le percezioni
e i movimenti dei dannati erano più lente, le loro bocche masticavano a fatica.
«C’è qualcosa che non va...» biascicò Oscar proprio nel momento in cui Joy chiuse le porte della sala da pranzo e girò
la chiave nella toppa per ben tre volte. Quando anche loro si
addormentarono sul piatto, Joy si sentì la persona più felice e
soddisfatta del mondo.
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«E ora?» chiese Jasmine.
«Ora torniamo dentro! Guarda sotto il carrello del cibo...».
Jasmine alzò la lunga tovaglia che copriva le ruote del carrello e trovò arrotolati metri di corda che sommergevano le
posate e i piatti ben disposti sui vassoi.
«L’ho presa dalla dispensa, quando tu non mi parlavi. È tagliata in piccole parti. Li legheremo come salami uno per uno
come abbiamo fatto con le donne, e li priveremo di tutte le
loro armi».
L’operazione iniziò. Con cautela, Joy riaprì le porte della sala
da pranzo. Il primo a essere legato fu Oscar. Lo perquisirono:
sotto la camicia aveva una cintura a cui erano agganciati tre
coltelli, una piccola pistola d’oro e tre mazzi pieni di chiavi.
«Queste sono quelle che ci interessano di più!» esclamò Jasmine, alleggerendogli la cinta.
Gli svuotarono anche le tasche, erano piene di tabacco e
bulloni poi Joy lo legò stretto, più stretto che poté. Le armi di
tutti e le posate che potevano essere pericolose finivano in un
sacco di iuta. Ci volle quasi un’ora per disarmare tutti i dannati e legarli, e Joy iniziò ad avere paura. Nel grembiule aveva
un’altra bustina della sua poltiglia e senza pensarci due volte
la rovesciò nella brocca dell’acqua.
«Non esageriamo con le dosi, nemmeno un cavallo ha bisogno di essere così tanto sedato» esclamò Jasmine, che riusciva
a mantenere i nervi saldi.
«La prudenza non è mai troppa» ribatté Joy.
Mentre Jasmine spalancava la bocca ai dannati, Joy li costringeva a bere un sorso, poche gocce per ciascuno.
«Carichiamo il sacco con le armi nel carrello e chiudiamoli a
chiave» dissero all’unisono. L’adrenalina saliva.
«Chiudiamo anche queste streghe?» chiese Jasmine, quando
passarono davanti alla cucina.
«Sì, dobbiamo evitare ogni pericolo, anche quello all’apparenza più innocuo!».
«Ora possiamo andare» sentenziò Joy, quando la prima parte del piano sembrava essere andata perfettamente.
141
Joy e Jasmine con molto sforzo trascinarono il sacco che ad
ogni scalino tintinnava allegramente e lo chiusero nella camera di Joy, poi corsero fino all’ufficio di Oscar. Ci misero molto,
prima di trovare la chiave giusta.
L’ufficio era in perfetto ordine e profumava di spray antipolvere.
«Qui può entrare solo Griselda» spiegò Jasmine.
Joy annuì con scarso interesse e si fiondò sulla scrivania posta in fondo alla stanza, sotto un oblò coperto da un drappo
verde bosco. Spalancò i cassetti e iniziò a cercare. Sul pavimento di parquet c’era un prezioso tappeto ricamato in oro e
bordeaux, le pareti erano color crema, adorne di quadri dalle
cornici in ottone. Uno era un ritratto di Griselda, alcuni erano
paesaggi marini, altri raffiguravano Oscar in varie pose con
sguardi accattivanti. C’era una pianta in un angolo e un divano
con vicino un piccolo tavolo su cui era poggiato un posacenere.
«C’è solo una carpetta blu qui, piena di conteggi e numeri»
disse Joy infuriata, la sua ricerca sembrava inutile. Jasmine iniziò a sollevare i cuscini del divano e a guardare dietro i quadri
ma non c’era niente, poi notò un cassetto nel tavolino.
«Cerca una chiave molto piccola» suggerì dopo aver provato
invano ad aprirlo.
Joy prese una piccolissima chiave dorata e gliela porse. Jasmine girò e il cassetto si aprì. Era ampio quanto tutto il tavolino e dentro era ben piegato un sottile foglio squadrato e
azzurrino: la cartina della nave. Jasmine e Joy si abbracciarono
esultando, poi Joy si fermò un attimo.
«Abbiamo fermato tutti?».
«Che vuoi dire?».
«Nella stanza c’erano tutti?».
«Non lo so, non li abbiamo contati».
«Sapevo che avrei trascurato qualcosa! Abbiamo dimenticato di controllare i turni dei dannati... sono sicura che c’è
ancora qualcuno in giro. Non è saggio girare così. Prendiamo
la cartina e torneremo più tardi. Adesso ci conviene armarci
e cambiarci d’abito».
Sul viso di Jasmine calò un’ombra di panico, la sua allegria
142
morì sul colpo. Cercando di nascondere goffamente la sua
ansia, chiuse la stanza a chiave e tornarono in camera di Joy.
«Sai come si usa una pistola?».
«Assolutamente no, ma improvviseremo!» esclamò Joy con
l’adrenalina a mille.
Con mani tremanti agganciarono pistole a canne corte e
coltelli alla cintola del loro grembiule e le nascosero sotto una
casacca di lino grezzo, che di solito usavano quando svisceravano il pesce per non macchiare i vestiti.
Richiusero a chiave e salirono di tre piani, agli alloggi degli
inservienti. Joy camminava respirando appena, aveva paura
che un movimento sbagliato potesse azionare le pistole e far
partire un colpo. Le serrature di quelle camere erano tutte
uguali, quindi si aprivano con la medesima chiave. Ne provarono quasi venti prima di trovare quella giusta, poi iniziarono
ad aprire tutte le porte finché non trovarono un armadio che
conteneva vestiti non esageratamente enormi.
«Senti, Joy... a me fa proprio schifo mettere i vestiti di quelli!».
«Anche a me, ma saremo più comode e meno in vista con
i loro abiti» disse Joy lanciandole una camicia e dei pantaloni
di tela marroni. Lei indossò una camicia abbastanza larga da
camuffarle il seno e dei pantaloni blu. Le scarpe che trovarono, invece, erano troppo grandi. Jasmine rimase con le sue
ballerine di cuoio e Joy si lasciò gli stivaletti scamosciati in cui
nascose una browning calibro 9. Dall’armadio presero anche
due cintole come quella di Oscar, se le strinsero intorno alla
vita e le riempirono delle armi che avevano scelto. Joy, divertita, si legò al collo un fazzoletto rosso che la faceva sembrare
un cowboy, infine si legarono i capelli e li nascosero sotto dei
cappelli di stoffa pruriginosa e grezza. Erano pronte. Tornarono all’ufficio di Oscar, lo misero a soqquadro ma non c’era
niente di interessante. Poi passarono all’altra stanza, un vero
manicomio. C’erano ovunque scartoffie e strani attrezzi a cui
Joy non seppe attribuire una funzione. L’intonaco era scrostato e polverizzato sul pavimento disseminato di casseforti
protette da catene e lucchetti.
«Queste sono le macchine che usano per falsificare i documenti».
143
«Ci servirebbero dei documenti nuovi! Se riusciamo davvero a scappare non possiamo andare in giro con i nostri veri
documenti, perché ci ritroverebbero subito! Sai far funzionare
questa cosa?».
«Non proprio. Ho visto solo una volta un dannato usarla,
mentre accompagnavo Griselda, ma posso provarci! Se ci riescono quelli perché non dovrei farcela io?».
«Ok, per me scrivi Alissa Ninfadora».
«Che razza di cognome è Ninfadora?» chiese Jasmine scoppiando a ridere.
«È una parola che mi piace» rispose Joy, iniziando a guardarsi attorno e a mettere le mani ovunque.
Jasmine avviò la macchina premendo bottoni a caso, spostò
leve posizionandole nei modi più svariati provocando solo brusii, scatti e bip. In una scatola di cartone erano ben posizionati
falsi documenti, tutti bollati con lo stemma di Gwenever, la
testa e l’ala di una fenice. A un tratto un timbro scattò in avanti,
Joy e Jasmine guardarono di sotto: c’era una piccola “A” pronta
per essere stampata. Al lato c’era una rotellina, Jasmine la fece
ruotare di uno scatto e il timbro passò da una “A” a una “B”.
Poi abbassò una leva e il timbro partì sbattendo sul metallo.
«Facciamo una prova».
Il primo documento fu un disastro, c’erano lettere stampate
ovunque senza ordine. Già andò meglio con il secondo, solo
il quarto risultò credibile.
«Eccomi qui, Rebecca Hild! Dobbiamo mettere una foto
però...».
«Strappa quella del tuo vero documento, tanto non possiamo portarli dietro».
Jasmine fece anche il documento per “Alissa Ninfadora” e li
mostrò entrambi orgogliosa.
«Possiamo anche uscire da qui, non c’è niente che possa
interessarci» sentenziò Joy.
Le ragazze riscesero in cucina per controllare la situazione.
Tutti dormivano ancora. Quando stavano per decidere cosa
fare, sentirono dei passi venire verso di loro.
«Gabro! Che fine hai fatto? Devi darmi il cambio!» tuonò
una voce roca.
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Jasmine e Joy erano terrorizzate, sentirono un tuffo al cuore
e la voglia di sparire risucchiate dal pavimento. Era troppo
tardi per aprire le porte della cucina, all’ultimo minuto si nascosero in un corridoio laterale.
«Non muoviamoci, qui è tutto al buio e non sappiamo dove
porta, non voglio fare la fine del topo» farfugliò Joy con il
cuore che le pulsava in gola.
L’uomo arrivò. Era di un’altezza sovrumana, con spalle larghe e mani grosse come padelle.
«Aprite» urlò prendendo a pugni la porta, poi si rese conto
che al di là del vetro tutti dormivano.
«Gli sparo a un piede» decise Joy, irrigidita dalla paura.
«Come cavolo fai se non hai idea di come si usi questo arnese?!».
«Chi c’è?» sbraitò l’energumeno. Sferrando un altro pugno
al vetro, lo spaccò. Asciugandosi la mano insanguinata sulla
camicia grigia, imprecò rabbioso come un lupo affamato.
«Che scherzo è questo? Maledizione!».
«Cazzo, Joy, spara!».
Le ragazze iniziarono ad agitarsi e a strapparsi la pistola dalle mani, finché non cadde a terra. Partì un colpo. Il dannato
lanciò un urlo animalesco e si lanciò verso il buio del corridoio in cui erano nascoste loro.
«Fa’ qualcosa!» piagnucolò Jasmine, con voce piccola e stridula.
Joy raccolse la pistola, le mani le tremavano e chiudendo gli
occhi puntò in basso. Senza ripensamenti premette il grilletto.
Un altro urlo. Un tonfo, a pochissimi metri da loro.
«Chi c’è? Maledetto! Il mio piede» strepitò l’uomo.
«Da che parte andiamo?» bisbigliò Joy, ignorando quelle
urla.
«Andiamo dritto, se è tutto al buio è perché non ci sarà nessuno, non devono vederci».
«Dovevamo pensare che sul ponte di batteria e sul ponte di
coperta sarebbe rimasto qualcuno a vegliare. Era ovvio! Sono
sicura che fuori, oltre al timoniere, ci sarà anche un prodiere e
qualcuno al mascone!» disse Joy, ignorando il suggerimento di
Jasmine, arrabbiata con se stessa e la sua sbadataggine.
145
«Dobbiamo sedare quella scimmia e toglierlo di mezzo, se
incontrasse qualcuno potrebbe raccontargli tutto, urla troppo»
disse Jasmine, infastidita dalle maledizioni scagliategli contro
dall’uomo ferito.
«Non possiamo passargli vicino, potrebbe essere armato».
«Se fosse armato avrebbe già provato a sparare in questa
direzione, credo...».
Jasmine aveva ragione, Joy prese il fazzoletto che aveva al
collo e se lo legò al viso lasciando scoperti solo gli occhi.
«Aspettami qui».
Prese dalla cintola una nambu 94 e tornò indietro, verso la
luce. Quando il dannato sentì i suoi passi iniziò a imprecare
con più veemenza.
«Ti ammazzo» urlò e strisciò nella direzione di Joy.
Lei tremò, il suo cuore divenne un puntino palpitante, si
fermò terrorizzata.
«Prova a toccarmi e ti sparo» disse con la voce più crudele e
autoritaria che riuscì ad assumere.
«Sei una donna, una stupida donnaccia! Non mi fai paura!».
Sentendo quelle parole, la rabbia prese il posto del terrore.
«Nemmeno tu» sibilò Joy, poi puntò alla sua mano e sparò di
nuovo. Quando il proiettile attraversò la carne callosa dell’uomo, il suo ululato attraversò il corpo di Joy scuotendolo ma si
fece coraggio e, mentre lui si teneva stretta la mano cercando
di fermare il sangue, lei correndo lo superò. Con un calcio
completò l’opera dell’uomo e aprì la porta della sala da pranzo. Tutti continuavano a dormire placidamente, ignari di cosa
succedesse intorno a loro. Rapidamente riempì un bicchiere
d’acqua e vi lasciò cadere dentro una goccia del suo sonnifero,
mescolò e tornò dal dannato.
«Bevi, fermerà il sangue».
«Dammi il tempo di rimettermi in piedi e ti ammazzo.
Cos’hai fatto, maledetta?».
«Niente. Prima bevi e prima ti rimetti in piedi. Non provare
a toccarmi o finisce male».
Il volto dell’uomo era contratto dal dolore. Il sangue dal
piede e dalla mano continuava a fluire a fiotti, lui bevve fidandosi subito di Joy e perse i sensi più rapidamente degli altri. Il
146
suo testone con un rumore secco rimbalzò sul pavimento, il
bicchiere volò e si frantumò contro la porta sgangherata della
sala da pranzo, l’acqua avvelenata schizzò sugli stivali di Joy.
«Jasmine, è tutto finito, vieni! Questo stronzo si deve medicare».
I vestiti del dannato erano macchiati di sangue che continuava a gocciolare dai suoi arti feriti. Il suo corpo era immobile.
«Tranquilla, non sono un’assassina, è vivo! Prendi la cassetta
del pronto soccorso, io intanto lo lego».
Joy prese la corda e gli legò le cosce, temeva di fargli male,
non sapeva cosa fare per non peggiorare la sua situazione.
Fu in quel momento che le venne in mente che quell’uomo,
come lei, era già morto. Peggio di così non gli poteva andare.
Lo trascinò fino alla sala da pranzo, il suo piede lasciò una
scia vermiglia. Spinse per terra un uomo dormiente facendolo
cadere dalla sedia e al suo posto fece sedere il mastodontico
corpo inerme e ferito. Lo strinse dalla pancia e lo legò allo
schienale includendo anche la mano sana, l’altra la lasciò libera. Vedendo il sangue continuare a inzaccherare il pavimento
buttò giù un altro uomo e usò la sua sedia per poggiargli sopra
il piede ferito. In pochi secondi si formò una pozza scarlatta
dall’odore pungente. Finalmente arrivò Jasmine.
«Non so come si curino ferite da arma da fuoco» disse subito.
«Nemmeno io, non c’è un dottore qui?» chiese Joy.
«Ehm... sì... ma abbiamo addormentato anche lui!».
Le ragazze si guardarono e scoppiarono a ridere istericamente. Il medico russava comodamente sul suo piatto di cous
cous. Piombando sul tavolo gli era finita in testa una brocca
colma di vino, e un rivolo violaceo gli attraversava la tempia.
«Be’, intanto lo disinfettiamo e bendiamo le ferite» disse Jasmine indossando un paio di guanti. Respirò a fondo respingendo un conato di vomito e tolse la scarpa all’uomo, gli sfilò
il calzino intriso di sangue, prese un batuffolo di cotone, lo
riempì di disinfettante e iniziò a pulirgli il piede. Anche Joy
indossò i guanti e gli pulì la mano. Il sangue incrostato era
difficile da togliere. Quando il sangue iniziò a sfociare con
meno violenza, le ragazze gli bendarono gli arti con garze ste147
rilizzate, si tolsero i guanti e nauseate si disinfettarono. Prima
di uscire Joy prese un fazzoletto dal collo di un uomo e lo
diede a Jasmine.
«Copriti il volto anche tu».
«Ora che si fa?».
«Dobbiamo trovare gli altri pirati ancora a piede libero, ma
non dobbiamo sedarli tutti. Qualcuno deve aiutarci a prendere una scialuppa».
Raggiunsero l’albero maestro, lì doveva esserci qualcuno a
controllare le vele. Trovarono due uomini. Al buio non riuscirono a vedere se erano armati o no.
«Possiamo rischiare di uscire e farci fermare?» chiese Jasmine.
«No, prima scopriamo se sono armati...».
Joy prese un coltello e strappò un pezzo di parquet.
«Ma che fai?».
«Glielo tiro».
Lo lanciò e colpì un uomo alla testa.
«Chi c’è?» urlò il più grasso tirando fuori un coltello dalla
cintura.
«Sono armati».
«Non possiamo fare niente così, torniamo indietro».
Sempre rimanendo unite, scesero nelle loro camere e indossarono i loro abiti abituali, ma nascosero la cintura porta-armi
sotto il grembiule. Tornarono in cucina, presero un vassoio e
vi misero sopra due piatti pieni di cous cous, uno avvelenato,
uno no. Presero anche una brocca di vino puro e tornarono
al ponte.
«Buonasera, signori. Oscar ci manda a portarvi la cena!».
«Grazie, ci voleva proprio!» esclamò un uomo panciuto.
I due uomini si sedettero, si pulirono le mani sui pantaloni
e presero i loro piatti.
«Spero vi piaccia, è la mia specialità!» esclamò Joy. Intanto
sia lei che Jasmine si affacciarono al ponte del cassero alle
spalle dei due uomini, con la coda dell’occhio li osservavano.
«Fantastico, ne avevamo davvero bisogno!» esclamò l’uomo
più alto e biondo.
Il grasso iniziò a cedere. Joy vide i suoi movimenti rallentare, come la sua mascella che masticava sempre più affaticata e
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fu veloce come un fulmine: da sotto il grembiule estrasse una
corda e la strozzò intorno al biondo, stringendolo alla sedia
e bloccandogli le braccia. Il piatto si spaccò fragorosamente
sul pavimento.
«Ma cosa...?» biascicò il grasso, prima di crollare come un
sacco di patate.
Il biondo provò a ribellarsi ma Jasmine gli puntò un coltello
alla gola.
Joy intanto annodò i lembi della corda, ora non poteva più
alzarsi.
«Cosa diavolo volete fare!» urlò scalciando come un indemoniato. Jasmine dovette scansarsi ma la lama appuntita del
coltello lo ferì, l’uomo si ribaltò sulla sedia e cadde schiacciandosi il collo.
«Sta’ fermo, idiota» lo ammonì Joy.
Mentre era ancora con in piedi per aria glieli legarono, poi
rimisero la sedia per bene.
«Aiuto!».
«È inutile che urli, nessuno può aiutarti» tagliò corto Jasmine.
«Avete avvelenato Sauro?».
«No, sta solo dormendo».
Joy prese la cartina della nave e gliela parò davanti.
«Indicaci dove si trovano le scialuppe di salvataggio».
«No!».
La ragazza lo disarmò, si strappò un lembo del vestito e gli
tappò la bocca.
«Tu ci servi sveglio e sano, ma zitto. Ci vediamo più tardi
visto che per ora non vuoi collaborare!» esclamò imbavagliandolo.
«Dove lo lasciamo?».
Fra l’albero maestro e il secondo albero c’erano vecchi teloni accatastati l’uno sull’altro, lì sotto nascosero il loro uomo,
schiumante di rabbia. Le vene sul suo collo taurino pulsavano
così forte che sembrava che la pelle potesse strapparsi da un
momento all’altro sotto quei palpiti.
«Tranquillo, non ti abbandoneremo qui, a più tardi» disse
Joy, salutandolo con un sorriso divertito.
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capitolo XIV
Ci vollero tempo e umiltà prima che Boris riuscisse ad ammettere che gli incontri segreti con Greta gli mancavano, soprattutto che lei gli mancava. Un pomeriggio si decise: si vestì
per bene, scelse il profumo migliore che aveva e andò dal fioraio più esoso e chic di Gwenever.
«Vorrei un mazzo di rose rosse, il più bello che abbia mai
composto!» esclamò con i suoi modi artificiosi.
«Ripassi fra mezz’ora» disse il fioraio. Era un ometto di
mezza età, con occhiali tondi montati su un naso che sembrava una patata.
Non era ancora tardi ma già il cielo si imbruniva. A Gwenever non c’erano stagioni, un giorno poteva essere estate e il
giorno dopo inverno, non c’erano nemmeno nomi per i mesi,
né per i giorni della settimana. L’aria era fredda e cupa, Boris
si avviò verso il parco ma in giro non vi era anima viva. Gli
scivoli erano vuoti e le altalene immobili, non gli restò che
sedersi su una panchina ad aspettare che il tempo passasse. Il
silenzio lo cullava, rischiò di assopirsi.
I guaiti di un branco di cani malconci lo riportarono alla
realtà. Boris scrollò la testa prima di sentirsi di nuovo lucido.
Si diede una sistemata ai capelli e tornò dal fioraio. Sul bancone c’era un mazzo di rose grandi e così delicate da sembrare
di seta. Erano avvolte da una carta luccicante e da un grosso
fiocco dorato. Boris le guardò con aria da intenditore soddisfatto, pagò e uscì.
Sulla metro trattò con cura le sue rose, fu delicato come se
avesse fra le mani un bambino. Quando arrivò la sua fermata
si armò di sorriso e scese. Era positivo, sapeva che nessuna
donna poteva resistere ai fiori e ai suoi modi galanti. Le mura
verde pastello della villetta del signor Manlio spiccavano stagliate contro il cielo grigiastro e triste. Boris aumentò il passo.
Quando fu davanti alla porta non suonò subito, ma riprese
fiato e masticò velocemente una mentina. Poi schiacciò il dito
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sul campanello. Quando Greta aprì la porta e lo vide credette
per un istante di essere impazzita e richiuse prima che lui potesse parlare.
«Lasciati almeno salutare!» esclamò Boris con tono deluso
e mogio.
Non era pazza. Dietro la porta c’era davvero lui, con un
mazzo di rose.
«Salutami» ordinò Greta, aprendo uno spiraglio e fingendo
di non aver notato i fiori.
«Ciao, avevo voglia di rivederti... e questi sono per te».
La ragazza era indecisa. Non sapeva se accettarli fosse giusto. Poi ripensando a Joy, decise che da lui non avrebbe mai
accettato niente.
«Ti ringrazio, Boris. Ma dei tuoi bei gesti non me ne faccio
niente. Sei solo un mostro».
Greta fece per richiudere la porta, ma Boris lo impedì.
«Non è come credi, e te lo dimostrerò molto presto. Per
favore, non cacciarmi».
Boris a volte sembrava un cucciolo maltrattato. Peccato che
Greta non era ancora riuscita a capire se la sua vera faccia
fosse quella da cucciolo o quella da mostro.
«Entra, solo per dieci minuti. Non voglio che nessuno mi
veda con te, sarebbe una vergogna».
«Non prendi queste? Sono per te».
«Lasciale sul tavolo, quando te ne andrai penserò a come
farle sparire».
Boris si sentì mortificato. La sua allegria morì come la fiamma di una candela sotto la pioggia. Posò il mazzo sul tavolo
della cucina e seguì Greta con lo sguardo basso e rabbioso.
«Siediti» lo invitò Greta, dopo essersi accovacciata su un divano.
Boris eseguì, rigido come un automa.
«Perché sei venuto? Speravi di comprarmi con dei fiori?».
«Io non volevo comprare nessuno».
«Ah, no? Una volta hai provato con le lusinghe ma non sono
bastate e sei passato alle rose. Cosa vuoi ottenere questa volta?
Non mi viene nulla in mente, adesso che Joy non c’è più».
«Non sono qui per parlare di lei».
151
«Noi non abbiamo altro da dirci. Il vostro gioco è diventato
una tragedia».
«Lo so!» sbottò Boris.
Greta si impaurì. Il demone schizzò dal divano come se fosse bollente e scagliò un pugno contro la parete vicina con
tanta forza che la mano gli divenne violacea. Poi le si parò
davanti.
«So benissimo di aver preso parte a una cosa davvero molto
brutta, ma sto cercando di rimediare e mi dispiace che tu non
veda altro che malvagità in me.
«Peggio per te che mi hai fatto vedere solo questo».
«È meglio che vada ora» disse Boris, schiumante di rabbia e
delusione.
«Saggia decisione» ribatté Greta, rimanendo sul divano
mentre lui si allontanava.
Passando, Boris prese le rose poi uscì senza voltarsi indietro.
Greta lo guardò andare via dalla finestra, nascosta dietro una
tenda. Quando fu lontano uscì anche lei. Come immaginava,
le rose erano abbandonate sul ciglio della strada, a macerare
lentamente sotto la pioggia che batteva l’asfalto da qualche
minuto. Raccolse ciò che ne restava e le portò in casa con lei.
Salì nella sua camera e le posò sulla scrivania. Il mazzo vigoroso era ormai solo un cartoccio di fiori avvizziti. Per un po’
rimase a fissarle, i petali martoriati e sfatti le ricordavano le
notti in cui, con un misto di paura ed euforia, aspettava Boris.
Era tutto finito, disperso e passato come il vigore delle rose e
i brillantini sulla carta strappata.
***
Jasmine e Joy avevano rimesso i comodi abiti maschili e avevano raggiunto il timoniere che, immerso nella musica classica, non si era accorto di nulla. Quando si rese conto che
qualcuno era entrato nella sua cabina, era troppo tardi. Joy
gli puntava una pistola alla tempia e Jasmine un coltello alla
schiena.
«Che... che ho fatto?» farfugliò l’uomo.
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«Niente, siamo venute a dirti cosa succede. Adesso quello
che devi fare è puntare alla terra abitata più vicina perché il
nostro viaggio finisce qui e noi vogliamo scendere» spiegò
Joy.
«Non posso, Oscar mi ucciderà!».
«Oscar è fuori gioco, per stanotte non devi avere paura di
lui, ma di noi» disse Jasmine, per tranquillizzarlo.
«A... aspettate» balbettò l’uomo allungando una mano tremante verso una cartina segnata da X e frecce.
«Il posto a noi più vicino è un’isola molto piccola abitata
solo da pescatori, ci vorrà circa un’ora per raggiungerla. Per
tutti i centri abitati più importanti dovreste aspettare fino a
domani verso l’ora di pranzo» spiegò il timoniere, il suo dito
tremava sulle linee che indicava.
Joy e Jasmine si guardarono un attimo, non potevano correre il rischio di aspettare ancora.
«Va bene, portaci lì, alla piccola isola. Scenderemo solo se
vedremo un faro illuminato» disse Joy, perquisendolo. Non
era armato.
«Che ne dici di riposarci prima un attimo?».
«Sì, Jasmine, hai ragione» disse Joy crollando su una panca e
poggiando la testa sul grembo dell’amica.
Il timoniere era il dannato più codardo che avessero mai
incontrato, tremante come una foglia aveva subito modificato
la rotta senza fare storie.
«Sei un coniglio, Adalberto» ringhiò una voce rauca e bassa
svegliando di soprassalto le ragazze assopite.
Sulla soglia della cabina c’era un uomo tarchiato e gonfio.
Dalla maglietta bianca uscivano grossi muscoli pompati e un
collo taurino che sosteneva una testa schiacciata e squadrata.
«No, Bolivar... non è come credi» farfugliò il timoniere. Le
sue mani vibravano così tanto che quasi non riusciva a compiere le sue manovre. Joy e Jasmine scattarono in piedi puntando le loro armi.
«Da dove salti fuori?» ringhiò Joy. Il pensiero che Bolivar
fosse armato aveva ucciso tutte le sue speranze e il suo coraggio, ma doveva continuare la sua parte.
«Ero di turno con l’uomo a cui avete sparato, quando non
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l’ho più visto tornare sono sceso a cercarlo e ho trovato il
vostro spettacolo! I miei complimenti ragazze, peccato che
questo scherzetto segnerà la vostra fine».
Joy notò la sua mano muoversi nella tasca dei pantaloni e
capì subito cosa sarebbe successo. Senza farsi prendere dal
panico afferrò Jasmine da un braccio e si tuffò dietro il tavolo
su cui erano ordinate le cartine di Adalberto.
Un istante dopo Joy sentì un bruciore lancinante, come una
grossa spina conficcata a forza nella natica e poi strappata via,
Jasmine intanto rovesciò il tavolo per farsi da scudo, i mille fogli di Adalberto riempirono l’aria. Nella confusione Joy si fece
forza, si sollevò e puntò la pistola: sparò tre colpi nel vuoto,
sentì un urlo poi un tonfo.
«Che avete fatto?» strillò Adalberto.
Joy credette di aver ucciso Bolivar, poi capì che il timoniere
era infuriato per la baraonda dei suoi appunti che come un
tappeto ricopriva il pavimento.
«Idiota, lascia stare quelle scartoffie e dammi una mano» latrò
Bolivar. Jasmine sollevò appena la testa dal tavolo, il dannato
era disteso sul pavimento circondato da una macchia di sangue che fluiva da un punto indistinto tra la testa e il gomito.
«Lo hai preso!» esultò Jasmine.
«Anche lui ha preso me».
Joy si passò una mano sulla natica e se la ritrovò macchiata
di un rosso vivo e caldo.
«Sei ferita!».
«Se ti dico dove, non ridere...».
La ragazza si voltò e si abbassò i pantaloni. Il proiettile fortunatamente l’aveva solo sfiorata.
«Sta’ zitto Bolivar, devo sistemare le mie carte».
Il dannato si mise in piedi da solo, la spalla gli faceva molto
male, il proiettile era bloccato nella sua carne ma si fece forza.
«Si... si sta alzando» farfugliò Jasmine.
Joy si rimise su i pantaloni, un attimo dopo Bolivar le guardava dall’alto puntando contro la sua pistola.
«Bene, bambine. Adesso avete finito davvero. Datemi le vostre armi o come potete immaginare non ci metterò niente a
sparare sulle vostre testoline».
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Jasmine e Joy si sfilarono le cinte, ma Joy sotto un ginocchio
nascondeva la lama di Jasmine.
«Al-za-te-vi» sillabò Bolivar.
Joy non poteva fare nulla, si alzò e scoprì il coltello.
«Volevi fare la furba con me?» disse, chinandosi per raccoglierlo. Prima di prenderlo si fermò un attimo per il dolore alla
spalla, Joy approfittò della sua esitazione. Dalla tasca prese
la boccetta di sonnifero in cui c’era ancora qualche goccia di
impiastro e con tutta la forza che aveva in corpo la spaccò sul
muso di Bolivar spingendolo indietro e facendolo cadere. La
sua faccia era una maschera di sangue e vetro, sparò un colpo
in aria e provò a rimettersi in piedi ma il sangue perso e il
sonnifero agirono più velocemente di lui.
«Lo avete avvelenato?» chiese Adalberto, preoccupato per la
sua sorte e non per la fine del compagno.
«No, dorme, tu torna alla tua rotta!» esclamò Jasmine che,
mentre Joy corse a cercare una corda, disarmava l’uomo svenuto. Anche Bolivar finì legato come un salame.
Il timoniere non opponeva nessuna resistenza, Jasmine se la
sentiva di rimanere sola con lui mentre Joy andò dal dannato
legato a una sedia sul ponte e gli tolse il bavaglio.
«Non mi sono dimenticata di te».
Zoppicava e la natica le bruciava ma cercava di rimanere
composta.
«Cosa vuoi?».
«Una scialuppa».
«Tu e la tua amica volete lasciare la nave? Ci penso io».
«Ricordati che io sono armata e tu no. Quanto tempo ti
serve?».
«Pochissimo» rispose l’uomo con un ghigno.
Joy tornò da Jasmine che intanto chiacchierava tranquillamente con Adalberto.
«Timoniere, quando saremo abbastanza vicini fermati. Sul
ponte c’è un altro uomo sveglio, ci aiuterete a calarci in mare
e ve ne andrete. Jasmine io vado a prendere le mie cose, poi
ti do il cambio».
Joy passò prima dagli alloggi dei dannati per prendere dei
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vestiti puliti, poi dalla cucina e prese la cassetta del pronto
soccorso. Nella sua stanza si preparò un veloce bagno caldo,
si spoglio e iniziò a pulirsi la ferita. Urlò per il dolore ma
continuò a disinfettarsi, poi si immerse nell’acqua profumata.
Fu un bagno rapido e scomodo, non riusciva a star seduta.
Quando finì si sdraiò sul suo letto per rifocillarsi qualche secondo. Si mise a pancia in giù e chiuse con garza e scotch la
ferita, poi si rivestì. Avvolse Apple in una canotta di lana e la
chiuse nella sua portantina. In una borsa di cuoio rubata a
qualcuno conservò il nuovo documento, un paio di boccette
del suo potente sonnifero, una pistola e un coltello. Non aveva altro. Aveva ancora le chiavi e passò dall’ufficio caotico in
cui si falsificavano i documenti, forzò una cassaforte e riempì
sette borse di monete e pietre preziose. Prima di tornare da
Jasmine ebbe un’idea. Cercò carta e penna e scese nella sala
da pranzo. Con una bracciata liberò parte del tavolo e si appoggiò lì per scrivere:
Te lo avevo detto che volevo tornare a casa. Adesso per non dimenticarti più di me, avrai un bel lavoro da fare per rimettere tutto in ordine!
Buon viaggio,
Joy Hallet
p.s. Perdonami ma non potevo lasciare qui Jasmine!
Lasciò il foglio in vista sul piatto di Oscar insieme alla sua
pistola d’oro e zoppicando per il dolore e per il peso delle
borse tornò nella cabina del timoniere.
«Cambiati e prendi le tue cose, poi torna subito qui. Ho
preso io i soldi!».
Jasmine fu più rapida di Joy, fortunatamente lei non era ferita. Quando tornò aveva due pesanti coperte fra le braccia e
carne essiccata e scatolette in un sacco di iuta.
«Signore, non posso avvicinarmi più di così. Il faro è lì, come
vedete, ma non potendo attraccare a nessun molo, avvicinarsi
molto è pericoloso».
«Grazie Adalberto, raggiungiamo il tuo compagno» disse
Joy.
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Il timoniere le precedeva con due lame puntate alla schiena.
«Milko, sei tu l’altro ostaggio?» chiese quando Jasmine sollevò i teloni.
Joy tolse il bavaglio al dannato ma non lo liberò, Adalberto
fu costretto a spingere la sedia fino al punto in cui si trovava
la scialuppa. Lì fu liberato.
I due uomini prepararono la scialuppa sulla portantina che
serviva a calarle in mare. Prima di salirvi, Joy esibì i grossi
mazzi di chiavi che aveva in tasca.
«Solo con queste potrete aprire le stanze di Oscar piene dei
suoi soldi e potrete liberare i vostri amici, se buttate in acqua
noi vi ritroverete senza queste. Ve le aggancerò alla portantina
solo quando sarà tutto finito».
I due dannati, umiliati e disarmati, non fecero scherzi, calarono la scialuppa con i remi in mare e le indirizzarono su
come muoversi.
«Avrete tutto il tempo di allontanarvi, noi prima di ripartire
dobbiamo vedere cosa avete combinato lì sotto!» disse Milko.
Le ragazze si coprirono, il freddo pungente che soffiava dal
mare si infiltrò nelle loro camicie. Anche Apple mugolava per
il freddo, con le braccia congelate iniziarono a remare.
«Buon divertimento, allora!» esclamarono all’unisono felici.
Nell’aria gelida della notte si respirava il profumo della libertà.
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capitolo XV
«Come stanno le ragazze? Ce l’hanno fatta?».
«Sì, papà. Credo che tra poco si sveglieranno».
Quando Joy aprì gli occhi per un attimo le sembrò di rivivere
un flashback ma ora nella stanza sconosciuta c’erano solo una
ragazza pallida e bionda e un uomo barbuto con una casacca
sudicia. Quando si mise a sedere, Apple le saltò addosso. Su
una brandina alla sua destra c’era Jasmine.
«Salve...» pigolò titubante.
«Ben svegliata. Lì ci sono le vostre borse» disse l’uomo.
«Ciao, io sono Astrid, tu?».
«Jo... Ninfadora. Come sono finita qui? E dove mi trovo?».
«Sei sull’isola dei pescatori, tu e la tua amica siete state fortunate, mio padre vi ha trovate... eravate congelate su una scialuppa e se non vi avesse portate a casa, avreste sicuramente
fatto una brutta fine per il freddo!».
«Grazie, allora! Io spero di trovare il modo per ricompensarvi».
Anche Jasmine si svegliò, più spaesata e confusa.
«Vi ho preparato qualcosa da mangiare... è una zuppa di
pesce, spero vi piaccia» disse Astrid.
«Siamo libere?» chiese Jasmine guardandosi intorno.
«Sì, siamo sull’isola dei pescatori» rispose Joy.
«Davvero?».
«Certo, vi ho trovate io stanotte. La vostra scialuppa è qui
fuori».
Jasmine giunse le mani a mo’ di preghiera e respirò profondamente, poi si alzò e si guardò la sottana che indossava.
«È una vestaglia della mia misura!» esclamò sognante.
«Dove vai?» le chiese Astrid, ma Jasmine non ascoltava nessuno. Correndo a piedi nudi spalancò la porta d’ingresso e si
lanciò fuori.
«Lei è Rebecca, capitela, non so da quante vite è rinchiusa su
158
una nave a cucinare con i vestiti smessi di una vecchia strega!»
spiegò Joy andandola a riprendere.
Joy e Jasmine erano scalze e correvano su un prato di tenera
erba verde, in lontananza le vette bianche e violacee di una
catena montuosa bucavano il cielo limpido e terso sulle loro
teste. Due capre belarono al loro passaggio, Jasmine saltava
come se fosse impazzita.
«Sono libera! Non mettevo piede sulla terraferma da quando
tua mamma non era nemmeno nei pensieri di tua nonna!».
«Ok, ma ora calmati o ci butteranno fuori di casa...».
Jasmine le saltò addosso e la abbracciò con tanta forza che
ruzzolarono insieme sul prato, poi rimase un po’ sul prato
a faccia in giù, a respirare l’odore della terra. All’ennesima
supplica di Joy si convinse a rientrare con i piedi e i capelli inzaccherati di terra. Astrid e il pescatore le aspettavano sedute
a un piccolo tavolo quadrato. La loro cucina era accogliente e
pulita, in un angolo c’era un piattino anche per Apple.
«Cosa ci facevate in piena notte su una scialuppa in mezzo
al mare?» chiese l’uomo.
«Siamo scappate, eravamo due cameriere su una nave di
dannati che si occupano di traffici illeciti» spiegò Jasmine fiera
di sé.
«Come avete fatto a scappare da una nave di dannati?» chiese Astrid a bocca aperta.
«È una lunga storia, ma ti prometto che te la racconteremo...
adesso vorrei tornare a casa mia, a Gwenever» tagliò corto Joy.
Astrid e il padre si guardarono con aria interrogativa.
«Qui siamo a Gwenever!» esclamò la ragazza.
«Non siamo sull’isola dei pescatori?».
«Sì, ma l’isola dei pescatori fa parte di Gwenever, aspetta...»
intervenne l’uomo.
Il pescatore si alzò e rientrò in cucina poco dopo con un
libro polveroso e lo aprì davanti a Joy.
«Tutto è Gwenever, è divisa in isole e contee ma tutto fa
parte dello stesso luogo. Forse tu vuoi andare nella capitale»
sentenziò l’uomo, tracciando con il dito la distanza dall’isola
alla sua città.
159
«Sì, credo proprio di sì» farfugliò Joy impallidendo. La distanza era tanta e spaventosa.
«Non credo che abbiate un mezzo per spostarvi... sarà un
viaggio molto lungo!» esclamò Astrid.
«Restate qui tutto il tempo che vi sarà necessario per riprendervi e chiedete tutto ciò che vi serve».
«Grazie, ma è meglio andare via il prima possibile, non vorremmo crearvi problemi» disse Joy.
«Grazie, davvero grazie con tutto il cuore» sussurrò Jasmine, con gli occhi lucidi per l’emozione.
«Come pensate di muovervi?» chiese, pragmatico, l’uomo.
«Abbiamo abbastanza soldi per comprare due cavalli e spostarci con quelli» rispose Joy.
«Avete i soldi per comprare due cavalli?» sillabò Astrid con
gli occhi strabuzzati.
«Be’, prima di andare via ci siamo prese quello che ci spettava» ridacchiò Jasmine.
«Sapete cavalcare?» continuò il pescatore.
«Veramente, no» ammise Jasmine.
«Ma dobbiamo imparare, i cavalli sono il mezzo più veloce
che possiamo avere» disse risoluta Joy.
«Posso aiutarvi, se volete. Sono brava!» propose Astrid, e
non perse tempo.
Quando finirono di pranzare le costrinse immediatamente a
seguirla sul retro della cascina, dove c’era una piccola stalla.
«Ecco Poncho!» esclamò, aprendo un vecchio portone in
legno massiccio.
Un cavallo ingrigito, vecchio quanto il portone, le accolse
con un nitrito che sembrava più uno starnuto.
«Chi vuole iniziare?».
«È affidabile?» chiese Jasmine, titubante.
«Certo! È dolce come un cagnolino».
«Vado io» si propose Joy, quando capì dalla faccia di Jasmine
che non sarebbe mai salita per prima.
«Ok. Prima sta’ a guardare, è facile!».
Astrid si tirò su la gonna e salì su Poncho, così rapidamente
che Joy quasi non vide dove aveva poggiato i piedi.
160
«Su, vecchio mio, non farmi sfigurare» bisbigliò dolcemente
all’animale, accarezzando la sua criniera ingrigita e annodata.
Il cavallo iniziò a trottare, sembrava davvero docile e disposto ad ascoltare gli ordini della sua padrona. Partì con un
passo leggero poi accelerò, infine, con un balzo che a vederlo
non si sarebbe mai immaginato, saltò la recinzione che chiudeva il giardino tuffandosi in un mare di granturco dorato. In
pochi minuti sparì dalla vista delle ragazze.
«Che ne dici di andarci a mettere dei pantaloni? La cosa mi
sembra complicata» disse Joy.
«Ti seguo».
Quando tornarono, Astrid spuntò all’orizzonte. Con un
nuovo balzo, agile quanto il primo, Poncho rientrò e si fermò
a pochi passi dalla stalla.
«Cavalcare è fantastico!» esclamò Astrid raggiungendo le
amiche.
«Posso immaginare, ma la tua dimostrazione non mi ha fatto capire molto...».
«Dai, Ninfadora, ti aiuto io!».
Joy si avvicinò al cavallo e per farvi amicizia gli diede una
pacca sul collo, Poncho le sbuffò in faccia scoprendo i grossi
denti ingialliti.
«Cominciamo bene...».
«Metti un piede sulla staffa, datti una spinta e sali».
«La fai facile!».
Joy sentiva le gambe molli come semolino, ma cercò di tenere a bada il suo fastidioso tremolio e con uno sforzo si
mise a sedere sul dorso di Poncho. Per un istante si rilassò per
godersi la vista dall’alto, ma quando il corpo massiccio del cavallo fremette sotto di lei, le sue gambe tornarono a tendersi
nervosamente.
«Ora che si fa?» chiese con voce quasi tremante.
«Devi fare amicizia con lui, devi farti ascoltare e, soprattutto, tieniti forte. Vi guiderò io».
Astrid mise una mano confortante sulla criniera del suo cavallo, con l’altra afferrò una redine e iniziò a camminare incoraggiando Poncho a seguirla.
«Ninfadora, non bisogna strozzarlo, devi mantenerti con le
161
redini!» ridacchiò, notando Joy abbarbicata al collo di Poncho
con il viso stravolto da una maschera di terrore. Ogni passo
era un sussulto.
«Rilassati...».
«Ci provo!».
Una mattina Astrid portò le sue nuove amiche a fare una
passeggiata in spiaggia. La distesa bianca si dorava sotto i raggi del sole. Era deserta e infinita, confinava con l’orizzonte.
Si sedettero sul bagnasciuga e si tolsero le scarpe, la schiuma
bianca lambiva le loro gambe, dovettero sollevare le gonne dei
vestiti per non farle bagnare.
«Era da tanto che il mare non mi sembrava così bello e pacifico» disse Jasmine.
«Rebecca, come ci sei finita su quella nave?» chiese Astrid
ad un tratto. Era da un po’ che quella domanda le ronzava in
testa.
Jasmine sentì una fitta al cuore, come tutte le volte in cui ci
ripensava.
«Ero a Gwenever da poco. Lavoravo in un negozio di giocattoli e un giorno è entrato un ragazzo che cercava informazioni
per raggiungere una certa via. Mi sono innamorata subito di
lui. I suoi grandi occhi verdi non me li scorderò mai... gli ho
spiegato dove dovesse andare e l’ho salutato convinta che non
lo avrei più rivisto. Invece il giorno dopo è tornato! Così abbiamo iniziato a uscire finché un giorno mi ha detto che doveva
partire, e mi ha anche confessato di essere un dannato...».
«E tu come l’hai presa?» la interruppe Astrid. Quelle due ragazze avevano portato nella sua vita nuovi colori, accesi come
quelli di cui leggeva sempre nei suoi amati compagni, i libri.
«Malissimo! L’ho preso a pugni, non volevo più vederlo.
Quella sera pioveva, mi aveva portato in un ristorante molto
lussuoso e io sono scappata via in lacrime lasciandolo solo al
tavolo. Non l’ho visto per tre giorni, una sera si è appostato
sotto casa mia e quando mi sono decisa a scendere mi ha chiesto se volessi seguirlo o se volevo aspettarlo lì... e io ho fatto
la stupidaggine più grossa della mia vita. Ho scelto di salire su
quella maledetta nave...».
162
«Non dirmi che una volta saliti sulla nave è cambiato completamente!».
«No, Astrid. Peggio. Lui era stupendo anche su quella nave
di mostri. Una sera ha litigato con il capobranco, non ho mai
saputo il vero motivo, immagino per soldi. La lite è degenerata, avevano bevuto tutti e lo hanno buttato giù dalla nave. Per
me è iniziato l’inferno...».
Jasmine aveva la voce rotta da una malinconica emozione
triste. Astrid si pentì di averle chiesto di raccontare quella
brutta storia e le passò un braccio intorno alle spalle per consolarla.
«Non preoccuparti, mi fa bene parlarne ogni tanto» la rassicurò Jasmine «non bisogna dimenticare» aggiunse con un
sorriso.
Joy sentì una morsa allo stomaco. Deglutì e cercò di distrarsi, ma il viso di Romeo era davanti ai suoi occhi, brillante
come la superficie del mare spolverata dal sole.
«Che hai, Ninfadora?» chiese Astrid, la situazione le sfuggiva di mano.
«Oh, niente, non preoccuparti. Che ne dite di farci una nuotata?».
«Ma non abbiamo i costumi!» esclamò Jasmine.
«L’importante è che abbiamo le mutande» ribatté Joy.
Astrid non se lo fece ripetere due volte e si sfilò il vestito
lasciandosi solo dei mutandoni di cotone ruvido e una canotta
color pesca. La seguì Joy, che portava mutande azzurre ma
meno vistose, e infine si convinse anche Jasmine.
«Chi va per prima?».
«Tu!» esclamarono Astrid e Joy spingendo Jasmine a mollo.
L’acqua era tiepida e limpida, si vedeva il fondo dorato e
qualche pesce sgusciare rapidamente fra le loro gambe.
«È fantastico qui» mormorò Joy, riemergendo dopo essersi
tuffata.
«Non quando sei sola. Quando non hai nessuno con cui
condividerlo, anche questo paradiso può diventare noioso. Io
a volte vorrei scappare».
«Perché non vieni con noi?» propose Jasmine, che già le si
era affezionata.
163
«Non potrei mai lasciare mio padre da solo. Non avrebbe
nessuno che si occupi di lui...».
«Be’, allora potresti venire a farti una vacanza a casa nostra,
qualche volta» disse Joy.
«Questo è possibile. Sono sicura che mio padre mi accompagnerebbe con la sua barca, sa bene quanto sia triste per me
vivere qui».
«La prendiamo come una promessa! Anzi, quando torneremo a casa informeremo anche tuo padre» sentenziò Joy.
Astrid le sorrise, era la prima volta che nella sua vita capitava
qualcosa di davvero bello.
Le giornate di Joy e Jasmine si dividevano fra le cavalcate con Astrid e il suo vecchio cavallo e l’organizzazione del
viaggio. Anche quando aveva la cartina davanti, Joy pensava a
Romeo e alla sua aria da saputello, quando le aveva suggerito
di dedicarsi a materie interessanti come la geografia e non
perdere tempo con le arti divinatorie. Aveva ragione. Per la
prima volta Joy pensò a lui con un sorriso. Poi tornò a litigare con la cartina, doveva ancora capire dove fosse il nord e
dove il sud, e non sembrava per niente semplice. Aveva molti
soldi con sé, abbastanza per comprare i due cavalli e fermarsi
a dormire nelle locande. La strada disegnata sulla cartina la
impauriva, sembrava impervia e infinita. Fissò la data della
partenza e fino a quel giorno non fece altro che non fosse
pensare e ripensare a ciò che lei e Jasmine avrebbero dovuto portare durante il viaggio. Più il giorno della partenza si
avvicinava, più Astrid si intristiva. I suoi sorrisi scemavano
minuto dopo minuto.
«Siete sicure di voler partire domani? Non vi sembra affrettato?» chiese una mattina, in spiaggia. Quel giorno il sole era
timido e incerto e riluceva sul mare irrorandolo di polvere
perlacea. Le tre ragazze erano sedute con le gambe in acqua.
«No. Non posso rimanere ancora qui, mi staranno aspettando tutti e poi rimanere ferme per me e Rebecca, e soprattutto
per te e tuo padre, è un rischio. Più rimaniamo in un posto più
è facile che ci trovino...».
«Hai ragione, Ninfadora. È solo che da domani sera tornerò
164
alla mia vecchia vita e questo mi intristisce davvero tanto. Tu
Rebecca, dove andrai?».
«Mi hai appena ricordato un particolare a cui non avevo
pensato prima... non avevo mai creduto di poter uscire da lì,
ero rassegnata a passarci l’eternità. Ora sono libera, ma non
ho nessuno che mi aspetti».
«Ti porterò a casa mia!» esclamò Joy.
Le amiche si sorrisero e all’unisono pensarono che fosse
giunto il momento di essere totalmente sincere.
«Astrid, c’è una cosa che dobbiamo dirti prima di andare
via. Te lo confesseremo perché per noi sei stata una vera amica» iniziò Jasmine.
La faccia pallida di Astrid si corrucciò.
«Noi non ci chiamiamo Alissa Ninfadora e Rebecca Hild.
Questi sono nomi falsi come i nostri documenti che ci siamo
procurate per precauzione, nel caso in cui venissero a cercarci» spiegò Joy.
«Geniale! E allora, come vi chiamate davvero?».
«Jasmine Nahid e Joy Hallett» si presentò la prima.
«Mi raccomando, è fondamentale che nessuno sappia che
siamo state qui» ribadì Joy, e non era mai stata così seria.
«Joy è molto meglio di Ninfadora!» ridacchiò Astrid «Comunque, state tranquille. Sarò una tomba» aggiunse subito
dopo.
«Adesso andiamo, dobbiamo sistemare la nostra roba e andare a comprare due cavalli. Non ho idea di quanto costino,
ma credo proprio che possiamo permetterceli. Abbiamo borse piene di pietre preziose e oro!» esclamò Joy, orgogliosa del
suo bottino.
«Ma io non sono ancora brava a cavalcare!» si lamentò Jasmine.
«Nemmeno io, ma ti assicuro che avremo tutto il tempo per
diventare bravissime».
Apple non aveva nessuna intenzione di farsi chiudere nella
sua portantina, ma fu costretta. Joy e Jasmine aiutate da Astrid
e dal pescatore caricarono le loro borse su una piccola imbarcazione che le scortò fino a Itgurd.
165
«Le dobbiamo la vita» disse Joy prima di salutare il pescatore.
«Ho fatto quello che deve fare ogni uomo giusto. Astrid,
tu rimani dallo zio Attilio, ti passerò a prendere quando loro
saranno partite».
Prima di raggiungere la fattoria dello zio, Astrid portò le
amiche in un negozio di vestiti. Non si vendevano jeans. Solo
abiti per donne, pantaloni e casacche per gli uomini. Comprarono delle camicie colorate, poi cercarono fra i pantaloni da
uomo quelli della taglia più piccola. Sembravano tutti enormi
e quando la commessa capì di cosa avessero bisogno, propose
loro dei modelli da bambino: la taglia più grande era perfetta
per loro. Presero anche pesanti giacche di lana per la notte e
pagarono tutto rapidamente.
Il vecchio zio di Astrid le accolse con le sue galline chioccianti che saltavano e cozzavano tra di loro confusamente.
«Ciao nipote, ti servono uova?».
«No, zio. Ho due amiche che hanno bisogno di te».
«Venite».
L’uomo aveva una folta barba brizzolata che gli copriva il
viso rotondo. Si sedette su una panca e invitò le ragazze a
imitarlo.
«Abbiamo bisogno di due cavalli, ovviamente pagheremo»
disse subito Joy.
L’uomo strabuzzò gli occhi.
«Ma hai idea di quanto costi un cavallo?».
«No, ma sono sicura di potermelo permettere» rispose lei
aprendo la borsa di cuoio che portava a tracolla. La luce vi entrò e attraversò le facce limpide e colorate di tantissime pietre
preziose.
«Dove le hai prese? Sei una ladra?».
«No! Una fuggiasca, sono scappata da una nave di dannati».
«Non voglio queste pietre se provengono da loro. Tu, Astrid,
non dovresti stare con questa gente. Potrebbero venire a cercarle».
«Vanno via stasera» rispose subito la nipote.
166
«Se i dannati dovessero trovarmi con le loro pietre, farei una
bruttissima fine».
«Cercherò qualcuno che me le cambi in denaro» disse Joy.
Infastidita si alzò e si allontanò aspettando Astrid fuori dal
recinto.
Astrid arrivò quasi subito.
«Io non conosco nessuno che possa aiutarti, non ho mai
visto una pietra preziosa dal vivo» disse a mo’ di scuse.
«Accompagnami in paese».
L’isola dei pescatori era piccola e quasi completamente disabitata. Sulle coste erano sparse piccole case come quella di
Astrid, dalle forme tondeggianti e i tetti bassi, addossate le
une alle altre. In centro le strade erano fatte da piccoli sassolini colorati e c’erano pochissimi negozi.
Jasmine era silenziosa e preoccupata, camminava con gli
occhi bassi, concentrata come se volesse contare tutte le pietruzze che le scorrevano sotto gli occhi. Astrid era intenta a
riflettere. Nella sua testa frullavano informazioni alla ricerca
di qualcosa di utile. A pochi metri da loro notò una tenda verde, scolorita dal sole e dalla pioggia, sormontata da un’insegna
color oro “La Galleria del Dottor Q”.
«Guarda lì, Joy!».
«Di che si tratta?».
«Non lo so esattamente, ma del Dottor Q. non si parla per
niente bene. Si dice che sia un dannato della peggior specie.
Nella galleria ci sono cinque negozi che gli appartengono,
non so cosa vendano ma credo che qualcuno lì dentro potrà
aiutarti!
Joy fremeva, per un attimo distolse l’attenzione da Apple
che riuscì a sgusciare fuori dalla portantina e con le unghie si
aggrappò al colletto della sua camicia.
«Entra solo tu, qui dentro non è apprezzata la confusione»
disse Astrid, fermandosi a due passi da un massiccio portone
metallico.
«Se hai bisogno di aiuto urla!» suggerì Jasmine, preoccupata.
Joy sospinse il portone. Era in un corridoio angusto e umi167
do su cui, dal lato destro della parete, si affacciavano cinque
botteghe poco illuminate. Il muro sinistro era buio e carico di
muschio. La ragazza procedeva a passo spedito.
«Vuole vendermi il suo gatto, signorina?» latrò una macellaia
da dietro il bancone. Il suo grembiule era insanguinato e annerito e con una mano lercia impugnava un coltello affilato e
minaccioso. Joy si pietrificò per la paura, e strinse forte Apple
per impedirle di allontanarsi. L’odore del sangue e il ronzio
delle mosche appostate sui blocchi di carne cruda le davano
alla testa.
«No, no. Il mio gatto non si mangia».
«Potrei farle una buona offerta, è carne tenera!» insistette la
donna, sporgendosi dal banco con tutto il suo peso.
«Quanto vuole?» soffiò, fra un dente e l’altro, a pochi millimetri dall’orecchio della malcapitata, nauseata dal suo alito
caldo e fetido.
«Lei... lei è davvero gentile... ma... non c’è somma che possa
farmi cambiare idea...» farfugliò Joy, ficcando a forza Apple
nella portantina e allontanandosi rapidamente. La seconda
bottega era gestita da un uomo che succhiava svogliatamente
un bastoncino di liquirizia. Joy lanciò un’occhiata a quel negozietto, era una tabaccheria ben fornita e caotica.
La terza bottega era sigillata. Vicino alla porta d’ingresso
c’era un buco da cui si diramavano sottili incrinature della parete, Joy pensò subito a uno sparo. Da una finestrella buia si
intravedevano armi ordinatamente esposte. Alla maniglia era
appeso un cartello scarabocchiato con una calligrafia rozza:
“Aperto dalle ore 22.30 alle ore 02.45. Non disturbare durante
le ore diurne”.
Al quarto bancone era appostata una donna bionda e riccioluta, con dentatura da cavallo e spalle larghe e mascoline. Con
lei lavorava un uomo pelato e panciuto accasciato sul piano,
accanto a un bicchiere pieno di liquore che Joy non seppe
identificare, una bottiglia di gin mezza vuota e due bottiglie di
birra prosciugate. Alle sue spalle un’infinità di liquori impilati
lungo scaffali che attraversavano tutta la parete.
«Che cerchi qui, ragazzina?» chiese la bionda ingollando placidamente un bicchierino di scotch.
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«Io dovrei vendere delle pietre...» disse Joy prendendosi di
coraggio, dopo un respiro profondo.
Dalla bottega successiva giunse una voce unta e spigolosa.
«E allora è da me che devi venire».
Joy si liberò dello sguardo indagatore della barista e seguì la
voce. Dietro un bancone protetto da un vetro forato, c’era un
uomo con un testone nero e unticcio e un occhio coperto da
una benda di cuoio.
«Che ti serve?».
«Ho delle pietre da venderle».
«Provenienza?».
«Meglio non saperla! Lei si prende le pietre e mi dà i soldi, e
nessuno dirà nulla sull’esistenza dell’altro».
«Fammi vedere».
Joy aprì la borsa e ne mostrò il contenuto all’uomo.
«Lei scelga un colore e io avrò qualcosa da darle».
«Devo prima controllare se sono vere».
Joy scelse la pietra più piccola, temeva che l’uomo gliele potesse rubare. Era uno smeraldo quasi insignificante vicino ai
suoi simili. L’uomo lo controllò attentamente.
«Per questa posso darti centocinquanta krusi».
Joy non se ne intendeva. L’uomo avrebbe potuto truffarla
come voleva, ma le servivano quei soldi.
«Paghi e le passo l’altra».
L’orafo le passò un mazzetto viola e stropicciato. Joy si sentiva davvero ricca ma nascose il suo bottino e scelse un rubino, anche quello di modeste dimensioni.
«Stessa cifra».
«Va bene» acconsentì la ragazza incassando i soldi e prendendo uno zaffiro più grosso.
«Con questo saliamo a trecentocinquanta».
Joy iniziò a sganciare pietre più grosse finché non si ritrovò
in borsa tremilacinquecento krusi.
«Io non sono mai stata qui, e lo dico soprattutto per lei.
Sono appena scappata da una nave di dannati che probabilmente mi starà dando la caccia. Se per caso mi avesse truffata,
non le conviene vantarsi dei suoi affari».
«Nessuno saprà niente».
169
Con un sorriso soddisfatto, Joy salutò l’uomo e scappò da
quella galleria degli orrori.
Quando fu fuori, respirò aria fresca a pieni polmoni.
«Torniamo da tuo zio» disse ad Astrid, camuffando la borsa
carica di denaro sotto la giacca di lana.
Alla vista dei soldi fruscianti il vecchio contadino non seppe
resistere.
«Tutti i tuoi soldi e una pietra, in cambio di due bestie che
potrai scegliere».
Joy nervosamente gli mollò un rubino.
Jasmine scelse una cavalla bianca, si chiamava Linda e sembrava tranquilla. Joy invece puntò a un cavallo nero e giovane,
non aveva ancora un nome e il vecchio non volle cederglielo.
«Abbiamo fatto un patto».
«Un’altra pietra e te lo cedo».
«No, ne scelgo un altro».
Vicino al box di Linda c’era un cavallo color cappuccino
con una bella criniera nera e lucida.
«Lui è Makaha, il figlio di Linda».
«Hai scelto il cavallo più stupido del mondo, dovresti essere
pagata tu per portarcelo via. Un vero impiccio!» ridacchiò una
voce maschile alle spalle di Joy.
«Ciao Jordan» ringhiò Astrid, poco felice di vedere il cugino.
«Sta’ zitto!» lo ammonì Attilio.
Jordan era un ragazzo allampanato e brufoloso, secco e lungo, con un’aria da sbruffone stampata in faccia. Anche lui pallido e biondo come Astrid.
«Volete fare un giro sui vostri nuovi cavalli, bellezze?» propose, cingendo la vita di Joy con un braccio ossuto.
«Buona idea» sibilò la ragazza, scansandosi rapida come
un’anguilla.
Jordan la lasciò andare ma le incollò gli occhi addosso, poi
fece un cenno di approvazione alla cugina. Astrid non lo aveva mai sopportato.
«Tu hai scelto Linda, vero?» chiese Attilio avvicinandosi
all’animale con Jasmine.
«Sì, sembra una brava cavallina».
170
«Fatti un giro, vedi come ti trovi».
Jasmine montò il suo cavallo e si sentì subito a suo agio.
«Appena torna la tua amica, farai lo stesso con Makaha»
disse il vecchio a Joy.
Intanto Jordan era sgusciato fino al box del cavallo nero che
il contadino non aveva voluto cedere.
Approfittando dell’attenzione del padre catalizzata da Jasmine e Linda, sistemò una pesante sella di cuoio in groppa al
cavallo e vi salì. Quell’animale era indomito e ribelle e quando
sentì le gambe di Jordan salde sul suo corpo nitrì e sbuffò.
«Figlio idiota, scendi immediatamente da lì!» urlò Attilio
voltandosi subito verso il ragazzo.
«Voglio solo fare un giro!».
Il contadino prese un battipanni incrostato di fango dal box
di Linda e iniziò a dimenarlo in aria minacciando Jordan.
«Non provare ad uscire dalla stalla con quella bestia dannata!».
Astrid si sentì sprofondare per l’imbarazzo, la stessa sensazione di fastidio che l’aveva afflitta per tutti gli anni di scuola
condivisi con il cugino. Jordan ignorò il padre e in pochi balzi
si allontanò da lui, schiumante di rabbia. Astrid sapeva bene
che Jordan non era mai stato abile a cavalcare.
«Quel cavallo è un pericolo! Quello stupido finirà per farsi
male» disse il contadino, lasciandosi cadere su una panca.
«E lei me lo avrebbe venduto, se avessi ceduto una pietra in
più?» sibilò Joy, molto arrabbiata.
«Volevo sbarazzarmene, ma per non sentirmi troppo in colpa ho trovato un modo per farti cambiare idea, e ha funzionato!».
In quel momento Jasmine arrivò urlando.
«Qualcuno aiuti Jordan, il cavallo non lo ascolta!» disse trafelata.
«Io non ho più l’età per queste bravate!» esclamò il vecchio,
disperato.
«Ci penso io, lasciami un attimo Linda» disse Astrid. Furente incitò il cavallo bianco in direzione di una macchia nera
che si dimenava come impazzita. Jordan urlava di paura e si
teneva stretto con le unghie al collo corposo dalla bestia. At171
tilio, scuotendo la testa, rientrò in casa. Non aveva voglia di
vedere nulla.
«Passami le redini» ordinò Astrid.
«Come faccio? Cerca di aiutarmi al più presto!».
«Se non vuoi finire con la schiena spezzata, trova un modo
per passarmi subito le redini» tagliò corto la ragazza.
Jasmine e Joy si tenevano strette, non avevano mai pensato
all’eventualità che un cavallo potesse essere così pericoloso.
Quando videro che anche Linda iniziava a perdere le staffe e
sentirono i suoi nitriti nervosi scornarsi con quelli del cavallo
nero, chiusero gli occhi, terrorizzate.
Quando li riaprirono Astrid era in ottima forma a pochi
passi da loro, con i capelli scarmigliati e le gote rosse per lo
sforzo. Linda e il cavallo nero erano chiusi nei rispettivi box.
Jordan vomitava copiosamente in un vecchio secchio, seminascosto da un possente albero.
«Che razza di idiota!» ringhiò lanciandogli un’occhiata carica
di odio.
«Ah, Jasmine! Complimenti per Linda, ottima scelta!» aggiunse dando una pacca sulla spalla dell’amica ed entrando in
casa. Aveva bisogno di un po’ d’acqua.
Quella notte dovettero rimanere a dormire a casa dello zio
Attilio, che ovviamente volle essere pagato. Dopo una cena
magra e insipida, le ragazze si rifugiarono in un salottino in
cui avevano sistemato le loro cose. Era una stanza spoglia,
prima che fosse invasa dalle loro borse c’era solo un vecchio
divano color crema, una pianta morta in un angolo e un paio
di quadri tutti tristi e cupi.
«Che giornata...» mormorò Joy lasciandosi cadere con le
braccia aperte sulla sua brandina.
«L’ultima giornata con voi, l’avevo immaginata in modo ben
diverso» disse Astrid, e non era mai stata così abbattuta.
«Questa stanza è più triste della tua faccia! Che ne dici di
uscire a fare un giro?» propose Joy.
«Sì, dai! Guardate che luna...» mormorò Jasmine, indicando
la finestrella un braccio più sopra del divano. Fuori il cielo era
172
di un velluto nero e morbido, puntellato di perle lattiginose.
La luna era un’armonica sfera di luci ed ombre.
«Facciamo piano, se si sveglia Jordan è la fine!» bisbigliò
Astrid.
Le ragazze indossarono delle giacche di lana sulle vestaglie
leggere e sgattaiolarono fino in giardino. L’aria della sera era
tiepida e profumata, l’erba soffice sotto i loro piedi nudi. In
lontananza si scorgevano i profili di alcune vecchie case, disegnati dalla luce argentea della luna. Incantate da quel gioco di
luci sottili, si sedettero sul prato.
«Che ci fate ancora sveglie?» trillò una voce, che non poterono non riconoscere.
«Oh, no» sillabò Joy.
Jordan sbucò fuori dalla capanna degli attrezzi, con la porta
chiusa nessuna delle tre aveva notato che la luce era accesa.
«Vogliamo stare un po’ da sole» tagliò corto Astrid.
«Sta’ calma, cugina. Sei sempre così agitata».
«Per oggi hai già combinato abbastanza guai, quindi ti consiglio di sparire dalla mia vista».
«Dai, scusami. Non te la prendere!» esclamò Jordan sedendosi tra la cugina e Joy.
«Come mai non sei a letto?» chiese Jasmine.
«Ho un lavoretto da completare, volete vederlo?».
A forza Astrid si alzò per seguirlo dentro la capanna degli
attrezzi, quando entrò rimase sbalordita.
Su un vecchio tavolo instabile e graffiato si ergeva una scultura di legno finemente dipinta a mano. Era un cavallo nero,
alto quasi un metro, elegante e perfettamente proporzionato.
«Lo hai fatto tu?» chiese Joy, meravigliata.
«Sì, quando non riesco a dormire sono sempre qui. Mi dispiace per oggi... davvero. Io volevo solo scherzare».
«Ok, va bene. Non fa nulla» disse Joy e quando sorrise lo
sguardo duro di Astrid si addolcì.
«Non cambi mai, Jordan! Per te è come se gli anni non fossero mai passati».
«Tu invece sei sempre troppo seria».
«Che ne dite di finirla qui? Non è l’orario più adatto per
litigare» ridacchiò Jasmine.
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«Su, cugina. Abbracciami» supplicò Jordan spalancando le
braccia. Joy costrinse Astrid a ricambiare spingendola decisamente.
Era già molto tardi ma Jasmine e Joy, eccitate e preoccupate
per il viaggio che le aspettava, non sentivano la stanchezza
di quella lunga giornata. I loro corpi elettrizzati fremevano
impazienti.
«Vi andrebbe di dormire in giardino, stanotte? Io lo faccio
spesso» disse Jordan, estraendo da uno scatolone delle coperte e un paio di cuscini.
«Certo che sì!» acconsentì Joy e così allestirono un grande
letto sull’erba. Si coricarono tutti insieme, Jordan fu abile a
posizionarsi al fianco sinistro di Joy, così accanto non ebbe
nessuno.
«È meglio dormire» bofonchiò subito Jasmine sbadigliando,
e un attimo dopo ronfava sonoramente. Astrid fu altrettanto
rapida. Joy decise di fingere di essersi addormentata, sperando
così che Jordan smettesse di fissarla con una faccia da pesce
lesso.
«Lo so che sei sveglia» bisbigliò lui.
Quando la ragazza aprì svogliatamente gli occhi se lo ritrovò
a pochi centimetri dalla punta del naso. Per poco non urlò.
«Mi dispiace che domani andrai via, ma sarebbe bello poter
ricordare questa notte per sempre. Portarla nel cuore insieme
a questa magnifica luna...».
«Sei proprio scemo» ringhiò Joy, poi gli mollò una gomitata
nelle costole e gli diede le spalle. Finalmente riuscì a dormire.
Il mattino dopo si svegliarono prestissimo e caricarono i cavalli, divisero equamente le borse ai due animali, presero una
borraccia ciascuna e dei panini imbottiti e sulla sella legarono
delle coperte che avrebbero usato la notte. Sotto la camicia
avevano le cinture rubate ai dannati e qualche arma per proteggersi. Astrid era preoccupata e non la finiva più di ripetere
a Joy le istruzioni per seguire al meglio la cartina.
«Questo è il mio indirizzo, scrivimi durante il viaggio e soprattutto scrivimi quando sarete sane e salve a casa. State attente e non fermatevi mai per più di una notte nello stesso
174
posto, e rimanete sempre a dormire nei villaggi! Itgurd può
essere pericolosa, tra un villaggio e l’altro incontrerete deserti
desolati in cui non avrete nessuno a cui chiedere aiuto. Se
viaggerete ogni giorno entro un mese sarete a casa... Buon
viaggio, vi ricorderò per sempre come le amiche più avventurose che abbia mai conosciuto!» esclamò Astrid abbracciandole.
«E tu sei quella più premurosa! Ti scriveremo, te lo prometto» disse Joy ricambiando l’abbraccio.
«Grazie di tutto: per il letto, i vestiti e l’affetto. Ti auguro
tutto il bene del mondo!» disse Jasmine, commossa.
«Trattate bene i miei cavalli, fateli riposare ogni tanto!» esclamò Attilio con un sorriso burbero, comparendo sulla soglia
di casa.
«Lo faremo, può stare tranquillo!» lo rassicurò Jasmine.
«Aspettate, vi siete dimenticate di salutare me!» bofonchiò
Jordan. Il sole alto nel cielo riscaldava il paesaggio intorpidito
dal freddo notturno e la sua luce impedì al ragazzo di continuare a dormire.
«Non volevamo disturbarti! Se Astrid non ha nulla in contrario, vienici a trovare anche tu quando lei verrà in vacanza a
Gwenever. Perché verrai Astrid, vero?».
«Sì, Joy. Mio padre sarà felice di accompagnarmi».
Un groppo in gola le strozzò la voce, Joy la abbracciò per
l’ultima volta, poi il viaggio iniziò.
Cavalcarono tutto il giorno verso il villaggio Zora. Attraversarono un sentiero solitario che solcava una pianura arida e morente, di cui lo sguardo non trovava i confini. Gli
zoccoli dei cavalli battevano ritmicamente sul selciato secco
e caldo, sollevando un polverone rossiccio. Regnava un silenzio tombale come se in quel luogo dimenticato dal mondo
non vi fosse vita nemmeno tra gli arbusti. Si fermarono solo
una volta per mangiare e riposare le gambe. Cercarono una
sorgente dove abbeverare i cavalli ma non c’era traccia di acqua nel raggio di venti chilometri. Anche Apple si sgranchì le
zampine intorpidite e mangiò qualcosa. Il sole che spariva e
ricompariva fra una nuvola e l’altra rendeva l’aria respirabile,
175
non troppo calda né soffocante. Le ragazze si scambiarono
poche parole, la vista della distesa polverosa che ingoiava tutto ciò che avevano intorno le angosciava. Quando il sole di
mezzogiorno si affievolì, ripresero il viaggio. Per ore interminabili il paesaggio fu sempre uguale, statico e monocromatico. Solo in prossimità del villaggio iniziò a comparire un po’
di vegetazione. Il sentiero si inoltrò per una zona più fresca,
disseminata di campi coltivati. In lontananza si vedevano solo
contadini chini sul raccolto e animali che pascolavano. Quando il sole iniziò a tramontare decisero che era ora di fermarsi
per la notte.
«Ho bisogno di un letto, non sento più di avere una schiena»
mugugnò Jasmine.
«Nemmeno io, ma se andiamo avanti solo un altro po’ incontreremo il primo villaggio e passeremo la notte lì».
«Andiamo» acconsentì Jasmine, dopo un lungo sospiro.
La prima locanda che incontrarono si chiamava proprio
“Benvenuti a Sander”.
Era lussuosa e profumata. C’era posto per i cavalli e Joy
poté portare Apple con sé. La stanza che scelsero era spaziosa, illuminata da pareti color oro e lampade in ferro battuto
in ogni anfratto. Era così grande da essere divisa in due da un
pesante tendaggio color porpora. Le ragazze fecero preparare
due vasche di acqua bollente e schiumosa, una per ogni metà
della camera, e rimasero a mollo finché la pelle dei polpastrelli non si rattrappì. Una cameriera aveva lasciato asciugamani
morbidi e colorati sui tavolini accanto alle vasche. Finito il
bagno si vestirono, lavarono le camicie sporche e scesero al
piano di sotto per la cena. La sala era enorme, il soffitto alto
frastagliato dalle luci brillanti di imponenti lampadari.
«Un tavolo per due a nome di Alissa Ninfadora» disse Joy
all’elegante ometto all’ingresso della sala.
«In fondo a destra» rispose lui, guardando con non poco
disgusto i pantaloni maschili e le scarpe impolverate delle due
ospiti.
La cena fu abbondante e squisita. Elegantissimi camerieri
portarono una carrellata di antipasti per tutti i gusti, quattro
tipi di pasta con salse svariate e formaggi speziati, cotolette,
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involtini e carni arrosto, e infine assaggi di torte da mangiare
con gli occhi. Joy e Jasmine si ritirano nella loro stanza tronfie
e appesantite.
«Non toccherò cibo per i prossimi tre giorni» borbottò Jasmine sprofondando nel suo letto.
«Apple, guarda cosa ho per te!» bofonchiò Joy aprendo, sulla moquette grigio-perla, un tovagliolo in cui era nascosta una
fetta di arrosto. Era così piena di cibo che ogni movimento
le risultava lento e impacciato. Finalmente, sfinita, Joy prese
posto sotto le coperte. Dovette mettersi supina perché la sua
pancia sembrava sul punto di esplodere.
La notte su un materasso comodo, fra coperte soffici e pulite, fu splendida. Quando il sole del mattino iniziò a filtrare
dalle tapparelle, Joy ficcò la testa sotto il cuscino, brontolando
come un dinosauro.
«Su, sveglia! Facciamo colazione e andiamo via!» trillò Jasmine, lei era la più mattiniera delle due.
Joy raccolse le sue poche cose sconsolata all’idea di lasciare
quella stanza lussuosa per una vecchia sella di cuoio. Consumarono rapidamente la colazione, pagarono e il viaggio riprese.
Per un tempo indefinito di cui persero anche il conto, passarono così i loro giorni. Cavalcavano fino a quando non vi era
più luce e alla prima locanda che vedevano si fermavano.
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capitolo XVI
Una sera arrivarono a Goran sfinite, ma non trovarono la
solita quiete che di solito abbracciava i villaggi addormentati.
Già in lontananza videro luci artificiali e falò e l’aria era invasa
da musica e grida di festa. Quando entrarono in centro, un
uomo vestito con una calzamaglia blu le fermò sguainando
una spada.
«Non potete entrare con i cavalli! Lasciateli nelle stalle apposite, domani mattina potrete venire a ritirarli».
«Che succede?» chiesero loro.
«Ma da dove venite?! Non conoscete la festa del vino? In
questi giorni, a Goran, c’è gente che viene da tutta Gwenever!
C’è vino a volontà per tutti, spettacoli del circo in ogni piazza e musica ovunque. Pagate sessanta soldi» disse la guardia,
chiudendo Linda e Makaha in un box angusto e maleodorante
e consegnando loro delle chiavi.
«Buon divertimento!» esclamò dopo aver incassato i soldi.
«Buonanotte» lo corresse Joy, distrutta.
Nella prima piazza che incontrarono c’era un enorme falò
al centro, intorno danzava una colorata catena di zingari impegnata a suonare con vistosi tamburelli e a cantare a squarciagola. Agli angoli c’erano enormi cisterne piene di vino a
cui tutti attingevano riempiendo calici e fustini. Joy e Jasmine
attraversarono la folla ringraziando chi offriva loro bicchieri di
vino e cercando di evitare danzatori sfrenati e ubriachi che le
invitavano a ballare. La folla impazzita le distruggeva, dovettero prendersi per mano per non perdersi, confuse, stanche e
disorientate. Apple si dimenava come un’ossessa nella sua portantina, quel fragore la impauriva. La prima locanda che incontrarono aveva sulla porta un cartello scritto a caratteri cubitali
“TUTTO OCCUPATO”. Anche per la seconda e per la terza fu lo
stesso. Stravolte, angosciate e affrante si lasciarono cadere su
un marciapiede, con le schiene distrutte abbandonate contro
un vecchio muro scrostato di una piccola casa silenziosa.
178
«Che succede, ragazze?» chiese qualcuno, era una voce femminile e nasale, con un accento buffo.
«Cerchiamo una locanda che abbia anche solo una coperta
sul pavimento per noi» biascicò Joy, continuando a tenere gli
occhi chiusi.
«Non la troverete, la gente da tutta Gwenever prenota mesi
prima per avere un posto qui!» disse una voce maschile. Le
ragazze a quel punto aprirono gli occhi.
A pochi passi da loro videro una donna giunonica, la cui
maglia fiorata faticava a trattenere le forme esuberanti, aveva
cespugliosi capelli rossicci, un viso allegro e spigoloso. Aveva
sottobraccio due gemelle, due bambine magrissime e lentigginose, con occhi scuri da cerbiatta. Accanto un ragazzo abbronzato e impostato, che teneva per mano una bambina che
gli somigliava, abbronzata come lui e con una massa informe
di capelli ricci color miele. Quando ancora Joy osservava incuriosita tutta quella gente che le sostava davanti, sopraggiunse
un ragazzino roseo con gli stessi capelli color miele della bimba cicciottella.
«Che fine avete fatto?» urlò una ragazza comparendo dal fitto del bosco. Anche lei aveva forme scoppiettanti come quelle
della prima donna, un viso paffuto e capelli lunghi e scuri
quasi quanto quelli di Joy.
«Vieni, Morena. Abbiamo trovato due signorine tristi!»
esclamò la bambina abbronzata.
«Che fine ha fatto Garcia?» chiese il ragazzo che la teneva
per mano.
«Sono qui!» rispose l’ultimo membro del gruppo, che a Joy
sembrò un castoro per le guance gonfie e l’espressione pacifica.
Joy e Jasmine erano stordite da tutta quella confusione.
«Io sono Magda, loro sono le mie figlie Ines e Nives» indicò
le gemelle «lei è mia sorella Morena, lui è mio cugino, Emanuel» indicò il ragazzo abbronzato «... loro sono i suoi fratelli
Lotis» il ragazzino biondo «... e Cora» la terza bambina «...e
lui è Garcia, un amico di Emanuel. Voi chi siete?» chiese la
donna rossiccia.
«Alissa Ninfadora e Rebecca Hild» rispose Joy confusa da
tutti quei nomi e da quelle parentele ingarbugliate.
179
«Emanuel è un mangiafuoco, Garcia il suo aiutante, io domo
serpenti. Facciamo parte della carovana di un circo. Sembrate distrutte, venite con me! Vi farò dormire nella mia tenda»
disse Magda.
Joy e Jasmine disorientate e assonnate accettarono. Astrid
non aveva fatto altro che ripetere continuamente a entrambe
di non accettare nulla dagli sconosciuti, nemmeno un bicchiere d’acqua. Ma il desiderio delle ragazze di riposarsi fu più
forte della precauzione.
Il campo di tende era deserto, come spiegò Magda, tutti
erano in giro per le piazze, mentre loro avevano preferito riposare per partire la mattina dopo. Jasmine e Joy annuivano
senza capire il suo fiume di parole incontrollato, e quando
videro qualcosa che sembrava un materasso con una coperta
ci si buttarono sopra e si addormentarono prima che Magda
potesse invitarle a sdraiarsi. Apple si liberò dalla portantina e
si accoccolò di fianco alla sua padrona.
«Erano stanche» sentenziò Emanuel.
***
Qualcuno sferrava violenti calci alla porta.
Demiro prese un coltello e andò a vedere dallo spioncino
chi fosse.
«È Oscar» bisbigliò incredulo ai suoi compagni, prima di
aprire.
«Siete tornato prima del previsto» disse accogliendolo in
casa.
«Dov’è Frida?» sbraitò il dannato, spalancando la porta e
spingendo Demiro contro un muro.
«Sono qui, che succede?».
La ragazza sopraggiunse dal cucinino, aveva ancora una
brioche in mano e il pigiama, si era svegliata da poco.
«Leggi qui!» urlò infuriato lanciandole contro una pallina di
carta. Frida la srotolò e dovette rileggerla ben due volte prima
di mettere davvero a fuoco.
180
Te lo avevo detto che volevo tornare a casa. Adesso per non dimenticarti più di me avrai un bel lavoro da fare per rimettere tutto in ordine!
Buon viaggio,
Joy Hallet
p.s. Perdonami ma non potevo lasciare qui Jasmine!
«Non ci posso credere...» farfugliò.
«Credici. Quel diavolo che mi hai rifilato ha sedato tutti,
anche me! Ha ferito due dei miei uomini e ha costretto altri
due ad aiutarla a fuggire. Mi ha anche derubato, ha svaligiato
la mia stanza dei veleni e le mie casseforti e ha distrutto la mia
sala da pranzo. E non solo! Si è anche trascinata dietro una
mia dipendente! Come intendi ripagarmi?».
«Io vi posso solo chiedere scusa... e vi prometto che raccoglierò dei soldi per risarcirvi».
Boris e Cesare rimasero a origliare nella stanza accanto, attoniti, non credevano a ciò che Oscar raccontava.
«Cosa? Io devo ripartire subito. Sono dovuto rientrare in
porto per far curare i miei uomini, alcuni sono intossicati e
fuori servizio. Uno è ferito al piede e alla mano, un altro alla
spalla ma ha anche perso dei denti e gli hanno urgentemente
ricucito un labbro. Tu ora vieni con me. E mi dovrai ancora
dei soldi perché non ho perso solo quella stramaledetta Joy,
ma anche un’altra delle mie donne che mi serviva devotamente da anni e lei l’ha portata con sé.
«Io non posso venire con voi...» iniziò a pigolare Frida.
«Sei sicura?» urlò Oscar puntandole un coltello alla gola.
«Così avrai ripagato mezzo debito» aggiunse con un ringhio.
Demiro indietreggiò, non voleva fare la fine di Frida e non
voleva inimicarsi un dannato pericoloso come Oscar, ma fece
un passo di troppo e qualcosa lo colpì alla nuca. Alle sue spalle c’era Cesare con una padella in mano.
«Portatevi anche lui, e il debito sarà pagato!» esclamò Cesare
trascinando il corpo fino ad Oscar.
«Siete pazzi? Aiutatemi!» iniziò a urlare Frida.
181
In quel momento Bolivar entrò in casa. Aveva la spalla fasciata e il viso devastato.
«Me la pagherai» ringhiò a pochi centimetri dal naso di Frida.
«Aiutatemi a portare questi due cretini fino alla macchina e
il debito sarà saldato. Bolivar ammanettali» ordinò Oscar.
Demiro si riprese quando aveva già le manette ai polsi e Bolivar lo buttò giù. Quando il demone nero si rimise in piedi, il
dannato iniziò a seguirlo puntandogli una pistola alla schiena.
In strada c’era un vecchio furgone guidato da Rosmunda, lì
dietro furono spinti Demiro e Frida.
«Siete due maledetti bastardi!» urlarono con tanta rabbia, le
loro voci cariche di odio stridettero come se unghie affilate
scorticassero le loro gole.
«Tornerò. Se ce l’ha fatta quella stramaledetta Joy Hallett,
tornerò anche io e giurò che vi spedirò all’inferno! Vi ci accompagnerò io tenendovi al guinzaglio, cani bastardi che si
ribellano a chi li ha sempre tenuti con sé!».
Mentre Frida vaneggiava invasa dalla rabbia, Demiro si dimenava e urlava come una belva furiosa, ma Oscar interruppe
i loro strepitii sbattendo con vigore lo sportello del furgone.
«Ciao, ciao Frida, buon viaggio! E tu Demiro ti divertirai a
condividere questa bella esperienza con la tua padroncina!» li
schernì Boris.
«Se questo è un altro scherzo vi ci spedisco io all’inferno»
ringhiò Oscar dal finestrino, puntando l’indice contro i due ragazzi liberi, prima che la sua macchina sparisse sgommando.
Cesare tornò su e prese il bigliettino che Frida aveva lasciato
cadere e se lo mise in tasca.
«Romeo non crederà a mezza parola di quello che gli racconteremo» disse Boris, e anche lui stentava a credere che
fosse tutto vero.
In un attimo si erano liberati di quella che per anni era stata
loro amica, confidente e guida e che si era rivelata solo un’arpia invidiosa e vendicativa, pericolosa quanto un virus, e del
suo segugio viscido come il più velenoso dei serpenti.
«Gli daremo il biglietto di Joy, riconoscerà la sua scrittura»
tagliò corto Cesare.
Romeo provava a studiare, ma nascosto fra le pagine del
182
suo libro di geografia c’era un disegnino di Joy, un cuore alato
con dentro le loro iniziali. Non faceva altro che accarezzarlo.
Quando sentì le urla del signor Manlio provenire dal piano di
sotto, scese a vedere. Fuori dalla porta il vecchio uomo, Greta
e Eddy braccavano Boris e Cesare.
«Falli entrare Manlio, sono amici» disse subito Romeo.
«Amici?» strillò Diana alzando gli occhi dal suo libro.
«Oscar è tornato?».
«Sì, e non crederai a quello che ti diremo, intanto tieni questo»
disse Boris con il sorriso più smagliante che gli riuscì, superando la testa di Eddy e allungando una mano verso Romeo.
«È la scrittura di Joy... è scappata dalla nave dei dannati?!».
«Sì, e Oscar stamattina è venuto a prendere Frida come risarcimento, e noi gli abbiamo spedito anche Demiro!» esclamò orgoglioso Boris.
«Cos’ha fatto Joy?» chiese un coro generale, e tutti si accalcarono intorno a Romeo e il bigliettino iniziò a passare di
mano in mano.
«Non ci posso credere» boccheggiò Abigail.
«Come ha fatto?» chiese Greta.
«Non sappiamo i particolari, Oscar era fuori di sé! Ha accennato solo a uomini feriti e altri intossicati...» spiegò velocemente Cesare.
«E ora cosa facciamo?» chiese Romeo riprendendo il biglietto e conservandolo gelosamente.
«Non ci resta che aspettarla» risposero all’unisono Boris e
Cesare facendo spallucce.
***
Magda entrò nella tenda cantando. La prima cosa che Joy
fece quando si svegliò, fu controllare se avesse ancora le chiavi in tasca per andare a prendere i cavalli. Le chiavi c’erano.
Intorno a lei regnava il caos. C’era gente che entrava e usciva continuamente vestita in modo bizzarro con tute colorate
e sgargianti, ignorando la sua presenza. Non c’erano mobili
ma solo coperte e buste accatastate confusamente e brandine
183
ovunque, su una di queste erano appollaiate Ines e Nives intente a torturare Apple.
Il canto sregolato e acuto di Magda turbò anche Jasmine che
provò prima a tapparsi le orecchie, poi dovette arrendersi.
«Buongiorno» gracchiò, frenando l’istinto di strozzare Magda.
«BeeEen sveeEeEegliaaAteee!».
«Tappale la bocca» ringhiò Jasmine, avvicinandosi all’orecchio dell’amica.
«Grazie! E soprattutto grazie per averci ospitato, ti dobbiamo dei soldi?» chiese invece Joy.
«Magari un caffè!» rispose prontamente Emanuel, entrando
in quel momento.
«Be’, andiamo... ho bisogno di mangiare qualcosa» disse Joy.
«Veniamo anche noi!» esclamarono Lotis e Cora.
«Certo, quando si parla di cibo voi non potete tirarvi indietro» commentò acida Morena.
«Ci sono i nostri cavalli da prendere!» ricordò Jasmine.
«Mangio qualcosa e andiamo a prenderli, poi ripartiamo subito».
«Dove siete dirette?» chiese Magda.
«A Gwenever, la città».
«Noi dobbiamo andare nella città vicina, se volete possiamo
partire insieme. Ci vogliono due settimane di viaggio».
«Grazie Magda, ci faresti un grosso favore».
«Aspettami, Alissa. Vengo anche io a fare colazione» disse
Jasmine infilandosi una giacca e scendendo giù dal letto improvvisato.
Le ragazze e i tre fratelli raggiunsero una locanda non lontana dall’accampamento, presero posto e subito una cameriera
con il viso stravolto e solcato da profonde occhiaie violacee si
avvicinò con un block notes fra le mani.
«Che vi porto?» biascicò, tra uno sbadiglio e l’altro.
«Due caffè, tre cappuccini e biscotti per tutti» ordinò Emanuel.
La sala era deserta, c’era solo un vecchio addormentato con
la faccia sul tavolo. La cameriera tornò quasi subito e servì i
caffè e i cappuccini, al centro del tavolo mise un vassoio con
biscotti di varie forme e gusti.
184
Quando le tazze furono vuote e nel vassoio erano rimaste
solo briciole, Garcia entrò nella locanda. Era il più silenzioso
del gruppo, anzi, l’unico visto che gli altri non finivano mai
di parlare. Si sedette vicino a Jasmine, e Joy notò che non le
toglieva gli occhi di dosso.
«Vuoi qualcosa, Garcia? Tanto offre Alissa!» esclamò Emanuel ridendo.
«No, grazie. Mi farò offrire un pranzo più tardi».
Quando la cameriera portò il conto, Emanuel, con un gesto
rapidissimo, mise i soldi sul tavolo.
«Abbiamo stabilito che avrei offerto io!» obiettò Joy.
«Scherzavo».
Tornati al campo, Magda portò Jasmine e Joy in una tenda
meno affollata e caotica delle altre, le aiutò a riempire delle vasche con acqua riscaldata sul fuoco e le lasciò fare un bagno.
«Fate presto, la carovana riparte fra poche ore».
Quando furono pronte, indossarono vestiti puliti e andarono a riprendere i cavalli.
Linda e Makaha furono felici di rivedere le loro padrone
e di potersi sgranchire le zampe. Joy e Jasmine li lasciarono
trottare un po’ in libertà, prima di tornare al campo. Le strade
semivuote erano invase da bicchieri vuoti e scheletri di falò,
rimasugli della festa finita poche ore prima. Il sole alto nel cielo intristiva quel panorama sporco e desolato, per un attimo a
Joy sembrò di camminare in una città fantasma.
«Siamo pronti!» urlò Lotis vedendole arrivare. Anche loro
erano a cavallo. Le bambine erano divise: Cora con Emanuel,
Ines con Magda e Nives si innamorò del cavallo di Joy e salì
con lei.
«È bellissimo Makaha!» esclamò accarezzandolo.
Nives aveva le guance arrossate dal freddo mattutino e ciglia
foltissime e nere.
«Nives, sali con Morena!» la richiamò Magda.
«Ma mamma...».
«Puoi lasciarla con me, non è un problema».
I circensi erano seguiti da due muli su cui avevano caricato
delle tende per la notte.
«Ci sono delle regole da seguire durante il viaggio: ci si fer185
ma solo per motivi di salute gravi, si dorme in tenda tutti insieme, si va in bagno solo tre volte al giorno» chiarì perentoria
Magda.
«Accetto tutto, basta che mi porti al più presto possibile a
casa!» implorò Joy.
«Andiamo».
Nives era una chiacchierona, ma era divertente. Ascoltare
la sua vocina squillante rallegrava Joy e faceva passare le giornate più velocemente. Lei e Lotis bisticciavano di continuo e
si stuzzicavano a vicenda, Emanuel e Magda intervenivano
sempre per dividerli ma erano tutti sforzi inutili. Lotis era un
sapientone, sembrava uno che aveva passato la vita a leggere
di tutto di più e non uno che girovaga per le piazze di tutta
Gwenever. Qualche cavallo più avanti Ines, invece, pungente
come un’ortica infastidiva continuamente Cora, scherzando
sulla sua pancetta strabordante. Morena era abbastanza silenziosa ma non quanto Garcia che trottava al fianco di Linda
cercando di attaccare discorso con Jasmine, ma non trovando
mai niente di divertente da dire. La più loquace di tutti era
Magda. O cantava, o raccontava del padre delle sue bambine e
dei suoi mille amanti o dei suoi spettacoli con serpenti e tigri.
Le notti in tenda erano fredde. Di solito Emanuel e Garcia
accendevano dei falò per riscaldare l’aria e Joy pensava sempre alle sue comode notti nelle stanze delle locande.
Una sera Magda decise di cuocere delle salsicce e tutti si
riunirono intorno al fuoco.
«Manca meno di una settimana e sarete a casa, tu Alissa sei
molto impaziente!» esclamò Magda.
«Mi mancano i miei amici, non ho più avuto loro notizie... e
soprattutto mi manca Romeo».
Jasmine era incantata a guardare il fuoco zampillare quando
qualcuno le toccò timidamente una spalla.
«Ci facciamo un giro?».
Era Garcia. La fissava con i suoi occhietti scuri e sorrideva.
«Certo».
Quando Joy vide che si allontanavano ridacchiò fra sé, aveva
la conferma che Garcia non aveva mai tolto gli occhi di dosso
a Jasmine, anche se lei negava.
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«Be’... allora fra poco ci separeremo, mi ha fatto piacere conoscerti» iniziò Garcia, impacciato.
«Anche a me».
«Se vuoi potrei venirti a trovare».
«Oh, sì, è un’idea carina».
Jasmine era rossa dalla vergogna e imbarazzata. Non sapeva nemmeno dire quanto tempo era passato dall’ultima volta
che un ragazzo l’aveva guardata così. Gli occhi di Garcia la
accarezzavano amabilmente e lei si sentiva cullata da quella
dolcezza.
«Senti, Rebecca, sarò esplicito. Tu mi piaci troppo, sei stupenda...».
Jasmine si sentì svenire. Il tipo di uomo con cui aveva convissuto fino a quel momento era un bruto dannato, ora si
trovava davanti un ragazzo, che Joy chiamava “faccia di castoro”, ma che a lei sembrava meraviglioso. Le sue rapide riflessioni le fecero dimenticare che avrebbe dovuto dire qualcosa,
o almeno accennare un sorriso. Garcia attese un cenno o una
parola con il cuore che gli martellava nel petto e quando sentì
la tensione che gli esplodeva dentro non resistette, abbracciò
Jasmine e la baciò proprio come sognava di fare dalla prima
volta in cui l’aveva vista.
«Questo è il momento più bello della mia vita da tempo,
peccato che fra meno di una settimana ci separeremo...» sussurrò Jasmine, quando le loro labbra si separarono.
«No, se tu non vuoi. Per te sono disposto a lasciare il gruppo».
«Ma mi conosci da pochissimo tempo!».
«Non importa, se le cose non dovessero andare come penso, prenderò il mio cavallo e farò marcia indietro».
Tre paia di occhi indiscreti si nascondevano dietro un cespuglio, acquattati per spiare Garcia e Jasmine. Quando Ines
scoppiò a ridere dovettero uscire allo scoperto.
«Che volete voi?» chiese Garcia, con aria burbera.
«È pronta la cena!» squittì Nives.
«Arriviamo».
Quando le bambine furono lontane, Jasmine prese Garcia
da un braccio.
187
«C’è una cosa che devo dirti, se mi prometti che manterrai il
segreto finché non saremo al sicuro a Gwenever».
«Certo».
«Il mio vero nome è Jasmine Nahid, ma prima di scappare io e Alissa, che in realtà si chiama Joy, ci siamo procurate
dei documenti falsi, per evitare che i nostri nomi rimanessero
scritti nei registri delle locande e che i dannati potessero rintracciarci».
«Geniale! Ok, continuerò a chiamarti Rebecca finché non
saremo a casa tua».
«E c’è anche un’altra cosa che devo dirti, non esiste una mia
casa. Joy ha detto che mi ospiterà lei, io non metto piede sulla
terra ferma da secoli... sono sola. Da pochi mesi ho Joy e ora
anche te. Ma quando sarà tutto finito, sono sicura che troveremo un posto anche per te».
Le salsicce di Magda erano bruciacchiate o poco cotte, cucinare non era affatto la sua specialità.
Joy, per non pensare al suo stomaco affamato che si contorceva, si distrasse con la cartina. Osservando e studiando la
strada che Astrid le aveva segnato, si ricordò che non le aveva
scritto nemmeno una volta. Quando Magda si distrasse, buttò
la sua salsiccia fra i cespugli ed entrò nella sua tenda. Fra le
sue cose trovò un foglio stropicciato e una matita, ci penso su
un po’ e poi scrisse:
Cara Astrid,
fra meno di una settimana sarò a casa.
Non mi sembra vero! Ho una percezione dilatata e amorfa del tempo,
mi sembra di essere in un limbo perenne tra sogno e realtà. Se ripenso a
tutto quello che ho fatto in questi mesi, mi sembra di rivedere foto di una
vita che non mi appartiene... devo ancora elaborare tutto!
Il viaggio è faticoso, mangio poco e mi lavo ancora meno...
Ora, per fortuna, abbiamo incontrato un gruppo di zingari circensi
che vanno verso una città vicino Gwenever, e ci siamo unite a loro per
non viaggiare sole. Per Jasmine è stato un vero toccasana! Un ragazzo
della carovana è innamorato di lei, che sembra ricambiare! Sono davvero
carini insieme... quando li vedo mi viene sempre in mente Romeo... chissà
se mi aspetterà. E quando penso a Romeo, subito dopo penso anche a
188
Giona, chissà se fra noi tornerà tutto come prima... a volte l’idea di tornare senza preavviso mi spaventa, ho paura di quello che potrei trovare.
Magari Romeo sta con un’altra, o Giona sta meglio senza di me, o le
mie amiche hanno cambiato casa... Comunque, cerco di essere positiva. I
miei nuovi compagni di viaggio sono davvero simpatici, credo di essermi
già affezionata a loro. Ti scriverò quando sarò a casa, seduta alla mia
scrivania. Ti porterò per sempre nel cuore,
Joy
Il giorno dopo Joy si svegliò prima degli altri per andare
a comprare una busta e un francobollo e spedire la lettera.
Quando tornò all’accampamento erano tutti pronti. Jasmine
aveva l’aria sognante e Garcia non la perdeva di vista. Il viaggio riprese. Le bambine iniziavano a perdere la loro allegria
sopraffatte dalla stanchezza, e Lotis era ogni giorno meno loquace e più magro. Emanuel non sopportava più gli interminabili fiumi di parole di Magda, la più resistente di tutti, l’unica
che non perdeva mai la voglia di parlare. Ogni giorno c’era un
nuovo uomo di cui raccontare qualcosa. Morena ridacchiava
vedendo la faccia del cugino sempre più nervosa.
«Ehi, Lotis. Sei molto più magro di quando siamo partiti,
stai benissimo così!» esclamò Joy, sperando di dirottare con
quella osservazione il monologo di Magda.
«Grazie» riuscì a sillabare Lotis, ma poi la voce di Magda
lo investì. Il tentativo era miseramente fallito. Lentamente i
cavalli si allontanarono da Magda isolandola, finché anche lei
non si stancò di sentire la propria voce e rimase zitta per un
bel po’ di tempo. Quando arrivò l’ora del pranzo, il gruppo di
gitani si rese conto che le provviste erano finite.
«Dobbiamo fare qualcosa!» esordì Morena.
«Raggiungiamo il villaggio più vicino, stasera si balla!» esclamò Cora raggiante.
Magda era strafelice, senza aspettare altre proposte aprì una
borsa di iuta che portava sempre in spalla e iniziò a tirare fuori
teli colorati e foulard di ogni dimensione.
«Su, su ripassiamo le nostre danze».
189
«Aspettate, io ho molti soldi, ci basteranno! Non è necessario fermarci!» disse subito Joy.
Tutti risero.
«Grazie, Ninfadora. Ma siamo gitani! Viviamo così» rispose
dolcemente Magda.
Jasmine e Joy capirono che era il momento di farsi da parte
e si sedettero sotto l’albero più vicino.
«Che fate lì sotto voi due?» le richiamò Garcia.
«Vi guardiamo!» ribatté Jasmine.
«No, no, no! Ora fate parte della famiglia, quindi stasera
danzerete con noi» tagliò corto Nives.
La faccia di Joy era sconvolta, le mancava poco per impallidire.
«Ho la grazia di un tronco! Se ballassi io scapperebbero tutti...» si giustificò indietreggiando, quando Emanuel avanzò
verso di lei con aria divertita.
«Non puoi rifiutare!» disse perentoria Magda.
Emanuel afferrò Joy da un polso e la trascinò a forza fino
alla borsa di iuta, ridendo divertito le legò intorno al collo un
foulard blu notte e un telo arancione e rossiccio intorno alla
vita.
«Orribile!» commentò Ines.
«Concordo! Ragazze prendete la borsa e andate a cambiarvi, possibilmente ignorando i consigli di Emanuel!» esclamò
Lotis ridacchiando.
In Joy si agitavano un misto di rabbia e imbarazzo, si lasciò
il foulard blu, si sfilò i pantaloni e indossò un telo blu e argentato a mo’ di gonna.
«Guarda che belli questi bracciali!» esclamò Jasmine, infilandogliene tre a forza. Erano tutti dorati e tintinnanti.
«Dai, Jas... sembrerò una cretina! Che figura...».
«Ma che dici?! E anche se fosse, la gente che ci vedrà stasera
non ci vedrà mai più, nessuno penserà a noi!».
Jasmine scelse veli e foulard dai toni caldi, quando furono
pronte raggiunsero gli altri.
«Si balla a piedi nudi!» disse subito Magda.
«Oh, no...» mugugnò Joy, sfilandosi gli stivali e lanciandoli
contro un albero.
190
I tre ragazzi presero posto per iniziare a suonare. Lotis ed
Emanuel alla chitarra, Garcia al flauto. Ogni ragazza invece
aveva un tamburello, Magda e le bambine cantavano.
«È facile, seguiteci!» esclamò Morena.
Nell’aria calda del mezzogiorno, sul terriccio arido e polveroso iniziò una danza colorata fatta di musica argentina, colori
accesi e voci allegre.
Joy fu coinvolta in un turbinio di colori e forme create dalle
mani e dai foulard, rimase stordita per un po’ finché Jasmine
non la afferrò da un braccio e la costrinse a muoversi con lei.
Ballarono fino al crepuscolo poi si rimisero a cavallo e raggiunsero Dubiz, il villaggio più vicino. Quando per le strade
non c’era nessuno, perché tutti erano impegnati a cenare nelle
case e nelle locande, i gitani allestirono il loro scenario. Le
bambine furono attente a sistemare ampi cappelli vicini alle
postazioni dei ragazzi, lì avrebbero raccolto i soldi per continuare il viaggio. Quando le strade iniziarono a popolarsi di
nuovo, i gitani iniziarono il loro spettacolo. La parlantina inarrestabile di Magda e i visi dolci e accattivanti delle bambine,
erano perfetti per accalappiare spettatori. Emanuel aveva ritagliato uno spazio della piazza per loro, circoscrivendolo con
un semicerchio di piccoli falò che illuminavano e riscaldavano
l’aria stanca della sera. Una piccola folla iniziò a raccogliersi intorno alle danzatrici, Joy sudava, le tremavano le mani,
temeva di scivolare da un momento all’altro e si sforzava di
schiudere le mascelle in un sorriso accogliente. Monete di vario calibro iniziarono a tintinnare nei cappelli. La gente era
incuriosita e ammaliata da quella musica vistosa che trillava e
agitava sinuosamente i corpi delle zingare, lo spettacolo durò
fino a notte fonda ripetendo pezzi già fatti e inventandone di
nuovi. Quando finalmente Dubiz si addormentò, Joy si lasciò
cadere distrutta nella sua brandina. Distrutta, ma divertita e
soddisfatta.
Le ultime tre notti di viaggio furono le più distruttive. L’idea
della fine del viaggio, di una casa e di un letto rendevano impossibile dormire in quelle tende umide e fredde, e soprattutto il pensiero di rivedere Romeo teneva Joy sveglia a fantasti191
care, a immaginare cosa dirgli e cosa lui le avrebbe risposto.
Pensava anche a Giona, e quando pensava a lui era ancora
più triste. L’ultima volta che si erano visti non aveva voluto
saperne di lei che invece gli voleva ancora bene. Jasmine e
Garcia, invece, non sembravano affrontare lo stesso viaggio
sfiancante e infinito degli altri, sembrava che loro fossero in
crociera o in un week-end organizzato per San Valentino. La
notte rientravano per ultimi, ridacchiavano e arrossivano di
continuo e cavalcavano sempre in disparte. Joy si sentiva più
vicina a Nives e Lotis che trottavano sempre al suo fianco,
piuttosto che alla sua amica che lentamente si allontanava da
lei, travolta da quell’amore fresco e inaspettato.
L’ultimo giorno di viaggio fu il peggiore.
«... poi quando Camilo scoprì che sarei partita è andato su
tutte le furie, ma per fortuna che sono partita perché in viaggio ho conosciuto Carlito e così ho avuto le mie bambine,
solo che Carlito... be’... non era proprio quello che si può definire un lavoratore onesto...».
«Magda, ora basta!» strillò Emanuel.
«Ma Alissa e Rebecca mi stanno ascoltando!».
Jasmine trasalì interrompendo bruscamente il suo cicaleccio
sdolcinato con Garcia, che riprese subito dopo.
«Rebecca è intenta a bisbigliare con Garcia, mentre Ninfadora ha la faccia di chi si butterebbe da un ponte, pur di non
sentirti più».
«Che cugino antipatico che sei! Ninfadora affiancati a me,
continuiamo da sole i nostri discorsi da donne...».
La bocca di Joy si spalancò in un urlo di silenziosa disperazione ma si schiuse in un sorriso quando Magda si girò a farle
l’occhiolino.
«Scusami, Magda, ma io avrei un po’ di mal di testa...» disse
Joy e con un sorriso si lanciò al seguito di Emanuel, Cora e
Lotis che avevano preso il largo e cavalcavano più veloce degli
altri, per riposare le orecchie fumanti.
«Grazie, Joy!» squittì Nives ridendo come una matta, quando furono abbastanza lontane dalla sua bizzarra madre.
«Di niente, piccola!».
192
«La mamma parla troppo» le sussurrò all’orecchio.
«Ehm... sì, me ne sono accorta».
Il tramonto arrivò presto ma Joy non voleva fermarsi. Tutti
scesero da cavallo e si sgranchirono le gambe, accesero un
falò e si sedettero per mangiare qualcosa. Joy prese un panino
duro e iniziò a masticare nervosamente. Non voleva fermarsi.
Sentì le lacrime inquiete agitarsi fra le ciglia poi si fece coraggio e pregò tutti di continuare. Non vedeva altro che Romeo
davanti a sé, avrebbe bussato alla sua porta a qualunque ora
della notte.
«Se ci riposiamo e partiamo domani mattina presto, arriverai
in pochissimo tempo, te lo assicuro» disse Emanuel.
«No, io vado. Non ce la faccio ad aspettare» disse Joy, sentendo una lacrima rigarle il viso.
«Per me possiamo continuare» disse Morena.
«Anche per me» si aggiunse Lotis.
«Ragazzi, io non vi ho detto una cosa» iniziò Garcia, tutti gli
occhi si puntarono su di lui.
«Non proseguirò con voi fino a Eichiro, ma mi fermerò a
Gwenever con Rebecca».
Tutti strabuzzarono gli occhi.
«E quando volevi dircelo?» chiese Magda. Sembrava abbastanza adirata, teneva molto alla compattezza del gruppo.
«Non sapevo come introdurre il discorso».
«Non vi sembra una scelta affrettata?» chiese Emanuel.
«Sì, ma che senso avrebbe non vederci più? Se non dovesse
andare bene, Garcia tornerà con voi, ma almeno non avremo
il rimorso di non averci provato» rispose Jasmine.
Magda non amava chi abbandonava il gruppo ma, alla fine,
lei che tanto parlava di amore non poté obiettare.
«Ok, ci separeremo... adesso riprendiamo la marcia» accordò con un sospiro.
Il viaggio continuò, la strada ormai era poca.
«Ci siamo quasi» disse Magda, sporgendosi da cavallo per
accarezzare dolcemente Joy.
«Grazie di tutto. Per la compagnia, per l’ospitalità e per
l’amicizia».
193
Il cartello “Benvenuti a Gwenever”, sembrò a Joy un miraggio. Ma era vero. Quando lo raggiunse non si trattenne e
scoppiò a piangere.
Le sembrò quasi un’opera d’arte di magnifiche fattezze. Era
blu notte, enorme, alto almeno tre metri, inciso da eleganti
lettere argentate.
«Buon rientro a casa, Ninfadora. Tieni il mio bracciale,
quando lo guarderai penserai a noi e a questo viaggio» disse
Magda abbracciandola e agganciandole al polso un filino di
oro e stoffa colorata come le sue gonne. La zingara ne portava
uno uguale.
«Grazie di tutto, siete stati dei buoni amici» disse Joy abbracciando tutti, soprattutto Nives e Lotis che le erano stati
vicini ogni giorno. Garcia teneva lo sguardo basso, si sentiva
quasi un traditore, ma quando Emanuel lo abbracciò promettendogli che si sarebbero rivisti, sorrise sapendo che il suo
amico accettava e capiva che la sua scelta non si trattava di un
semplice capriccio.
«Ci rivedremo?» chiese Nives.
«Certo, piccola. Sapete dove abito, spero di poter ballare
con voi qualche volta nelle piazze della mia città» disse Joy
prendendola in braccio e baciandola sui capelli.
«A presto, Ninfadora. Ricordati di noi» disse Lotis, salutandola. Anche Jasmine salutò tutti, poi le ragazze si allontanarono di qualche passo per lasciare che Garcia desse l’addio alla
sua famiglia.
La notte era scesa avvolgendo tutto nel suo silenzioso buio.
Le stelle erano rade e la luna offuscata da nubi lanose e scure.
Con il cuore che le martellava nel petto, la bocca asciutta, i
muscoli tesi e gli occhi lucidi, Joy Hallett rientrò a Gwenever.
194
capitolo XVII
Un rumore di zoccoli infranse la quiete notturna di Gwenever, Giona si svegliò e corse alla finestra. Alla luce fioca della
luna distinse tre cavalli che galoppavano verso il cimitero di
Belit.
«Leo, sveglia!».
Leo ronfava e lo ignorò. I cavalli venivano proprio verso la
loro casa, diretti e veloci. A pochi metri dal cancello bianco
si fermarono. Giona rimase a spiarli. Qualcuno, una donna,
scese dal suo animale e si arrampicò al cancello per scavalcarlo. Era agile e longilinea, per un attimo Giona ebbe paura che
fosse Frida, poi riconobbe una sagoma sinuosa e familiare. I
battiti del suo cuore presero la rincorsa e iniziò a correre verso di lei. A metà strada si incontrarono.
«Sei tornata! Scusami, Joy. Sono stato un vero cretino a trattarti in quel modo, mi sei mancata, ti ho pensata sempre e ti
voglio bene» disse Giona, tutto d’un fiato, stringendola in un
abbraccio caldo e desiderato. La strinse più forte che poté,
come per sincerarsi che Joy fosse davvero tornata a casa.
«Anche io ti ho pensato Giona, e mi sei mancato anche tu.
Spero che ora tutto torni come prima».
«Stai bene?» chiese spostandole i capelli appiccicaticci dal
viso e accarezzandola.
«Mai stata meglio».
Rimasero avvinghiati a lungo e più rimanevano abbracciati, più dei loro litigi restavano solo ricordi confusi e sfocati.
Dopo qualche minuto fuori dal tempo, Jasmine e Garcia decisero di scavalcare e raggiungerli. Quando Joy si accorse della
loro presenza si staccò dall’amico, si schiarì la voce e iniziò le
presentazioni.
«Ho portato due amici, Jasmine è stata una mia compagna
sulla nave... senza di lei non sarei riuscita a scappare! E Garcia
lo abbiamo conosciuto a Itgurd, vivranno qui se Belit vorrà.
Lui invece è Giona» spiegò Joy.
195
«Sei proprio come Joy ti ha descritto, non ha tralasciato nulla! Ero davvero curiosa di conoscere questo suo amico speciale!» esclamò Jasmine, e una cortina di imbarazzo ingenuo
spruzzò di rosso le guance di Joy e Giona.
«JOYYYYYY!» l’urlo gioioso di Ortensia svegliò tutti. Esuberante e frizzante come champagne anche in piena notte,
Ortensia le corse incontro con tanta forza da scaraventarla
sull’erba. Le ragazze si abbracciarono e si strinsero e si toccarono finché non si resero conto che era tutto vero, Joy era
a casa. Pochi minuti dopo Belit, Berta, Ettore e Leo erano lì
intorno a lei ad abbracciarla, accarezzarla e baciarla.
«Come hai fatto a scappare?» chiese Ettore.
«È una storia lunga e ora che ci penso è anche divertente».
«Romeo ci ha portato il biglietto che hai lasciato a Oscar,
non sai che paura abbiamo avuto per te» disse Belit.
«Quanto sei sciupata, Joy! Ti faccio un panino?» chiese premurosamente Leo, accarezzandole i capelli, come amava fare.
Dopo un bel po’, tutti si resero conto della presenza dei due
nuovi arrivati.
«Loro sono i miei amici, se per voi va bene resteranno
qui!».
«Certo che va bene, io sono Belit, benvenuti».
«Joy mi ha parlato tanto di voi!» esclamò Jasmine abbracciandoli tutti. Le loro facce affettuose ed emozionate, e la luce
dorata che usciva sottile dalla porta alle loro spalle, la riempì
di un tepore dolce, del profumo scalda cuore e amabile che si
sente quando si è a casa.
«Io sono Garcia. Spero di non essere di troppo e scusate
questa interruzione notturna, ma Joy non voleva più aspettare».
«Nemmeno noi!» esclamò Berta stringendola a sé e mordicchiandole una guancia come faceva sempre.
Quando Joy entrò in casa salutò Queeny e si diresse nella
sua stanza per liberare Apple. Ma con stupore vide che qualcosa era cambiato.
«Il tuo letto è accanto al mio, ma se vuoi lo riporto qui» disse
una voce che avrebbe riconosciuto fra mille, alle sue spalle.
Giona le sorrideva e aspettava una risposta.
196
«No, se per Leo va bene da oggi in poi rimarrò a dormire
da voi...».
Accanto al letto di Giona, la aspettava il suo letto ordinato
e candido. Appoggiati al cuscino c’erano i suoi peluches, sul
comodino i suoi libri, i suoi dadi e la foto che Greta aveva
scattato a lei e Romeo. Sfiorò il suo viso di carta e filò in bagno. Doveva assolutamente correre da lui.
«Non vuoi mangiare?» chiese Leo, inseguendola con un panino sciabordante di condimenti improponibili.
«Non adesso, devo fare un bagno e mettere dei vestiti puliti!
Lascialo in cucina, grazie!».
Leo fece spallucce e, sperando che nessuno lo guardasse,
addentò il suo strepitoso panino, coprì la parte mancante con
un tovagliolo e lo lasciò in cucina.
«Ettore, porta dentro le valigie dei ragazzi, sembrano davvero stravolti! A voi penso io, vi va una zuppa calda?» chiese Belit, invitando Jasmine e Garcia ad accomodarsi su un divano.
«Non vorremmo disturbare» disse titubante Jasmine.
«Non disturbate, da oggi siete ufficialmente membri di questa
famiglia!» esclamò la vecchia signora mettendosi ai fornelli.
Berta si prese cura di Apple, la liberò e le massaggiò le zampette intorpidite, poi rubò la ciotola di Queeny per farla bere
e le scaldò qualche polpetta. A far entrare i cavalli e farli bere
pensò Ortensia.
Intanto Joy era immersa nella vasca da bagno colma di acqua bollente e profumata, si lavò i capelli e si massaggiò le
gambe stanche. Sarebbe voluta rimanere più a lungo lì, a far
riposare i muscoli tesi, ma la voglia di Romeo le diede la forza
di uscire. Mise un paio di jeans, l’indumento che le era mancato di più, e una vecchia felpa. Aveva ancora i capelli umidi
ma non le importava. Ignorando Belit che le ricordava l’orario
tardo e la stanchezza che la abbatteva si fiondò fuori casa e
iniziò a correre.
I suoi piedi volavano sull’asfalto e in pochi minuti arrivò
trafelata sotto casa di Romeo e iniziò a bussare sperando che
qualcuno si svegliasse. Le aprì Abigail. Quando la vide si stropicciò gli occhi assonnati più volte, prima di mettere a fuoco.
197
«Abby, sono io!» esclamò Joy, buttandole le braccia al collo.
«Non ci posso credere!».
«Fa’ piano, voglio fare una sorpresa a Romeo».
«Chi è?» pigolò Diana assonnata.
La faccia felice di Joy fece capolino dalla porta con un indice
premuto sulle labbra schiuse.
Diana strabuzzò gli occhi, buttò all’aria il libro che stava
leggendo e le corse incontro riempiendola di baci.
«Ce l’hai fatta! Come stai? Devi raccontarmi tutto!» esclamò.
«Io sto bene, adesso. Voi?» chiese Joy, ricambiando l’abbraccio.
«Ora che sei tornata stiamo tutti bene! Ti abbiamo pensata
ogni giorno, ma non sapevamo che fare, eravamo davvero impotenti...» disse Abby.
«Lo so» disse Joy, arginando il fiume di scuse dell’amica, e
abbracciandola di nuovo.
Il trambusto svegliò Greta. Confusa, curiosa e stupita si alzò
dal letto, tastò il pavimento con i piedi nudi alla ricerca delle
pantofole e ciabattò corrucciata fino al salotto. Quando scorse una chioma nera tra le teste di Diana e Abigail, aguzzò la
vista, e la chioma c’era davvero.
«Ehi» biascicò fra uno sbadiglio e l’altro, in cerca di spiegazioni. Le ragazze si accorsero di lei, e il viso allegro di Joy le
rivolse un sorriso raggiante.
Greta era attonita, il suo cuore perse un colpo. Dopo l’ammutolimento iniziale lanciò un gridolino di gioia e si lanciò
sull’amica ritrovata.
«Non ci credo! Non ci credo!» farfugliò soffocando Joy con
un abbraccio da pitone.
«Mi sei mancata tantissimo, Greta».
«Anche tu, non immagini quanto. Ti lascio, immagino che
non vedi l’ora di vedere Romeo».
Solo sentire quel nome le portò le lacrime agli occhi, Joy
tirò su col naso e cercò di non scoppiare a piangere, ma era
difficile. Stava per rivederlo. Il viso che aveva popolato i suoi
sogni tristi era a pochi metri da lei, solo qualche passo e una
parete a separarli.
198
«Sono emozionata, come non lo sono mai stata in vita mia.
Sento i brividi lungo la schiena e le braccia. La testa un po’ mi
gira e vorrei dire mille cose ma non trovo le parole per nessuna di queste» sussurrò, prima di entrare nella camera di colui
che aveva desiderato continuamente.
Romeo dormiva profondamente, Joy rimase immobile a
guardarlo prima di avvicinarsi. Era malinconico e perfetto,
come lo ricordava. Bello come un re, fragile come un bambino sbadato. Aveva la sua sciarpa rosa avvolta a un braccio.
Un raggio d’argento filtrava dalla finestra e ripercorreva i suoi
tratti, gli occhi chiusi e le sue ciglia lunghe e curvate. Joy si
avvicinò al letto con passi lenti e cauti, si sedette e iniziò ad
accarezzarlo. Passò le mani fra i suoi capelli neri e folti, se li
lasciò scivolare, setosi, fra le dita e sentì tutto l’amore che provava per lui rifiorirle nel petto, impetuoso e vigoroso, esplodere come una bolla e uscire dai suoi occhi dolci, come una
lacrima calda.
«Ciao amore, sono a casa» bisbigliò chinandosi a baciarlo.
Quelle labbra morbide le erano mancate, le aveva sognate
e ricordate in ogni momento. Romeo, che ancora non era del
tutto sveglio, allungò una mano, le toccò i capelli, il viso e il
collo. La riconobbe e la tirò a sé. Joy si levò le scarpe e si infilò
sotto le coperte.
«Ciao amore, sapevo che saresti tornata» biascicò lui, aprendo un occhio. L’altro era schiacciato sul cuscino.
«Io sapevo che mi avresti aspettata».
Romeo si lasciò baciare, si tenne stretto ai suoi fianchi morbidi e non la lasciò mai più andare via.
***
Cara Astrid,
sono a casa. Ho ritrovato tutto esattamente come lo avevo lasciato.
Anzi, una cosa è cambiata... adesso il mio letto è nella stanza di Giona.
Ti sarà facile capire cosa è successo: abbiamo fatto pace!
In questi mesi ho temuto di poter perdere Romeo, di non trovare più
199
il ragazzo che avevo lasciato. Al mio ritorno, invece, l’ho trovato addormentato con la mia sciarpa fra le mani. Mi aspettava. Ho dormito con
lui e ci siamo risvegliati insieme. Non mi ha mai dimenticata, sapeva
che sarei tornata soprattutto per lui. Se non fossi stata via non avrei mai
capito quanto può mancarmi, quanto possa farmi male la sua assenza
e quanto i nostri cuori riescano a parlare senza che le nostre bocche proferiscano parola. Adesso ho mille cose da fare, sono rimasta indietro con
le lezioni del campus e devo darmi una mossa se voglio passare l’anno!
Sai una cosa fantastica? Al posto mio e di Jasmine, sulla nave di Oscar
ci sono Frida e Demiro! Oscar aveva bisogno di un risarcimento per i
danni subiti, così Boris e Cesare hanno pensato bene di sbarazzarsi di
quei due. Ti scriverò presto, e verrò a trovarti con Romeo!
Aspetto tue notizie, con tutto l’amore del mondo.
Joy Hallett
200
Ringraziamenti
Grazie a mia madre, a nonna Racconta e alle storie che ogni
giorno inventavano per me. A mio padre che mi ha trasmesso
la passione per i libri e a Denise che ha assistito alla nascita e
alla crescita dei miei personaggi accompagnandomi in questo
viaggio. Infine grazie a Roberta con cui ho passato l’infanzia a
disegnare e immaginare milioni di mondi fantastici.
201
Indice
Gwenever
Il bacio eterno
13
28
35
47
55
63
74
81
86
105
110
119
127
150
158
178
195
capitolo I
capitolo II
capitolo III
capitolo IV
capitolo V
capitolo VI
capitolo VII
capitolo VIII
capitolo IX
capitolo X
capitolo XI
capitolo XII
capitolo XIII
capitolo XIV
capitolo XV
capitolo XVI
capitolo XVII
201
Ringraziamenti