Scaricalo e stampalo

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Scaricalo e stampalo
«In forma sintetica queste sono storie di medici
e pazienti. Storie che guardano alla malattia
come a qualcosa che modifica il modo di essere
delle persone coinvolte. Cerco di raccontare il
rapporto medico-paziente mettendo in luce il
valore della relazione, la capacità di cogliere
nell’altro l’umanità ferita, dove l’altro non è solo
il paziente ma anche chi lo accompagna e chi
se ne prende cura. In questi racconti non c’è
l’esigenza di un finale ad effetto, ma la speranza
che lasciarsi coinvolgere dalla vicenda umana
dei protagonisti restituisca ai personaggi la loro
dignità di persone».
una rubrica di Patrizia Rocchi (dicembre 2008)
Vieni a ridere con me
Sulla porta c’è scritto “Servizio materno infantile”. Si apre su un corridoio abbastanza largo con
una fila di panche di formica addossate alla parete
di sinistra, sempre occupate da cose e persone. È
una mattina piovosa e gli ombrelli sgocciolano uno
sull’altro in un angolo. A destra ci sono due porte,
ma a volte è difficile vederle perché chi non trova
posto sulle panche si appoggia al muro, che in
basso cambia quasi colore, coperto dalle impronte
stampigliate dei tanti piedi che sostiene. Qualcuno
si ferma a sentire i sussurri che arrivano dalle stanze, forse senza nemmeno l’intenzione di origliare,
ma solo per capire in anticipo quando verrà il suo
turno. Sono quasi tutte donne. Donne belle, donne trascurate, donne-mamme, donne-bambine,
donne-donne, con i figli nella pancia o rannicchiati
nel marsupio, con i piercing sull’ombelico che
spunta da sotto la maglietta corta e i capelli troppo
biondi o troppo neri. Spostano carrozzine, si accampano con borse piene di asciugamani e pannolini, sgridano i bambini più grandi, allattano i piccoli, si sporgono dalla finestra con la sigaretta nel
palmo della mano e gli occhi stanchi, a volte pieni
di rabbia, a volte di paura. La lingua non conta.
C’è chi viene dall’Eritrea e chi dalla Cina, chi ha
solo attraversato la frontiera e chi il mare, chi parla
romano e chi romeno: se ascolti, riconosci lo stesso
bisogno, storie diverse, uguali attese.
Gli uomini, quando ci sono, fuori dal loro territorio sembrano pirati costretti alla terraferma, bruschi, con la voce grossa e pensieri confusi, incerti
tra fuggire e restare.
Mariana aspetta seduta di fianco alla carrozzina vuota, mentre la nonna passeggia cullando il
suo neonato. Mariana è una bellezza da cartolina;
su una rivista patinata potrebbe posare con lo
sguardo ammiccante di un’attrice o di una velina.
Invece si guarda intorno silenziosa, sposta una
ciocca umida dietro un orecchio e allunga appena
una mano a cercare quella di lui che, distratto,
sorveglia il territorio e la signora di mezz’età con
il piccolo. Sussurra qualcosa con le labbra semichiuse, come una cantilena, forse una preghiera,
che ascolta lei sola. È felice, o almeno dovrebbe
esserlo, così bionda e limpida, con l’accento slavo
e gli occhi trasparenti, una madonna senza velo.
Ha trovato un uomo, una nuova famiglia, una casa
e un figlio di venti giorni.
«Ciao Mariana, come stai, anzi come state?»
Il medico che li accoglie è già in piedi, senza
camice, si lava le mani mentre la piccola pattuglia
entra: Mariana, il marito, il neonato con la sua
carrozzina, la nonna paterna. Vengono a fargli conoscere il bambino e a chiedere qualche consiglio,
perché è lui che ha seguito tutta la gravidanza,
prescritto analisi, effettuato controlli, ha aiutato
Mariana ad affrontare le paure e gli inevitabili
problemi degli ultimi mesi. Il parto è andato bene,
ventidue anni contano, e adesso c’è Jacopo, che
assomiglia tutto al padre, nemmeno lo avesse fatto
un’altra, scuro di carnagione, con la testina tonda
piena di capelli neri e un segno rosso che dalla
radice del naso arriva fino alla narice. La nonna si
siede con il piccolo trofeo insonnolito e lo mostra
al dottore, mentre Mariana resta in piedi, vicino al
marito, che cerca di aiutarla con la borsa e i giacconi. È cambiata da quando è arrivata a Roma. In
meno di due anni ha imparato a parlare un italiano
abbastanza buono da farsi capire e sufficiente per
comprendere le intenzioni di chi le risponde. Ha
imparato a muoversi per la città senza spaventarsi
e a meritarsi il rispetto della gente, lavorando nelle
Patrizia Rocchi
case degli altri e nella sua. Poi è arrivato lui. Walter l’ha voluta, l’ha scelta d’istinto, quasi stupito di
averla per sé, e lei si è lasciata andare alla corrente,
sperando che fosse dolce e la portasse piano. Ma la
corrente si è fatta grossa e ha trascinato via tutto il
suo mondo precedente. Il mondo di ora è chiuso
intorno a un lettino, con l’ansia di non farcela perché l’amore non basta, o forse è troppo e ti toglie
anche l’aria.
Il medico osserva il bambino, senza accennare a
visitarlo, sorride alle sue smorfie involontarie e gli
accarezza la piccola macchia sul viso.
«Non dovete preoccuparvi di questa, ve l’hanno detto vero? È un angioma del neonato, si chiama proprio così, e sparirà con il tempo. Ora sembra molto visibile, e quando piange si nota ancora
di più, ma pian piano andrà via. Adesso dimmi di
te, Mariana, come ti senti?»
Si avvicina alla donna per guardarla meglio,
mentre la nonna inizia a raccontargli dei sintomi,
della stanchezza. «Mariana dice che non ce la fa,
Mariana vuole smettere di allattare, Mariana non
vuole darmi retta, eppure ce l’ho l’esperienza, ho
cresciuto tre figli, tutti maschi. Io sto da loro per
aiutarli, le preparo pure il brodo, che fa venire il
latte, ma lei vuole fare da sola, tenere il bambino
attaccato al petto anche la notte, poi lo credo che
non ce la fa. Lei lo dovrebbe solo allattare. Poi lo
tengo io, così lei può pensare al marito, alla casa e
si riposa pure. Così dico io, ma lei no!»
«Aspetta, falla parlare».
La voce del padre sembra chiedere scusa al
dottore, che non ha ancora avuto la sua risposta.
«Allora Mariana, tu che mi racconti?»
Lo sa, ma aspetta che sia lei a dirglielo. Mariana
dagli occhi verdi e una patina di buio sulla faccia,
Mariana che non si trucca più, e forse nemmeno
si pettina, che ha il seno gonfio e duro, che si piaga quando il suo bambino succhia, e sa che gli fa
mangiare latte e sangue. Che ancora urina in piedi,
attaccata al muro, per il dolore dei punti, e non ha
giorni suoi, e nemmeno un’ora. Sa che vorrebbe
tenere suo figlio sempre addosso, eppure a volte
lo scansa come un piccolo mostro che le divora
le forze e le idee, ma non riesce a dirlo a nessuno.
Allora arriva la paura, lo abbraccia stretto stretto
e chiude gli occhi per un attimo, per annullare
tutto nel buio e sentirsi lei ancora bambina, come
quando giocava con le amiche ed era una di loro.
Qui non ha amiche. Nel suo paese è normale avere
almeno un figlio, alla sua età, ma qui no. Le mam-
me giovani che ha conosciuto sono tutte donne di
fuori, come lei. Le italiane la guardano strana, le
parlano appena, si raccontano tra di loro, scuotono la testa e a volte, allontanandosi, le lasciano un
sorriso di compatimento che le si incolla addosso
come un marchio.
«Sto bene, sono solo un po’ stanca. Forse non
ho abbastanza latte, o non è buono. Io voglio essere una buona mamma, ma non so come. Vorrei
tenerlo ancora nella pancia, ma con una pancia di
vetro, così potrei vederlo. Lui è mio, ma piange
tanto e io cerco di fare cose giuste, lo cambio, canto
per lui, lo attacco al seno, ancora e ancora, ma lui
piange tante ore, sempre. Cosa devo fare dottore?»
Il medico sorride gentile, ha un suo programma
da seguire, e una piccola strategia da concordare
con lo psicologo e l’assistente sociale.
«Signora, perché non porta un po’ fuori Jacopo
e io parlo qualche minuto con loro?»
La nonna cambia espressione, vorrebbe rispondere, offesa, ma lo sguardo fermo del medico la
gela ed esce senza salutare.
«Siediti Mariana, sedete pure tutti e due. Adesso ci organizziamo in modo da darvi qualche piccolo aiuto per la vita quotidiana, va bene? I primi
mesi dopo il parto sono molto pesanti e altrettanto
delicati. Nessuno è preparato al cambiamento, e
nessuno si aspetta da te la perfezione. Mariana,
devi fare un po’ di analisi e prendere degli integratori. Non sono vere medicine e non ti impediranno
di continuare ad allattare, se vorrai. Mangiare e
bere sono importanti, ma devi anche riuscire a
riposare. E poi insieme cercate di trovare dei momenti vostri, solo per voi due intendo. Si diventa
genitori insieme, giorno per giorno. Mariana, non
pensare di essere sola. Siamo qui per aiutarti. Voglio vederti ridere, okay?»
«Devo ridere?»
«Certo, non come un obbligo, ma, diciamo,
come una parte della cura. Almeno sorridere. Ti
assicuro, può aiutarti molto».
Il medico scrive qualcosa, organizza per loro
un altro appuntamento. Sa che non è finita, che la
depressione è in agguato, che quello di Mariana è
un equilibrio di vetro e va trattato con delicatezza
infinita. Mariana sorride, forse per gentilezza, forse
perché nel profondo, aldilà della parole, ha capito
il messaggio. Vorrebbe chiedere tante altre cose,
ma può tornare ancora. Ora spera che anche il suo
uomo capisca, che la aspetti e la cerchi per dirle:
vieni a ridere con me.
Patrizia Rocchi