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impegnati per trasportare truppe, un intero reggimento di granatieri, per l’occupazione dell’Albania.
Da allora, con il loro carico di specialisti e di arnesi, come piccole officine volanti, seguiranno
i reparti da caccia in tutte le loro dislocazioni, condividendone le vicissitudini: in Belgio, per gli
attacchi all’Inghilterra, in Africa Settentrionale, in Grecia e perfino nella lontana Russia.
Fra gli aviatori, il Ca.133 era soprannominato “la caprona”, termine affettuoso che faceva
riferimento alla sua grossa stazza e alla sua rusticità.
Intanto, in Italia nel 1936 era stato preparato un Ca.133 convertito ad aereo di linea, che fu
adottato dall’Ala Littoria, utilizzando esemplari convertiti direttamente presso le officine Caproni
di Addis Abeba, creando una rete in cui una dozzina di aerei collegavano fra loro le varie città
del nuovo Impero, operandovi con regolarità e successo.
Un’altra versione fu quella sanitaria, che iniziò le sue tristi operazioni di rimpatrio di feriti e di
congelati nella guerra di Grecia, per poi operare con una certa intensità anche in Libia, con
una serie di apparecchi di nuova produzione, e in Russia, dove addirittura l’ottima attrezzatura
presente su un aereo fu smontata e utilizzata a terra come piccolo ospedale da campo.
Nell’Africa Orientale rimasta isolata, i Ca.133, ancora impiegati come bombardieri, rappresentavano l’aereo disponibile in maggior numero al Duca d’Aosta, dato che alla vigilia del conflitto
ne erano presenti 164 militari, nove civili e tre sanitari.
Il Ca.133 combattè valorosamente contro le forze inglesi, per quello che potevano offrire le sue
scarse forze, e soprattutto la sua velocità di 230 km/h, che lo rendeva un facile bersaglio dei
caccia nemici, ma le sue forze si consumarono rapidamente. Dopo la dura battaglia di Cheren,
nella seconda metà del marzo 1941, le sorti del conflitto in Etiopia erano segnate, il 17 maggio
Amedeo d’Aosta all’Amba Alagi si arrendeva, ricevendo l’onore delle armi dal nemico, ma gli
italiani resistevano ancora a Gondar, dove l’ultimo Ca.133 fu distrutto a terra dagli aerei nemici
l’8 agosto: gli specialisti lo ricostruirono, utilizzando i pezzi tratti da varie carcasse, e l’aereo
tornava in volo, effettuando rifornimenti ai presidi isolati, fino a quando venne distrutto a terra
da un sabotaggio il 21 settembre 1941. In quasi sei anni di servizio, la Caprona ha fatto molto
più che il suo dovere.
Ultimo impiego di rilievo del Ca.133 è stato l’addestramento di paracadutisti, presso le scuole
di Tarquinia e di Viterbo, che ne ebbero in carico qualche decina. Ogni Ca.133 poteva portare
sedici paracadutisti, ma la loro istruzione non fu seguita da quello che era l’obiettivo apparente,
la conquista dall’aria di Malta, e i paracadutisti italiani furono mandati ad affrontare come
fanteria i corazzati britannici a El Alamein.
All’epoca dell’Armistizio la Regia Aeronautica aveva in carico ancora un settantina di Ca.133,
che si persero in quella tempesta. Un solo esemplare prestò servizio con il Raggruppamento
Caccia dell’Aeronautica al Sud, e a sua volta l’aviazione della Repubblica Sociale Italiana ne
utilizzò pochi in attività di collegamento. La Luftwaffe ne requisì un buon numero, una trentina,
ma non aveva più interesse ad usare un aereo ormai vetusto.
Nel dopoguerra un Ca.133 sopravvissuto, immatricolato significativamente I-MULO, volava
ancora con la società Transavio a Milano, mentre a Roma volava con l’Aero Club d’Italia un
Ca.148, una versione un po’ modificata del 133 per impiego civile, ma non erano i tempi perché
qualcuno pensasse a preservare un aereo che la sua parte non piccola di storia l’aveva fatta
con tanta silenziosa modestia.
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Il Breda 65 fu, per molti aspetti, un velivolo rivoluzionario e rappresentò il primo progetto tecnicamente moderno nella storia della R.A. Opportunamente sviluppato, avrebbe potuto portare ad
una formula di successo: gli irrisolti problemi di affidabilità della motorizzazione, e di instabilità
in relazione all’elevato carico alare, ne fecero invece una macchina sostanzialmente incompiuta
e non amata dai piloti, che gli affibbiarono il sinistro appellativo di “fabbricante di vedove”.
Progettato dagli ingegneri Giuseppe Panzeri e Antonio Parano della Società Italiana Ernesto
Breda di Milano, il Ba.65 può essere considerato un diretto e perfezionato successore del Ba.64,
grazie a caratteristiche d’avanguardia per l’epoca: di struttura interamente metallica assai solida,
con un migliore profilo aerodinamico, un motore più potente, ed un armamento notevole per
lo standard italiano del tempo, quattro armi fisse e un carico bellico di 1.000 Kg. di bombe.
Il prototipo (MM.325) volò per la prima volta a Bresso, pilotato dall’ing. Ambrogio Colombo,
collaudatore della Breda. Superata la trafila dei collaudi militari e delle prove di tiro, il Ba.65
venne prodotto in serie su richiesta della Regia Aeronautica.
Fu deciso di inviare una squadriglia in Spagna, dove era in corso la guerra civile, per valutare
la capacità dell’assaltatore sul campo operativo. In questa prima prova militare il Ba.65 diede
buona prova di sé in compiti molto diversi: assalto, bombardamento in quota, bombardamento
in picchiata, ricognizione a vista, rilevamento fotografico e persino intercettazione.
Furono compiute 200 azioni di guerra per un totale di oltre 1.400 ore di volo, subendo la perdita
di due soli velivoli. L’aereo, molto solido strutturalmente, si rivelò un ottimo incassatore, ed una
potente e stabile piattaforma di tiro.
Grazie alla fama ottenuta con questa missione di guerra, venne anche esportato in Cile, Irak,
Portogallo e Paraguay. Forse proprio questo apparente successo, unito al contemporaneo
eclatante esordio del promettente Ba.88, indusse a trascurare lo sviluppo e la risoluzione
del principale problema che affliggeva il Ba.65: a causa del forte carico alare, l’arresto del
motore determinava immediate perdite di portanza e condizioni di volo estremamente critiche
nella quali solo un pilota molto abile poteva evitare rischi gravi. Neppure l’installazione del più
potente Fiat A.80 da 1.000 cv contribuì a rendere il velivolo più affidabile, e ne venne quindi
decisa la radiazione.
L’entrata in guerra dell’Italia, tuttavia, trovò la specialità dell’Assalto del tutto impreparata:
dei teorici quasi 5.800 aerei in organico alla Regia Aeronautica, essa poteva contare soltanto
una dozzina di Ba.65 e di una trentina di bimotori Ca.310 e Ba.88 – di questi ultimi, peraltro,
appariva già chiara l’assoluta inaffidabilità bellica.
Si decise quindi, in tutta fretta, di “richiamare in servizio” i veterani spagnoli, e il 15 giugno
1940 furono proprio undici Breda 65 della 159a Squadriglia Assalto a compiere le prime azioni
della specialità in Africa.
Le squadriglie d’assalto si batterono nel teatro di guerra africano con straordinario valore ed
incredibile coraggio in condizioni di netta inferiorità per l’età delle macchine, la loro inadattabilità
al clima, e la netta supremazia avversaria: si trattava di una battaglia senza speranza, e già alla
fine del 1940 i reparti d’assalto in Africa erano stati sostanzialmente annientati.
Sopravvissero numerosi esemplari di Breda Ba.65 in Italia, di cui si tentò senza successo
un’ultima trasformazione per l’addestramento in picchiata.
Il bellicoso ed imponente “Nibbio” terminò così ingloriosamente la sua carriera come “finto
bersaglio” sui vari aeroporti italiani.
Purtroppo nessun esemplare è stato conservato in Italia o all’estero.
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Il 12 ottobre 1942 l’ing. Dante Curcio, tecnico G.A.r.i. del Centro Sperimentale di Guidonia, e
l’ing. Gaetano Latmiral vennero chiamati ad intervenire urgentemente, poiché la situazione era
divenuta insostenibile: il nemico infatti era riuscito a neutralizzare il “Crack”, per cui i bombardieri
italiani erano virtualmente alla mercé dell’azione avversaria, senza alcuna possibilità di preavviso.
I due tecnici con il loro operato riuscirono a dare un importante contributo a quelli che possono
essere definiti i primi rudimentali episodi di guerra elettronica, e le note acute del motivo musicale “Faccetta nera” divennero il provvisorio codice di allarme per i bombardamenti notturni
italiani su Malta!
Lo studio teorico svolto da Curcio e Latmiral rese possibile la costruzione di nuovi dispositivi
di disturbo, che vennero collocati in una isolata casa di campagna a metà strada tra Comiso
e Ragusa. Alla prima prova i tecnici ebbero la soddisfazione di rilevare che i disturbi erano
efficaci al punto che i radar di Malta dovettero interrompere le trasmissioni per molti minuti.
Nel primo semestre 1943, sempre con la valida collaborazione di Curcio e Latmiral, venne
realizzata la versione aviotrasportabile di queste apparecchiature. Il collaudo fu compiuto
utilizzando un velivolo della Luftwaffe, lo Junkers Ju 52.
E’ proprio in conseguenza della “collaborazione elettronica” con la Germania, che i due ingegneri
vennero sorpresi a Berlino dall’armistizio e qui incarcerati per molti mesi.
A seguito di un bombardamento il carcere venne però distrutto e dal febbraio a maggio 1945
Curcio e Latmiral finirono in un campo di concentramento dove furono protagonisti di un incontro
per loro significativo: un radiotelegrafista inglese, prigioniero di guerra, dopo aver rivelato di
aver prestato servizio a Malta, ammise che i disturbi provenienti da una imprecisata località
della costa siciliana aveva causato seri problemi alla copertura radar maltese. I due tecnici
ebbero così, dalla più affidabile delle fonti, la conferma della buona riuscita della loro opera!