603-616 Caronia - Edizioni Studium

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603-616 Caronia - Edizioni Studium
LA CRITICA
Belli, Manzoni e
il sentimento religioso
di Sabino Caronia
Scrive Pietro Paolo Trompeo in Perpetua a Roma: «Il Belli mirava
al sodo e per lui il sodo era la superiore eticità del Manzoni che fa
tutt’uno con l’arte del narratore e dello scrittore» 1.
Come noto Belli conobbe il romanzo di Manzoni durante il
suo primo viaggio a Milano nell’estate del 1827, o poco poi, mentre della primavera-estate dell’anno seguente dovrebbe essere l’indice che se ne legge nel primo volume dello Zibaldone. Appunto
del 1827 è l’esemplare dei Promessi sposi di sua proprietà che reca le sue postille autografe 2.
Sulla guardia del terzo volume di quell’esemplare del romanzo manzoniano Belli annotava: «Cavata da tutte le sue parti una
sostanza, e, da questa, una idea, io dico a proporzione: questo è il
primo libro del mondo» 3 e su tutti e tre i frontespizi un emistichio
di Dante: «E quel conoscitor...» (Inferno, V, 9) che, come scrive
giustamente Eurialo De Michelis 4, «vuole essere tributo di ammirazione al Manzoni come indagatore e giudice dei vizi dell’animo
umano – le ‘peccata’ –».
Sempre invero per Belli l’attenzione a Dante è l’attenzione all’immagine del poeta come cantor rectitudinis, un interesse testimoniato da quanto si legge in nota al sonetto L’aribbartato e dalle
cosiddette Annotazioncelle alla Commedia.
E qui l’emistichio dantesco sembra voler più precisamente
definire la natura dell’ammirazione di Belli per Manzoni riconosciuto come conoscitor, dove il vocabolo tecnico usato per indicare il giudice, dal latino cognitor, non può non avere lo stesso
significato che ha nel contesto generale del quinto canto del
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poema dantesco dove è appunto riferito a Minosse nella sua
qualità di giudice.
A quella lode, sempre secondo la giusta indicazione di Eurialo De Michelis, si deve riportare anche la postilla di poche parole
illeggibili (ma che potrebbero essere le stesse dell’indice dello Zibaldone, ossia supplizi, barbarie, inciviltà) in margine alla lista dei
processi agli untori nell’ultimo capoverso del capitolo XXXII
(quel passo su cui indugia anche l’indice dello Zibaldone appunto
con la voce supplizi, barbarie, inciviltà).
L’ossessione belliana del peccato originale trova significativo
riscontro nel capolavoro manzoniano, in quella «nozione del male d’origine che tutto investe» per cui I promessi sposi si possono
considerare un apologo «non già della Provvidenza, [...] ma del
peccato originale» 5.
Si pensi al commento metanarrativo alla fine del capitolo
XXXI, che chiama in giudizio «noi uomini in generale», o meglio
come era detto nel Fermo e Lucia «tutti noi figli d’Adamo», con
una formula per indicare la comune condizione umana che si ritrova nel sonetto belliano La carità (son. 1360) e fa riferimento a
una stessa visione angosciosa: «Tutti l’ommini sò fijji d’Adamo».
In Belli come in Manzoni è lo stesso riferimento al pessimismo teologico agostiniano, la stessa idea dell’immanente peccato,
quell’idea del peccato originale che è sentito come proprio individuale peccato.
In Lo sbajo massiccio (son. 1433), come mette giustamente in
evidenza Gibellini, «l’eguaglianza è nel male: nel sentimento
enorme dell’umana caduta, che dà a questi versi i riverberi giansenistici del primo Manzoni».
E in nota al sonetto Chi fa arisceve (son. 1825-1826), uno degli ultimi in ordine di tempo tra i sonetti raggruppabili in una
ideale Bibbia del Belli, il grande poeta romanesco poteva commentare sarcasticamente: «Questo passo bellissimo del libro I,
canto XV dei Re, siccome prova dell’imperscrutabile giustizia di
Dio, fa eccellente riscontro alla solidarietà di Adamo con tutti i
suoi discendenti».
Appunto in conseguenza dell’idea dell’immanente peccato
sembra nascere il sentimento del giudizio.
Nel sonetto Er Zignore e Caino (son. 1146) è quel motivo popolare di Caino nella luna («non v’ha buona madre che non mostri ai figlioli la luna piena dicendo loro: vedi figlio quella faccia?
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È Caino che piange») che poi ritorna in La faccia della luna dove
è ripresa significativamente la credenza per cui la faccia di Caino
è destinata a rimanere esposta fino al giorno del giudizio universale per ricordare all’uomo la colpa del peccato originale.
Giustamente a proposito di quel sonetto Roberto Vighi ha osservato che l’avvio è «narrato come un interrogatorio giudiziario
seguito da sentenza».
Vengono alla mente le parole di Salvatore Satta nella presentazione del suo Diritto processuale civile:
«Il libro è stato scritto tra il principio del 1946 e la fine del 1947.
Segno queste date non perché pensi che possano interessare la storia, ma soltanto perché esse comprendono uno dei più dolorosi periodi della nostra vita nazionale, conseguente alla guerra devastatrice ed alla sconfitta. In periodi come questi si rivela a ciascuno la terribile responsabilità della propria esistenza: come se un Dio nascosto lo perseguiti con la domanda del Signore a Caino, o se si vuole
del padrone ai servitori, nella parabola dei talenti. È sotto la spinta
di questo Dio, nel timore del suo giudizio, che io ho scritto questo
libro» 6.
Vien fatto in conseguenza di richiamare Il giorno del giudizio, quel
romanzo, per dirla con Giacinto Spagnoletti, «segnato dalla grazia e dalla malinconia di dover proiettare su tutto un’antica cristiana rassegnazione alla verità» 7.
Leggiamo:
«Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e candelabri, gli uomini
della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle
mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. Parole di preghiera o d’ira sibilano col vento tra i cespugli di
timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un
ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per
liberarli in eterno della loro memoria» 8.
In un passo significativo dello Zibaldone Belli scriveva: «Il fatto è
impossibile fino a Dio renderlo non fatto [...]. Sentenza di Agatone celebre poeta discepolo di Platone [...]. Iddio non può rendere
come era una vergine che perdette la verginità [...]» 9.
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E già altre volte, sottolineando in Il giorno del giudizio l’idea
che «quel che deve avvenire avviene senza che Dio ci possa far
nulla» (pp. 256 e 264), la consapevolezza che «la pace dei morti
non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che
da uno solo, quello di essere stati vivi» (p. 102), «perché non si
può annullare il proprio essere nati» (p. 158), abbiamo avuto occasione di ricordare nelle ultime pagine del romanzo i pensieri di
donna Vincenza nell’imminenza della fine: «[...] e tutto sarebbe
come se non fosse mai nata [...]. Sarebbe bello se fosse stato così:
ma un oscuro sentimento l’avvertiva che non sarebbe stato tanto
semplice. Dopo la sua morte sarebbero rimasti i suoi dolori, la sua
vita di dolore che nessun Dio può fare che non sia stata. Per questo la Chiesa continua a dire da secoli requiescant in pace, parole
senza senso se i morti sono morti» (p. 277).
Si tengano a questo punto presenti anche le considerazioni di
Satta in Spirito religioso dei sardi intorno a quell’idea dell’immanente peccato che ha manifestazioni che si possono considerare
positive come il senso augusto del giudizio, il concepire la vita
stessa come giudizio, il non lasciar alcun margine alla libertà e all’indifferenza dell’azione 10.
Per Gonaria come per gli altri personaggi del Giorno del giudizio, su cui pure guarda dall’alto del monte Ortobene la grande
statua del Redentore, non esiste la resurrezione, ma tuttavia essi
possono ripetere quel versetto del Vangelo di Giovanni (V, 28)
che Satta richiama nella sua commemorazione di Capograssi, sottolineando come quel versetto fosse citato dal grande giurista a
proposito del rapporto tra la volontà del giudice e quella della legge: «Voi sarete giudicati non da Dio ma da Cristo perché egli è uomo, quia filius hominis est» 11.
A questo proposito vien fatto di ricordare il sonetto belliano
La bona nova (son. 1253), che è, come noto, la naturale continuazione del sonetto precedente, Er bucio de la chiave («L’inferno è
un’invenzion de preti e frati») ed ha come argomento quel tema
del timore del giudizio universale in paragone con il tema dell’onore del mondo come moventi delle azioni umane, secondo le indicazioni di Vigolo che richiama in proposito Juan de Valdès:
«Dunque nun c’e ppiù inferno! Alegramente. / Ecco er tempo
oramai de fasse ricchi. / Dunque er dellà è un inzoggno de la
ggente, / E nnun resta ch’er boia che cc’ impicchi. // Sgabbellato
l’inferno, ar rimanente / Se saperà ttrovà chi jje la ficchi. / Lli giu-
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disci nun zò Ddio nipotente, / E cqui abbasta a spartì bbene li
spicchi. // La lègge, è vvero, è una gran bestia porca; / Ma l’inferno era peggio de la legge, / E ffasceva ggelà ppiù dde la forca //
L’onor der monno? E cche ccos’è st’onore? / Foco de pajja, vento
de scorregge. / Er tutto è nnun tremà cquanno se more».
Ha scritto Silvio D’Amico:
«Eppure, eppure si guardi bene in fondo: neanche questo pessimismo è a oltranza. Per il poeta c’è nel Romano anche plebeo un senso
segreto, ma imperioso e innato: quello della Giustizia. È il senso che
gli rende impossibile la rassegnazione passiva all’iniquità: che permane e resiste, pur sotto la maschera virile del suo creduto scetticismo.
E ci sono, nelle storture della superstizione in cui la sua ignoranza ha
stravolto il Vangelo, residui e fermenti di un’aspirazione all’Eterno.
D’una tale aspirazione il popolano del Belli non sa, non può darsi figure diverse da ciò che, alla sua fantasia, suggeriscono le grandi chiese barocche tra le quali è nato e vive. Ma anche la sua è una sorta di
aspettazione messianica; anche lui, soprattutto lui, invoca l’adempimento della promessa essenziale contenuta nel Testamento nuovo,
quella del Giudizio riparatore» 12.
E in un breve e penetrante saggio su Belli e Gogol’ Leonardo Sciascia, a proposito dell’impressione che dovette esercitare su Gogol’
la lettura dei Sonetti belliani, conclude:
«Quella rappresentazione così corale e drammatica, così implacabilmente squarciata, quello “spaccato” di vita investito da una greve luce d’apocalisse, sospeso come dentro l’occhio spietato di un giudice,
dovette essere irresistibile per l’autore del Revisore. Se un “revisore”
Gogol’ ha immaginato – non quello finto e “fisico”, ma quello vero e
“metafisico”, quello che la guardia comunale annuncia nell’ultima
battuta della commedia e che troverà inermi e beffati i protagonisti –,
eccolo quel “revisore” nel salotto della Wolkonski, “con la faccia
amara tinta d’itterizia” sulla quale invano avresti aspettato un sorriso.
Così lo videro, rispettivamente, lo Gnoli e il Della Spina: e certo anche il grande scrittore russo» 13.
Il sentimento del giudizio, come sottolinea anche De Michelis, si
collega sempre in Belli ad un anelito di Assoluto 14.
In lui come in Manzoni contro il pericolo del relativismo etico si pone l’esigenza di affermare che la verità è assoluta e non relativa, contro quello che è invece «un autentico schiaffo alla di-
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gnità dell’uomo e alla bontà di Dio che ha creato l’uomo capace di
certezze» 15.
Giustamente è stato sottolineato il carattere «antifrastico» dei
sonetti belliani soprattutto in materia di religione.
E in proposito Giuseppe Paolo Samonà, riprendendo la distinzione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ricordata da Francesco Orlando, può parlare di un Belli «magro» per cui, soprattutto
in materia di religione, il non detto conta più del detto 16.
In questa luce si possono intendere meglio le due postille più
propriamente religiose apposte dal Belli al romanzo manzoniano
che non a caso sono relative ai capitoli XXII e XXIII, dove è presentata la figura del cardinale Federigo Borromeo.
Su Federigo Borromeo indugia anche l’indice dello Zibaldone
belliano. Si pensi alla sua scelta programmatica che risulta dalla
lettura del capitolo XXII: «Badò, dico, a quelle parole, a quelle
massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non
potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte
che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prendere per
norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero» 17; «La
vita è il paragone delle parole» 18. Si pensi anche, però, alla conclusione del suddetto capitolo, con la significativa considerazione
manzoniana – «Non dobbiamo però dissimulare che tenne con
ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane
che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo
tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può aver qualche valore, o
anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa
d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formule semplici questioni complicate, né allungar
troppo un episodio, tralasceremo anche d’esporle; bastandoci
d’avere accennato così alla sfuggita che, d’un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse
ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere un’orazion funebre» – in linea con quanto si legge nel capitolo VII delle
Osservazioni sulla morale cattolica e nell’introduzione alla Storia
della colonna infame. Si veda a questo punto quanto Belli mette in
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evidenza nello Zibaldone con riguardo ai capitoli XXXI e XXXII
rispettivamente alla voce strega, medicina, fanatismo, pregiudizio
del popolo, bruciamento relativa al benestare dato da Federigo
Borromeo a che si processassero, torturassero e bruciassero vive
ben sette persone sospette di stregoneria tra cui la domestica Caterina Medici di Brono condannate con il parere del collegio medico di cui faceva parte anche il protofisico Ludovico Settala – vicenda per cui Manzoni richiama la Storia di Milano di Pietro Verri e che sarà argomento anche dell’operetta di Leonardo Sciascia
La strega e il capitano, dove sono evidenziati proprio i passi manzoniani richiamati da Belli nello Zibaldone alle voci strega, medicina, pregiudizi del popolo, bruciamento e parlano di veleni, malie,
unti, polveri – e alle voci processione di penitenza dove si parla dell’autorizzazione data dal cardinale Federigo, cedendo alla pressione generale non senza il sospetto di una debolezza della volontà,
alla processione con le reliquie di San Carlo e peste in genere dove
è richiamata quella «operetta» del cardinale Federigo intitolata
Della pestilenza che fece grande strage a Milano nell’anno 1630 dove egli mostra sotto l’influenza della pubblica opinione di aver
condiviso in parte la credenza nelle unzioni.
La prima delle due postille riguarda la considerazione manzoniana sul «non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio» a conferma della quale il Belli può scrivere «E così il P. [Papa], padrone di tutti, è il S.S.D. [Servus Servorum Domini]».
Non si può fare a meno di richiamare il sonetto L’abbrevi der
Papa (son. 1404), segnalato da Vighi: «sce se dichiara nostro servitore / ma servitore a chiacchiere, s’intenne». Ma si deve ricordare anche Er zucchetto der Decàn de Rota (son. 1506) 19.
La seconda riguarda il passo dove le lacrime ardenti dell’Innominato cadono «sulla porpora incontaminata di Federigo» e il
Belli postilla con tre esclamativi: «Porpora incontaminata!!!».
Non si può fare a meno di richiamare i versi noti del sonetto
La porpora (son. 761): «Ch’edé er colore che sse vede addosso / A
ste settanta sscimmie de sovrani? / Sì, ll’addimanno a vvoi: ch’edè
cquer rosso? / Sangue de Cristo? No: dde li cristiani».
Ma si deve citare almeno anche Er bordello scuperto (son.
1384), dove non a caso Belli in nota sente l’esigenza di indicare il
nome del cardinale protagonista dell’incidente descritto, Domenico De Simone.
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Viene naturale pensare alle pagine iniziali di Todo modo, dove
il protagonista, un pittore miscredente, capita per caso nell’albergo di un sacerdote imprenditore in cui un gruppo di notabili democristiani si dà ogni anno appuntamento per gli esercizi spirituali e, assistendo all’arrivo delle prime quattro auto da cui scendono quattro prelati, osserva: «Quando furono insieme, mi accorsi che uno dei tre aveva lo zucchetto rosso invece che viola. Un
cardinale: e lo distinsi, con scarso rispetto, debbo ammetterlo, per
il ricordo di un verso del Belli, “se levò er nero e ce se messe er
rosso”: di quando una pattuglia di gendarmi fa irruzione in un postribolo, e il brigadiere che la comanda si vede venire incontro,
“serio serio”, un prete che solennemente, togliendosi lo zucchetto
nero e mettendosi quello rosso, si metamorfosa in cardinale: con
grande confusione del brigadiere» 20.
Come non ricordare le parole di Leonardo Sciascia in quella
Introduzione a La colonna infame che è significativamente intitolata, da una citazione manzoniana, Quel che è sembrato vero e importante alla coscienza: «[...] Il moralismo appunto è in Manzoni
molto più prepotente delle sue credenze religiose [...]»? E come
non ricordare anche quanto Sciascia scrive subito prima a proposito di Verri e Manzoni: «Più vicini che all’illuminista ci sentiamo
oggi al cattolico [...]. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio
nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte [...]. Il
passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo
come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La
tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre»? 21
È la necessità manzoniana di non arrendersi alla fatalità del
male, ma di darsene una ragione col riportare l’interrogazione dalla Provvidenza (il tragico dilemma di «negare la Provvidenza o accusarla», come don Abbondio che si sentiva in credito con la
Provvidenza perché non ci si era messo da sé in quella situazione)
all’uomo, dalla oggettiva responsabilità della storia alla personale
responsabilità dei giudici (la coscienza della possibilità delle scelte che in qualsiasi condizione storica l’uomo ha la facoltà di compiere).
Si pensi in proposito a quanto scrive Mario Pomilio in Lettera
a un amico:
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«Quel che più mi fa paura, a dirtela altrimenti, dello storicismo, è la
conseguenza della relatività dei valori etici: un atto è “morale” o giustificabile in questa fase storica, il suo valore etico si dissolve, è superato in quest’altra fase. È ’l giochetto cui ci fanno assistere i poststoricisti odierni, che dietro le corazzature fenomenologiche vanno
predicando l’astensione, momentanea o no, dal giudizio: qualcosa
che in fondo ne fa soltanto dei feticisti della storia, i nuovi fans dell’atto puro. È chiaro che, data questa mia posizione, io finisco per
incontrare la condizione religiosa, o la tematica religiosa, in un ambito particolare, simile, ritengo, a quello dei secentisti francesi, che
mi sono del resto molto cari. Potrei forse definire il mio un cristianesimo etico più che metafisico, e diverso quindi dal tuo. Più che il
senso dell’essere, vi sovrasta il senso del fare, e più che una tentazione mistica, un’esigenza di razionalità. Ma è comunque dal sentimento, o dal bisogno, d’assoluti morali che operino nella storia o
facciano da poli d’orientamento in essa che nasce la stessa mia mitologia letteraria» 22.
Si pensi soprattutto a quanto scrive Leonardo Sciascia in appendice a 1912+1 dove, parlando delle ragioni che lo hanno portato a
scrivere quell’operetta dopo La strega e il capitano, si chiede quale trait d’union ci sia per lui tra Manzoni e Pirandello e risponde
che «il trait d’union è forse Pascal; un Pascal da Manzoni e da Pirandello diversamente letto e con diversissimi esiti. Le ragioni del
cuore che la ragione vuol trascegliere e annettersi, per Manzoni; le
stesse ragioni che sfuggono alla ragione e si fondono allo spavento cosmico, per Pirandello» 23.
E come non ricordare il giudizio di Ferruccio Ulivi quando,
parlando di Manzoni, sottolinea «il sentimento di aver puntato
con la fede su un qualcosa di inalienabile, alla stregua di un pari
pascaliano (la differenza è semmai che la “scommessa” si svolge
per Pascal su uno sfondo già metafisico, mentre in Manzoni vale
come un impegno etico ed esistenziale su cui elaborare, poi, una
metafisica) [...]»? 24
Secondo la testimonianza di Domenico Gnoli, l’argomento
del Pascal era di gran peso anche per Belli: «Con alcuno dei suoi
amici più cari incominciò poi pian piano a muovere discorsi insoliti; che delle cose di là della vita non si può avere certezza: e perciò gli pareva di gran peso l’argomento del Pascal, che nel dubbio
convenga mettersi al sicuro, e operare in modo che, essendo vero
quel che la Chiesa c’insegna, si salvi l’anima» 25.
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Muzio Mazzocchi Alemanni, dopo che a proposito del sonetto Li monni (son. 1379) ha sottolineato l’intromissione, fra lo stupito anzi esterrefatto interlocutore e il dotto fra Elia, di Belli in
persona, parla di un brivido di pascaliana angoscia 26.
Sempre Domenico Gnoli ricorda che «al traversare una piazza od altro luogo aperto gli vacillava la testa» 27. Il breve cenno
non consente di inserire Belli tra gli agorafobi accanto a Manzoni.
Si può tener presente tuttavia quello che, partendo dalle considerazioni che lo stesso Belli fa in Mia vita – la lettera autobiografica
al «dolcissimo amico» Filippo Ricci – Michel David, facendo riferimento soprattutto al ritratto interiore che Vigolo ha tentato di
Belli in cui sono messi in rilievo i traumi infantili, definisce il complesso di Telemaco davanti ai parassiti di sua madre vedova 28 e richiamare la agorafobia da complesso di abbandono che Edoardo
Weiss ha indicato in Manzoni collegandola ad un complesso edipico particolarmente profondo e irrisolto 29.
Freud ha spiegato il significato dell’agorafobia 30. Sulla scia di
Freud la moderna psicoanalisi per l’agorafobia fa riferimento alla
cosiddetta «reazione di separazione». «Gli psichiatri ritengono
che gli adulti che hanno paura degli spazi aperti (agorafobia) e
che, di conseguenza, subiscono attacchi di panico, soffrono di una
forma acuta di “reazione di separazione”» 31.
Ma ritorniamo all’argomento specifico del nostro intervento.
Il tema del giudice e del giudizio, con la contrapposizione tra
«drento» e «fòra», messa in evidenza già da Vigolo 32, è significativamente svolto in Er povero ladro (son. 1026):
«Nun ce vo mmica tanto, Monziggnore, / De stà llì a sséde a ssentenzià la ggente, / E dde dì: “Cquesto è rreo, quest’è innoscente”. / Er
punto forte è dde vedéjje er core. // sa cquanti rei, de drento, hanno
ppiù onore / Che cchi, de fòra, nun ha fatto ggnente? / sa llei che cchi
ffa er male e sse ne pente / È mmezz’angelo e mmezzo peccatore?».
Ora appunto il tema del decoro (del «lascià sarva l’apparenza»,
della dissimulazione onesta) è toccato in vari sonetti tra cui Er decoro (son. 425: «Possibbile che ttu cche ssei romana / Nun abbi da
capì sta gran sentenza, / Che ppe vvive in ner monno a la cristiana / Bisoggna lasscia ssarva l’apparenza!») ed in proposito è stato
richiamato il passo dell’indice delle Rivoluzioni d’Italia di Carlo
Denina nel nono volume dello Zibaldone, terminato da Belli il 25
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novembre 1831, lo stesso giorno non a caso del sonetto Er giorno
der giudizio, data a partire dalla quale compare nei sonetti il tema
del decoro: «l’obbligo che essi (i cardinali) aveano, e che doveano
pur adempiere almeno esternamente e per rispetto del proprio
onor mondano e per decoro, voce propria e natìa Romana, serviva d’occasione, di stimolo e d’aiuto alle persone religiose e zelanti
a promuovere la vera pietà cristiana e la fede cattolica».
Sul tema del decoro si può vedere Er decoro de la mediscina
(son. 1306) con il motivo dell’«ammazzà ppe cconveggnenza»
scritto il 18-6-1834, e cioè lo stesso giorno della lettera a Melchiorre Missirini citata da Marcello Teodonio per Er deposito der
conte (son. 1327) e da me per L’omo de monno (son. 1779).
Leggiamo:
«Le conosco per aria io le perzone, / e nnu le porto in groppa, nu le
porto. / Scusateme, er discorzo è ccorto corto: / chi ffa er birbo, io
[lo] tengo pe un briccone. // Nun zo, ppenzerò mmale, averò ttorto,
/ forzi me sbajjero, sarò un cojjone, / ma mme la stiggnerebbe viv’e
mmorto / che ll’omo è ffijjo de le propie azzione. // Io ve parlo da povero iggnorante, / perché ccredo c’ar monno l’azzionacce / siino sempre l’innizzio der birbante. // Nun c’e bbisogno d’esse ito a scola / pe
ddì cche ssi oggni cosa tiè ddu’ facce / l’omo de garbo n’ha d’avé una
sola».
Nella lettera, che costituisce una sorta di cartone preparatorio e si
può considerare un ideale commento del sonetto, Belli scrive:
«Sulle parole di sconforto, con le quali pure mi avete alcun poco amareggiata la piacevole vista de’ vostri caratteri, io non so che dirvi, al buio
qual sono del tenore delle disgrazie onde vi dite travagliato. Queste, già
mai non mancano alla vita, e meno a quella de’ buoni e degli innamorati degli uomini e del loro bene. Di qualunque natura poi elle si siano,
molto disagevole riesce consolare un sapiente, il quale, a malgrado della sua cognizione del mondo e della trista parte che vi tocca alla virtù,
ti dice pure: io sono infelice. Ogni genere di conforto tratto dagli aiuti
della filosofia egli già lo conosce, e inutile troppo gli verrebbe da altri
quando nol trovò efficace nella stessa propria sapienza. Vergognandomi io pertanto di assumere gli uffici di consolatore con uomo tanto a
me superiore per animo e senno, vi farò ripetere due parolette da Seneca, del quale niun saggio che viva sdegnerebbe considerarsi discepolo: “Res humanas ordine nullo / fortuna regit: spargitque manu / munera caeca, peiora fovens”. Io però mai non soglio meravigliarmi de’ fausti
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successi del malvagio, sommati in confronto de’ buoni successi del virtuoso, e sempre su ciò vado ripetendo a miei amici che delle due strade aperte agli umani desideri per giungere al loro scopo, l’inonesto può
batterle entrambe, mentre non avendo scrupolo di mettersi su quella
del torto, gli è pur sempre libero l’andare su quella del dritto: laddove
all’onest’uomo non essendo scelta da fare, non può egli giungere al bene che per un solo cammino.
Pare quindi assai naturale in questo, come in tutto il resto delle umane cose, che più sono i mezzi più facile è il fine».
A questo punto, sconfortato di fronte al panorama dei «radicali
pregiudizii» del consorzio umano, continua:
«Il mondo vi pare filosofo? Appena nelle società più civili io conterei
un centesimo di uomini civilizzati. Altra è la politezza, altra la filosofia: quella investe la superficie e la fa bella: questa penetra la massa e
la rende buona. E il Mondo sinora non è a rigore che bello».
Tra le notazioni relative a don Ferrante, cioè ai capitoli XXVII e
XXXVII, in Zibaldone I, 918 (autori disusati e qui nominati in via
di ridicolo) e I, 920 (definizione – della peste – curiosa, argomentare ridicolo) non a caso è da segnalare quella che riguarda la valutazione di Botero («galantuomo sì... ma acuto») con quel vedere
quasi inconciliabili le due qualità di galantuomo e di acuto che è
di una comicità satirica irresistibile alla Gogol’ o meglio alla Belli
scrittore di sonetti come appunto L’omo de monno 33.
Sabino Caronia
NOTE
1 P.
P. Trompeo, Perpetua a Roma, in Orazio, giugno-settembre 1952, pp. 42-45.
copie fotografiche rimaste delle pagine annotate da Belli sull’esemplare da lui
posseduto e purtroppo oggi perduto de «I Promessi Sposi. Storia milanese del secolo
XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, tomi 3, Torino – per Giuseppe Pomba –
1827», sono conservate presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Si tratta di undici copie fotografiche degli originali e più precisamente dei frontespizi dei tre tomi,
della guardia del terzo volume, delle pagine 195 e 202 del capitolo XXII e 245 del capitolo XXIII nel tomo secondo e delle pagine 5 del capitolo XXV, 73 e 75 del XXVIII e
166 del XXXII nel tomo terzo.
3 Per il giudizio di Belli su Manzoni si veda anche il sonetto italiano scritto il 30
gennaio 1930, il giorno dopo La caramagnòla d’Argentina (son. 1938), dove a proposito
2 Le
Belli, Manzoni e il sentimento religioso
615
del dramma manzoniano Belli parla di «pagine eterne»; ma, per il Manzoni lirico, si veda la definizione di «odàro di Lombardia» in una lettera del 12 settembre 1839 a Luigi
Mazio a proposito dell’autore del Cinque maggio.
4
E. De Michelis, Il Belli e il Manzoni, in Studi belliani, Colombo, Roma 1965.
5
F. Ulivi, Pensiero e sentimento religioso in Manzoni, in Manzoni, Storia e Provvidenza, Bonacci, Roma 1974, p. 231.
6
S. Satta, Diritto processuale civile, Cedam, Padova 1973, pp. XV-XVI.
7
G. Spagnoletti, La lettura in Italia. Saggi e ritratti, Spirali Edizioni, Milano 1984,
p. 157.
8 S. Satta, Il giorno del giudizio, Adelphi, Milano 1979, p. 103.
9
G.G. Belli, Zibaldone, I, 725. Per i versi di Agatone si veda Aristotele, Ethica Nichomachea, VI, 1139 b, richiamato anche da Dante, De Monarchia, III, 6.
10 S. Satta, Spirito religioso dei sardi, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Cedam,
Padova 1968, pp. 537-540.
11
S. Satta, Il giurista Capograssi, ibid., pp. 427-428. Si veda la citazione di Soliloqui
e colloqui di un giurista posta da Leonardo Sciascia come epigrafe di Porte aperte: «La
realtà è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma il provvedimento giurisdizionale. Onde il processo si pone con una sua totale
autonomia di fronte alla legge e al comando, un’autonomia nella quale e per la quale il
comando, come atto arbitrario d’imperio, si dissolve, e imponendosi tanto al comandato quanto a colui che ha formulato il comando trova, al di fuori di ogni contenuto rivoluzionario, il suo “momento eterno”».
12 S. D’Amico, Bocca della verità, Brescia 1943, p. 60.
13 L. Sciascia, Belli e Gogol’, in Orazio, giugno-settembre 1952, pp. 58-59.
14
E. De Michelis, Il Belli e il Manzoni, cit.
15 A. Luciani, Illustrissimi, Edizioni Messaggero, Padova 1976, pp. 163, 291-292.
16 G.P. Samonà, G.G. Belli, La commedia romana e la commedia celeste, La Nuova
Italia, Firenze 1969, pp. 45-46; F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, Scheiwiller, Milano
1963, pp. 50-51.
17 Si veda in proposito F. Ulivi, Manzoni e la psicanalisi, in Manzoni, Storia e Provvidenza, cit., p. 241.
18 E. De Michelis, Il Belli e il Manzoni, cit., p. 572.
19
Ibid., pp. 559 e 572; A. Luciani, Illustrissimi, cit., pp. 213-214. Papa Luciani, il
conterraneo di papa Gregorio, che può ripetere le parole messe in bocca da Manzoni al
cardinale Federigo «non c’è giusta superiorità d’uomo sopra altri uomini se non in loro
servizio», come il cardinale Federigo si pone di fronte al papato nel suo «non aver mai
aspirato a quel posto così desiderabile all’ambizione, e così terribile alla pietà».
20 L. Sciascia, Todo modo, Einaudi, Torino 1991, pp. 20-21.
21 A. Manzoni, La colonna infame, Cappelli, Bologna 1973, pp. 11-22.
22 M. Pomilio, Lettera a un amico, in Scritti cattolici, Rusconi, Milano 1979, p. 24;
vedi C. Di Biase, Letteratura religiosa del Novecento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pp. 120-122.
23 L. Sciascia, 1912+1, in Opere 1984-1989, Bompiani, Milano 1991, p. 319.
24 F. Ulivi, Manzoni e la letteratura religiosa del Seicento francese, in Manzoni, Storia e Provvidenza, cit., p. 200.
25 D. Gnoli, Il poeta romanesco G. G. Belli e i suoi scritti inediti, in Nuova Antologia, 1878, II, p. 496.
26 M. Mazzocchi Alemanni, Livelli linguistici e culturali, in AA.VV., Letture belliane. I sonetti del 1834, Bulzoni, Roma 1984.
27 D. Gnoli, Il poeta romanesco G.G. Belli e i suoi scritti inediti, cit., p. 491.
28 M. David, Letteratura e psicoanalisi, Mursia, Milano 1976, pp. 145-148.
29
E. Weiss, The case of Alessandro Manzoni, in Agoraphobia in the light of ego psychoanalysis, Londra 1964, pp. 95-98; M. David, Letteratura e psicoanalisi, cit., pp.
616
Sabino Caronia
140-144; F. Ulivi, Manzoni e la psicoanalisi, in Manzoni, Storia e Provvidenza, cit., pp.
235-251.
30
S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Boringhieri, Torino 1973, p. 526.
31
D.N. Stern, Diario di un bambino, Mondadori, Milano 1991.
32
G. Vigolo, Il sentimento morale e religioso nella poesia del Belli, in L’Urbe, ottobre 1941.
33
Vedi l’appendice al capitolo III della Morale cattolica intitolata Del sistema che
fonda la morale sull’utilità con il riferimento alla favola di Minosse Radamanto ed Eaco
nella conclusione del Gorgia e con il giudizio su Machiavelli. Sul gusto manzoniano dei
paradossi, vicino in questo al Belli, si veda già quanto scriveva Paolo Bellezza nel suo
Genio e follia di Alessandro Manzoni richiamato da Ferruccio Ulivi in Manzoni e la psicoanalisi, cit.