noi non abbiamo paura
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noi non abbiamo paura
SegnoSpeciale 140 29-06-2006 10:56 Pagina 1 SegnoSpeciale SegnoSpeciale NOI NON ABBIAMO PAURA Sentieri e problemi del New Horror a cura di Andrea Bellavita Qualche riflessione sul futuro del genere che non dovrebbe farci passare la paura Omen - Il presagio è l’ultimo remake di un classico degli anni ’70 arrivato nelle nostre sale in ordine di tempo: è uscito (con un macabro senso del marketing che non è riuscito nemmeno negli Usa) il 6/6/06, ma mentre lo Speciale che avete in mano passa dagli appunti dei suoi autori alla stampa e alla lettura, nelle sale arrivano The Mortuary (Il custode) di Tobe Hooper, Ultraviolet di Kurt Wimmer (ma soprattutto con Milla Jovovich), La spina del diavolo di Guillermo del Toro (del 2001: in sala dopo aver peregrinato per tutti i Festival europei, riesumato solo per la buona presenza del regista a Cannes con Il labirinto di Pan), Silent Hill di Christophe Gans (tratto dall’omonimo videogioco), Shutter (la “prima volta” dell’horror tailandese) e il nuovo Le colline hanno gli occhi, di Alexadre Aja. Più una manciata di altra roba potenzialmente meno interessante: The Dark, Slither,The Eye Infinity (nippo-hongkongese), Decoys. Come sempre la stagione estiva è il momento in cui i distributori decidono di concentrare l’offerta horror e di tirare fuori dai magazzini tutto quello che era rimasto a fare la muffa: naturale allora cogliere l’occasione per una riflessione sul presente e il pas- La casa dei 1000 corpi di Rob Zombie sato/futuro prossimo del genere. Anche perché solo a guardare questo elenco, si trovano ben esaudite le maggiori tendenze dell’ultimo decennio: remake di classici degli anni ’70, film tratti da videogame, SegnoSpeciale 13 SEGNOCINEMA nr 140 vento orientale assortito, qualche timido alito autoriale e qualche tentativo di de-mummificazione dei vecchi leoni, divismo al femminile. In pratica: niente di nuovo. Ritorniamo a Omen, film inutile alla storia del cinema (anche di genere), ma perfetto per introdurre il discorso. John Moore sceglie una strada di remake/rianimazione tra il (solito) Pier Menard di Borges e il Gus Van Sant di Psycho, in cui ricostruisce il décor e il gusto visivo degli anni ’70, semina qualche strizzatina d’occhio cinefila (Mia Farrow bambinaia satanica au contraire rispetto a Rosemary’s Baby, Liev Schreiber “automa politico” come ne Il candidato della Manciuria), e piazza due giochetti di attualità politica: l’elenco delle premonizioni bibliche appaiato ai fatti più terribili degli ultimi anni (morte dal cielo = 11 settembre; morte dal mare = tsunami, ecc…) e un epilogo in cui Damien è tenuto per mano dal Presidente degli Stati Uniti, che è diventano il suo padrino e protettore. Materiale per qualche considerazione. La prima: il new horror è sempre di seconda mano. Remake, citazione, pastiche, plagio; da film, da videogiochi, da fumetto; nazionale (americano su americano), internazionale (americano su orientale), nostalgico (italiano su italiano): è sempre un horror già passato di mano. Lo SegnoSpeciale 140 29-06-2006 10:56 Pagina 2 SegnoSpeciale SegnoSpeciale Land of the Dead di George Romero Silent Hill di Christophe Gans Le tre sepolture di Tommy Lee Jones spiegano benissimo Roy Menarini, Mauro Resini e Mauro Antonini: il catalogo dell’horror contemporaneo è una mappa intermediale, enciclopedica e trasversale. Tutto questo è molto postmoderno, ma mette più angoscia dell’oggetto dei singoli film. È possibile che il cinema contemporaneo non riesca a scegliersi qualche cosa di “suo” di cui avere paura? E che debba sempre cercare gli oggetti da qualche altra parte? Una società che non riesce a scegliersi gli oggetti del proprio terrore (che li trova nel passato, nella generazione dei propri padri o in un circuito di autovalutazione e autocertificazione transmediale) è una società non particolarmente sana: il riferimento a Slavoj Zizek introdotto da Menarini sembra andare proprio in quella direzione. Allora la prima domanda è: perché non siamo più in grado di inventarci i nostri mostri? Di che cosa abbiamo paura? Di scoprire che fanno paura davvero? L’unica speranza è che la “seconda mano” sia una mano elegante e raffinata come quella di Rob Zombie, che non è un regista geniale ed innovativo, ma un grande cinefilo e un autentico collezionista: i suoi film, come la sua casa-mausoleo, sono piccoli santuari dell’horror e del cinema classico. Eppure La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo sono probabilmente i due film horror più interessanti degli ultimi anni. Ma soprattutto, La casa del diavolo è il film che nell’ultima stagione riesce a tratteggiare il miglior ritratto della società americana contemporanea. Insieme ai due “non horror” A History of Violence di Cronenberg e Le tre sepolture di Tommy Lee Jones: tutti e tre sono film western (per Rob Zombie si parla quasi a fatica di horror, e il riferimento è a Il mucchio selvaggio, per Cronenberg siamo dalle parti di Leone e L’uomo che uccise Liberty Valance, per Jones di Voglio la testa di Garcia), e anche di questo varrebbe la pena parlare prima o poi. Tutti e tre sono film in qualche modo “politici”, che rimettono in gioco una carica eversiva e destrutturante, anche senza la ridondanza esplicita di Land of the Dead. Questa è la seconda riflessione: perdendo il “contatto con la realtà”, andando a cercare oggetti e riferimenti altrove (nel tempo, nello spazio, nel supporto), l’horror contemporaneo ha smarrito il suo potenziale. Il finale di Omen è esemplare in questo senso: facile critica sociale, conservatorismo latente, qualunquismo (“non stupiamoci della Terza Guerra Mondiale se il Presidente è il padrino di Damien…”). E forse lo specchio più oscuro di questa involuzione è proprio quello italiano: Flavio De Bernardinis descrive il panorama desolante di una produzione che ha abdicato al contatto con i generi del corpo (l’erotico e l’horror) e che ha preso la deriva del reality. Forse il nocciolo del problema è proprio qui: nella dialettica fra realtà e reality. E, per riprendere ancora un termine lacaniano tanto caro a Zizek e alla riflessione contemporanea sui media, tra realtà SegnoSpeciale 14 SEGNOCINEMA nr 140 e Reale: cioè “non rappresentabile”, quello che al cinema horror di oggi manca del tutto. Davide Turrini ha la soluzione: il cinema horror deve ristabilire il contatto con la realtà, e The American Nightmare forse è davvero il più angosciante dei film horror. Che ha dentro di sé una risposta amara: non ha più senso un remake di Wes Craven, ma la pistolettata alla tempia di L’ultima casa a sinistra deve essere “montata” con un colpo alla nuca reale. E invece l’horror dal reale (e Reale) prende le distanza, ed insegue altre immagini.Ancora quella televisiva: la logica del reality, ma anche la logica della produzione seriale. Rocco Moccagatta compie un salutare parricidio nei confronti degli ultimi Masters of Horror: a lui, come a tutti gli amanti del genere, mette tristezza constatare che i vecchi padri e zii sono ormai dei vecchi arnesi. Ma anche che il modello televisivo abbia succhiato altra linfa al cinema di genere: anche nei casi più felici, da The Hunger a Carnivale, la televisione non è il cinema! Non ci sono image cristal in una serie Tv, e nemmeno un’unghia di Non aprite quella porta, ma solo molto (spesso straordinario) professionismo “specifico” di genere e di mezzo. E invece l’immagine televisiva (e massmediale) ha rubato il “posto” al cinema. La terza riflessione (banale finché si vuole, ma inevitabile) è che la disponibilità di immagini shockanti e disturbanti che abitano la rete e la Tv ha anestetizzato il potenziale cinematografico. Da Abu Grahib ad un qualunque massacro bellico, da real Tv a Distraction, anche nel nuovo straordinario gioco per Playstation 2 giapponese Rule of Rose (non “abbiamo paura”: la censura l’ha boicottato e non arriverà in Occidente): l’orrore è lì. E allora il problema diventa più complesso e la questione stringente: negli anni ’70 (e per uno scampolo di ’80), il cinema costruiva intorno a sé un luogo chiuso, una nicchia circoscritta, in cui opera un’azione alternativa e antagonista. Alzava il livello di mostrazione e di visibilità, metteva a tema delle questioni, problematizzava e criticava. Adesso ha perso quel luogo e quell’unicità, Il cinema horror ha delocalizzato la sua funzione, molto prima di perdere i suoi oggetti: il pubblico non gli riconosce più quel ruolo. In pratica: non gli crede più. Cosa fare: è l’ultima domanda, la più difficile. Una soluzione l’abbiamo intravista. Ma le altre? Pier Maria Bocchi traccia un affresco minuzioso ed impietoso dell’orizzonte ad Est, che serve prima di tutto a sfatare un facile mito: come al solito ci eravamo invaghiti di una donna misteriosa, ma forse sarebbe il caso di conoscerla meglio. E poi? Il genere survival sembra il candidato più papabile, ma tranne qualche caso sporadico (Calvaire), non convince del tutto, così come le iperboli post-post-moderniste (Donnie Darko, Hostel). Dobbiamo abituarci all’idea di non aver più paura. E questo mette davvero angoscia.