Le stelle Dior e Coco
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Le stelle Dior e Coco
FASHION CICLISMO A sinistra, foto piccola, l’abito «Cherie» della collezione Dior autunno/inverno 1947. Foto grande, Coco Chanel nel 1936 di Rotafixa V Qui accanto, Coco Chanel fa una prova con Romy Schneider, 1960. Sotto, un ritratto di Dior del 1960 DUE MOSTRE IN FRANCIA E IN AMERICA SULLA STORIA DELLA MODA ai lì e ti fai una bici, a partire dai pezzi che trovi o porti. Oppure ripari la tua con gli attrezzi messi a disposizione di tutti. Oppure, ancora, modifichi un telaio, tuo o trovato, i meccanismi, l’estetica o la funzionalità della bicicletta, segui un tuo progetto e trasformi un rottame in un sogno, ma niente ti impedisce di trasformare un sogno in un rottame: sta solo a te fare e disfare la tua bici, e se non sai come agire qualcuno di più esperto ti aiuta. Queste sono le caratteristiche di base delle ciclofficine italiane, luoghi nati per aumentare la cultura ciclistica del nostro sventurato paese anche passando - anzi: soprattutto - dall’esperienza puramente meccanica della bicicletta. È un meccanismo e inizi un viaggio che te lo fa conoscere fino in fondo, rendendoti libero da ogni costrizione esterna non solo durante il percorso che fai in bici, ma anche durante le «sventure» che l’utilizzo del mezzo ti propongono, dalla banale foratura alla rottura del telaio - evento raro ma possibile. Semplicemente elimini dalla tua vita l’aiuto esterno del meccanico, diventando progettista e meccanico del tuo mezzo. Le ciclofficine nascono in prima battuta nei centri sociali: la prima in assoluto in Italia è stata quella del Bulk di Milano, più per caso e povertà di mezzi che per effettivo bisogno di trovare rifugio in un centro sociale. In una sera d’inverno del 2001 un gruppo di amici milanesi - una parte di quel movimento che avrebbe portato l’esperienza di Critical Mass in Italia - si riunisce in un baretto dato in gestione al gruppo solo il venerdì, per far fluire deliri di vario tipo tra cui musica elettronica e esperienze di meccanica. Il gruppo è formato - secondo la diretta testimonianza di Menthos, uno di loro - da: «un appassionato di biciclette, un situazionista, un sindacalista, un responsabile di ufficio stampa e un falegname: tutti felicemente precari a vita». Il quintetto comincia a vagheggiare di uscire dai propri garage, dove quegli strani adulti pasticciano ancora con le bici, e fare un’officina da qualche parte, per recuperarei rottami lasciati in giro per Milano e per organizzare dei corsi di autoriparazione. I cinque contattano il Bulk, il centro sociale tra il cimitero monumentale di Milano e la Chinatown locale, e trovano uno spazio assurdo al primo piano: le bici dovranno essere portate a spalla fino a lì. L’avventura parte ufficialmente l’11 aprile 2001, e continuerà per un paio d’anni, attraversati anche dalle sventure del Bulk: tra cui il taglio dell’energia, risolto dai ciclisti notturni e visionari con candele e lampeggianti a pile delle proprie bici. Un’atmosfera che chi ha visto non può dimenticare facilmente. Nel frattempo l’idea si estende anche in altre parti d’Italia. A Roma parte per primo un altro centro sociale, il Macchia Rossa della Magliana, che attrezza la ciclofficina sulla base dei principi già testati a Milano: riparazione e creazione di biciclette, gratis. Si vive di sottoscrizioni, cene sociali, offerte quando prendi pezzi di bici, ma se non hai soldi fa lo stesso, magari porti pezzi di bici quando li trovi. Dopo il Macchia Rossa parte la ciclofficina dell’Ex Snia Viscosa, il Don Chisciotte, oggi la realtà più grande e frequentata del panorama romano. Da lì, grazie anche alla forte partecipazione e all’entusiasmo che nel frattempo va crescendo in Italia per l’utilizzo «critico» di un mezzo Gadget, foto e flyer della ciclofficina alla Stecca degli artigiani (Milano) e la locandina della Centrale, a Roma, in via degli Zingari LA CARICA DELLE CICLOFFICINE semplice e innocuo come la bici, escono a getto continuo mezzi di ogni tipo e misura, comprese le bici a due piani che ogni tanto sbucano come improbabili fiori meccanici tra le lamiere di Roma. In altre città cominciano a nascere luoghi simili, ognuno con le sue caratteristiche e ognuno legato ai principi di base: gratuità, volontarismo, aiuto reciproco, recupero del recuperabile. Oggi se ne trovano a Vicenza e Bergamo (attive), si sta pensando di farle a Bologna e Pisa; voci del ciclismo antagonista parlano anche di un progetto simile a Palermo. L’organizzazione delle ciclofficine è diversa di luogo in luogo: generalmente sono aperte la sera e durante il week end perché i «meccanici» sono volontari. Fuori, comunque, dai tempi del lavoro «ufficiale». E finora sono ospitate dai centri sociali, spazi che per loro natura non impongono spese a chi li utilizza. Nei primi mesi di quest’anno sono nate altre due ciclofficine, a Milano (che nel frattempo ha visto la fine dell’esperienza del Bulk) e Roma: la prima alla Stecca degli Artigiani nel quartiere Isola, un reperto di archeologia industriale tenacemente difeso dagli occupanti, tutti piccoli artigiani, su cui la giunta Albertini ha messo gli occhi per la costruzione del nuovo polo della moda. La seconda è in un ex istituto religioso abbandonato, in pieno centro di Roma (da qui il nome Ciclofficina Centrale) e occupato a novembre scorso dal Comitato popolare di lotta per la casa, per scopi abitativi. Stecca e Centrale stanno seguendo, in accordo e scambiandosi esperienze e informazioni, un percorso diverso da quello finora seguito dalle ciclofficine esistenti: uscire dai centri sociali e rivolgersi a un pubblico diverso da quello finora contattato per ampliare la base degli utilizzatori di biciclette; aiutare anche chi non è legato alle locali esperienze di Critical Mass a saper usare al meglio cervello e mani per spostarsi pedalando. Entrambe le due nuove ciclofficine sono una sorta di emanazione del gruppo che sta facendo rinascere la bicicletta a ruota fissa in Italia, e di cui si è già parlato su Alias («Il futuro va in bici» del 5 febbraio scorso). In queste due nuove realtà si sta proponendo il recupero e la costruzione di bici da pista per uso urbano. Sono mezzi semplici e spogli di tutto che lentamente stanno cominciando a rivedersi anche dalle nostre parti dopo decenni di oblio, e che stanno attraendo un numero sempre maggiore di persone, forse anche influenzate dall’onda «fixed» messa in moto in Usa e nei paesi nordeuropei dai bike messengers, i corrieri in bicicletta. Stecca e Centrale sono «gemellate» e hanno iniziato una campagna di recupero di tutto il materiale da pista disponibile nelle rispettive regioni. Esistono centinaia di biciclette da pista abbandonate negli scantinati delle federazioni per la sostanziale mancanza di velodromi e il loro sempre più scarso appeal sullo sport business. Il tentativo è quindi rimettere in circolazione bici dalla meccanica austera e semplice, anche come rifiuto dell’eccessiva complicazione dei mezzi attuali per approdare a uno stile più sobrio e consapevole del mezzo bici. Ma l’avventura «vera» delle due ciclofficine, soprattutto della Centrale, sarà la costruzione di telai in proprio, seguendo i metodi tradizionali di costruzione: tubi e giunzioni in acciaio, saldature a ottone e geometrie da pista, che incredibilmente si sono rivelate le più adatte per «surfare» il traffico cittadino: risposta immediata alla pedalata, agilità sorprendente. Verranno venduti a prezzo di costo dei materiali, più un’offerta libera. Bikers notturni e visionari, il rottame diventa sogno Le stelle Dior e Coco di Michele Ciavarella N ella ricerca, pur sempre nobile ma ormai diventata affannosa, di dare alla moda una legittimazione culturale, l’esibizione delle radici ha assunto negli ultimi tempi le dimensioni di una magnifica ossessione. Mostre di vestiti dei tempi che furono firmati dai sarti che hanno cominciato a scrivere la storia del moderno, mostre di fotografie di quando «eravamo più poveri e più belli», manifestazioni che descrivono il passato come l’epoca d’oro di un’invenzione che è poi diventata un business. In soccorso di questo rimestare nei preziosi bauli degli avi arrivano celebrazioni e compleanni. Come l’anniversario dei cento anni della nascita di Christian Dior, nato a Granville, Normandia, il 21 gennaio 1905, in una famiglia benestante, padre industriale chimico e madre appassionata di vacanze a Deauville, morto mentre si curava alle terme di Montecatini il 24 ottobre del 1957. In un paese come la Francia, che ha fatto della moda una risorsa culturale, questo centenario non poteva passare inosservato. Tanto che la città natale dell’inventore del «New Look» ha organizzato una serie di manifestazioni che vanno dal 15 maggio al 25 settembre, tra la casa natìa, da tempo trasformata in un museo, al Museo di arte contemporanea, dove sono in mostra I Dior prima di Dior, fino a un rally d’auto d’epoca. Insomma, una ce- lebrazione per un suo «figlio famoso» e un rilancio turistico per la città che a Monsieur non avrebbe fatto storcere per niente il naso, portato com’era – nonostante quell’aria di «curato di campagna» (definizione di Camilla Cederna) - alla promozione di se stesso. Già abituato a promuovere i suoi disegni alle Maison dell’epoca (Patou, Piguet, Balenciaga, Schiaparelli), i primi vestiti di Christian Dior sono dei costumi per il cinema, apparsi nei film di Autan-Lara (Lettera d’amore), di Paulin (Scacco al re) e di Clair (Il silenzio è d’oro), dove vestiva le dive dell’epoca con uno stile a dire il vero un po’ rétro. Finita la guerra e convinto il tessutaio Boussac a finanziarlo, Dior fa sfilare per la prima volta una sua collezione il 12 febbraio 1947, ormai già quarantaduenne. Più che un’intuizione, è tempismo. Uscite da una guerra stremante, le donne hanno visto in quelle gonne lunghe e vaporose (per alcune occorrevano 50 metri di tessuto) la rinascita della femminilità. Le giornaliste americane, capeggiate dalla direttrice di Harper’s Bazaar Carmel Snow che esclamò «That’s New Look!», andarono in deliquio. Lo strano successo che seguì, quindi, è stato tutto merito della restaurazione borghese che quelle gonnellone e quelle giacche attillate rappresentavano alla perfezione. Tanto è vero che qualche mese dopo, arrivato negli Usa a ritirare un premio, i «mariti» americani inscenarono una manifestazione contro questo francese che aveva allungato le gonne, rimesso i grilli per la testa alle donne e fatto aumentare i prezzi anche dei vestiti dei grandi magazzini che si erano subito uniformati al «New Look». Pacifico e pacioccone, con in testa la venerazione della figura materna e un’immagine femminile spettacolarizzata, tipica dei gay di quegli anni, Dior diventa una potenza in Francia e nel mondo. I suoi modelli numerati ed esclusivi vengono richiesti dai ricchi e famosi, come lo scia Mohammed Reza Pahlavi che nel 1951 gli commissiona l’abito di matrimonio per la sedicenne Soraya Esfandiary Bakthiary (che, anni dopo, in un suo libro si lamenterà di essere svenuta sotto il peso dell’infinito strascico ricamato con brillanti falsi). O come Evita Peron, che nel suo giro promozionale europeo, in Francia indossa solo Dior. In pochi anni, dunque, Dior inventa un impero e diventa divo del bel mondo. Ma affinché il nome Dior entrasse a far parte del mito e assumesse un minimo significato di «modernità» si deve aspettare l’ottobre del 1957, quando Monsieur viene stroncato da un infarto. Assaliti dal panico e dalla preoccupazione, i responsabili della casa di moda che temono la perdita del fatturato già diventato miliardario, affidano le sorti dello stile a un giovane assistente del capo, il delicato Yves Saint Laurent. Alla fine di gennaio dell’anno dopo, dopo soli tre mesi di lavoro, è il «piccolo principe dagli occhi pervinca» a assere acclamato da una folla in delirio, prima come salvatore della moda francese, poi come l’iniziatore di una vera rivo- luzione, fatta con le armi sottili della cultura e del disincanto, capace di ritorcere contro la stessa borghesia che lo osannava, usando una provocazione travestita da innovazione, i suoi stessi pregiudizi. Le collezioni Dior firmate da Saint Laurent non sono molte: il giovane nato in Algeria è costretto a tornarci per fare il servizio militare. Cosa che lo manderà nella depressione più profonda, dalla quale lo salverà il suo compagno Pierre Bergé che, una volta tornato a Parigi, gli troverà i mezzi per fondare la sua Maison. Intanto, da Dior non succede quasi più nulla. Almeno fino a quando, nei favolosi anni Ottanta, un finanziere decide di comprarsi il marchio ancora famoso nel mondo: marchio pionierististico comunque, con Dior per la finanza entra nella moda. Bernard Arnault (che poi inventerà il più grande gruppo dei prodotti di lusso attualmente esistente, riunendo sotto la sigla LVMH le borse di Louis Vuitton e lo champagne della Veuve Clicot e altri marchi storici come Givenchy, Celine, e che però conserva come bene privato della sua finanziaria personale il marchio Dior) giusto in tempo capisce che occorre togliere dai vetusti tailleurs quella patina di polvere che solo il tempo sa depositare così bene. E una volta rotto il contratto prima con Marc Bohan (arrivato dopo Saint Laurent) e poi con l’italiano Gianfranco Ferré, affida Dior nelle mani di John Galliano, uno scapestrato stilista inglese nato a Gibilterra che riporta lo stile alla contemporaneità, mentre chiama un Granville celebra i cent’anni del suo «principe del new look» con una serie di manifestazioni che si protrarranno fino al 15 settembre. E New York mette in scena la storia di Gabrielle Chanel al Constume Institute del Metropolitan 8) ALIAS N.20 - 21 MAGGIO 2005 Si moltiplicano in Italia i luoghi della cultura del ciclismo critico. Laboratori creativi per la meccanica della bicicletta giovane intellettuale dall’aspetto gracile e con l’amore per la fotografia artistica, Hedi Slimane, a creare dal niente lo stile per Dior Homme. Da un segno opposto, invece, nasce la storia di Gabrielle Chanel, alias Coco, la protagonista della seconda grande mostra del momento in scena fino 7 agosto al Constume Institute del Metropolitan Museum di New York. In un allestimento che non ha nulla della modernità di cui si vanta l’istituzione newyorkese, la mostra racconta la storia di Coco e la storia del marchio Chanel, dagli inizi fino a oggi, analizzando anche il lavoro di Karl Lagerfeld che per volere della proprietaria famiglia Werthemeier, ne guida lo stile dal 1983. La storia dell’ex orfanella nata a Samour nel 1883, sebbene mitizzata e «agiografata» da lei stessa, appare più mo- derna e contemporanea. Uscita dall’orfanotrofio, Gabrielle comincia una scalata sociale legandosi a figure maschili di potere, nobili e politici. E proprio per partecipare agli eventi sociali di quel mondo, inizia a pensare a un guardaroba ad hoc, spesso mutuato dal dandysmo maschile. E dal 1920 comincia a produrre cardigan e abiti in jersey per le dejuneur sulle spiagge di Deauville e pantaloni larghi per assistere alle corse automobilistiche, che poi diventeranno tailleur-pantalone e giacche nere con i rêvers, dalle linee prese a prestito dalle divise militari. I primi tempi non saranno facili: la stampa l’accusa di vestire «le donne come delle segretarie», ma lei inventa uno stile moderno e le donne la seguono. Inventa anche profumi – Chanel N. 5 è ancora il più venduto al mondo – e si lega al mondo della cultura e dell’arte parigina, diventando la prima finanziatrice di Jean Cocteau, al quale finanzia le produzioni teatrali e ragala i soldi per vivere. Scontrosa e tutt’altro che omologata all’epoca, vive in una suite del Ritz, le piace la vita mondana ma non sopporta i suoi protagonisti. Durante la guerra chiude la Maison, licenzia tutte le sue sarte e lascia Parigi. Ritorna nel dopoguerra, riprende a lavorare e rifonda il suo impero, ma per conto dei suoi ex soci ai quali, nel frattempo, aveva venduto tutto. Fino al 1971, quando muore. Non senza prima aver parlato male di quasi tutti i suoi colleghi e aver affidato il futuro della moda del XX° secolo nelle mani di Yves Saint Laurent. Un nome dal quale trae ancora ispirazione la moda del XXI° secolo. ALIAS N.20 - 21 MAGGIO 2005 (9