Il licenziamento negli USA: verso un ridimensionamento del
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Il licenziamento negli USA: verso un ridimensionamento del
Il licenziamento negli USA: verso un ridimensionamento del principio “at will”? In un contesto di crescente diversificazione a livello globale dei mercati prevalentemente indirizzata verso oriente (basterà ricordare, ad esempio, la Romania o la stessa Cina di cui tanto si è parlato) spesso si dimentica di pensare al cosiddetto fenomeno della “delocalizzazione a Ovest” che interessa principalmente l’area “Nafta” ossia, come noto, il territorio di libero scambio composto da Canada, USA e Messico. Non vi è dubbio che i flussi di investimento da parte di operatori italiani ed europei in tale area e, segnatamente, negli USA, abbiano registrato un tendenziale sviluppo negli ultimi anni a cui si è accompagnato un incremento della domanda di approfondimento di alcuni aspetti connessi con tali investimenti fra i quali la materia del lavoro. Appare pertanto utile una breve disamina in particolare del licenziamento che, come noto, ha suscitato recentemente in Italia un vasto dibattito a livello politico e sociale e che negli Stati Uniti, per converso, presenta caratteristiche strutturalmente diverse. Infatti, trattare il tema del licenziamento del lavoratore negli Stati Uniti significa innanzitutto prendere atto che appare ancora oggi prevalente l’autorità di una regola tradizionale, risalente all’ottocento, che prende il nome di “American rule”. Si tratta di una regola che, in sé considerata, sottrarrebbe gran parte dei rapporti di lavoro soggetti alla legge statunitense ad ogni garanzia di stabilità: detti rapporti potrebbero, in linea di principio, venire risolti in qualunque tempo e per qualsiasi motivo. Secondo questa consolidata e tradizionale massima, di stampo esplicitamente liberistico, l’imprenditore può licenziare i suoi dipendenti “at-will” (espressione tipica, corrispondente alla nostra “ad nutum”, ovverosia “a piacimento”) sia in presenza di una giusta causa, sia no, senza che ciò lo esponga a conseguenze sul piano legale. Per tale ragione questo principio prende anche il nome di “at-will employment”, con una forte sottolineatura dell’elemento volontaristico, certo inusuale se posta a confronto con le logiche che governano i mercati del lavoro italiano ed europeo, improntati ad una ben maggiore tutela della posizione del lavoratore subordinato. Solo una minoranza dei lavoratori (soprattutto nel pubblico impiego) gode negli Stati Uniti di garanzie di stabilità nel proprio posto di lavoro per un determinato arco temporale. Tuttavia, a fronte di questa tradizionale ampia libertà di licenziare, si va registrando da tempo una crescente applicazione delle cosiddette “public policy exceptions”, o eccezioni di ordine pubblico, le quali, fatte opportunamente valere in giudizio dal lavoratore che si ritiene ingiustamente licenziato, possono procurargli, se non la restituzione del posto, quantomeno un adeguato risarcimento. Può peraltro affermarsi che la più considerevole barriera all’esercizio di un indiscriminato at-will employment da parte 1 del datore di lavoro è costituita, anche negli USA, da atti di carattere legislativo, che prendono il nome di statutes. Numerose leggi, tanto statali quanto federali, rendono illegittimo il licenziamento di un dipendente in situazioni specificatamente individuate. Per fare solo alcuni esempi, i lavoratori ricevono protezione a livello federale contro licenziamenti provocati dall’esercizio di diritti loro spettanti in base a leggi quali l’ Employee Retirement Income Security Act, l’Occupational Safety and Health Act, il Labor-Management Relation Act o il Family and Medical Leave Act. A livello di singoli Stati,invece, vi sono leggi che tutelano i lavoratori da licenziamenti originati da motivi quali il servizio militare, la partecipazione a una giuria popolare, il pignoramento dello stipendio o l’esperimento di azioni a tutela dei propri diritti. Piuttosto particolari sono le cosiddette “Whistler-blower laws”, federali e statali, che tutelano da licenziamenti effettuati per “rappresaglia” contro il lavoratore che abbia denunciato violazioni di legge da parte dell’azienda. Altre leggi sono invece più tipicamente il risultato dell’attività di movimenti per il riconoscimento dei diritti civili: ad esempio quelle che vietano licenziamenti aventi carattere discriminatorio per motivi razziali, religiosi, di salute o di cittadinanza. Nel Michigan addirittura si vieta espressamente il licenziamento per questioni di altezza e peso corporeo. Nel Montana invece la tutela legislativa del lavoratore ha raggiunto forse l’ampiezza in assoluto maggiore con il Wrongful Discharge From Employment Act (WDEA) del 1993, il quale riconosce al dipendente licenziato un’azione nei confronti dell’ex datore di lavoro qualora il licenziamento stesso sia stato deciso in assenza di una “good cause”, o in violazione delle regole di disciplina del personale stabilite dall’azienda, o per il fatto che il lavoratore si sia rifiutato d’infrangere norme di public policy. Una legge, quella del Montana, che si ritiene possa indicare la linea di tendenza nazionale in prospettiva futura. In sede giurisprudenziale, il licenziamento senza giusta causa (“wrongful discharge”) può essere impugnato per ottenere (esclusa qualsiasi forma di reintegrazione forzata nel posto di lavoro) una sentenza di risarcimento, la quale a sua volta può derivare, secondo la nota distinzione di common law, tanto da una action in tort quanto da breach of contract. Statisticamente risultano più frequenti le azioni in tort, le quali possono dar adito a un risarcimento più cospicuo, comprensivo anche di punitive damages e di danni morali. Esse tuttavia richiedono la prova di una violazione non del contratto ma di un obbligo esterno al medesimo, in genere identificabile in una regola di ordine pubblico (public policy). L’eccezione di ordine pubblico rimane comunque qualcosa di non del tutto definito e la sua efficacia in giudizio va in realtà verificata caso per caso anche in relazione alla capacità professionale dei rispettivi avvocati. 2 E’ comunque frequente che l’eccezione venga sollevata qualora il lavoratore sia stato licenziato per essersi rifiutato di commettere un’illegalità, o per aver egli esercitato un obbligo previsto dalla legge, o per aver denunziato un’attività aziendale non conforme alla legge. Va soggiunto che sono pure frequenti i casi in cui il lavoratore agisce vittoriosamente “in tort” non tanto contro il licenziamento in sé, quanto contro le modalità eventualmente diffamatorie o comunque oltraggiose del medesimo. L’azione per breach of contract è invece finalizzata ad ottenere un risarcimento nella misura in cui l’attore riesca a provare in giudizio che il licenziamento ha violato una disposizione espressa del contratto o una disposizione inespressa ma desumibile dal contesto dell’intero rapporto lavorativo (implied in fact) o più in generale una clausola comportamentale di buona fede. Quest’ultima viene riconosciuta da molte Corti come “implicita per legge” (implied –at-law) per un generale obbligo di buona fede e di correttezza (covenant of good faith and fair dealing); obbligo che, a titolo d’esempio, potrebbe giudicarsi violato nel caso in cui un dipendente fosse stato licenziato unicamente per evitare di corrispondergli le retribuzioni maturate, ma anche semplicemente qualora il licenziamento, privo di ragionevoli motivi, sia avvenuto dopo un lungo e onorato servizio prestato dal dipendente sempre presso la medesima ditta. Vedremo se, dopo le prossime elezioni presidenziali, un eventuale mutamento alla guida del governo federale farà registrare ulteriori novità nei delicati equilibri di tale materia. Avv. Maurizio Gardenal Avv. Giovanni Brugnera Studio Legale Gardenal & Associati www.gardenal.it [email protected] 3