noi non abbiamo paura

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noi non abbiamo paura
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SegnoSpeciale
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NOI NON ABBIAMO
PAURA
Sentieri e problemi del New Horror
a cura di Andrea Bellavita
Qualche riflessione sul futuro del genere che non dovrebbe farci passare la paura
Omen - Il presagio è l’ultimo remake
di un classico degli anni ’70 arrivato nelle nostre sale in ordine di
tempo: è uscito (con un
macabro senso del
marketing che non è
riuscito nemmeno negli Usa) il 6/6/06, ma
mentre lo Speciale che
avete in mano passa dagli appunti dei suoi autori alla stampa e alla
lettura, nelle sale arrivano The Mortuary (Il
custode) di Tobe Hooper, Ultraviolet di Kurt
Wimmer (ma soprattutto con Milla Jovovich), La spina del diavolo di Guillermo del
Toro (del 2001: in sala
dopo aver peregrinato
per tutti i Festival europei, riesumato solo
per la buona presenza
del regista a Cannes con
Il labirinto di Pan), Silent Hill di Christophe
Gans (tratto dall’omonimo videogioco), Shutter (la “prima volta” dell’horror tailandese) e
il nuovo Le colline hanno gli occhi, di Alexadre Aja. Più una manciata di altra roba potenzialmente meno interessante: The Dark,
Slither,The Eye Infinity
(nippo-hongkongese),
Decoys. Come sempre
la stagione estiva è il
momento in cui i distributori decidono di concentrare l’offerta horror e di tirare fuori dai magazzini tutto quello che era rimasto a fare la
muffa: naturale allora cogliere l’occasione per una riflessione sul presente e il pas-
La casa dei 1000 corpi di Rob Zombie
sato/futuro prossimo del genere. Anche
perché solo a guardare questo elenco, si
trovano ben esaudite le maggiori tendenze dell’ultimo decennio: remake di classici degli anni ’70, film tratti da videogame,
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vento orientale assortito, qualche timido alito
autoriale e qualche tentativo di de-mummificazione dei vecchi leoni, divismo al femminile. In pratica: niente di
nuovo.
Ritorniamo a Omen,
film inutile alla storia
del cinema (anche di genere), ma perfetto per
introdurre il discorso.
John Moore sceglie una
strada di remake/rianimazione tra il (solito)
Pier Menard di Borges
e il Gus Van Sant di Psycho, in cui ricostruisce
il décor e il gusto visivo degli anni ’70, semina qualche strizzatina
d’occhio cinefila (Mia
Farrow bambinaia satanica au contraire rispetto a Rosemary’s
Baby, Liev Schreiber
“automa politico” come ne Il candidato della Manciuria), e piazza
due giochetti di attualità politica: l’elenco delle premonizioni bibliche appaiato ai fatti più
terribili degli ultimi anni (morte dal cielo = 11
settembre; morte dal
mare = tsunami, ecc…)
e un epilogo in cui Damien è tenuto per mano dal Presidente degli
Stati Uniti, che è diventano il suo padrino
e protettore.
Materiale per qualche considerazione. La
prima: il new horror è
sempre di seconda mano. Remake, citazione,
pastiche, plagio; da film, da videogiochi,
da fumetto; nazionale (americano su americano), internazionale (americano su orientale), nostalgico (italiano su italiano): è
sempre un horror già passato di mano. Lo
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Land of the Dead di George Romero
Silent Hill di Christophe Gans
Le tre sepolture di Tommy Lee Jones
spiegano benissimo Roy Menarini, Mauro Resini e Mauro Antonini: il catalogo
dell’horror contemporaneo è una mappa
intermediale, enciclopedica e trasversale.
Tutto questo è molto postmoderno, ma
mette più angoscia dell’oggetto dei singoli
film. È possibile che il cinema contemporaneo non riesca a scegliersi qualche cosa di “suo” di cui avere paura? E che debba sempre cercare gli oggetti da qualche
altra parte? Una società che non riesce a
scegliersi gli oggetti del proprio terrore
(che li trova nel passato, nella generazione dei propri padri o in un circuito di autovalutazione e autocertificazione transmediale) è una società non particolarmente
sana: il riferimento a Slavoj Zizek introdotto da Menarini sembra andare proprio
in quella direzione.
Allora la prima domanda è: perché
non siamo più in grado di inventarci i nostri mostri? Di che cosa abbiamo paura?
Di scoprire che fanno paura davvero? L’unica speranza è che la “seconda mano” sia
una mano elegante e raffinata come quella di Rob Zombie, che non è un regista geniale ed innovativo, ma un grande cinefilo e un autentico collezionista: i suoi film,
come la sua casa-mausoleo, sono piccoli
santuari dell’horror e del cinema classico.
Eppure La casa dei 1000 corpi e La casa
del diavolo sono probabilmente i due film
horror più interessanti degli ultimi anni.
Ma soprattutto, La casa del diavolo è il
film che nell’ultima stagione riesce a tratteggiare il miglior ritratto della società
americana contemporanea. Insieme ai due
“non horror” A History of Violence di Cronenberg e Le tre sepolture di Tommy Lee
Jones: tutti e tre sono film western (per
Rob Zombie si parla quasi a fatica di horror, e il riferimento è a Il mucchio selvaggio, per Cronenberg siamo dalle parti di
Leone e L’uomo che uccise Liberty Valance, per Jones di Voglio la testa di Garcia), e anche di questo varrebbe la pena
parlare prima o poi. Tutti e tre sono film
in qualche modo “politici”, che rimettono
in gioco una carica eversiva e destrutturante, anche senza la ridondanza esplicita di Land of the Dead.
Questa è la seconda riflessione: perdendo il “contatto con la realtà”, andando
a cercare oggetti e riferimenti altrove (nel
tempo, nello spazio, nel supporto), l’horror
contemporaneo ha smarrito il suo potenziale. Il finale di Omen è esemplare in questo senso: facile critica sociale, conservatorismo latente, qualunquismo (“non stupiamoci della Terza Guerra Mondiale se il Presidente è il padrino di Damien…”). E forse lo specchio più oscuro di questa involuzione è proprio quello italiano: Flavio De
Bernardinis descrive il panorama desolante di una produzione che ha abdicato al contatto con i generi del corpo (l’erotico e l’horror) e che ha preso la deriva del reality.
Forse il nocciolo del problema è proprio qui: nella dialettica fra realtà e reality. E, per riprendere ancora un termine
lacaniano tanto caro a Zizek e alla riflessione contemporanea sui media, tra realtà
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e Reale: cioè “non rappresentabile”, quello che al cinema horror di oggi manca del
tutto. Davide Turrini ha la soluzione: il cinema horror deve ristabilire il contatto
con la realtà, e The American Nightmare
forse è davvero il più angosciante dei film
horror. Che ha dentro di sé una risposta
amara: non ha più senso un remake di Wes
Craven, ma la pistolettata alla tempia di
L’ultima casa a sinistra deve essere “montata” con un colpo alla nuca reale.
E invece l’horror dal reale (e Reale)
prende le distanza, ed insegue altre immagini.Ancora quella televisiva: la logica
del reality, ma anche la logica della produzione seriale. Rocco Moccagatta compie un salutare parricidio nei confronti degli ultimi Masters of Horror: a lui, come a
tutti gli amanti del genere, mette tristezza constatare che i vecchi padri e zii sono ormai dei vecchi arnesi. Ma anche che
il modello televisivo abbia succhiato altra
linfa al cinema di genere: anche nei casi
più felici, da The Hunger a Carnivale, la
televisione non è il cinema! Non ci sono
image cristal in una serie Tv, e nemmeno
un’unghia di Non aprite quella porta, ma
solo molto (spesso straordinario) professionismo “specifico” di genere e di mezzo. E invece l’immagine televisiva (e massmediale) ha rubato il “posto” al cinema.
La terza riflessione (banale finché si
vuole, ma inevitabile) è che la disponibilità di immagini shockanti e disturbanti
che abitano la rete e la Tv ha anestetizzato il potenziale cinematografico. Da Abu
Grahib ad un qualunque massacro bellico, da real Tv a Distraction, anche nel nuovo straordinario gioco per Playstation 2
giapponese Rule of Rose (non “abbiamo
paura”: la censura l’ha boicottato e non
arriverà in Occidente): l’orrore è lì. E allora il problema diventa più complesso e
la questione stringente: negli anni ’70 (e
per uno scampolo di ’80), il cinema costruiva intorno a sé un luogo chiuso, una
nicchia circoscritta, in cui opera un’azione alternativa e antagonista. Alzava il livello di mostrazione e di visibilità, metteva a tema delle questioni, problematizzava e criticava. Adesso ha perso quel luogo e quell’unicità, Il cinema horror ha delocalizzato la sua funzione, molto prima
di perdere i suoi oggetti: il pubblico non
gli riconosce più quel ruolo. In pratica: non
gli crede più.
Cosa fare: è l’ultima domanda, la più
difficile. Una soluzione l’abbiamo intravista. Ma le altre? Pier Maria Bocchi traccia un affresco minuzioso ed impietoso
dell’orizzonte ad Est, che serve prima di
tutto a sfatare un facile mito: come al solito ci eravamo invaghiti di una donna misteriosa, ma forse sarebbe il caso di conoscerla meglio. E poi? Il genere survival
sembra il candidato più papabile, ma tranne qualche caso sporadico (Calvaire), non
convince del tutto, così come le iperboli
post-post-moderniste (Donnie Darko, Hostel). Dobbiamo abituarci all’idea di non
aver più paura. E questo mette davvero
angoscia.